Ogni legge trasgredita troppo spesso è cattiva; spetta al legislatore abolirla o emendarla.
Marguerite Yourcenar
Congresso di Barcellona - Novembre 2012
Con questa Parte III prosegue la pubblicazione di una serie di articoli comparsi su Ecoscienza 5/2012 che illustrano, a 360 gradi, lo spirito e la sostanza delle smart city. Per gli articoli della Parte I, clicca QUI. Per gli articoli della Parte II clicca QUI.
9. La mobilità urbana diventa smart
In queste note vorrei provare a riflettere, in estrema sintesi, sul tema della smart mobility. La prima considerazione riguarda le soluzioni avanzate che si possono attuare per migliorare la mobilità nelle città ma, ancor prima, impongono la dichiarazione di un assunto per me irrinunciabile: la mobilità (e la sua versione smart) appartengano a un aggregato ben più ampio, la disciplina urbanistica. Ogni città, infatti, può ingegnarsi nel trovare soluzioni avanzate (infrastrutturali, tecnologiche, amministrative, gestionali), ma se non riesce a promuove una pianificazione territoriale e dei trasporti integrata e sapiente, vale a dire se non prova a coniugare indissolubilmente la localizzazione dei grandi episodi urbani con le reti di trasporto, otterrà solo benefici di brevissima durata. Solo attraverso azioni strutturali capaci di armonizzare le funzioni urbane essa saprà garantire condizioni di accessibilità equa, sostenibile, multimodale e potrà dunque essere considerata smart. Da qualche lustro assistiamo a una tendenza che, purtroppo e con velocità crescente, conduce le città in direzione opposta. Il progressivo e veloce inurbamento nelle metropoli dei paesi emergenti presenta quasi sempre i caratteri del caos e della spontaneità più marcati, trasformando le opportunità teoricamente offerte dall’agglomerarsi stesso in drammi del disagio, dell’emarginazione, della criminalità, della fame e della povertà. Laddove la disponibilità economica, per fortuna, cresce, la corsa sfrenata al possesso di autovetture private, non di rado residuati tecnologici dei paesi più ricchi, determina condizioni di congestione e di inquinamento inimmaginabili. Tendenze che generano l’esatto opposto della smart city, forse più facile da realizzare in quei contesti che hanno già vissuto il ciclo della vita urbana. In queste città, ove la coscienza ambientale è in progressiva crescita, ove la disponibilità di elevati redditi ha innescato comportamenti ed esigenze di connettività fisica e virtuale molto spinte, ove i riferimenti agli status symbol tradizionali scompaiono e l’uso dei sistemi di trasporto collettivo sono divenuti parte della vita quotidiana, nascono le condizioni per promuovere la smart mobility. Per offrire, dunque, alternative concrete all’uso delle autovetture private, realmente in grado di garantire analoghi tempi di percorrenza, qualità, capillarità ed estensione temporale dell’offerta, occorre individuare una nuova concezione del muoversi, dello spostarsi. Solo così sarà possibile mutare radicalmente le condizioni della mobilità urbana nelle città esistenti e nelle loro estensioni metropolitane. La disponibilità a utilizzare in forma più estensiva il trasporto pubblico costituisce il punto di partenza per costruire l’alternativa all’uso dell’auto, delegando a quest’ultima la copertura dei segmenti di mobilità che le competono. Contemporaneamente la domanda di mobilità, in particolare nelle economie mature, esprime sempre più intensamente l’esigenza di soddisfare spostamenti “porta a porta” e trova spazio progressivo, seppure a fatica, l’idea che sia più conveniente disporre di un veicolo piuttosto che possederlo. Così il car sharing (ancora poco) e il bike sharing (molto di più) conquistano spazio e contribuiscono, in sinergia con il trasporto collettivo tradizionale, a coprire il primo e l’ultimo miglio. Ci si sta abituando all’idea che al trasporto pubblico non sempre e non ovunque si debba associare il termine “collettivo”, ma si possa anche immaginare un servizio “pubblico individuale”, dando vita alla Mobilità Graduale, composta da macro e da micro mobilità. La prima consente di realizzare i grandi spostamenti ed è in grado di soddisfare consistenti quote di domanda concentrata nel tempo, nelle relazioni e nello spazio. Soprattutto nei grandi contesti urbani la macro mobilità tende a definire una maglia larga, che quasi sempre produce vaste aree prive di adeguata copertura e determina distanze inaccettabili rispetto alle esigenze di spostamento. Questa è la principale ragione della difficoltà a raggiungere quote di share modale decisamente a vantaggio dei trasporti pubblici. La seconda può essere definita come sistema di trasporto pubblico individuale, realizzata mediante veicoli compatti a emissioni basse o nulle. I veicoli sono resi disponibili presso punti di aggregazione disposti a copertura di territori prevalentemente urbani e suburbani, in numero adeguato. Il sistema è destinato principalmente a integrare la rete di trasporto pubblico collettivo di superficie e sotterranea (treni, metropolitane, tram, bus), allo scopo di garantire la possibilità di coprire con mezzi pubblici l’intera distanza che separa il luogo di partenza da quello di arrivo. La micro mobilità nulla sottrae agli investimenti che le città e le aree metropolitane affrontano per potenziare la rete portante dei sistemi di trasporto, ma ne costituisce idealmente il sistema capillare di diffusione nel territorio, consentendo di raggiungere destinazioni “remote”, non accessibili a piedi a partire dalle fermate delle linee forti. Queste fermate divengono, idealmente, luoghi di consolidamento del tessuto urbano ove possono trovare ospitalità funzioni altamente attrattive e generatrici di consistenti spostamenti. L’intorno immediato a questi luoghi, vere e proprie nuove centralità urbane, offrirà quelle condizioni di accessibilità equa, multimodale e sostenibile che danno vita alla smart city. Non solo: i contesti collocati a ragionevole distanza dalle fermate, opportunamente fecondati dalla micro mobilità, risulteranno accessibili con il trasporto pubblico individuale, offrendo una radicale alternativa all’auto privata, nella logica dell’uso della “carota” (offerta di servizi efficienti) in luogo del bastone (contenimento forzoso della domanda). Il modello ideale prevede la disponibilità di molteplici alternative: biciclette tradizionali e mezzi rigorosamente elettrici a noleggio. Dunque, a cambiare radicalmente i termini della questione sarà l’uso condiviso dei micro-veicoli a noleggio, idealmente utilizzati da 10-15 utenti diversi nell’arco della giornata e disponibili in eco-stazioni collocate secondo una seria analisi della domanda di mobilità a una distanza oscillante fra i 300 e i 400 metri l’una dall’altra. Le esperienze legate all’uso di biciclette a noleggio sono molto diffuse (Europa, Stati Uniti e Australia), mentre quelle che rendono disponibili anche micro-veicoli elettrici sono più rare, ma in progressiva estensione. Le più note in Europa sono Parigi, Lione, Amsterdam, Berlino, Monaco di Baviera; negli Stati Uniti, San Diego e Austin. Alcuni esercizi sperimentali condotti su un ampio spettro di città dimostrano con chiarezza le potenzialità della micro mobilità nella costruzione di città accessibili e smart.
Fabio Casiroli
10. City 2.0, Energia per una città sostenibile
A partire dalle prime definizioni, si sono succedute molte revisioni del termine smart city che, proprio per il carattere multidisciplinare che l’argomento riflette, risente di diversità di linguaggi e obiettivi. Per questo non è possibile dire che esista a oggi una definizione univoca universalmente riconosciuta. Le molte definizioni sottintendono un insieme coordinato di interventi che mirano a rendere la città più sostenibile. Innanzitutto da un punto di vista energetico ambientale, attraverso scelte e tecnologie che permettono di risparmiare energia, di utilizzare energia rinnovabile sia nelle nostre case quanto nelle strade; da un punto di vista funzionale, assicurando qualità dei servizi urbani nel rispondere alle richieste degli utenti e nello sviluppare capacità di adattamento. Ma la sostenibilità è intesa anche nella qualità stessa della vita a partire dallo sviluppo della partecipazione sociale, elemento fondante del “senso di comunità” (“smart communities”) e nell’indotto produttivo collegato ai nuovi servizi. Infine, la sostenibilità è intesa anche nel senso di capacità della città di pianificare una crescita coordinata, preservare un corretto rapporto con il verde, reagire in modo coordinato e flessibile alle emergenze ambientali come a quelle dovute ad attività umane, garantire la sicurezza sotto tutti i punti di vista. Per realizzare questo “collante” tra tante tematiche si fa ampio utilizzo di tecnologie Ict e soprattutto di “intelligenza” e di capacità di progettazione sistemica, da cui l’espressione smart. Tale integrazione poggia infine sulla capacità di costruire “modelli di business” che possono auto sostenersi economicamente combinando risparmi energetici, offrendo nuovi servizi e condividendo infrastrutture Ict fra molte applicazioni. Ciò che differenzia l’approccio smart city rispetto al passato è quello di vedere in un’unica cornice tanti aspetti che fino a oggi sono stati affrontati separatamente. Si pensa alla città come a un insieme di reti interconnesse e l’integrazione di tali reti in un disegno coordinato rende possibile nuovi servizi e apre possibilità di trasformazione progressiva della città. Uno degli aspetti centrali si focalizza sulla idea che il cittadino possa partecipare attivamente alla modellazione progressiva della città sui propri bisogni (“user produced city”). Questa idea si basa su una accezione dinamica, elastica ed evolutiva della città in cui la pressione evolutiva sia fondata sulla continua interazione dei cittadini. La realizzazione di questo concetto richiede alcuni passi fondamentali:
1) che il cittadino possa avere la possibilità di una facile interazione
2) che esista una infrastruttura sensoristica, Ict e modellistica in grado di raccogliere in tempo reale il bisogno e predire la richiesta del cittadino
3) che esista la possibilità di riarticolare i servizi in modo dinamico per far fronte alla richiesta.
Quest’ultimo punto è forse il più impegnativo, perché implica servizi flessibili, ma è la chiave di volta per mettere in moto il meccanismo della “resource on demand”, ossia fornire il servizio esattamente nel luogo, nel tempo e nella intensità richiesta. È questo il punto di contatto fra tematiche energetiche e tematiche sociali, perché indubbiamente l’ascolto del cittadino ne stimola la partecipazione; l’accuratezza nello spendere le risorse è la via per l’efficienza energetica (si pensi alle applicazioni di “energy on demand”, “mobility on demand”, “lighting on demand”). È inoltre il punto di convergenza di aspetti legati alla replicabilità dei progetti, in quanto uno degli elementi base che, insieme alla vendita dei nuovi servizi, ne permettono il ritorno economico e quindi rendono realisticamente definibile l’intervento come “modello” per la trasformazione della città. Questo insieme di aspetti tecnologici potrebbe essere definito come le tecnologie “abilitanti” per lo sviluppo della City 2.0. Questo termine, mutuato dal web 2.0 sta a identificare un valore collettivo che si crea sulla base della interazione di tante persone. Questo necessita di una capacità di creare il contesto urbano e sociale adatto a favorire l’evoluzione della città e richiede pertanto una vera e propria capacità di “urban designer” inteso non soltanto dal punto di vista infrastrutturale, ma anche funzionale. Si tratta di una figura professionale che si sta sviluppando in questi anni, ma ancora non è stata codificata dal punto di vista teorico. Nello spazio urbano è possibile creare nuovi modelli di interazione persona ambiente che potrebbero avere la specifica finalità di creare scambio, coesione, informazione in contesti ibridi tra incontro fisico e incontro nella rete virtuale. Molti oggetti urbani, attualmente mono-funzione, possono divenire multifunzionali. I lampioni dell’illuminazione pubblica possono diventare intelligenti e ospitare sistemi multisensoriali (traffico, qualità dell’aria, sicurezza, attività) così come chioschi, fermate e paline dell’autobus o panchine (“interactive city”). Perfino gli edifici pubblici possono essere dotati di una “pelle interattiva” per permettere comunicazione a distanza, dare informazioni, creare punti di incontro o di supporto sociale o di creazione collettiva. Il sistema della mobilità sembra avere nelle corde automobili e mezzi pubblici non inquinanti che dialogano tra loro e con le strutture stradali. Nello spazio domestico le “smart homes” promettono “smart appliances” (efficienti e con capacità di interazione coordinata nella abitazione), supporto per la conduzione energetica dell’abitazione, supporto per la sanità della persona (e-health) e per le fasce di popolazione più deboli (anziani, malati), mentre negli uffici i temi energetici si fondono con un livello di comfort garantito. A livello di città, sistemi di supporto alle decisioni poggiati su reti di monitoraggio possono garantire molto più efficacemente la sicurezza e la funzionalità delle reti urbane, una migliore capacità di pianificazione, mentre servizi flessibili (illuminazione pubblica, trasporto, smart grids, acqua, rifiuti, rete del gas) potranno generare risparmi energetici e utilizzo di fonti rinnovabili secondo il principio della “resource on demand”. Infine, le infrastrutture per la connettività potranno giuocare ruoli significativi sia a livello di maggiore partecipazione del cittadino alle scelte della città attraverso l’evoluzione del rapporto tra cittadino e pubblica amministrazione (l’e-government), sia a livello locale sviluppare le comunità smart a livello di quartiere e di condominio stesso, creando il contesto di scambio per il recupero della identità storica e l’emersione dei nuovi movimenti culturali. Enea è impegnata nello sviluppo di tali modelli e ha avviato una serie di progetti nazionali e internazionali, tra cui la realizzazione di uno “Smart Ring” a L’Aquila (smart lighting, smart buildings network, smart mobility, smart environment, smart participation), una smart street a Potenza e un’infrastruttura integrata tra smart grids, building network e city data center a Bari.
Mauro Annunziato
11. Socialmente per tutti
Un welfare locale intelligentemente per tutti. Ma soprattutto per le donne, gli anziani, i bambini, le persone disabili, gli immigrati, le altre fasce deboli della popolazione o quelle a rischio di emarginazione. Smart grazie anche all’apporto del non profit. È così che le città diventano davvero accoglienti: più servizi socio-sanitari e socio-educativi, meno barriere architettoniche e culturali, più integrazione for all. Se n’è accorta perfino la Commissione europea, che ha inserito anche la crescita inclusiva, la coesione sociale e la lotta alla povertà all’interno della strategia Europa 2020. Ma tra tagli al welfare e nuovi Lea (Livelli essenziali di assistenza) ancora in fase di rimodulazione, il traguardo non sembra poi così facilmente raggiungibile in Italia. Soprattutto se si pensa che la spesa sociale nella nostra penisola – in linea con la media europea stando ai dati Eurostat 2009 – è invece la metà rispetto a quasi tutti gli altri paesi per quanto riguarda famiglia e maternità (4,9%), disoccupazione (2,8%) ed esclusione (0,3%). Eppure le buone prassi non mancano, né a livello nazionale, né posando lo sguardo Oltralpe: pezzi di smart policy sparsi qua e là come in un puzzle.
11.1 Parola d’ordine: integrazione dei servizi
Le politiche socio-sanitarie, così come quelle socio-educative, oggi vanno costruite con una doppia attenzione, alla razionalizzazione e all’equità, dovendo sia rispondere alle spinte di contenimento della spesa pubblica, sia fornire servizi che rispondono ai diritti dei cittadini. Enti locali e privato sociale, così, diventano un binomio inscindibile nelle smart city, perché è dal pubblico e dal terzo settore, insieme, che possono arrivare impulsi innovativi per fornire risposte integrate di presa in carico, vere parole d’ordine nel sistema di welfare mix. Ne è convinto anche Ugo De Ambrogio, direttore dell’area Politiche e servizi sociali e sanitari dell’Istituto di ricerca sociale di Milano: “Le politiche veramente intelligenti – commenta il ricercatore – sono quelle che vanno nella direzione di fornire servizi sempre più mirati evitando di erogare contributi a pioggia. Secondo un nostro studio, su 62 miliardi di euro di spesa assistenziale nel 2010 in Italia, solo 8,6 miliardi sono andati alle Regioni per finanziare i servizi sociali territoriali. Il che significa che lo Stato eroga direttamente molte risorse in prestazioni monetarie, come le indennità di accompagnamento e le integrazioni pensionistiche, che non sono sempre efficaci nel contrastare le situazioni di maggiore disagio e che sarebbe più opportuno trasferire in servizi mirati. E sarebbe intelligente non pensare solo alla marginalità sociale già conclamata, ma fare anche prevenzione e sperimentazione prima che i nuovi bisogni diventino problemi cronici”. Esempi di best practices sono allora l’integrazione dei servizi sociali con quelli per la salute e il lavoro a Copenhagen, il nuovo centro per i ragazzi di strada di Cracovia e gli assistenti personali per la vita indipendente delle persone disabili a Sofia (tutte realtà aderenti alla rete Eurocities). L’Italia può vantare le buone prassi monitorate dall’Osservatorio nazionale sulla famiglia, come i voucher per l’infanzia, i micro-nidi familiari e aziendali, gli sconti per chi ha più di tre figli, i centri giovanili o i servizi domiciliari. E all’ultimo Salone delle autonomie locali di Rimini, che raccoglie il meglio di quanto realizzato dalle pubbliche amministrazioni italiane, il premio Innovazione nei servizi sociali 2009 è andato alla Provincia di Parma, per il suo Protocollo interistituzionale a tutela dei minori vittime di abuso e maltrattamento, e all’Associazione per la promozione della salute mentale di Pinerolo (Torino). Altre menzioni speciali se le sono aggiudicate i centri di sussidiarietà per l’inserimento lavorativo delle persone svantaggiate della cooperativa Capitani coraggiosi di San Benedetto del Tronto (Ascoli Piceno) e il Comune di Samarate (Varese) per un progetto che assegna alcune case popolari a chi si impegna a dare una mano alle persone in situazioni di difficoltà. Ma si possono citare anche i progetti di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati o i casi di studio raccolti nel Catalogo nazionale delle buone pratiche finanziate dal Fondo sociale europeo, promosso nel 2008 dal ministero del Welfare, come Glocal, il Centro di competenza sull’immigrazione di Regione e Confindustria Veneto, il Tempo delle donne (soluzioni per conciliare vita e lavoro femminile nel milanese) e il consorzio Sviluppo e legalità di Palermo, che recupera i beni confiscati alle mafie attraverso nuove cooperative sociali.
11.2 No alle barriere, sì all’accessibilità
Anche l’urbanistica e il sistema dei trasporti devono essere smart e quindi accessibili. Se in Italia, ma soprattutto all’estero, esistono alcuni esempi di architettura e mobilità urbana che seguono il cosiddetto design for all, molto resta ancora sulla carta. Due anni fa, però, la Commissione europea ha istituito il Premio per la città accessibile (Access city award): nel 2011 il riconoscimento è andato ad Ávila (in Spagna), mentre nel 2012 ha vinto Salisburgo (in Austria). Strategie a lungo termine, approccio alla progettazione universale e partecipazione delle persone disabili ai piani per l’accessibilità portano infatti molta più funzionalità per tutti. Dai taxi londinesi alla metropolitana di Copenhagen fino al museo del Louvre di Parigi, che ha ottenuto il marchio di qualità Tourisme et handicap. Passando poi per le aree gioco dei paesi scandinavi – con rampe, maniglie, elementi didattici e sonori – e per il manuale spagnolo “Bar e ristoranti accessibili per tutte le persone”, che dà indicazioni perfino su posate e arredi. Ma le buone prassi non mancano nemmeno sul versante italiano. Come il caso di Parma – la città più a misura di disabilità secondo una giuria composta da Federazione italiana superamento handicap, Associazione nazionale mutilati e invalidi civili e Associazione nazionale dei comuni italiani –, il piano per l’accessibilità urbana di Brescia, il parco delle Libertà di Montesilvano (Pescara), privo di barriere architettoniche, e l’area di ristorazione veloce dell’Autogrill di Ravenna sulla E45, che ha ottenuto il marchio di qualità Design for all Italia. Sul fronte domotica, una menzione speciale va poi a un condominio di edilizia residenziale pubblica di Bologna nato dalla collaborazione tra Comune, Azienda casa, Ausl e Associazione italiana assistenza spastici: una casa popolare con otto appartamenti totalmente accessibili e dotati di comandi automatici. Se parliamo di mobilità alternativa, invece, bisogna citare il servizio di shopmobility, che consente alle persone con difficoltà motorie di noleggiare piccoli scooter elettrici o sedie a rotelle per muoversi liberamente in città, nelle aree verdi, nei centri commerciali o nelle fiere. Nato in Gran Bretagna, questo servizio c’è anche a Genova, nell’Orto botanico di Roma e a Villa d’Este a Tivoli. “Nonostante gli sforzi fatti in questi anni per dare uniformità al sistema – e parliamo del Libro bianco sull’accessibilità e la mobilità urbana voluto dal ministero del Welfare che ha istituito anche la figura del disability manager, delle linee guida ministeriali per la fruibilità di parchi, zone marittime e luoghi di interesse culturale e dei vari piani regolatori comunali – quella che manca è semplicemente la mentalità for all ”, commenta infine Leris Fantini del Centro di ricerca e promozione dell’accessibilità Cerpa Italia.
Sconfortante ma vero.
Michela Trigari
12. L’evoluzione delle strategie per la sostenibilità
Nell’accezione più diffusa, sono smart quelle città che usano le più avanzate tecnologie dellac telecomunicazione e dell’information technology: definizione semplice, ma alquanto riduttiva. In una visione più ampia, smart city è un processo open source, che si costruisce e prende forma dal basso, con il concorso di tanti e che ha il suo focus nelle città: è un paradigma di riorganizzazione urbana con, al centro, i principi dell’attenzione ai bisogni, della gestione oculata delle risorse, della sostenibilità economica, sociale e ambientale. Non a caso diverse città hanno creato vere e proprie associazioni (una fra tutte, “Genova Smart City”) chiamando a raccolta istituzioni, università, enti di ricerca, imprese e società civile, in una versione aggiornata dei Forum di Agenda 21 di non lontana memoria. L’idea di smart city ha radici nell’Agenda digitale europea e, più in generale, nella cosiddetta Strategia Europa 2020, che persegue alti livelli di occupazione, produttività e coesione sociale e un’economia a basse emissioni di carbonio. L’Agenda digitale europea è una delle sette iniziative faro di Europa 2020 e mira a stabilire il ruolo chiave dell’Ict per raggiungere quegli obiettivi. Dunque, smart city non è una semplice diffusione delle tecnologie per aumentare l’efficienza dei processi produttivi, ma un processo che sottende modelli e modalità di sviluppo nuovi, dove le città (soprattutto quelle di dimensione metropolitana) sono titolari di responsabilità politica e non meri attuatori di politiche altrui. Nelle città europee vive l’80% della popolazione e il fenomeno è in costante crescita a livello mondiale, mentre in Europa le città consumano i 3 quarti dell’energia ed emettono altrettanto. Non è immaginabile un’Europa che sia intelligente senza essere sostenibile. Le tecnologie della comunicazione rappresentano dunque un’ incredibile opportunità per dare attuazione a quegli impegni che oltre 2000 Comuni italiani, sottoscrivendo il Patto dei Sindaci proposto dalla Commissione europea, hanno assunto per la riduzione delle emissioni, il potenziamento delle rinnovabili e l’aumento dell’efficienza energetica. Dentro al Piano d’azione per l’energia sostenibile (Paes), i Comuni hanno dettagliato i loro impegni: le aree di intervento più ricorrenti sono quelle dell’efficienza energetica degli edifici, della mobilità e dei trasporti, della pianificazione e della gestione territoriale. L’approccio del Paes si sposa perfettamente con l’idea di smart cities, dove l’ Ict può offrire innovativi strumenti di attuazione. E può anche fornire capacità di adattamento a situazioni che si evolvono: con l’avvento delle rinnovabili, che sono fonti discontinue; è decisiva la capacità di utilizzare l’energia quando c’è. E in questo le tecnologie possono trasformare un sistema pachidermico in un approccio versatile per consumi intelligenti. Non dimentichiamo, però, che l’Ict può dare una grossa mano anche alla trasparenza della pubblica amministrazione, dalla pubblicità dei dati (open data) agli impegni che si assumono per il miglioramento della sostenibilità di una comunità e di un territorio. Senza accessibilità ai dati ambientali non c’è politica ambientale. Quella delle smart cities costituisce allora un’evoluzione dell’Agenda 21 nata a Rio 92 e ribadita formalmente nella dichiarazione conclusiva dalla Conferenza Onu Rio+20. Forse l’Agenda 21 non è più di moda, ma i suoi contenuti e le sue modalità sono ancora, tutte intere, sui nostri tavoli.
Emanuele Burgin
... Tratti da Ecoscienza 5/2012
19 dicembre 2012
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