Così la neve al sol si disigilla;
così al vento ne le foglie levi
si perdea la sentenza di Sibilla.
Dante
Da molti mesi Oscar Giannino su diversi media ha coniato un aggettivo per lo stato italiano; esso sarebbe tassicodipendente cioè in perenne astinenza da tasse.
Il livello di tassazione di un paese può dipendere dal suo sistema sociale: può essere socialdemocratico come i paesi scandinavi, corporativo come la Germania, liberale come la Gran Bretagna o tassicodipendente come l’Italia. Infatti, tra tutti i paesi avanzati l’Italia è quello che ha visto, senza soluzione di continuità aumentare il livello della fiscalità; contestualmente è stato anche il paese, ad eccezione del Giappone che merita un discorso a sé, che ha visto, nel periodo della crescita mondiale tra il 1995 e il 2007, il Pil crescere con un modesto 1,3% annuo. D’altra parte paesi come Svezia, Norvegia e Finlandia hanno sempre avuto livelli di tassazione superiori al nostro, ma il loro Pil è cresciuto a tassi doppi. Come si spiega questa apparente anomalia? La ragione è semplice: quei paesi hanno una bassa pressione fiscale sulle imprese, la loro imposta societaria è del 28% mentre la nostra supera il 42%. Questo modello di tassazione ha inflitto all’Italia prima il rallentamento, poi il ristagno e ora il declino.
I soliti noti obietteranno: “Si vuole far pagare meno tasse ai ricchi e colpire i poveri!”. Ma, quelle tasse servono forse a farci avere un sistema pensionistico equo, asili nido efficienti, politiche avanzate a favore dei ceti deboli? Niente di tutto questo perché l’equivalenza tra tasse e stato sociale è un falso assunto. E allora la prima considerazione da mettere in evidenza è che le tasse non aiutano i poveri. Ma la crescita sì perché essa consente di ridurre la disoccupazione, di far lievitare gli stipendi, di consentire un welfare virtuoso. E come si incentiva la crescita di un paese? Osserviamo questi numeri.
- I paesi che, tra il 1995 e il2007, hanno avuto un tasso di crescita medio dell’1,5% hanno un’imposta societaria media del 36,4%.
- I paesi che, nello stesso periodo, hanno ottenuto un tasso di crescita medio del 2,4% hanno avuto un’imposta societaria media del 32,1%.
- I paesi che hanno conseguito un tasso di crescita medio dell’4,5% hanno goduto di un’imposta societaria media del 27,0%.
Non è tanto importante quale sia il livello di tassazione globale di un paese, esso dipende dallo stato sociale che si vuole adottare, ma quello che occorre tenere sotto controllo è il livello di tassazione delle imprese, dei produttori di ricchezza.
Osserva Luca Ricolfi, nel suo La Repubblica delle tasse, che fino al 1985 la pressione fiscale in Italia era inferiore al 35% del Pil; nel 1993, otto anni dopo, era del 43% con un ritmo di crescita di un punto di Pil all’anno. Contemporaneamente il rapporto debito/Pil era schizzato dal 60% del 1982 al 120% del 1994; in 12 anni lo stato era riuscito a creare tanto debito quanto ne avevano fatto i governi precedenti in 120 anni. «Due corse forsennate – tasse e debito - la cui principale funzione era permettere ai governi di dilatare a dismisura la spesa pubblica, per catturare nuove clientele, nuovi consensi, nuovi voti».
Fino alla fine degli anni ottanta la crescita della fiscalità non produce gravi effetti sull’economia reale perché essa è difesa dal meccanismo della svalutazione della lira che permette alle imprese di recuperare sui prezzi quello che le tasse tolgono sui costi. Ma dopo l’ultima svalutazione, quella del 1995, l’Italia entra in crisi e inizia il rallentamento. Il Ttr (Total tax rate) e cioè la pressione fiscale e contributiva sui produttori è la più alta del mondo, pari al 68,6%, 14 punti più alto di quello svedese, 24 più della Finlandia, 27 più della Norvegia, 40 più della Danimarca, i paesi europei con i più alti tassi di crescita.
Contemporaneamente inizia a porsi la questione settentrionale. Le imprese del Nord si trovano sul lato dei costi una pressione fiscale e contributiva che non riescono a reggere, sia perché non più bilanciata dalla svalutazione competitiva, sia perché l’economia del Nord è, in gran parte, emersa e non può ricorrere all’evasione fiscale. E allora la crescita che al Nord era del 2,6% e al Sud dell’1,4%, nel periodo 1983-1995, diventa al Nord dello 0,9% e al Sud dell’1,3%, nel periodo 1995-2007; contrariamente a quanto la gente pensa l’Italia a due velocità è costituita da un Nord che ha rallentato in modo drammatico e un Sud la cui crescita è rimasta pressoché invariata; inoltre i dati Istat mostrano che da 15 anni il Pil/pro capite cresce al Sud più di quello del Nord. I territori dove l’evasione fiscale è più alta crescono di più, dove l’evasione è minore crescono di meno. Ciononostante ogni anno il Nord, grazie alla cultura della solidarietà, che si sostituisce in Italia a quella della responsabilità, stacca un assegno di 50 miliardi di euro per mantenere in vita la farraginosa macchina burocratica del Sud.
In quegli anni nasce la Lega Nord che si pone come obiettivo primario il federalismo fiscale, ma i federalisti di destra e di sinistra restano imbrigliati nelle trame ordite dai centristi che vedono questa riforma come il fumo negli occhi, cosicché, se tutto andasse per il verso giusto un “blando” e solidale federalismo potrebbe andare a regime intorno al 2018-2019, quando il paziente potrebbe già essere in agonia. Aspettare l’attuazione del federalismo è pura follia perché nel frattempo la base produttiva si sta riducendo e per la prima volta nel 2011 si è avuto il sorpasso: le imprese fallite sono state in numero superiore alle nuove nate. Inoltre la maggior parte delle imprese manifatturiere sottoutilizzano la propria capacità produttiva, situazione che è spesso l’anticamera del fallimento. D’altra parte, con i dati a nostra disposizione possiamo tranquillamente affermare che in Italia ci sono imprese in crisi che, se potessero godere del Ttr svedese, sarebbero floride, come esistono solide imprese scandinave che uscirebbero dal mercato se il loro Ttr fosse quello italiano.
Ad aggravare la situazione al carico fiscale intollerabile si sommano gli elevatissimi costi dell’energia, la zavorra degli adempimenti burocratici e l’inefficienza della giustizia civile. Spesso, tra gli addetti ai lavori ci si chiede, ma come fanno in Italia a sopravvivere ancora tante imprese?
Un’osservazione che i professori del governo non hanno ancora capito è perché la speculazione si è accanita e si accanisce contro l’Italia. Per il forte debito? In parte sì. Ma principalmente perché il paese non cresce e senza crescita non ci potrà essere un futuro. Il parametro cruciale della nostra economia non è il deficit, che, per ora, è stato contenuto sensibilmente, ma il rapporto debito/Pil ed è molto rischioso per un paese giocare le proprie carte sul contenimento del numeratore senza far nulla per sostenere il denominatore. La paura degli investitori è che per azzerare il deficit il governo vari nuove tasse, che le nuove tasse peggiorino lo stato di recessione, che la riduzione del Pil renda difficile azzerare il deficit e di conseguenza che il rapporto debito/Pil continui a salire. Nel 2011 ha raggiunto il valore del 120% il maggiore degli ultimi 15 anni.
Probabilmente la consapevolezza di questa situazione drammatica fa sì che nessuno faccia la prima mossa per proporsi di guidare il prossimo governo, meno di tutti Monti e i suoi.
Ma non esiste soluzione per evitare il tracollo? Sì esiste. Intervenire sulla crescita con i fatti non solo a parole. Sorprende che Istituzioni, Governo, economisti, giornalisti, tutti parlino di crescita menzionando, liberalizzazioni, riforme, federalismo, Investimenti in risorse umane, con accompagnamento di incontri, tavoli tecnici e negoziali, workshop; solo parole.
Parole, parole parole, soltanto parole tra noi, dice una celebre canzone di Mina.
Invece di vuote e scontate tiritere occorrerebbe una drastica e generalizzata riduzione delle imposte sui produttori, a partire da Irap e Ires, finanziata, ad esempio, azzerando la selva di incentivi alle imprese, meccanismi utili solo a tenere in vita produzioni fuori mercato o a soddisfare svariate lobby (verdi, sindacati, politici) o destinandovi parte della raccolta dell’evasione fiscale che finisce, ora, nel calderone del debito. Altro provvedimento potrebbe essere la riduzione delle imposte che gravano sull’energia, iniziativa che potrebbe evitare la fuga di imprese energivore come Alcoa o ThyssenKrupp. Ma dove prendere i soldi per dare ossigeno alle imprese e contestualmente combattere il Moloch del debito? Attuando un serio programma di durata ventennale di dismissioni del patrimonio pubblico; ricordo che privatizzazioni e dismissioni sono, sostanzialmente, ferme al 1993. I governi di centro destra ne avevano fatto un cavallo di battaglia, ma le varie consorterie della pubblica amministrazione non consentono che si tocchi un patrimonio, fonte di sinecure e ambite poltrone e privilegi e la politica non ha la forza di contrastare le forze centripete che la dilaniano.
Per concludere pensare che il debito si possa abbattere senza crescita, semplicemente azzerando il deficit, è un grave azzardo, ma pensare che la crescita possa ripartire con questo livello di Ttr sui produttori di ricchezza è semplicemente folle; per questo motivo ritengo che il declino sia inarrestabile.
25 settembre 2012
Eugenio Caruso
Per un approfondimento su come l'Italia sia arrivata al limite del baratro si rimanda al successo editoriale
E. Caruso, L'estinzione dei dinosauri di stato.
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