... "Questo misero modo
tegnon l'anime triste di coloro
che visser senza 'infamia e senza lodo" .
Dante
PARTE I
Sono ormai trascorsi venticinque anni da quando nel1987 il referendum seguito all’incidente di Chernobyl ha interrotto il programma nucleare italiano. Lo sviluppo di quel programma aveva avuto luogo sullo sfondo delle profonde trasformazioni economico-sociali e politiche che caratterizzarono la storia italiana: dalla ricostruzione postbellica al miracolo economico, dai mitici anni Sessanta ai difficili anni Settanta, fino ai “rampanti” anni Ottanta.
Io ho avuto l’opportunità di essere un protagonista, anche se oscuro di quella realtà e ritengo doveroso portare un mio contributo a quello che è stato, a mio avviso, un periodo felice e ricco di creatività del nostro paese. Oggi si parla del nucleare per evidenziarne meriti o infamie, ma ritengo che la storia del nucleare in Italia meriti una menzione e che il suo abbandono segni l'inizio del lento e inesorabile declino del Paese.
Le personalità di altissimo valore scientifico e umano che di quel programma erano state protagoniste non hanno lasciato una memoria condivisa, principalmente per diatribe politiche, ma ritengo che le loro memorie siano comunque interessanti per avere uno spaccato del mondo della ricerca di quegli anni.
Il primo esempio, almeno in senso cronologico, di questa produzione memorialistica è il volume di Mario Silvestri, Il costo della menzogna. Italia nucleare 1945-1968, edito nel 1968 da Einaudi; quasi in risposta ad esso Felice Ippolito e Folco Simen pubblicavano La questione energetica. Dieci anni perduti 1963-1973, edito nel 1974 da Feltrinelli. Nel 1979 Edoardo Amaldi offriva una ricostruzione del versante scientifico della vicenda nel suo lungo saggio Gli anni della ricostruzione, pubblicato nel “Giornale di Fisica”. Cito, quindi Ricerca, innovazione, impresa. Storia del CISE: 1946-1996, curato per Laterza nel 1996 da Sergio Zaninelli, il lavoro di Barbara Curli, Il progetto nucleare italiano (1954-1962). Conversazioni con Felice Ippolito, edito da Rubbettino nel 2000 e infine L’età dell’energia. Archivio Storico dell’Enel.
L’eredità di Enrico Fermi
Enrico Fermi giunse all’Università di Roma nel 1926, come titolare della prima cattedra di fisica teorica istituita in Italia. Con l’appoggio di Orso Mario Corbino, direttore dell’Istituto di Fisica della stessa Università, Fermi raccolse intorno a sé nel 1927-28 un gruppo di giovani ricercatori: Franco Rasetti (assistente di Corbino, e dal 1930 professore di spettroscopia), poi Emilio Segrè, Edoardo Amaldi, Ettore Majorana, e più tardi Bruno Pontecorvo, ancora studenti. All’epoca in cui Fermi e i suoi decisero di orientare la loro ricerca verso la fisica nucleare, si conoscevano già varie proprietà del nucleo atomico. Si sapeva per esempio che la maggior parte dei nuclei che esistono in natura sono stabili, mentre altri nuclei sono radioattivi. I processi, o decadimenti, radioattivi allora noti erano quelli che avvenivano o con l’emissione di una particella alfa, o di una particella beta, accompagnati in generale dall’emissione di radiazione elettromagnetica ad altissima frequenza (raggi gamma). Ciò dimostrava che il nucleo atomico è una struttura composta; il problema centrale era quello di studiare le particelle che compongono il nucleo e le forze che le tengono insieme.
I ragazzi dela Via Panisperna. Da sinistra: D'Agostino, Segrè, Amaldi, Rasetti, Fermi; Pontecorvo è alla macchina fotografica.
Nel gennaio 1934 Irène Curie e Frédéric Joliot annunciarono che si potevano produrre nuclei radioattivi in laboratorio. Fermi ebbe subito l’idea di cercare di produrre nuovi elementi radioattivi utilizzando sorgenti di neutroni al posto delle particelle alfa utilizzate dai francesi. Non appena poté disporre delle sorgenti neutroniche desiderate, insieme al suo gruppo di collaboratori cominciò a bombardare in modo sistematico gli elementi del sistema periodico, in ordine crescente di numero atomico. Al gruppo iniziale si aggiunse un chimico, Oscar D’Agostino, che nel febbraio 1934 si recò a Parigi per apprendere presso i Curie le tecniche radiochimiche. Fermi e i suoi iniziarono a pubblicare in rapida successione i risultati sperimentali ottenuti. In poco tempo vennero irradiati con neutroni una sessantina di elementi e in almeno quaranta di essi vennero scoperti e spesso identificati nuovi elementi radioattivi: l’estrema importanza dei risultati del gruppo di Fermi apparve subito evidente a livello internazionale. Sciveva Corbino "Una nuova scoperta ha messo a disposizione dei fisici un corpuscolo di natura singolare. Quando la particella alfa del radio colpisce il berillio, il nucleo di questo, scomponendosi, dà origine a un frammento espulso con grande velocità e che è dotato di massa 1, come il nucleo dell'idrogeno, ma del tutto privo di carica elettrica. E' questo il neutrone, uno dei costituenti del nucleo. Il nuovo proiettile, essendo privo di carica, può raggiungere il nucleo senza la repulsione elettrostatica, anche nel caso dei nuclei di alto numero atomico dotati della più forte carica positiva. I fisici francesi Joliot e Curie, esaminando gli effetti del bombardamento con raggi alfa osservarono che il proiettile, il quale normalmente determina l'esplosione immediata del nucleo colpito, viene talvolta assorbito da questo e solo dopo qualche tempo dall'urto segue l'esplosione. Ciò significa che il nucleo, dopo aver assorbito il proiettile, si comporta come uno di quegli atomi radioattivi naturali che di tempo in tempo esplodono spontaneamente: perciò fu dato al fenomeno il nome di radioattività artificiale. L'esperienza dei due fisici francesi è stata ripresa a Roma dal professor Fermi ricorrendo al bombardamento con neutroni anziché con particelle alfa. E i risultati sono stati di gran lunga più copiosi e brillanti, poiché anziché mostrarsi attivi soltanto tre o quattro elementi, ben 45 su 62 finora cimentati hanno dato risultati positivi; e in particolare si è potuto mettere in evidenza l'azione esercitata sugli elementi pesanti, che avevano resistito finora ad ogni tentativo di attivazione artificiale, dimostrandosi vulnerabile perfino l'uranio che rappresenta l'estremo della serie degli elementi conosciuti. Le reazioni nucleari che producono gli effetti osservati da Fermi sono naturalmente diverse per i vari elementi studiati, e alcune non sono ancora definitivamente chiarite, nonostante l'intenso lavoro svolto in così breve tempo da lui e dai suoi valorosi collaboratori Rasetti, Segré, Amaldi, D'Agostino". La lettura di queste semplici parole provoca ancora emozione in un fisico nucleare come me.
Ettore Majorana il geniale fisico teorico italiano, scomparso "misteriosamente" nel 1938 a 32 anni.
Dopo l’estate del 1934 Fermi e i suoi scoprirono che l’efficacia dei neutroni nel produrre il fenomeno della radioattività artificiale era enormemente amplificata se tra sorgente e bersaglio veniva interposto un blocco di paraffina. Secondo l’interpretazione subito affacciata da Fermi, i neutroni venivano rallentati attraverso un gran numero di urti elastici con i protoni presenti nella paraffina, aumentando così la loro efficacia nel provocare la radioattività artificiale. La scoperta dell’effetto del rallentamento dei neutroni nelle sostanze idrogenate indusse Fermi e i suoi a una rifocalizzazione del programma di ricerca sulla comprensione dell’effetto dei neutroni lenti piuttosto che sullo studio dei radionuclidi prodotti. Corbino, a sua volta, capì che le applicazioni pratiche della scoperta avrebbero potuto essere molto importanti e convinse Fermi e i suoi collaboratori a brevettarla (data del brevetto 26 ottobre 1934). In effetti quella scoperta è alla base delle applicazioni pratiche dell’energia nucleare. Fermi, per mantenere la supremazia mondiale del suo laboratorio, preparò un progetto per dotare il gruppo di un centro di ricerca adeguato e provvisto di un acceleratore; ma nel gennaio e nel luglio 1937 morirono prima Corbino e poi Guglielmo Marconi, i due pilastri politico-accademici che fino ad allora avevano appoggiato il gruppo dei fisici romani. Queste perdite non furono senza conseguenze, e nel 1938 fu comunicato a Fermi che le risorse occorrenti per la nuova fase di ricerca non sarebbero arrivate. Nell’estate dello stesso 1938 furono emanate le leggi antisemite e Laura, la moglie di Fermi era ebrea. Fermi ebbe la comunicazione del conferimento del premio Nobel e, approfittando del viaggio a Stoccolma per il premio, scelse la strada dell’esilio. Il gruppo dei fisici di via Panisperna si disperse.
All’inizio dei suoi studi, nel 1923, Fermi aveva parlato dell’enorme quantità di energia che teneva insieme il nucleo atomico, e aveva provato a immaginare quali effetti potevano verificarsi quando si fosse trovato il modo di liberarla. “La relazione fra massa ed energia – Einstein nel 1905 aveva scoperto la formulas E = mc² – ci porta senz’altro a delle cifre grandiose. Per esempio se si riuscisse a mettere in libertà l’energia contenuta in un grammo di materia si otterrebbe un’energia maggiore di quella sviluppata in tre anni di lavoro ininterrotto da un motore di mille cavalli. Si dirà con ragione che non appare possibile, almeno in un prossimo avvenire, che si trovi il modo di mettere in libertà queste enormi quantità di energia, cosa del resto che non si può che augurarsi, perché l’esplosione di una così spaventosa quantità di energia avrebbe come primo effetto di ridurre in pezzi il fisico che avesse la disgrazia di trovare il modo di produrla”. Nel 1941 l’ingegnere milanese E. Severini scriveva sulla rivista Elettrotecnica un articolo sulle ricerche nucleari, che terminava come segue: “Comunque, se anche l’energia di disintegrazione del nucleo non può ancora mettersi in diretta concorrenza con l’energia di combustione, e se anche non se ne potrà disporre tanto presto, non è lecito agli ingegneri scartare senz’altro l’eventualità che un giorno essi abbiano a doversi occupare di quelle che saranno vere e proprie centrali per lo sfruttamento dell’energia nucleare”. Poco più di un anno dopo, sarà Fermi a realizzare negli Stati Uniti il primo reattore nucleare (“Chicago Pile”, 1942), mentre lavorava al Progetto Manhattan, che oltre a realizzare la prima bomba atomica segnò anche il concreto avvio dell’industria nucleare.
Fra i "ragazzi di Via Panisperna", Emilio Segrè (futuro Premio Nobel per la scoperta dell’antiprotone) lavorò anche lui al Progetto Manhattan, mentre Bruno Pontecorvo collaborò al programma nucleare inglese. Il 31 agosto 1950, Pontecorvo, durante una vacanza in Italia, senza darne comunicazione né ad amici né a parenti, partì da Roma per Stoccolma con tutta la famiglia (moglie e tre figli) e proseguì per Helsinki e quindi per l’Unione Sovietica, dove cambiò il suo nome in Bruno Maksimovic Pontekorvo. Franco Rasetti emigrò in Canada, dove declinò l’invito a collaborare alle ricerche militari, e proseguì la sua carriera compiendo ricerche sui raggi cosmici (di particolare rilievo la prima misura diretta della vita media del muone) e di spettroscopia nucleare. D’Agostino tornò alla chimica, mentre Amaldi rientrò in Italia all’inizio della seconda guerra mondiale, e riorientò le attività di ricerca verso campi sperimentali legati alla fisica delle particelle. Oltre alla fisica nucleare e delle particelle, Amaldi apportò importanti contributi sui fenomeni magnetici, elaborando la teoria dei monopoli magnetici e delle onde gravitazionali.
Il CISE
Il mio interesse per il Cise è particolarmente forte se si pensa che vi sono entrato nel 1963 come ricercatore e uscito nel 1999 come Direttore Marketing e PR. Negli anni settanta e ottanta ebbi modo di visitare laboratori dell’United States Atomic Energy Commission negli Stati Uniti, del Commissariat à l’énergie atomique in Francia e dell’United Kingdom Atomic Energy Authority in Gran Bretagna e vi fui sempre accolto con simpatia; i ricercatori del CISE che vi erano stati prima di me avevano lasciato un ricordo carico di stima e di apprezzamenti.
L’inizio della ricerca nucleare applicata in Italia è indiscutibilmente legato alla nascita del Centro Informazioni Studi Esperienze, più brevemente indicato come CISE. Quando venne costituito a Milano, il 19 novembre 1946, aveva già alle spalle una lunga storia. L’idea aveva cominciato a farsi strada nell’agosto 1945, alla notizia della bomba nucleare. Ovviamente le notizie interessarono molto i giovani ricercatori che, come Giorgio Salvini, avevano orientato i propri studi verso la fisica delle particelle subnucleari. Racconta lo stesso Salvini: “In quegli anni ci fu un vivo interesse per i problemi nucleari: lo si può capire, eravamo nel 1945, l’effetto della bomba atomica aveva fatto immediatamente pensare ad applicazioni dei reattori nucleari per la produzione di energia”. Ma le notizie sulla bomba non mancarono di incuriosire anche gli ambienti industriali. Mario Silvestri era allora un giovane ingegnere, appena assunto dalla Edison: “Il 6 agosto 1945 ero una recentissima recluta della Edison, presso la quale avevo preso servizio da poco più di un mese. E mi avevano inserito nella Giunta tecnica, una specie di ufficio per studi e consulenze. Alla Giunta tecnica il consigliere delegato Vittorio De Biasi aveva chiesto di raccogliere immediate informazioni su questa nuova forma di energia. E a me era stata passata l’incombenza. Benché mi fossi laureato in ingegneria elettrotecnica, che nei primi anni quaranta nulla aveva a che fare con l’energia nucleare, ero riuscito a seguire da orecchiante quel pochissimo che durante la guerra era trapelato sulle capacità esplosive di un isotopo dell’ultimo e più inutile elemento chimico esistente sulla terra, l’uranio 235. In quell’inizio di agosto, riesumando vecchi articoli e mettendo insieme frammenti di altri, riuscii a fornire a De Biasi una spiegazione sufficientemente precisa su ciò di cui si trattava. La cosa finì lì, per quanto riguardava la Edison; ma io continuai a documentarmi, nei limiti del possibile”. Dopo un convegno tenuto a Como nel novembre 1945, che per la prima volta dopo la guerra aveva riunito i fisici dell’Italia settentrionale e centromeridionale, Edoardo Amaldi preparò, seguendo un suggerimento di Luigi Morandi, chimico antifascista e commissario della Montecatini dopo la Liberazione, un rapporto su La fisica in Italia nel quale indicava cosa a suo parere doveva essere fatto “nell’immediato avvenire sia per l’acquisizione di attrezzature scientifiche che per la formazione di personale qualificato in vista di un decoroso sviluppo anche delle applicazioni pacifiche della fisica nucleare”. Amaldi, che come si è visto aveva fatto parte del gruppo di Fermi, aveva non solo un’indiscutibile leadership personale nella comunità scientifica e in particolare tra i fisici, ma anche una posizione di rilievo nelle sedi di elaborazione della politica scientifica nazionale e internazionale. Salvini e Silvestri si conoscevano, ed era dunque naturale che affrontassero, ognuno dal punto di vista delle proprie specifiche conoscenze, un argomento di comune interesse: “Più volte ne discussi – continua il racconto di Silvestri – col mio amico Giorgio Salvini, assai miglior conoscitore dei principi fisici del fenomeno, cui gli specialisti avevano già dato un nome: fissione nucleare. Nel novembre 1945 Salvini avuto modo di parlarne col professore Edoardo Amaldi. Sullo sforzo per lo sviluppo delle armi atomiche, sul cosiddetto Progetto Manhattan, era stato pubblicato da qualche mese un rapporto ufficiale, che divenne celebre col nome di Rapporto Smith. Sulla sua lettura Salvini ed io ci buttammo avidamente: quanto era stato fatto (senza entrare nei dettagli del come, taciuti per ovvie ragioni di riservatezza militare), veniva fuori da quelle pagine, e stupiva per la sua imponenza. Era stata inventata una nuova macchina, un nuovo generatore di calore, che ricavava energia dal nocciolo interno dell’atomo. Che quella energia esistesse si sapeva dagli anni Venti, che si potesse liberare in modo pratico era stata una speranza degli anni Trenta, ma che fosse realtà era una novità degli anni Quaranta. Queste rivelazioni mi facevano riflettere e a lungo ne discutevo con Salvini. Quale poteva essere l’importanza industriale di tali scoperte?”. Salvini, allora assistente di fisica superiore, non era il solo a interessarsi di fenomeni nucleari nell’Istituto fisico milanese. Se ne occupava anche Carlo Salvetti, che si era laureato nel 1940 con una tesi sulla fissione nucleare ed era professore incaricato di fisica teorica nell’Università di Milano. Nell’energia atomica i tre giovani (Salvetti, Salvini e Silvestri) scorgevano una grande occasione di sviluppo economico e culturale per l’Italia del dopoguerra. Non avrebbero tuttavia combinato nulla di pratico senza una guida esperta e autorevole: la trovarono in Giuseppe Bolla, ordinario di fisica superiore a Milano, il capo di Salvini; Bolla, pur non essendo uno specialista di ricerche nucleari, condivise l’entusiasmo dei tre giovani, e divenne subito un convinto assertore dell’occasione rappresentata per l’Italia dal nucleare. “Insieme – ricorda Silvestri – studiammo l’opportunità di rivolgerci all’ingegner De Biasi, per informarlo che c’erano prove evidenti che l’energia nucleare avrebbe avuto un futuro non militare e che già d’oltre Atlantico arrivava l’eco delle prime congetture sull’argomento. Vittorio De Biasi non rimase insensibile”. Ebbe così inizio una serie di riunioni a sei, nelle quali la componente universitaria era rappresentata da Bolla, Salvetti e Salvini e la Edison da De Biasi, Silvestri e dal capo di Silvestri, Guido Molteni, direttore della Giunta tecnica. All’inizio del 1946 Salvetti e Silvestri prepararono un progetto in tre fasi: la prima mirava semplicemente alla formazione di un gruppo di specialisti, capaci di documentarsi e di lavorare sull’argomento; la seconda fase prevedeva invece la realizzazione di una reazione nucleare a catena di potenza ridottissima; la terza fase consisteva invece nella costruzione di un reattore nucleare sperimentale di una certa potenza. L’impegno finanziario era indicato in dieci milioni dell’epoca per il primo stadio, cento milioni per il secondo e un miliardo per il terzo. Per dare un’idea del peso effettivo di quelle somme, Silvestri ricorda che il suo stipendio (per quell’epoca un buon stipendio) era di 18.000 lire mensili, e commenta: “Era giocoforza ammettere che uno sforzo globale dell’entità da noi prevista aveva poche probabilità di essere condotto a termine da società private italiane, nelle condizioni del Paese e senza l’autorità necessaria. Il buon senso perciò ci indusse a scartare obbiettivi troppo ambiziosi, limitandoci a difendere la validità del primo stadio e di una parte del secondo, per il resto sperando nel futuro. Anche così ridimensionata, la meta richiedeva tuttavia non solo documentazione e studio, ma anche l’organizzazione di laboratori scientifici. Comunque, la Edison non era entusiasta di imbarcarsi da sola in un’impresa che, oltrepassando la fase dello studio cartaceo, affrontasse quella dal laboratorio: pronta a spendere i milioni, riluttante a rischiarne le decine, era assolutamente restia a giocare alla roulette con le centinaia”. Fu Bolla a suggerire che l’idea, molto ambiziosa se si considerano le condizioni in cui veniva avanzata, poteva forse realizzarsi convincendo i gruppi industriali potenzialmente interessati a costituire una società ad hoc. I tentativi di allargare la base dell’iniziativa furono allora rivolti verso i maggiori gruppi industriali dell’Italia del Nord: la FIAT, la Cogne, la Montecatini e la SADE (Società Adriatica di Elettricità), che era il maggior gruppo elettrico privato dopo la stessa Edison. Iniziò allora un lungo negoziato, così riassunto sinteticamente da Silvestri: “Le discussioni si moltiplicarono e si complicarono a causa del numero crescente di dialoganti. Esse si svolgevano ora presso la Edison, ora presso l’istituto di fisica dell’università, ora nelle case private di qualcuno di noi: quale struttura dare alla struttura, quali i diritti dei soci e l’entità dei loro finanziamenti, quali i diritti dei promotori, come delimitare il campo delle attività”. Col documento di Salvetti e Silvestri in mano, Bolla si recò poi a Roma, a far visita ad Amaldi; questi, nel gennaio 1946, aveva appena inviato il suo promemoria sulla fisica in Italia a Luigi Morandi e all’amministratore delegato della FIAT, Vittorio Valletta. Questa circostanza, probabilmente ignorata da Bolla, lo rendeva l’interlocutore più adatto per appoggiare il progetto milanese. Così Amaldi ricorda il loro incontro: “All’inizio del 1946, credo fosse febbraio, venne a trovarmi a Roma, all’Istituto, Giuseppe Bolla, che era succeduto a Segrè a Palermo e che era quindi passato alla cattedra di fisica superiore dell’Università di Milano. Era venuto a parlarmi di un progetto elaborato da lui insieme a Salvetti, Salvini e Mario Silvestri, giovane ingegnere della Edison. Esso riguardava la creazione in Milano, con fondi forniti da varie industrie, di un laboratorio rivolto allo sviluppo della fisica nucleare applicata. Il programma dei colleghi milanesi era molto più specifico anche se parziale rispetto al quadro che avevo tracciato nel mio rapporto circa un mese prima. Esso, per di più, aveva una notevole concretezza dato che Bolla e i suoi collaboratori erano già in contatto con vari industriali dell’Italia settentrionale che si erano dichiarati disposti a finanziare l’impresa. L’unico ente statale che avrebbe potuto, in linea di principio, interessarsi di questo fondamentale problema era il CNR, il quale peraltro non era assolutamente in grado, né lo sarebbe stato per alcuni anni, di accollarsi un compito così gravoso. Pertanto mi sembrò giusto e doveroso accettare di collaborare, come accettarono anche Gilberto Bernardini e Bruno Ferretti interpellati poco dopo sullo stesso argomento”. Mentre si lavorava per l’accordo fra i gruppi industriali, era anche necessario scongiurare l’eventualità che il trattato di pace vietasse all’Italia in modo permanente di effettuare ricerche sulle applicazioni pacifiche dell’energia nucleare. Il trattato era oggetto dei negoziati iniziati a Parigi nel luglio 1946 e che si sarebbero conclusi in dicembre a New York; i negoziatori italiani erano guidati da Alcide De Gasperi, presidente del Consiglio e ministro degli Esteri ad interim. Il 13 settembre Bolla, Salvetti, Salvini e Silvestri erano in partenza per Parigi. Attraverso il corrispondente del Corriere della Sera entrarono in contatto con Ivanoe Bonomi, che faceva parte della delegazione italiana in quanto ex presidente del Consiglio dei Ministri. Racconta ancora Silvestri: “Ci recammo là dove era acquartierata la nostra delegazione. Bonomi ci stette ad ascoltare, ma la difficoltà di introdurre il soggetto non era piccola. … Come si esprimesse in proposito il testo del trattato di pace allora in discussione, nessuno sapeva con esattezza. … L’articolo 44, nel testo proposto dai Quattro Grandi, proibiva all’Italia gli studi, gli esperimenti e la costruzione di proiettili razzo e torpedini radiocomandate, ma taceva sull’energia nucleare. Senonché la delegazione belga aveva suggerito un emendamento, nel quale all’Italia era esplicitamente vietato di svolgere studi ed esperimenti sull’impiego dell’energia atomica a scopo militare. Finché le cose restavano in questi termini – dicemmo all’onorevole Bonomi – meglio sarebbe stato tacere, e solo sarebbe stato opportuno parlare in favore nostro qualora fosse divenuta oggetto di discussione la proibizione assoluta di effettuare studi sull’energia nucleare. Non ci risultava, gli spiegammo, che alcuno pensasse in Italia a impieghi militari, ma una preclusione alle applicazioni pacifiche avrebbe potuto danneggiare il nostro paese. Con questa intesa ci lasciammo, né più sentimmo parlare dell’articolo 44, presto comunque superato dagli avvenimenti”. Chiarita così anche la compatibilità del lavoro da svolgere con gli impegni internazionali dell’Italia, le trattative giunsero infine a conclusione. Questa è dunque la lunga vicenda che precedette la firma, il 19 novembre 1946, dell’atto costitutivo milanese, cui parteciparono Vittorio De Biasi in rappresentanza della Edison, Teresio Guglielmone per la Cogne e Antonio Cavinato per la FIAT. I fondatori versarono 40.000 lire ciascuno per la costituzione del capitale sociale. De Biasi assunse la presidenza della nuova società, e Cavinato il ruolo di amministratore unico. Il CISE era una società a responsabilità limitata, senza fini di lucro, e i finanziatori si impegnavano a versare sei milioni all’anno per ciascuno e a fornire gratuitamente il personale; scopo sociale dichiarato erano, secondo l’atto costitutivo, “studi, ricerche ed esperienze scientifiche in qualsiasi campo, acquisizione e sfruttamento di brevetti”; la durata della società era prevista inizialmente fino al 1951. Il nome Centro Informazioni Studi Esperienze non conteneva la parola nucleare per non creare un caso per eventuali contestazioni. La SADE e la Montecatini aderirono dopo breve tempo. Il numero dei soci era destinato ad ampliarsi ulteriormente negli anni successivi, con l’adesione di altri importanti gruppi industriali italiani: nel 1949 la Falck, la Pirelli e l’Olivetti, e nel 1950 la Terni. Presto, inoltre, nel consiglio di amministrazione entrò Vittorio Valletta, a rappresentarvi la FIAT. Nel 1947, inoltre, del consiglio d’amministrazione del CISE entrò a far parte anche il presidente del CNR, Gustavo Colonnetti. Scopo del CISE, come si è detto, era la realizzazione di un reattore nucleare per produrre energia elettrica. Ma in quale contesto doveva svolgersi questa attività? Finita la guerra, accanto alle ricerche di carattere militare fu avviato negli Stati Uniti un programma per lo sviluppo delle utilizzazioni pacifiche dell’energia nucleare. Programmi analoghi vennero pure avviati in Francia e in Gran Bretagna, oltre che ovviamente in Unione Sovietica, vale a dire nei paesi che possedevano le risorse umane e finanziarie, oltre che l’esperienza, occorrenti. Queste ricerche erano finanziate, intraprese e controllate da organismi pubblici: l’United States Atomic Energy Commission (USAEC) negli Stati Uniti, il Commissariat à l’énergie atomique (CEA) in Francia e l’United Kingdom Atomic Energy Authority (UKAEA) in Gran Bretagna. Ma di queste attività, al di là delle sigle, si sapeva ben poco: le informazioni sulla ricerca nucleare continuarono a restare segrete anche dopo la fine della guerra, per effetto degli accordi di Québec del 1945 e del McMahon Act, approvato nel 1946 dagli Stati Uniti, il paese dove la ricerca era più avanzata; si creò così un monopolio di fatto dell’informazione nucleare. Questo monopolio, non riuscendo a ostacolare le ricerche fuori degli Stati Uniti, come fu dimostrato dall’esplosione della prima bomba atomica sovietica nel 1949, fu poi gradualmente allentato, fino a un sostanziale mutamento di rotta sancito dall’Atomic Energy Act voluto da Eisenhower nell’agosto 1954. Ma nel 1946, non avendo accesso a informazioni secretate, il programma del CISE non poteva che prevedere lo sviluppo di un reattore progettato e costruito in proprio. Dopo una lunga fase di discussione, la scelta si orientò verso un reattore da 10 MW a uranio naturale moderato ad acqua pesante. I problemi da risolvere erano numerosissimi, a cominciare proprio dal rifornimento di uranio e di acqua pesante; e per ciascuno di essi, fosse di natura teorica o tecnologica, bisognava escogitare ex novo una soluzione. Uno dei problemi più urgenti per lo sviluppo delle ricerche nucleari in Italia era la mancanza di personale qualificato: Amaldi lo aveva già sottolineato nella sua relazione del gennaio 1946, dove aveva anche illustrato un percorso per formare un numero sufficiente di persone. La questione era posta anche negli obiettivi della prima fase di lavoro del CISE, secondo il documento programmatico di Salvetti e Silvestri. Ma il principale problema del CISE restava quello di definire un progetto generale, in assenza di informazioni scientifiche e tecniche dettagliate su quanto si stava facendo nei paesi più avanzati e in particolare negli Stati Uniti, che era rigorosamente coperto dal segreto. Innanzitutto occorreva comprendere, con la raccolta delle informazioni disponibili, e con lo studio teorico e sperimentale, quali fossero i principi di funzionamento di un reattore: a questo si dedicarono la sezione teorica, diretta da Salvetti, e due laboratori, uno per i neutroni e uno per le sorgenti di ioni. Alla fine del 1951 il CISE aveva raggiunto alcuni importanti risultati: aveva realizzato un impianto pilota per la produzione di acqua pesante mediante elettrolisi e un impianto sperimentale per la metallurgia dell’uranio; nei suoi laboratori erano state effettuate importanti misure sulla fissione dell‘uranio ed era stata messa a punto una strumentazione elettronica di prim’ordine. Aveva poi ottenuto risultati straordinari nella formazione di personale qualificato. Nei laboratori del CISE si formarono infatti molti di coloro che avrebbero svolto un ruolo importante nella ricerca nucleare italiana degli anni successivi. Nel gennaio 1952 Bolla tracciava un primo bilancio dell’attività svolta su Energia nucleare, la nuova rivista del Centro: “Allo stato attuale dello sviluppo del CISE si può affermare che esistono in Italia i presupposti scientifici e tecnici fondamentali per la costruzione di una pila sperimentale. Esiste cioè un nucleo di ricercatori specializzati e capaci di inquadrare rapidamente il lavoro di altri ricercatori; esistono inoltre impianti pilota dai quali derivare gli impianti di produzione. … Ma molto più difficile è il problema del CISE stesso. Nato come contributo di universitari e industriali alla soluzione del problema della ricerca in Italia, il CISE, attraverso tutto il lavoro che ha svolto, non ha deluso. … Delude, se mai, il ritardo di un interessamento ufficiale a sostegno dello sforzo degli industriali, degli universitari, dei ricercatori”. Bolla dava voce a umori e difficoltà che cominciavano a farsi sentire nel CISE; in particolare si manifestava sul versante finanziario una certa impazienza dei soci: la Cogne era in arretrato con le quote, la Falck avvertiva di voler abbandonare l’impresa, il rappresentante della Pirelli affermava che il CISE era stato “indirizzato su un problema estremamente ambizioso per i mezzi dei quali può disporre”, mentre Vittorio Valletta e De Biasi si lamentavano della latitanza del governo. Lo ribadiva anche la relazione al bilancio 1951, predisposta dal Consiglio di amministrazione in quegli stessi mesi: “Oggi come oggi gli sforzi dei privati non possono più permettere al CISE uno sviluppo adeguato. È quindi indispensabile che il problema venga considerato nella sua vastità e siano trovati i mezzi idonei ad uno sviluppo consono alle proporzioni del problema stesso … . È certo che l’iniziativa privata ha già compiuto il massimo sforzo che da essa ci si poteva attendere e che quindi la vita del CISE, come centro studi di fisica nucleare applicata, è oggi strettamente legata alle decisioni che il governo vorrà prendere al riguardo”. Il sospirato interessamento ufficiale, comunque, non doveva tardare ancora molto.
Il prof. Amaldi (capelli bianchi e occhiali) in visita al CISE in un laboratorio, da me diretto, per lo studio delle interazioni tra particelle cariche e materia (1987).
L’intervento dello stato.
L’intervento governativo era in effetti sollecitato su almeno tre fronti: gli industriali che chiedevano un finanziamento pubblico alle attività del CISE, i fisici, che volevano tenersi al passo con la comunità scientifica internazionale, i militari, che in vari modi si interrogavano sulle conseguenze dei nuovi armamenti e dei nuovi scenari internazionali per la difesa dell’Italia. I primi a muoversi erano stati i fisici, che fin dal 1945 avevano tentato di riprendere la strada interrotta dall’esilio volontario di Fermi e dalla guerra, pur nella consapevolezza dei vincoli che la situazione economica e la posizione internazionale del Paese ponevano. Il CNR aveva accettato di investire una parte dei propri mezzi nella promozione di alcuni centri di studio dedicati alla fisica delle particelle. Il primo di tali centri fu costituito a Roma su proposta di Amaldi: “ … Si giunse così all’accoglimento da parte del CNR della proposta d’istituire presso l’Istituto Guglielmo Marconi un Centro di studio della fisica nucleare e delle particelle elementari di cui io fui nominato direttore e Gilberto Bernardini vicedirettore. Con l’istituzione di un Centro veniva assicurata una continuità ai finanziamenti del CNR che fino allora avevano avuto un carattere piuttosto saltuario oltre che estremamente modesto. Il programma di ricerca non era altro che un naturale sviluppo delle attività svolte in precedenza. Fin dall’inizio vi fu un accordo tra i fisici del CISE e quelli del Centro per lo studio della fisica nucleare e delle particelle elementari del CNR. Le ricerche di fisica nucleare applicata erano l’argomento specifico del CISE e quelle di fisica nucleare fondamentale l’argomento istituzionale del Centro di Roma”.
Nel corso del 1949 le pressioni sul governo allo scopo di finanziare la ricerca in campo nucleare si fecero più intense e concertate tra i fisici nucleari, in particolare Amaldi, e gli industriali del CISE. Il presidente del CNR Colonnetti entrò a far parte del consiglio del CISE come membro effettivo e si propose come mediatore nei rapporti con il governo per ottenere i fondi necessari. Il seme gettato nel 1948, anche con l’aiuto di Fermi, aveva dato qualche frutto: il sospirato adeguamento del finanziamento per il CNR venne infatti concesso con il bilancio 1950-1951; e si trattava di un raddoppio, da 265 a 540 milioni. Buona parte del maggior finanziamento ottenuto dal CNR venne investito nelle attività di fisica nucleare fondamentale. Fu costituito l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, nell’ambito statutario del CNR, con il compito di coordinare le attività dei centri di ricerca di Roma, Padova, Torino e Milano. Questa soluzione, però, se da un lato permetteva ai fisici nucleari di uscire dalla fase critica del dopoguerra, non era una risposta al problema del rapporto fra ricerca di base e applicazioni dell’energia nucleare: restavano insoddisfatte le necessità finanziarie del CISE. La comunità scientifica decise allora di provare un ulteriore contatto politico, quello col ministro dei Lavori Pubblici, Pietro Campilli. Il contatto fu preso da Amaldi, dietro suggerimento di Francesco Giordani, presidente del Comitato per la Chimica del CNR, e profondo conoscitore del mondo dell’industria pubblica, essendo stato presidente dell’IRI dal 1936 al 1943 e del CNR dal 1940 al 1943; nei primi anni del dopoguerra aveva poi rappresentato l’Italia negli organi direttivi della Banca Mondiale a Washington, ed era amico del governatore della Banca d’Italia Donato Menichella, che dell’IRI era stato direttore generale. Quanto a Campilli, qualche mese addietro si era già occupato del settore energetico favorendo la nascita della Finelettrica, la finanziaria IRI in cui erano state concentrate le partecipazioni pubbliche nell’industria elettrica. La strategia concordata da Amaldi, Giordani e Campilli previde la creazione del Comitato Nazionale per le Ricerche Nuclearni (CNRN), costituito per decreto del presidente del Consiglio, finanziato dall’IRI e dal Ministero dell’Industria (sui fondi del Comitato Carboni): si sarebbe evitato in tal modo il passaggio nella sede parlamentare, e con esso il pericolo di nuove interferenze. “Improvvisamente – racconta Silvestri – nella primavera del 1952, il governo cominciò a interessarsi di energia nucleare. Il sintomo più appariscente fu la visita effettuata ai laboratori del CISE dal ministro Campilli”. A questo passo formale ne seguì uno più concreto: al CISE venne erogato dal Ministero dell’Industria un finanziamento di 100 milioni tramite il CNR. Inoltre Colonnetti comunicò al Consiglio di amministrazione del CISE che nel bilancio di previsione dello Stato per il 1952-1953 era iscritta la somma di un miliardo per sovvenzionare le ricerche nucleari fondamentali e applicate. De Gasperi firmò il decreto che istituiva il CNRN il 26 giugno 1952. Il Comitato era presieduto da Giordani, affiancato dal vicepresidente Modesto Panetti, ingegnere del Politecnico di Torino e senatore democristiano; esso comprendeva fisici come Amaldi, Bruno Ferretti ed Enrico Medi, esperti industriali come Vittorio De Biasi e il vicepresidente della Finelettrica Arnaldo Maria Angelini, un alto burocrate, il direttore generale dell’Industria Aldo Silvestri Amari, e un geologo che si era specializzato nelle ricerche di uranio in Italia, Felice Ippolito. Il CNRN si rivelerà in seguito il cavallo di Troia per estromettere i privati dal settore nucleare.
Qualcosa stava cambiando nel clima internazionale: nel luglio 1953 alcuni paesi europei convenivano, nel corso di un incontro tenuto a Parigi, di impegnarsi per la costituzione di un organismo nucleare europeo, designato con il nome di Euratom; nel dicembre successivo il presidente americano Eisenhower pronunciò all’ONU un importante discorso sulla collaborazione internazionale per le utilizzazioni pacifiche dell’energia nucleare, con il varo di un programma chiamato Atoms for Peace; all’inizio dell’estate 1954 si tenne ad Ann Arbor un congresso internazionale di ingegneria nucleare, al quale parteciparono anche esperti del CISE, e venne annunciata l’imminente declassificazione di una serie di importanti documenti tecnici, uno dei quali relativo alla produzione dell’acqua pesante. Nell’agosto successivo l’Atomic Energy Act, dava luogo fra l’altro a un’ampia liberalizzazione delle informazioni riguardanti l’uso pacifico del nucleare e delle collaborazioni internazionali in tale settore. Nella primavera 1955 venne organizzato a Roma un simposio europeo sui metodi di produzione dell’acqua pesante (era il problema più sentito in quel momento dai tecnici italiani), mentre la progettazione e la realizzazione di un impianto italiano (progetto CISE, realizzazione Montecatini e Larderello) creava l'occasione per una collaborazione col centro nucleare inglese di Harwell. Nella riunione tenuta dal CNRN il 9 marzo 1955, Giordani proponeva l’invio di una missione tecnica negli Stati Uniti “per prendere contatti con la Commissione atomica americana in vista della stipulazione di un accordo di collaborazione nello spirito della dichiarazione del presidente Eisenhoweri”; gli scopi della missione erano: “a) Fornitura di acqua pesante. b) Acquisto di un primo reattore. Premessi i necessari accordi di governo, per ottenere la fornitura dei materiali necessari, e in particolare anche delle modeste quantità di uranio arricchito che saranno necessarie, si potranno avviare trattative con le ditte costruttrici americane per l‘acquisto di un reattore di prova, capace di raggiungere un livello di potenza dell’ordine del MW ; c) Impianti in scala industriale. La maggioranza dei competenti ritiene che – in dipendenza delle scarse disponibilità e degli alti costi dell’energia prevalenti in Italia – si dovrebbero raggiungere più rapidamente qui da noi le condizioni di convenienza economica per l’uso dell’energia nucleare. Pertanto sarebbe gradito di poter iniziare lo studio per l’impianto di una prima centrale, esaminando eventualmente le condizioni di fornitura e avviando i contatti per eventuali finanziamenti da parte di quegli organismi bancari che già annunciano il loro vivo interesse per questo nuovo campo di attività”. Questa vistosa correzione di tiro rispetto alla strategia del reattore nazionale venne vissuta come un vero e proprio tradimento da una parte dei ricercatori del CISE. D’altra parte questo orientamento si concretizzò nell’accordo nucleare bilaterale della primavera 1955 tra Italia e Stati Uniti, che entrò in vigore nel luglio successivo e si rafforzò dopo la conferenza di Ginevra del 1955. Può essere utile ricordare con Silvestri che nell’agosto 1955 l’unico paese a possedere una centrale nucleare in esercizio era l’Unione Sovietica, dove l’anno prima era entrata in funzione la piccola centrale di Obninsk, da 5 MW. Nel 1956 sarebbe stata inaugurata la prima centrale nucleare inglese, a Calder Hall, dotata di tre reattori da 46 MW ciascuno, e nel 1957 la prima centrale statunitense, quella di Shippingport, con un reattore da 60 MW; le prime centrali francesi, anch’esse da 60 MW, sarebbero entrate in funzione nel 1960. Subito dopo Ginevra, nell’ottobre 1955, la Edison decise di affrontare la costruzione di una centrale nucleare nell’Italia settentrionale; le ragioni di questa decisione erano di natura squisitamente politica, ispirate da considerazioni connesse all’intensificarsi del dibattito sulla nazionalizzazione, a favore della quale era esplicitamente schierata la maggioranza dei membri del CNRN. Ovviamente la centrale Edison doveva essere acquistata, per quanto riguarda il reattore, negli Stati Uniti. Un alto dirigente della Edison, Giorgio Valerio, Mario Silvestri e il direttore della divisione centrali termiche della Edison, Franco Castelli fecero diverse missioni negli Usa per preparare le specifiche d’ordine di una centrale nucleare “gemella di altra, la cui costruzione era appena iniziata a Rowe, nel Massachusetts”. L’iniziativa Edison, evidentemente, per ragioni politiche speculari a quelle che la ispiravano, incontrava una decisa ostilità da parte del CNRN che approvava un ordine del giorno che sollecitava al Governo iniziative legislative e precisi indirizzi politici nel settore nucleare, prefigurando un largo ruolo dello Stato, in particolare sull’energia elettrica di fonte nucleare. Inoltre, il CNRN nella stessa seduta e in quelle successive del 17 febbraio e 12 luglio 1956 deliberava sull’incarico di studio da conferire al CISE per l’installazione di un reattore di ricerca da acquistare negli Stati Uniti: si scelsero le caratteristiche del reattore (un Cp-5 come quello dei laboratori nucleari di Argonne), vennero approvati il contratto CNRN/CISE per la sua installazione ed esercizio, il contratto con l’American Car and Foundry per la sua fornitura e furono stabilite le direttive al CISE per l’acquisto del terreno prescelto, presso Ispra. Il Comitato deliberò poi la nomina di una Commissione per lo studio dell’ubicazione degli impianti nucleari in Italia, nella quale erano rappresentate, oltre ai soci del CISE, al CISE stesso e al CNRN, anche l’Ente Nazionale Idrocarburi (che aveva frattanto costituito l’AGIP Nucleare con lo scopo dichiarato di costruire una centrale) e la Società Elettronucleare Italiana (SELNI), cioè la società costituita dalla Edison per la realizzazione della progettata centrale nucleare. Al termine della seduta del 12 luglio 1956, Giordani comunicò le proprie dimissioni dalla presidenza del CNRN. Esse avevano lo scopo di richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica e del mondo politico sulla questione dello sviluppo dell’energia nucleare. Giordani intendeva forzare il Governo a decidere. Giungeva così alla fase conclusiva lo scontro politico fra quanti desideravano il potenziamento del CNRN e quanti, invece, ne auspicavano un ridimensionamento e non era difficile vedere dietro tale scontro l’ombra della questione principale, la nazionalizzazione dell’energia elettrica.
A conclusione della riunione del 12 luglio 1956, il Comitato Nazionale per le Ricerche Nucleari, su proposta del rappresentante del Ministero dell’Industria, Aldo Silvestri Amari, delegava “il segretario generale, prof. Felice Ippolito, a provvedere all’ordinaria amministrazione e all’adempimento delle decisioni adottate”. Il 20 luglio, il presidente del Consiglio Antonio Segni riceveva Amaldi, Angelini, Ferretti e Ippolito. Il rinnovo del CNRN avvenne con un decreto del presidente del Consiglio del 24 agosto 1956, che conteneva anche qualche innovazione normativa rispetto a quello del 1952; il nuovo presidente era Basilio Focaccia, professore ordinario di elettrotecnica nell’università di Roma, ma anche senatore democristiano e già sottosegretario alla Marina Mercantile e all’Industria, insomma una personalità politica. Con il nuovo decreto si avviò anche una forte crescita organizzativa del CNRN. Il CNRN rinnovato si riunì per la prima volta sotto la presidenza di Focaccia nei giorni 23 e 24 ottobre 1956. Fra le questioni all’ordine del giorno, oltre al funzionamento del Comitato stesso, vi erano la costituzione di una serie di commissioni di studio, la costruzione del Centro di Ispra e le attività internazionali. All’inizio della riunione, su proposta del presidente, il Comitato all’unanimità confermava Ippolito nella carica di segretario generale. Nel febbraio 1956 si svolse a Washington una conferenza internazionale che si concluse con un compromesso che consentiva la costituzione dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) e del sistema internazionale di garanzie contro la proliferazione delle armi nucleari. In ambito europeo la collaborazione si sviluppò seguendo due strade: la costituzione dell’Euratom fra i sei paesi che già aderivano alla Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), e dell’Agenzia europea per l’energia nucleare nell’ambito dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE). Il trattato di costituzione dell’Euratom fu definitivamente elaborato nei suoi aspetti tecnici e firmato nel marzo 1957 a Roma, insieme a quello costitutivo del Mercato Comune. La collaborazione in ambito OCSE aveva invece come obiettivo la costituzione di imprese nucleari comuni aperte facoltativamente a tutti i membri: nel febbraio 1958 venne infine costituita l’Agenzia nucleare dell’Organizzazione, con sede a Parigi.
In questa situazione i paesi più avanzati si proponevano come esportatori di impianti e materiali nucleari, mentre i paesi meno sviluppati e quelli industrializzati che non avevano potuto intraprendere con successo programmi nucleari indipendenti (tra essi l’Italia), volendo colmare il ritardo e accedere alla nuova fonte di energia, costituivano un mercato potenzialmente interessante. La concorrenza commerciale nucleare riguardava essenzialmente gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Francia e in misura minore il Canada. La più grossa fetta di questo mercato fu presto conquistata dagli Stati Uniti: con appositi accordi essi realizzarono la vendita di reattori di ricerca e di combustibile nucleare a un’ottantina di paesi; il costo di questi reattori si aggirava intorno al mezzo milione di dollari, e gli acquirenti potevano beneficiare di una sovvenzione da parte del Governo americano. È nell’ambito di un accordo di questo tipo che fu acquistato il reattore Cp-5 destinato al Centro nucleare di Ispra. La decisione di costruire un centro di studi nucleari, destinato a ospitare un reattore di ricerca, era stata presa alla fine dell’estate 1955; una volta scelto il terreno, per la sua acquisizione fu costituita coi fondi del Comitato una società (la Immobiliare Ispra), della quale era amministratore delegato lo stesso amministratore del CISE, Federico Nordio, mentre nel Consiglio d’amministrazione sedevano alcuni membri del CNRN. La necessità di costituire una società di diritto privato per l’acquisto del terreno nasceva dalla mancanza di personalità giuridica del CNRN. Al CISE erano affidati tanto la costruzione degli edifici del Centro, quanto l’incarico di seguire la progettazione e la costruzione del reattore, commissionato all’American Car and Foundry. Il CNRN decise di affiancare un proprio gruppo di tecnici a quelli del CISE che già si trovavano in missione negli Stati Uniti sotto la guida di Salvetti. Nei primi mesi del 1957, essendosi verificate alcune divergenze fra i tecnici e Nordio, il CNRN fu sempre più portato a intervenire nelle questioni relative alla costruzione del Centro di Ispra. Si rinnovarono così le tensioni tra CNRN e CISE, fino alla decisione del CNRN di condurre in proprio la realizzazione del Centro, con una traumatica rottura di rapporti fra i due enti, che si consumò nel settembre 1957. Di nuovo il Comitato si trovò alle prese con problemi operativi derivanti dalla mancanza di personalità giuridica: anche stavolta essi furono risolti costituendo coi fondi del Comitato una società per azioni, la Nucleare italiana (NUCLIT), che poi assunse buona parte del personale già dipendente dal CISE e necessario alla realizzazione del Centro di Ispra. Il CISE, privato di una parte dei suoi tecnici e della sua attività principale, si trovò a dover ridefinire il proprio programma di attività; all’inizio del 1958 Giuseppe Bolla venne sostituito nella direzione da Gino Bozza. Il CNRN, dal canto suo, assunse in modo definitivo una posizione dominante nel nucleare civile italiano.
Durante i miei primi contatti con il CISE, da studente, i tecnici mi raccontavano di episodi umoristici per non dire drammatici, con gente del CNRN che braccava i dipendenti del CISE (ricercatori, tecnici, operai, soffiatori, personale delle pulizie, lavacessi) offrendo loro stipendi d’oro purché lasciassero il CISE e si trasferissero ad Ispra.
Le tre centrali italiane
Gli anni Cinquanta furono un periodo di esplorazione delle diverse soluzioni tecniche possibili per produrre elettricità con reattori nucleari; ciascun tipo di reattore utilizzava un insieme di tecnologie differenti, ovvero, secondo la terminologia del settore, apparteneva a una diversa filiera. Le diverse tecnologie variamente combinate fra loro, presentavano sia problemi che vantaggi, con significative differenze da caso a caso. I reattori statunitensi utilizzavano due diverse filiere: reattori a uranio arricchito, moderati ad acqua ordinaria e raffreddati ad acqua pressurizzata (PWR della Westinghouse), oppure reattori moderati e raffreddati ad acqua bollente (BWR della General Electric). Solo dal 1963 si fa iniziare, convenzionalmente, la fase commerciale della produzione di impianti elettronucleari negli Stati Uniti. La prima a muoversi per la costruzione in Italia di una centrale nucleare era stata la Edison, che aveva poi coinvolto altre aziende elettriche, pubbliche e private, e società manifatturiere dell’Italia centro-settentrionale, costituendo con esse nel dicembre 1955 la Società Elettronucleare Italiana (SELNI). L’iniziativa camminava però con estrema lentezza, sia per le ostilità di natura politica, sia per ragioni obiettive, legate all’assenza di una normativa adeguata al settore nucleare. Nel dicembre 1956 si giunse alla scelta definitiva del costruttore: fu prescelta la Westinghouse, per un reattore a uranio arricchito, moderato ad acqua ordinaria e raffreddato ad acqua pressurizzata; la potenza prevista inizialmente era di 134 MW, aumentati poi varie volte in corso d’opera fino a raggiungere i 270 MW. Nel giugno 1957 il CNRN, su richiesta del Ministero dell’Industria, espresse, obtorto collo, parere favorevole all’iniziativa Edison, subordinando peraltro ogni deliberazione definitiva alla presentazione da parte dell’impresa di un rapporto sulla sicurezza e di uno studio sull’ubicazione dell’impianto: la scelta fu Trino Vercellese. Il CNRN pose ogni possibile ostacolo all’iniziativa della Edison e De Biasi reagì con veemenza, chiedendo al Presidente del Consiglio la destituzione di Ippolito; il progetto per la centrale, comunque, andò avanti. Nell’aprile 1956 le aziende pubbliche facenti capo alla Finelettrica (IRI) uscirono dalla SELNI, costituendo la Società Elettro Nucleare Nazionale (SENN), per costruire una centrale nucleare nel Sud. Poco dopo anche l’ENI, con la costituzione della Società italiana meridionale per l’energia atomica (SIMEA), aveva manifestato pubblicamente l’intenzione di impegnarsi nella costruzione di una centrale nucleare nell’Italia meridionale. La realizzazione di una centrale nel Mezzogiorno, progetto denominato ENSI, Energia Nucleare Sud Italia, fu affidata alla SENN. Nel settembre 1958 venne comunicata la scelta del costruttore: l’americana General Electric. La centrale avrebbe avuto la potenza di 160 MW, e sarebbe stata realizzata a Punta Fiume, alla foce del Garigliano. Alla scelta in favore della General Electric aveva contribuito la decisione dell’ENI di adottare per la propria centrale la filiera inglese (reattore ad uranio naturale, moderato a grafite e raffreddato a gas): costruttore prescelto era la Nuclear Power Plant Company. La centrale, della potenza di 200 MW, sarebbe stata realizzata a Torre Astura, presso Latina.
L’avvio della costruzione delle tre centrali nucleari italiane ebbe un’eco in prevalenza favorevole nei mezzi di informazione e nell’opinione pubblica; essendo l’argomento strettamente connesso a quello della politica elettrica, però, a livello politico, le polemiche furono roventi. A cinquanta anni di distanza quelle polemiche appaiono chiaramente strumentali al dibattito sulla nazionalizzazione dell’energia elettrica. Segue....
La centrale di Trino Vercellese
Eugenio Caruso
5 novembre 2012
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