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L'estinzione dei dinosauri di stato. Politiche economiche dei primi quindici anni del dopoguerra.


Il sovrano si rivolge al mercante e con atteggiamento benevolo e disponibile gli chiede: «Che cosa posso fare per voi?» Il mercante risponde: «Maestà, dateci buona moneta e strade sicure, al resto pensiamo noi»
Kant


Copertina

Con questo quarto articolo proseguo la pubblicazione di alcuni stralci del mio libro storico-economico L'estinzione dei dinosauri di stato. Il libro racconta i primi sessant'anni della Repubblica soffermandosi sulla nascita, maturità e morte delle grandi istituzioni (partiti, enti economici, sindacati) che hanno caratterizzato questo periodo della nostra storia. La bibliografia sarà riportata nell'ultimo articolo di questa serie. Il libro può essere acquistato in libreria, in tutte le librerie on-line, oppure on line presso la casa editrice Mind.
Per il Capitolo III clicca QUI.


La politica economica negli anni cinquanta (1953-1960)
Il successo dell’economia italiana negli anni Cinquanta va cercato anche nella riapertura dei mercati esteri, fortemente voluta da Einaudi. Durante il fascismo l’industria italiana era rimasta molto arretrata rispetto al resto dell’Europa, a causa della politica autarchica. In breve tempo, però, il sistema produttivo italiano può disporre di nuovi processi industriali importati dall’estero, che – associati a una lunga tradizione di capacità artigianali specializzate e alla sovrabbondanza di manodopera a basso costo – consentono prodigiosi recuperi di produttività.
La prima metà degli anni Cinquanta è ricordata dal movimento sindacale come quella degli “anni duri”. La Cgil vede limitata la propria libertà di organizzazione e di riunione, mentre gli imprenditori approfittano della debolezza del sindacato per procedere a drastiche riorganizzazioni. In questo decennio all’interno della Democrazia Cristiana si contrappongono due anime: una che abbraccia la causa della modernizzazione e del liberismo, l’altra che appoggia l’integralismo cattolico, secondo cui la società deve modellarsi sui valori cristiani e rifletterli. Se, a parole, quasi tutti i democristiani affermano di ispirarsi a questi ultimi principi, nella realtà – almeno inizialmente – non si oppongono alla politica liberista di Einaudi. Tale politica ha successo, nei primissimi anni del post-fascismo, grazie al concorrere di quattro elementi:
• in tutti i partiti serpeggia un timore inconscio: tutto ciò che sa di dirigismo e di interventi statali odora ancora di regime fascista;
• dagli stessi liberisti non viene negata quella dose di intervento pubblico di cui l’economia italiana ha sempre goduto;
• le imprese pubbliche sono guidate da buoni manager e da leader carismatici come Enrico Mattei e Oscar Sinigaglia;
• il piano Marshall consente la ripresa dell’industria pesante e la diffusione di tecniche e modelli organizzativi americani.
L’orientamento dei primissimi anni del dopoguerra è però destinato a fallire per il concorrere di un’altra serie di ragioni:
• le imprese del settore bellico privato chiedono il salvataggio e vengono trasferite nel Fim, il Fondo per l’industria meccanica, creato nel 1947 e trasformato in Efim nel 1962;
• lo sviluppo industriale del Mezzogiorno appare improbabile con le sole forze del mercato;
• nessuno si pone seriamente l’obiettivo di avviare una privatizzazione delle aziende in mano allo Stato.
Gli economisti dell’epoca teorizzano un sistema di “economia mista”, in cui le imprese pubbliche operano sul mercato in concorrenza con le imprese private o in quei settori strategici nei quali i privati non avrebbero la forza per operare. Le aziende pubbliche dovrebbero competere sul libero mercato, facendo profitti e assumendo in più l’onere di obiettivi di pubblico interesse. Nella realtà l’impegno di dover far fronte a obiettivi di pubblico interesse è, secondo i manager delle aziende di Stato, talmente oneroso che viene attivato per esse il “fondo di dotazione”, ossia un conferimento di capitale per coprire le perdite di gestione. Questo modello di assistenzialismo imprenditoriale sarà una delle cause del degrado delle imprese pubbliche perché innesca un circolo perverso: le imprese private obsolete e fuori mercato vengono acquistate dallo Stato, che le tiene in vita con l’ossigeno dei fondi di dotazione. Il sistema politico riesce in tal modo a conseguire due risultati: l’imposizione del modello programmatorio su quello liberista e la costituzione di un canale diretto di trasmissione delle decisioni politiche verso il sistema economico.
Nel 1956 viene istituito il ministero delle Partecipazioni statali, che sancisce il modello dell’economia mista, con la presenza di un ampio spettro di aziende stabilmente sotto il controllo dello Stato. Giorgio Ruffolo, uno degli ideatori della programmazione economica, ripensando agli anni Sessanta, dirà molti decenni dopo: «L’Italia era, dal punto di vista economico, un centauro, mezzo uomo e mezzo cavallo. Quando si ammalava non si sapeva mai chi chiamare, se il medico o il veterinario. Un Paese […] nel quale il suo capitalismo, non propriamente efficiente dal punto di vista della competitività e dal punto di vista della robustezza industriale, era un capitalismo fortemente sovvenzionato. In quel quadro economico irruppe lo Stato e intervenne l’impresa pubblica».
Osserverà Michele Salvati che la storia dello Stato imprenditore «[…] comincia molto prima della programmazione economica e della nazionalizzazione dell’energia elettrica. È infatti prima che si prendono decisioni fondamentali per la storia economica del Paese, per esempio alla fine della guerra, quando lo Stato si trova in mano un’enorme quantità di partecipazioni lasciate in eredità dal capitalismo privato degli anni della Grande Depressione. […] È da lì che bisogna partire per capire come mai adottammo un modello di partecipazioni statali. Una cosa era certa: il capitale privato non era pronto».
Il punto di riferimento per giustificare la nascita dello Stato padrone sta proprio in queste “parole magiche”: i privati non erano pronti ed erano culturalmente arretrati. Alla fine della guerra tutto nel Paese era debole e arretrato, ma a tutti vennero date opportunità di ripresa: all’Amministrazione Pubblica, imbevuta della cultura corporativa, vennero offerte ampie possibilità di riscatto, e ancora oggi soffriamo per quella fiducia; all’industria di Stato, drogata da anni di autarchia e protezionismo, vennero firmate cambiali in bianco, creando mostruosità economiche. All’industria privata no, non si poteva dare alcuna opportunità. Perché? Perché alla fine della guerra i partiti egemoni, la DC, il Pci e il Psi erano tutti contrari a un rafforzamento del capitale privato e tutti contrari a una privatizzazione dell’eredità economica lasciata dal fascismo. I marxisti per problemi ideologici, i cattolici per un’antica avversione nei riguardi del capitale privato, simbolo dei peggiori istinti dell’uomo. De Gasperi si sforza di tenere separate le questioni economiche da quelle politiche, ma la sua azione è condizionata dalle sinistre e da ampi settori della DC, che tendono a indirizzare l’azione del Governo verso una composizione di questioni economiche e di questioni politiche in un unico quadro programmatico (Glisenti, 2000). Alla borghesia industriale viene quindi aperta la porta di un rapporto intimo con il potere politico; questa operazione consentirà alla DC mezzo secolo di non belligeranza con il capitale privato. Al riparo dello scudo crociato, la borghesia capitalista trova l’opportunità per serrare le fila a protezione di posizioni monopoliste.
La creazione dello Stato imprenditore e la commistione tra politica ed economia portano a due risultati negativi: tarpare le ali a una crescita fisiologica sia dell’industria privata sia di quella pubblica, e mantenere in vita il capitalismo familiare, modello di archeologia economica nei Paesi più avanzati. Inoltre, i capitani d’industria e i grandi manager del 1945 – Guido Donegani, Adriano Olivetti, Franco Marinotti, Vittorio Cini, Giorgio Valerio, Vittorio Valletta, Aldo Borletti, i fratelli Crespi, Raffaele Mattioli, per citarne alcuni – scompaiono e con essi declina la grande industria, lasciata alle sole cure di Mediobanca, capace di arditi progetti di ingegneria finanziaria (pur disponendo di una modesta potenza finanziaria), ma non in grado di formulare piani di rinnovamento industriale (Colajanni, 2000).
L’interpretazione che, molti anni dopo, Andreotti darà di quel decisivo passaggio dell’economia italiana è la seguente: «In realtà, i comunisti, almeno quelli che contavano, non avevano grande fiducia nella proprietà statale dei mezzi di produzione, perché loro conoscevano da vicino quel che noi ancora non conoscevamo» e cioè i fallimenti delle pianificazioni economiche e delle gestioni pubbliche nei Paesi comunisti. Lo stesso Bruno Trentin, per lunghi anni segretario della Cgil, sosterrà che i comunisti non avevano mai creduto fino in fondo alla proprietà statale dei mezzi di produzione.
Il Pci, che subisce l’emarginazione politica a livello centrale, governa d’altra parte incontrastato nella “cintura rossa” d’Italia: l’Emilia-Romagna. Nella regione che aveva fatto parte dello Stato pontificio, anticlericalismo e radicalismo trovano infatti una valvola di sfogo in un legame stretto e fedele con il Pci, che conduce una politica saggia e riesce a controllare e a pilotare il movimento cooperativistico, una forte tradizione della regione. Alla fine degli anni Cinquanta, le cooperative diventano uno dei pilastri del potere comunista in Emilia e costituiranno, per il Pci, una sperimentazione in corpore vili del “capitalismo dal volto umano”.
È opportuno sottolineare, in ogni caso, che tra il 1956 e il 1963 l’Italia compie, in campo economico, un balzo in avanti senza precedenti. Una ragione di primo piano spetta all’istituzione del Mercato Comune Europeo, dal quale il Paese trae vantaggi in termini di maggiore competitività e modernizzazione. In quegli anni, da Paese tradizionalmente esportatore di prodotti agricoli e dell’industria tessile, l’Italia diventa importatore di prodotti agricoli (inizia la dipendenza dei ministri dell’Agricoltura dalle potenti lobby agricole di Germania e Francia, in cambio di aiuti sostanziosi al Mezzogiorno del Paese) ed esportatore di prodotti metalmeccanici.
Protagonista di questa prima fase espansiva è la grande impresa: l’industria automobilistica entra nello stadio della produzione di massa, nascono grandi imprese per la produzione di elettrodomestici, il Paese è uno dei maggiori produttori di semilavorati d’acciaio, si consolida l’industria dei prodotti chimici e petroliferi. La piccola e media impresa inizia la sua ascesa – specie in Lombardia e in Emilia-Romagna – ma deve misurarsi con il problema della scarsità di capitale e non è ancora in grado di affrontare l’esportazione. La grande impresa è invece favorita dalla tipologia della domanda, che si rivolge prevalentemente verso prodotti che si prestano alla produzione di massa (acciaio, auto, prodotti chimici e petroliferi, elettrodomestici). I volumi di produzione sono in forte crescita grazie all’espansione della domanda. Questi, associati ad aumenti del costo del lavoro inferiori agli incrementi di produttività, consentono di aumentare i profitti e sostenere gli investimenti attraverso l’autofinanziamento. Le industrie elettriche sono tra le più dirette beneficiarie di questo processo di sviluppo, grazie alla continua espansione della domanda di energia. La trasformazione della produzione da idroelettrica a termoelettrica e nucleare avviene tempestivamente, le scelte si rivelano corrette e gli investimenti sono cospicui, grazie alla notevole potenza finanziaria di cui tali imprese dispongono. La loro potenzialità industriale è sempre però limitata e condizionata dal rischio della nazionalizzazione.
Un effetto non trascurabile delle politiche economiche del dopoguerra è la trasformazione sociale degli italiani: l’Italia del boom economico è diventata una società di classi medie. L’incremento dei salari, la forte richiesta di manodopera e di specialisti, la nascita di piccole imprese di produzione e servizi hanno elevato il tenore di vita di milioni di italiani, portandone molti dalla povertà delle campagne all’appartamento di proprietà e a comodità prima impensabili. Le drammatiche discriminazioni di classe del periodo prebellico sono in parte scomparse, i ricchi sono pochi e – dal punto di vista del reddito – insignificanti rispetto alla robustezza della classe media, i poveri rappresentano una minoranza relativamente ristretta. Vista con l’ottica degli anni Sessanta, la disuguaglianza estrema del passato poteva apparire come una fase passeggera, tipica dell’immaturità di una nazione da poco costituita e ai primi stadi della sua industrializzazione; ora che l’Italia era matura si pensava che la condizione normale sarebbe stata quella di una società relativamente equa. Non si poteva immaginare che l’ampliarsi del divario di ricchezza tra gli italiani sarebbe iniziato proprio per la responsabilità dei partiti che, lentamente, avrebbero portato uno stuolo di funzionari del pubblico impiego a livelli di reddito vergognosamente alti rispetto al ruolo e alle responsabilità ricoperte, alla corruzione che avrebbe creato enormi ricchezze a scapito del reddito di lavoratori e imprese e al fiume di denaro fatto affluire, quasi senza alcun controllo, verso il Mezzogiorno d’Italia. Si scopre, in sostanza, che per la distribuzione del reddito, contrariamente a quanto descrivono i manuali di economia, le istituzioni, i partiti, le leggine contano molto di più delle leggi di mercato.
Il problema energetico
Nei vari capitoli nei quali verranno descritti gli scenari economici sottesi a quelli politici, una voce a sé stante va dedicata ai problemi energetici, la cui pessima gestione è costata alla nostra economia miliardi di euro e la perdita di produttività che si evidenzierà in modo drammatico nei primi anni del terzo millennio.
La sostenuta crescita degli anni Cinquanta fa riemergere un vecchio problema del Paese: la scarsità di fonti d’energia e il sempre crescente fabbisogno energetico della produzione e dei consumi. Vengono sfruttate al massimo le potenzialità offerte dal sistema idroelettrico e vengono costruite centrali alimentate da combustibili fossili, tanto che nel 1952 la produzione di energia elettrica è già raddoppiata rispetto al 1938. Nel 1962 il 70% dell’energia elettrica è prodotta da impianti idroelettrici, ma dal 1962 – con il petrolio calato a 10 $/barile e sotto la pressione dell’Eni, che spinge per un utilizzo massiccio degli idrocarburi – la produzione di energia elettrica da tale fonte subisce un’impennata.
Nel frattempo, nel settore privato si manifesta un notevole interesse per l’energia nucleare e vengono effettuati investimenti per valutare la possibilità di avviare un progetto italiano di reattore nucleare. Questo interesse dei privati è anche dovuto al tentativo di allontanare il pericolo della nazionalizzazione delle società elettriche, con la dimostrazione di una volontà dei privati di investire in ricerche a rischio. Il Governo istituisce nel 1952 il Comitato nazionale per le ricerche nucleari (Cnrn, successivamente Cnen e infine Enea), con gli obiettivi dichiarati di sostenere lo sforzo dei privati. Nella realtà, la fondazione del Cnrn sarà il cavallo di Troia dello Stato e dell’Eni per boicottare le iniziative delle società elettriche private nel settore nucleare.
Intanto il mondo della politica ha iniziato a discutere della nazionalizzazione dell’elettricità e l’associazione Amici del mondo è particolarmente attiva per il conseguimento di questo obiettivo. L’attivismo delle imprese private porta, nel frattempo, all’acquisto di tre centrali elettronucleari (Latina, 1958; Garigliano, 1959; Trino Vercellese, 1965)..

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5 marzo 2013

Eugenio Caruso


Tratto da

1

www.impresaoggi.com