Ha letto con voce flebile e rotta dall’emozione quelle ventidue righe in latino destinate a cambiare la storia della Chiesa. Ha annunciato di volersi dimettere alle otto di sera del prossimo 28 febbraio. Ha ricevuto l’abbraccio del cardinale decano Angelo Sodano. Poi ha fatto ritorno nell’appartamento papale, dove rimarrà per altri diciassette giorni. Qui, al riparo da sguardi indiscreti, non ha più retto all’emozione e si è commosso. Il volto del primo papa dimissionario dopo sei secoli; Gregorio XII fece la rinuncia durante il Concilio di Costanza (1415-18). Benedetto XVI, 264° successore di Pietro, lascia il pontificato con un annuncio senza precedenti. Una scelta clamorosa, presa in solitudine, «dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio». Una scelta maturata al ritorno dal viaggio del marzo 2012 in Messico e a Cuba. Durante quella trasferta, un successo per l’accoglienza calorosissima, una caduta notturna aveva preoccupato l’entourage. Joseph Ratzinger meditava da diverso tempo la sua scelta. Ne aveva parlato lui stesso nel 2010, rispondendo a una domanda dell’amico giornalista Peter Seewald: «Quando un Papa giunge alla chiara consapevolezza di non essere più in grado fisicamente, mentalmente e spiritualmente di svolgere l’incarico affidatogli allora ha il diritto e in talune circostanze anche il dovere di dimettersi». Ratzinger aveva vissuto da vicino il calvario del predecessore, minato dalla malattia, e aveva fatto già allora intendere che non avrebbe voluto si ripetesse quell’esperienza. Non avrebbe mai voluto essere «gestito» dall’entourage. Nell’ottobre 2002, ancora cardinale, aveva ricevuto da monsignor Pasquale Macchi una copia della lettera con la quale Paolo VI dava disposizioni ai cardinali in caso di prolungata inabilità, invitandoli a convocare il conclave. «Questa è una cosa molto saggia che ogni Papa dovrebbe fare», aveva commentato Ratzinger. Ma l’ipotesi di Paolo VI riguardava una grave inabilità, il fine regno di Wojtyla una malattia invalidante come il Parkinson. Nulla di tutto questo è invece accaduto a Benedetto XVI, che ha l’artrosi ed è debole di cuore, però è riuscito fino ad oggi a svolgere ogni suo compito. «Il Papa non è depresso e non ci sono malattie», ha ripetuto il portavoce padre Federico Lombardi. «Non ci sono segni di decadimento» ha ribadito in queste ore il medico papale, Patrizio Polisca, con un riferimento discreto a facoltà dell’intelletto, che rimangono intatte, come ha dimostrato qualche giorno fa la meditazione tenuta a braccio davanti ai seminaristi romani. E allora, che cosa è accaduto? Perché Ratzinger prima di compiere 86 anni è arrivato a questa clamorosa determinazione, sapendo di provocare un terremoto dentro e fuori la Chiesa? «Il fatto di trovarmi all’improvviso di fronte a questo compito immenso - aveva detto nell’intervista a Seewald, parlando dell’elezione - è stato per me un vero shock. La responsabilità, infatti, è enorme... Il pensiero della ghigliottina mi è venuto: ecco, ora cade e ti colpisce». Il pontificato è stato difficile. Attacchi, crisi, scandali, come quello della pedofilia, che il Papa ha affrontato con una determinazione mai registrata prima, la morte del capo delle guardie svizzere, lo scandalo dello Ior, l'arresto del maggiordomo. Ma anche tensioni nel governo della Curia, cordate, lotte intestine. Difficoltà e resistenze si sono moltiplicate, alcuni progetti iniziati dal Pontefice si sono arenati, dalla «riforma della riforma» liturgica alla pace con i lefebvriani al dialogo ecumenico. Il caso vatileaks ha portato alla luce una realtà desolante, certamente non riducibile soltanto al tradimento del maggiordomo, come hanno potuto accertare i tre anziani e fidati cardinali ai quali Ratzinger ha commissionato l’inchiesta interna, i cui risultati non sono stati resi noti. Più volte negli ultimi anni Benedetto XVI è stato costretto a intervenire direttamente per fare da scudo ai suoi collaboratori, quando nella tradizione plurisecolare della Chiesa era sempre accaduto il contrario. Le difficoltà si sono fatte troppo pesanti, e il carico del pontificato non è stato più sopportabile. Due scelte degli ultimi mesi si comprendono meglio dopo l’annuncio a sorpresa di ieri: il mini-concistoro del novembre 2012, con il quale il Papa, nominando cinque nuovi porporati dai vari Continenti, ha «corretto» la precedente creazione cardinalizia, troppo curiale e troppo italiana. E la nomina a vescovo e Prefetto della Casa Pontificia del suo segretario Georg Gänswein, che evidentemente il Papa ha voluto proteggere. L’annuncio ha colto quasi tutti di sorpresa. Nei giorni scorsi Ratzinger aveva discretamente informato della decisione il cardinale decano Angelo Sodano, ricevuto in udienza venerdì scorso; il Segretario di Stato Tarcisio Bertone e lo stesso don Georg. Non si è consultato con loro, li ha avvertiti di quella determinazione presa «davanti a Dio». Così nel concistoro per le cause dei santi, davanti ai cardinali attoniti, ha potuto annunciare in latino di essere «pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino». Ha aggiunto di essere «ben consapevole» che il servizio del Papa «deve essere compiuto non solo con le opere e con le parole, ma non meno soffrendo e pregando». Però ha concluso: «Nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato». Benedetto XVI ha atteso un periodo di relativa calma, dopo la bufera dei vatileaks, e si è dimesso. Un gesto di libertà e di umiltà, che compie chiedendo «perdono per tutti i miei difetti», lasciando a colui che gli succederà sul trono di Pietro un compito non facile. Ma nella decisione quanto ha inciso anche l'incompatibilità tra il rigore e la serietà tedesca e la faciloneria e l'attitudine alla congiura della Curia? Non essendo riuscito a cambiare la Curia, Benedetto XVI è arrivato ad una conclusione amara: v"cambio io". Si tratta del sacrificio estremo, traumatico, di un pontefice sconfitto da un apparato troppo incrostato di potere per essere riformato. È come se Benedetto XVI avesse cercato di emancipare il papato e la Chiesa cattolica dall'ipoteca di una specie di Seconda Repubblica vaticana; e ne fosse rimasto, invece, vittima. È difficile non percepire la sua scelta come l'esito di una lunga riflessione e di una lunga stanchezza. Le sue dimissioni sono una sorta ribellione di fronte alla deriva di una Chiesa-istituzione passata in pochi anni da «maestra di vita» a «peccatrice»; da punto di riferimento morale dell'opinione pubblica occidentale, a una specie di «imputata globale», aggredita e spinta quasi a forza dalla parte opposta del confessionale. Senza questo trauma prolungato e tuttora in atto, è più comprensibile la rinuncia di Benedetto XVI. È la lunga catena di conflitti, manovre, tradimenti all'ombra della cupola di San Pietro, a dare senso ad un atto altrimenti inesplicabile; e per il quale l'aggettivo «rivoluzionario» suona inadeguato. Un gesto che contribuisce in qualche modo a riportare anche il papato a una dimensione di «normalità» episcopale, con un vescovo di Roma emerito che torna a indossare i panni da cardinale e si ritira in un appartamento dentro al Vaticano. Tra quelle mura - non era mai accaduto - ora alloggeranno il nuovo Pontefice e il suo predecessore. L’ultima sorpresa di Ratzinger. Giova osservare che Ratzinger non parteciperà; all'elezione del suo successore essendo un "semplice" cardinale con più di 80 anni.
Eugenio Caruso - 11 febbraio 2013
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