... "Questo misero modo
tegnon l'anime triste di coloro
che visser senza 'infamia e senza lodo" .
Dante
PARTE II
Dal punto di vista militare, i governi che si susseguirono alla guida dell’Italia negli anni ’50 puntarono tutto sul dispiegamento degli armamenti degli Usa, Paese verso il quale mostrarono una disponibilità che non c’era in nessun altra parte dell’Europa occidentale. Forse anche per questo gli Usa appoggiarono inizialmente con decisione lo sviluppo del nucleare civile italiano. Io personalmente ho raccolto la testimonianza dei primi ricercattori del Cise che si recarono negli Usa e che vi furono accolti con calore. Dopo il 1958, tuttavia, qualcosa incrinò questo clima: forse i primi sviluppi di Euratom e il ruolo che in essi aveva l’Italia, forse altri elementi dei quali al momento non si conosce nulla; certo è che gli Usa divennero diffidenti verso il nucleare italiano.
Altri aspetti del programma nucleare italiano
Alla fine del 1957, le commissioni di studio nominate dal Cnrn presentarono una serie di relazioni sui risultati dei loro lavori; esse vennero raccolte in un “libro bianco”, che voleva essere un piano quinquennale per lo sviluppo delle ricerche nucleari in Italia. Una parte del piano era indirizzata verso la ricerca nella fisica fondamentale, che assorbiva circa il 20% delle risorse; il Cnrn operava in questo settore tramite l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn) la cui principale attività, negli anni Cinquanta, era la costruzione di un grande acceleratore di particelle, il sincrotrone di Frascati. Altri settori di ricerca erano: 1. quello radiobiologico, finalizzato non solo ai problemi della sicurezza degli impianti e della difesa sanitaria ma anche allo studio delle possibili applicazioni biologiche delle radiazioni; 2. quello geo-minerario, finalizzato alle ricerche uranifere, curato direttamente da Ippolito; 3. quello giuridico, che si occupava della preparazione della normativa in campo nucleare; 4. quello economico, che studiava l’evoluzione del fabbisogno energetico per programmare i possibili sviluppi del settore nucleare.
L‘attività centrale del Cnrn era comunque la ricerca applicata, il che significava anzitutto la realizzazione delle infrastrutture necessarie: in questa direzione il principale impegno nel corso degli anni Cinquanta fu la creazione del Centro di ricerche nucleari di Ispra. Esso venne ultimato nel 1959 e quasi subito ceduto all’Euratom perché ne facesse la sede di uno dei centri comuni di ricerca previsti dagli accordi costitutivi dell’organizzazione.
Fin dal 1958, peraltro, era stata avviata la realizzazione di un altro centro di ricerche nucleari nei pressi di Roma, il futuro Centro della Casaccia; qui vennero concentrate una serie di attività del settore chimico, del settore elettronico, di quello radiobiologico e anche alcuni programmi di ricerca fondamentale, e vi si trasferirono, dopo la cessione del Centro di Ispra, molte attività e parte del personale di quella sede. Nel luglio 1960 venne poi istituito a Bologna il Centro destinato a gestire i grandi mezzi di calcolo del Comitato e le attività di ricerca ad essi connesse.
La ricerca applicata avviata dal Cnrn e successivamente proseguita dal Cnen aveva come obiettivo principale lo sviluppo delle conoscenze necessarie per la realizzazione di un piano di costruzione di centrali nucleari, ritenuto indispensabile per far fronte al crescente fabbisogno energetico nazionale in una situazione nella quale si prevedeva che le fonti tradizionali di energia non potessero più contribuire in modo adeguato. Costruire in Italia i componenti delle centrali, compresi quelli strettamente nucleari, avrebbe consentito una riduzione notevole dei costi, permettendo di conseguire più rapidamente la competitività dell’energia da fonte nucleare con quella prodotta dagli impianti convenzionali. Fu quindi varato un programma con l’obiettivo di realizzare un reattore dimostrativo di potenza, interamente prodotto dall’industria nazionale. Fu prescelto un tipo di reattore moderato e refrigerato con un liquido organico (una miscela di difenili e terfenili), la cui prima carica avrebbe dovuto essere importata dagli Stati Uniti; il reattore avrebbe dovuto essere il risultato di una collaborazione tra Eni, Fiat e Montecatini, attraverso l’Agip Nucleare e la Sorin (Società ricerche impianti nucleari, una joint venture tra Fiat e Montecatini), coordinata dal Comitato attraverso contratti di ricerca. (Giova ricordare che oggi la Sorin è un gruppo leader nelle tecnologie medicali, focalizzato nei prodotti per il trattamento delle malattie cardiovascolari. Ogni giorno i prodotti e le tecnologie che il Gruppo mette a disposizione della classe medica contribuiscono alla cura di milioni di pazienti in tutto il mondo. Sorin dispone di una rete di vendita presente in forma diretta nei principali paesi d’Europa, negli Stati Uniti, in Canada e in Giappone; negli altri mercati, il gruppo opera attraverso una rete di distributori). Il programma ebbe il nome di Pro (Progetto Reattore Organico); esso si avvaleva anche di una collaborazione con l’Atomic International, un’industria statunitense che aveva in fase di progettazione un reattore dello stesso tipo, e con la Martin Marietta Corporation di Baltimora, per la fabbricazione degli elementi di combustibile. Per quanto riguarda il ciclo del combustibile, l’Italia partecipava attraverso il Comitato e la Sorin all’impianto Eurochemic di Mol, un’impresa comune in ambito Ocse; era stato inoltre realizzato un impianto pilota (Eurex) per il ritrattamento degli elementi di combustibile irradiato provenienti dai reattori di ricerca. Fu pure varato un programma per valutare la possibilità tecnica ed economica di utilizzare nell’alimentazione dei reattori il ciclo urani-torio; esso fu chiamato Pcut (Programma Ciclo Uranio-Torio). Come il Pro, anche il Pcut sarebbe stato abbandonato nel corso degli anni Sessanta, mentre la trasformazione di Eurochemic avrebbe finito nello stesso periodo per vanificare l’impianto Eurex.
Fin dalla sua istituzione il Cnrn aveva posto fra i propri obiettivi il varo di una legislazione organica per il settore nucleare, che da un lato regolasse i complessi e delicati aspetti tecnici della materia, dall’altro trasformasse il Comitato in un ente nucleare paragonabile a quelli degli altri paesi industriali, conferendogli personalità giuridica e dotandolo di un proprio bilancio. Il varo di questi provvedimenti incontrava però una diffusa ostilità, determinata dalle tensioni connesse al dibattito sulla nazionalizzazione dell’energia elettrica; i privati vedevano sempre nel Cnrn il cavallo di Troia capace di spezzare le ambizioni degli enti elettrici di entrare nel campo dell’energia nucleare. D’altra parte l’interesse mostrato dai privati per il nucleare aveva una motivazione secondaria, ma strategica; il nucleare richiedeva investimenti in Ricerca e Sviluppo e in tal modo le imprese elettriche private volevamo mostrare che la loro non era una semplice sinecura ma che parte degli utili venivano investiti in ricerca. Questo atteggiamento avrebbe potuto contrastare le affermazioni dei nazionalizzatori che vedevano negli industriali elettrici privati capitalisti che operavano a rischio zero.
Il Comitato si era di fatto trasformato in un grande ente di ricerca, dotato di un patrimonio tecnico-scientifico di prim’ordine, che amministrava ragguardevoli somme di denaro e aveva ormai 1.700 dipendenti. Nell’agosto 1960 il Cnrn si trasformava in Cnen. L’istituzione del Cnen permetteva di sanare le situazioni anomale create con la costituzione dell’Immobiliare Ispra e della Nuclit, che furono sciolte devolvendo i patrimoni al nuovo ente. Il Cnen era presieduto dal Ministro dell’Industria ed era retto da una Commissione direttiva; segretario generale veniva confermato Felice Ippolito.
Ippolito, Amaldi e Angelini
Il “caso Ippolito”
Con gli anni Sessanta iniziava in Italia una nuova fase politica, del cui avvio faceva parte anche l’accordo raggiunto alla fine del 1962 sulla nazionalizzazione dell’energia elettrica. Subito dopo l’istituzione dell’Enel si scatenò il “caso Ippolito”; una bufera costruita sul nulla dalla politica, dai media, da alcuni boirdi di stato e dagli ex-eletrici privati. Il l0 agosto 1963, mentre era in carica il governo “balneare” presieduto da Giovanni Leone, l’agenzia di stampa del Psdi pubblicò una nota di Giuseppe Saragat: il leader socialdemocratico scriveva per difendere i vertici dell’Enel dalle “indiscrezioni in chiave polemica” pubblicate da L’Espresso del 4 agosto e “dovute indubbiamente a uno dei Consiglieri dell’Enel sulla prima relazione del Direttore Generale Professore Angelini”. Dopo aver lodato gli amministratori dell’ente elettrico (il direttore generale Arnaldo Maria Angelini e il presidente Vito Di Cagno) per i loro primi mesi di attività, Saragat passava ad attaccare violentemente e “inspiegabilmente” (come noterà il 12 agosto l’Avanti!, organo ufficiale del Psi) la gestione del Cnen. Dopo essersi addentrato in “problemi puramente tecnici coi quali – scriverà di nuovo l’Avanti! – non ha mai avuto particolare dimestichezza”, Saragat se la prendeva con “l’ossessione dell’energia atomica” e concludeva che l’opzione nucleare era un’enorme spreco di denaro pubblico. Anche l'Unità e la Voce repubblicana difesero Ipolito e il Cnen. Nella settimana dal 10 al 17 agosto il leader del Psdi dedicò ben cinque note al Cnen, attaccando l’ente e il suo segretario generale Ippolito. Le note di Saragat innescarono una violenta polemica giornalistica e politica che rapidamente si trasformò in una campagna di stampa contro Ippolito e il Cnen: il 18 agosto un altro esponente socialdemocratico, Luigi Preti rinnovava l’attacco a Ippolito ponendo il problema della sua permanenza nelle cariche di segretario generale del Cnen e di consigliere d’amministrazione dell’Enel; il 20 agosto, intervistato da Piero Ottone, Saragat spiegava che la polemica sull’ente nucleare era un confronto fra due diverse concezioni del centro-sinistra, fra chi come lui voleva che si affrontassero i problemi concreti e chi invece mirava “alla formazione di centri di potere per prendere in mano le leve di comando di tutta la vita economica nazionale”; intanto sulla stampa iniziarono ad apparire notizie su possibili interessi personali nella gestione del Cnrn. Il 31 agosto Togni sospese Ippolito dalle funzioni di segretario generale e nominò una commissione d’inchiesta ministeriale. Il l7 settembre il Consiglio d’amministrazione dell’Enel sottopose la questione dell’incompatibilità degli incarichi alle autorità tutorie dell’ente elettrico, che il 14 ottobre rimossero Ippolito. In poche settimane Ippolito passò dall’essere uno degli uomini più potenti della Repubblica alla condizione di un uomo in disgrazia, attaccato da tutti coloro che pensavano di poter guadagnare qualcosa dalla sua caduta. Il 3 marzo 1964, dopo alcuni mesi di indagini, Ippolito fu arrestato, e poco dopo rinviato a giudizio. La conduzione del processo fu caratterizzata da un atteggiamento vessatorio del pubblico ministero, di cui le cronache registrarono le intimidazioni verso i testimoni favorevoli a Ippolito, fino a suscitare critiche pesanti nella stampa estera e anche in quella italiana. Il processo si concluse con la condanna di Ippolito a undici anni di reclusione; qualcuno aveva completato la propria vendetta. La severità della sentenza fu comunque commentata negativamente da tutti, e in particolare dal Corriere della Sera. Successivamente la Corte d’appello operò una sostanziale revisione della condanna, derubricando drasticamente gli addebiti contestati a Ippolito, riconosciuto colpevole soltanto di alcune irregolarità di lieve rilevanza penale. Ippolito uscì dal carcere nel 1968, continuò a dichiarare la propria onestà e iniziò una nuova vita. Fra le sue attività assunse un particolare rilievo quella per la diffusione della cultura scientifica: una battaglia che lo portò alla direzione del mensile Le Scienze, l’edizione italiana di Scientific American da lui stesso promossa e realizzata. La bufera scatenata attorno a Ippolito era una guerra selvaggia i cui attori erano l’Eni, l’Iri, la Finelettrica, le imprese elettriche private, la Dc, il Pci, il Psi, una lotta troppo intricata e subdola per le spalle di Ippolito. Sicuramente un grave colpo per lo sviluppo del nucleare in Italia. Dopo due anni di prigione Ippolito riceve la grazia dallo stesso Saragat impallinatore divenuto, nel frattempo, Presidente della Repubblica.
La nazionalizzazione dell’energia elettrica.
Nel dicembre del 1962 è approvata la nazionalizzazione dell'energia elettrica. Viene coronata da successo la campagna, avviata nel 1955 dagli Amici del Mondo, e sostenuta successivamente da Riccardo Lombardi, Antonio Giolitti, Pietro Nenni, Emilio Colombo, Enrico Mattei. Le società elettriche private avevano cercato di giocare la carta dell'innovazione e della ricerca nucleare, per mostrare che la loro non era una pura rendita di posizione, ma, alla fine, tra l'approccio programmatorio e quello di mercato, prevale il primo. Pianificazione e benefici sociali vengono preferiti a competizione e profitto, l'impostazione liberista del primo dopoguerra è abbandonata. In quegli anni non è facile prevedere quale dei due sistemi sia migliore, così come, nella necessità di irrobustire il sistema economico, è difficile trovare il punto di equilibrio, tra mercato e sociale. Quel che appare subito certo è che, con la nomina a presidente dell'Enel del democristiano Vitantonio Di Cagno e a vice-presidente del socialista Luigi Grassini, inizia ufficialmente l'era delle lottizzazioni e dei boiradi nel sistema energetico nazionale. La lottizzazione all'Enel ha caratteristiche precise; il consiglio di amministrazione è composto da soggetti espressione dei partiti di governo e di opposizione. A ciascun consigliere è affidata un'area di responsabilità, con tanto di deleghe, cosicché l'ente risulta articolato in tante sotto-aziende a capo di ciascuna delle quali si trova un consigliere con compiti molto vicini a quelli di un vero e proprio amministratore delegato; il capitalismo manageriale di stato per il nuovo Ente elettrico parte subito azzoppato.
Quando nel 1958 Amintore Fanfani aveva aperto la terza legislatura rilanciando, con le dichiarazioni programmatiche del suo governo, il dibattito politico sulla nazionalizzazione, si era parlato della costituzione di un Ente Nazionale per l’Energia (Ene), attraverso l’ampliamento dell’Agip Nucleare e della Simea, costituite per mettere un piede nell’industria elettrica passando per la porta del nucleare. Questa ipotesi era poi tramontata non solo per l’opposizione dei gruppi elettrici privati e della cosiddetta “destra economica”, ma anche per la netta contrarietà dell’Iri, che con la Finelettrica guidata da Angelini aveva già in mano una quota assai significativa dell’industria elettrica italiana, ed era disposta ad entrare in società con l’ente petrolifero, ma non a farsene soppiantare. La morte di Mattei nel 1962 aveva poi privato di uno dei suoi protagonisti naturali la fase finale del dibattito sulla nazionalizzazione. Le due ipotesi in campo erano a quel punto la “irizzazione” delle società elettriche attraverso l’acquisto dei pacchetti di controllo dei gruppi privati da parte della Finelettrica, oppure la costituzione di un ente elettrico di Stato che espropriasse le società private, indennizzandone i proprietari (i cosiddetti “indennizzi elettrici”). Le due strade avevano ricadute diverse sui futuri assetti del potere economico in Italia. La prima ipotesi aveva come portabandiera l’economista democristiano Pasquale Saraceno, uno dei maggiori teorici dell’impresa pubblica, e aveva dalla sua il minor costo, il rispetto dei diritti degli azionisti minori e la buona prova di capacità manageriale che l’Iri aveva dato fino a quel momento. La seconda ipotesi era maggiormente gradita ai grandi gruppi privati non solo elettrici, perché gli indennizzi avrebbero offerto nuove risorse economiche e nuovi spazi di iniziativa all’imprenditoria privata, che si sentiva incalzata e soffocata dalla presenza dello Stato nel sistema economico italiano. Questa seconda strada era appoggiata da un fronte composito, che andava dalla “destra economica” ai partiti di sinistra preoccupati da un’ulteriore possibile crescita del potere dell’Iri, saldamente controllato dalla Dc. La nazionalizzazione fu attuata seguendo questa seconda ipotesi, e portò alla costituzione dell’Enel, a carico del quale rimase poi l’onere degli indennizzi elettrici: il costo dell’operazione fu quindi più elevato, e condizionò le disponibilità finanziarie e le strategie industriali del nuovo ente. Dal punto di vista tecnico, in ogni caso, il controllo dell’Enel fu assunto dal management della Finelettrica, il cui presidente Angelini fu a lungo direttore generale e poi presidente dell’ente elettrico di Stato; fu questo staff, integrato da una parte della dirigenza tecnica delle società private, a realizzare l’unificazione del sistema elettrico e il completamento della rete nazionale, che sono tra
i maggiori meriti storici dell’Enel. Restava l’incognita del nucleare: solo la nazionalizzazione poté infatti sbloccare l’approvazione della legge sugli usi pacifici dell’energia nucleare (legge 1860 del dicembre 1962), che in diverse versioni si era trascinata in Parlamento per due legislature. Con essa venivano precisati il ruolo e i compiti del Cnen relativamente ai vari aspetti del settore, dalla ricerca applicata e fondamentale (quest’ultima in gran parte svolta dall’Infn) ai controlli sugli impianti. Il combinato disposto delle due leggi (nazionalizzazione e regolamentazione del nucleare pacifico) chiariva gli aspetti essenziali del rapporto fra ente nucleare ed ente elettrico riguardo allo sviluppo dell’energia nucleare: al Cnen toccavano, accanto ai compiti di promozione, indirizzo e finanziamento della ricerca applicata sui reattori e su tutti gli ambiti collegati allo sviluppo della nuova fonte energetica, anche il controllo sulla sicurezza delle centrali, sulla loro adeguatezza progettuale e il parere sulla loro localizzazione. All’Enel toccava invece lo sviluppo dell’energia nucleare nell’ambito del sistema elettrico nazionale, decidendo la realizzazione delle centrali, stipulando gli accordi coi relativi costruttori e fornitori di combustibile, e gestendone l’esercizio; per fare questo l’Enel si avvalse, oltre che delle proprie strutture aziendali, anche dei propri centri di ricerca industriale, fra cui lo stesso Cise, le cui quote di controllo era pervenute all’ente elettrico con la nazionalizzazione.
Il terreno privilegiato della discussione sul nucleare, sia prima che dopo la nazionalizzazione, era il problema della sua competitività nel medio periodo e quindi le previsioni sul ruolo che era destinato a svolgere per assicurare al paese la soddisfazione dei fabbisogni energetici. Anche una parte delle polemiche contro Ippolito nell’estate del 1963 avevano ruotato attorno a questo tema. All’inizio degli anni Sessanta, la scarsa convenienza della fonte nucleare in termini di costo era un dato di fatto, ma nessuno poteva prevedere quando la situazione sarebbe cambiata. Nel frattempo, sostenevano i gruppi privati (e con loro Vittorio De Biasi, il primo presidente del Cise), era necessario sperimentare la produzione elettronucleare su scala industriale, ma non era conveniente assumere impegni massicci per la realizzazione di nuovi impianti. Ippolito, al contrario, riteneva che un impegno nucleare su larga scala e di lunga durata (che in Italia appariva alla portata solo di un ente pubblico) avrebbe reso la fonte nucleare più conveniente di quella termoelettrica tradizionale, e perciò considerava sbagliato procedere con troppa cautela. Anche per questo la sua uscita di scena rappresentò un segnale negativo per quanti auspicavano un rapido sviluppo del nucleare. La vicenda di Ippolito è spesso considerata emblematica di una crisi istituzionale che investì, con gravissime conseguenze, l’intero sistema della ricerca scientifica in Italia. Ma le sue conseguenze più dirette riguardarono ovviamente la politica energetica. La nazionalizzazione elettrica e i programmi del Cnrn avevano creato molte aspettative tra gli addetti ai lavori, i quali prevedevano un rapido e massiccio sviluppo del nucleare civile in Italia. E quindi l’oggettivo indebolimento del Cnen seguito al “caso Ippolito” ebbe effetti negativi che solo in parte l’Enel guidato da Angelini poté compensare: l’ente elettrico, infatti, era a sua volta frenato dal peso di una situazione finanziaria le cui difficoltà si acuirono per effetto della crisi economica degli anni Settanta. Si ebbe così un marcato rallentamento dello sviluppo nucleare italiano, proprio negli anni in cui gli altri paesi europei potenziavano la loro produzione elettronucleare, per giungere infine a coprire con questa fonte una larga quota del loro fabbisogno.
Enrico Mattei in visita alla Centrale di Latina
Tre centrali in esercizio
“I tre impianti in fase di realizzazione – scriveva nel 1960 Franco Castelli – rappresentano i tre tipi che sono oggi universalmente riconosciuti come i più promettenti per la costruzione di centrali nucleari; tra qualche anno il nostro paese potrà ricavare dall’esperienza acquisita durante la costruzione e l’esercizio di questi tre impianti informazioni utilissime per valutare in termini realistici l’effettivo contributo dell’energia nucleare per risolvere i problemi energetici del nostro paese”. Castelli sapeva bene di cosa parlava: direttore generale della Selni, e direttore del settore centrali termiche della Edison, era stato dal 1956 al 1960 uno dei componenti del Cnrn guidato da Ippolito.
La prima centrale nucleare a entrare in funzione fu quella voluta dall’Eni e realizzata dalla Simea, la cui costruzione era iniziata nel novembre 1958. La Simea era stata costituita dall’Agip Nucleare (75%) e dalla Finelettrica (25%), ed era stata presieduta personalmente da Enrico Mattei fino al momento della sua scomparsa. La centrale era situata a Torre Astura, vicino a Latina, e aveva una potenza di 210 MW. Il reattore raggiunse la criticità il 27 dicembre 1962. Questa fase non rappresentava ancora l’inizio della produzione: questa avvenne nel maggio 1963; la centrale effettuò allora il “primo parallelo” con la rete elettrica, cioè fu posta in condizione di immettervi l’energia prodotta. La centrale raggiunse poi la potenza nominale per cui era stata costruita nel dicembre 1963, e iniziò la produzione commerciale nel gennaio 1964.
Nel giugno 1963, frattanto aveva raggiunto la criticità la centrale costruita dalla Senn alla foce del Garigliano. Come si è già detto, la Senn era nata con l’uscita delle società pubbliche dal capitale della Selni, e aveva realizzato la centrale grazie a un accordo e al finanziamento della Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo (Birs), nell’ambito del progetto Ensi. La Senn era una società sotto il totale controllo dell’Iri, ma al suo capitale partecipavano, assieme alla Finelettrica, anche la Finmeccanica (con il 15%) e la Finsider (col 10%). La costruzione era iniziata nel novembre 1959, esattamente un anno dopo l’avvio del cantiere della Simea, ma la criticità del reattore fu raggiunta in tempi più brevi, appena sei mesi dopo la centrale di Latina. La centrale del Garigliano aveva una potenza nominale più bassa (160 MW), che fu raggiunta nel maggio 1964, e fu immediatamente seguita dall’avvio del funzionamento commerciale. Se a Latina tra l’inizio della costruzione e l’entrata in servizio commerciale della centrale erano trascorsi 5 anni e due mesi, per il Garigliano erano occorsi 4 anni e sei mesi.
La Centrale del Garigliano
Dello stesso ordine fu il tempo necessario tra l’inizio della costruzione della centrale Selni di Trino Vercellese, nel luglio 1961, e la sua entrata in funzione commerciale, nel dicembre 1965. La centrale aveva raggiunto la criticità nel giugno 1964; il primo parallelo con la rete era avvenuto nell’ottobre 1964. “La sua realizzazione – scriveva il presidente della Selni Giorgio Valerio, ricordando i numerosi ostacoli frapposti da parte del Cnrn di Ippolito e delle industrie pubbliche concorrenti per ritardare la costruzione della centrale – per fatti del tutto estranei alla nostra volontà e il cui racconto tutto documentato rassomiglierebbe molto più a un romanzo giallo che alla cronistoria di una seria realizzazione industriale, è costata tempo e fatiche veramente inimmaginabili”. La centrale di Trino era stata il risultato dello sforzo congiunto di buona parte dell’industria privata italiana, non solo elettrica: alla Selni partecipavano infatti le società elettriche del Gruppo Edison, a cui si doveva l’iniziativa, la Sade, la Ste, la Valdarno, la Società Generale Elettrica della Sicilia, ma anche la Falck e l’Italcementi. Alla Selni partecipava anche un ente elettrico pubblico, risultato della nazionalizzazione elettrica francese, la EdF, “anch’essa come le altre partecipanti – scriveva ancora l’ingegner Valerio – interessata ad acquisire le cognizioni e l’esperienza che ci si riprometteva di ottenere”. (Secondo gli strani giochi del destino, nel 2011, la Edf assumerà il controllo della società elettrica Edison).
Vale la pena di ricordare, a questo proposito, che agli inizi degli anni sessanta l’Italia era il secondo paese europeo come produttore di energia da fonte nucleare, dopo la GB.
E perché l’esperienza di Trino appariva ai francesi più interessante delle altre in corso in Italia? Ideata per prima e realizzata per ultima, la centrale della Selni aveva caratteristiche particolari rispetto alle altre, non solo come filiera, ma anche come potenza dell’impianto. Questa era stata prevista per 134 MW, portata a 165 nel 1959, quando il contratto con la Westinghouse aveva dovuto essere rinegoziato per ragioni finanziarie oltre che tecniche e politiche, era poi salita a 180 MW all’inizio dei lavori, ed era infine divenuta di 270 MW, grazie all’aggiunta di una seconda turbina. Questo ne faceva, al momento dell’inaugurazione, uno dei reattori nucleari più potenti al mondo, e fra i tre italiani quello nel quale il costo di produzione dell’energia era più basso (L.7/kWh). Le tre centrali presentavano anche altri aspetti interessanti: in tutti e tre i casi i committenti italiani avevano ordinato impianti ancora sperimentali, senza prototipo in esercizio, costruiti in parallelo con le prime realizzazioni di reattori dello stesso tipo negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Il prototipo della centrale Selni di Trino era la centrale Yankee di Rowe, nel Massachusetts, che iniziò la produzione nel 1961: solo per gli ostacoli posti dal Cnrn quella di Rowe entrò in esercizio prima che la costruzione di Trino fosse iniziata. Il prototipo della centrale Senn del Garigliano era invece il reattore di Dresden, vicino a Chicago, entrato in funzione nel 1960. L’impianto di riferimento della centrale Simea a Latina era invece il reattore inglese di Bradwell.
Le conseguenze della scarsa maturità tecnologica degli impianti si videro nella successiva fase di esercizio delle centrali, con due lunghe fermate del reattore di Trino e la chiusura del Garigliano nel 1981, sei anni prima che il referendum fermasse le altre centrali. Nell’insieme, la centrale di Latina diede le prestazioni migliori, registrando un funzionamento accettabile e continuo. L’alto costo di realizzazione degli impianti nucleari e il costo di esercizio relativamente basso avevano un’incidenza diretta sul costo del kWh nucleare, che risultava tanto più ridotto, quanto più elevata e continua era la produzione di elettricità e dunque l’affidabilità degli impianti. “Tenuto conto dell'incidenza che l’affidabilità ha sul costo di produzione del kWh – scriveva Angelini nel 1970 – appare evidente la necessità di ponderare con la massima attenzione l’opportunità di effettuare economie nel costo di impianto, che potrebbero comportare una minore affidabilità, e quindi in ultima analisi uno svantaggio”.
Iniziati prima della nazionalizzazione, gli impianti nucleari ultimati e pronti per l’esercizio dovevano essere consegnati all’Enel. I relativi decreti furono emessi nell’ottobre 1963 (Latina), nel dicembre 1964 (Garigliano), e nel gennaio 1965 (Trino), anche se l’effettivo trasferimento all’Enel richiese oltre un anno, ed ebbe luogo nel dicembre 1964 per quanto riguarda Latina, e nel gennaio e febbraio 1966 rispettivamente per il Garigliano e per Trino: nell’insieme si trattava di una potenza di oltre 600 MW, con una produzione che raggiunse nel 1965 i 3,5 miliardi di kWh, pari al 4,2% della produzione totale di energia elettrica; quando nel settembre 1964 si aprì la nuova conferenza di Ginevra, l’Italia poteva presentarsi come il terzo paese occidentale per potenza elettronucleare in esercizio, dopo gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. In conclusione vale la pena di osservare che le tre centrali furono realizzate in tempi ragionevoli (circa cinque anni), rispettando il calendario prestabilito, e rimanendo all’interno dei costi preventivati: tre eventi che non si realizzeranno più. Annullata la concorrenza interna scompariranno anche efficienza ed afficacia che avevano da sempre caratterizzato il settore elettrico. Con la fine della terza fase del Prdp, nel 1963, e con la disponibilità dei costruttori (prima General Electric e poi Westinghouse) a vendere centrali nucleari a prezzo fisso e chiavi in mano, si fa iniziare convenzionalmente la “fase commerciale” degli impianti nucleari. Ed è in questa fase che si trovò a operare l’Enel, che pur potendo far tesoro dell’esperienza acquisita con gli impianti “di prima generazione”, dovette misurarsi con un mercato nucleare strutturalmente diverso e con nuove condizioni socio-politiche al contorno. I numerosi ostacoli incontrati dalla centrale di Trino, poi, prefigurano le difficoltà, non tutte di carattere tecnico e non tutte inevitabili che cospargeranno di ostacoli il futuro sviluppo del nucleare italiano.
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Eugenio Caruso
4 dicembre 2012
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