Io lavoro sempre con la convinzione che non esista, in fondo, nessun problema irrisolvibile.
Jung
Per riflettere sul contratto di apprendistato e sulle opportunità per i soggetti che ne sono coinvolti, giovani e imprese, consideriamone innanzitutto – anziché affermazioni di principio sulle sue finalità e sulla sua validità ecc. – alcuni dati salienti relativi alla sua evoluzione nel contesto del mercato del lavoro italiano.
Per quanto non manchino informazioni statistiche di varie fonti, non è certo agevole metterle insieme per ricavarne indicazioni di lungo periodo fondate su dati confrontabili in quanto omogenei per definizione e costruzione. Pur con tutti i caveat necessari che ne conseguono, cerchiamo comunque di sintetizzarne le vicende più recenti con la relativa scansione di fasi di successo (diffusione del contratto) e fasi di insuccesso (ripiegamento), sui cui punti di svolta le varie fonti – pur nella diversità delle misure – sostanzialmente concordano.
All’inizio degli anni Ottanta gli apprendisti occupati in Italia – per circa due terzi in piccole aziende artigiane soprattutto del settore secondario – erano circa 700.000. Si trattava allora di giovani con meno di vent’anni. Il calo demografico, la crescita della scolarizzazione, le modeste performance del mercato del lavoro negli anni Ottanta ne determinano un drastico ridimensionamento: all’inizio degli anni Novanta gli apprendisti risultano scesi attorno a mezzo milione, a metà decennio sono intorno alle 400.000 unità (secondo altre fonti anche molti meno). Il punto di minima viene toccato nel 1996-1997. In quegli anni il numero di apprendisti è nettamente inferiore a quello dei giovani occupati con contratti di formazione lavoro. L’apprendistato sembra avviato all’estinzione.
La sua «riscossa» inizia con il dispiegarsi degli effetti della legge l. 196/1997 (la cd. legge Treu): l’innalzamento della soglia massima di età portata a 24 anni, la rimozione di limiti settoriali, l’allargamento anche ai diplomati ne ampliano la platea potenziale cosicché gli apprendisti iniziano rapidamente a crescere ritornando nei primi anni del nuovo millennio ben oltre il mezzo milione di unità. La legge 30/2003 (la cd. legge Biagi) allarga ulteriormente la platea (sono ammessi i giovani fino a 29 anni) e ne completa l’allargamento alle fasce più qualificate, i laureati.
E così il trend rimane orientato all’espansione: secondo i dati Inps nel 2008 gli apprendisti erano più di 600.000 come stock medio mensile e oltre 750.000 considerando, su base annua secondo il contratto prevalente, tutti i soggetti occupati per almeno un giorno. Con decorrenza primo gennaio 2007 viene ridotta, anche se in forma differenziata a seconda delle dimensioni di impresa, l’entità degli sgravi contributivi e di conseguenza si riduce l’appeal dell’apprendistato per il datore di lavoro. Ma non è questo l’elemento decisivo che determina la nuova fase di pronunciato ridimensionamento, che tuttora non sembra affatto conclusa. Conta piuttosto la crisi economica con il conseguente ingessamento del mercato del lavoro: calo radicale delle assunzioni e drastica riduzione dei movimenti dei lavoratori da impresa a impresa con conseguenti minori ingressi di giovani. L’apprendistato rimane segnato: secondo gli ultimi dati Inps disponibili, relativi al primo semestre 2012, lo stock medio mensile di apprendisti in Italia è sceso a circa 450.000; su base annua il dato 2011 è inferiore a 600.000 unità. Il contingente di apprendisti nel corso dell’ultimo quinquennio si è ridotto del 20-25%. I dati desunti dalle comunicazioni obbligatorie delle imprese confermano il rafforzamento di un trend negativo a partire dal 2011: nelle principali Regioni del Nord, dove l’apprendistato è più diffuso, si osservano riduzioni dei flussi di ingresso tra il primo semestre 2011 e il primo semestre 2013 attorno al 20-30%. Pur con numeri diversi, dovuti alle specifiche caratteristiche della fonte, anche la trimestrale indagine Istat sulle forze di lavoro conferma la medesima tendenza.
Eppure nel frattempo, proprio negli ultimi tre anni, il contratto di apprendistato è stato oggetto di continue attenzioni ed è stato caricato di tanti obiettivi: si dice che dovrebbe essere il contratto preferenziale per immettere i giovani nel mondo del lavoro ed assolvere quindi una funzione di inserimento; si afferma che la formazione del capitale umano, decisiva per le sorti della competitività del Paese, può e deve essere compatibile con il lavoro e perciò si chiama in causa il ruolo dell’impresa accanto a quello delle istituzioni formative; ci si attende che il contratto di apprendistato funzioni anche come modalità di assolvimento agli obblighi formativi mostrandosi quindi in grado di recuperare/arginare la dispersione scolastica, ridando opportunità a quanti, per caratteristiche proprie o – più spesso – per vincoli familiari e ambientali, non sono riusciti a completare un adeguato percorso di qualificazione formale; infine si indica nell’apprendistato la naturale porta d’accesso a impieghi stabili, a tempo indeterminato e quindi tendenzialmente di lunga durata.
Forse dall’apprendistato ci si attende troppo – complice anche la diffusa citazione della formazione duale tedesca come ingrediente base dei successi recenti di quell’economia –, tanto da presumere che il disegno normativo, frutto pure di accordi tra e con le parti sociali, sia così razionale da legittimare perfino un certo stupore se poi non incontra un adeguato apprezzamento da parte delle imprese e risulta anzi piegato dal rullo della crisi.
Bisogna dunque cercare di capire perché l’apprendistato, nonostante le tante attenzioni ricevute, stenti a farsi largo, a imporsi come canale naturale di reclutamento da parte delle imprese e di inserimento dei giovani nel mercato del lavoro. Le ragioni sono diverse. Tre sembrano quelle preminenti.
La prima è legata alle specifiche vicende normative dell’ultimo triennio. Il riferimento in particolare è ai problemi di implementazione delle novità normative, soprattutto per quanto riguarda la formazione, con la quantomeno contrastata divisione di compiti tra Regioni e Stato, nonché la definizione del regime di sanzioni. È sufficiente qui ricordare la cadenza ravvicinata dei recenti interventi normativi: dapprima il Testo Unico (ottobre 2011), poi la riforma del mercato del lavoro (l. 92/2012, la cd. legge Fornero), poi nei mesi scorsi il d.l. 76/2013, sempre – ovviamente – con finalità positive di semplificazione e miglioramento. Ma il primo impatto di ogni ri-regolazione – anche a prescindere dalle intenzioni del legislatore – genera sempre posizioni di attesa più che rapide adesioni, incertezze più che entusiasmi: e quindi si rafforza, magari solo temporaneamente, la preferenza per strategie di rinvio o per altri strumenti, più collaudati e sicuri, in quanto più certi nel loro funzionamento.
Questo ci conduce alla seconda ragione dell’appannamento reale del ruolo dell’apprendistato, vale a dire la rilevante concorrenza di altri contratti: il lavoro somministrato, i contratti di inserimento (almeno fino alla loro soppressione con la l. 92/2012), i contratti di lavoro intermittente, i contratti a tempo determinato sono stati e sono «concorrenti diretti» dell’apprendistato, all’interno del perimetro dei rapporti di lavoro subordinato. Poi ci sono i concorrenti obliqui, indiretti, quelli che pur non appartenendo al novero degli strumenti di regolazione dei rapporti di lavoro dipendente, possono – un po’ stiracchiati – ben farne le veci: le collaborazioni coordinate e continuative, i tirocini, finanche il lavoro accessorio pagato con i voucher. È vero che l’apprendistato è tuttora il contratto «migliore», per l’impresa, sotto il profilo del risparmio in termini di costo del lavoro, aspetto cui le imprese sono naturalmente molto sensibili. Secondo una recente elaborazione del «Sole-24 Ore» (1.7.2013) la possibilità riconosciuta di sottoinquadrare il dipendente e la rilevanza degli sgravi contributivi producono congiuntamente effetti di risparmio maggiori, anche per imprese con più di nove dipendenti, rispetto a quelli derivanti dal ricorso a qualsiasi altra forma di incentivazione: infatti, per un neoassunto operaio metalmeccanico di terzo livello, a fronte di un costo mensile «normale» di 1.986 euro nel caso di rapporto a tempo indeterminato, si scende a circa 1.750 per le donne e over 50 beneficiari dei bonus previsti dalla l. 92/2012; lo stesso importo vale, secondo le previsioni della l. 407/1990, per gli assunti dopo un periodo superiore a due anni di cassa integrazione straordinaria o disoccupazione; secondo le disposizioni del d.l. 76/2013 si scende sotto i 1.500 euro nel caso di assunzione a tempo indeterminato di un giovane under 30 e si superano di poco i 1.400 euro nel caso di assunzione di un beneficiario di Aspi (la nuova Assicurazione sociale per l’impiego che sostituisce l’indennità di disoccupazione). Ma il costo di un apprendista è comunque ancora inferiore ai 1.400 euro: quindi tale contratto supera sicuramente il test di immediata convenienza economica. Se però nel calcolo le imprese includono anche altri specifici costi (organizzazione, tutor, ore di libertà per l’apprendista per la frequenza alla formazione esterna, obblighi procedurali, rischi di sanzioni) il contratto di apprendistato risulta meno competitivo e altre opzioni possono essere preferite.
Una terza ragione delle difficoltà di espandersi dell’apprendistato è riconducibile al fatto che – giustamente – tale contratto rappresenta per l’impresa, almeno prospetticamente, un impegno a lungo termine. In passato l’apprendistato è stato abbondantemente utilizzato anche come contratto stagionale o comunque per rapporti di lavoro programmaticamente di breve durata: ciò accadeva quando la disponibilità di tipologie contrattuali diverse dal tempo indeterminato non era sovrabbondante come oggi. Questa funzione sostitutiva di altri contratti a termine nel tempo si è fortemente ridimensionata, anche se non è scomparsa. E ora, normalmente, l’attivazione di un rapporto di apprendistato è percepita come più impegnativa – per l’impresa – rispetto ai vari contratti a termine. Anche da un punto di vista strettamente giuridico, il Testo Unico varato nell’ottobre 2011 ha definito il contratto di apprendistato come contratto a tempo indeterminato, risolvendo una lunga querelle terminologica. Con ciò non è cambiato niente dal punto di vista sostanziale: all’impresa è consentito tuttora recedere dal contratto, senza motivazioni e senza costi, al momento della conclusione del periodo formativo. Ma anche le forme, come sappiamo, contano, perché modificano quantomeno le percezioni: in precedenza all’impresa toccava farsi parte attiva per comunicare la trasformazione da apprendistato in contratto a tempo indeterminato, ora questo è l’esito che il legislatore ha voluto come «normale» mentre all’impresa è lasciato il compito di farsi parte attiva nel caso contrario, per recedere dal rapporto di lavoro. In precedenza l’attivazione della trasformazione poteva essere percepita come un’assunzione o quanto meno una conferma (non dovuta), ora l’attivazione della recessione è percepibile come un licenziamento. Non a caso, del resto, la dinamica delle assunzioni con contratto di apprendistato evidenzia andamenti molto simili, dal punto di vista congiunturale, a quella dei contratti a tempo indeterminato: in particolare nelle fasi, anche temporanee, di recupero o di ripresa crescono innanzitutto i contratti a termine (a tempo determinato o di somministrazione) mentre apprendistato e tempo indeterminato seguono con un evidente gap temporale.
Per tutte queste ragioni appare assai azzardato ipotizzare per il futuro prossimo, in una perdurante congiuntura di debole domanda di lavoro, un robusto tasso di successo dell’apprendistato, anche al netto delle sfavorevoli dinamiche demografiche che interessano la popolazione giovanile e pure superando gli ostacoli che ne hanno fin qui reso incerta l’implementazione. Anzi, forse si può dire qualcosa di più e nemmeno tanto paradossalmente: quanto più l’apprendistato è «vero» – vale a dire costituisce una reale e significativa esperienza formativa dal punto di vista professionale – tanto più può «naturalmente» lasciare spazio ad altri contratti, che servono altre necessità del mercato del lavoro e che coinvolgono ampiamente la componente più mobile del mercato del lavoro, quella giovanile. In altre parole quanto più è rilevante la funzione formativa, conforme alla specifica natura di un contratto che si vuole «a causa mista» (lavoro e formazione), tanto meno l’apprendistato può ambire a diventare contratto esclusivo o comunque maggioritario per i giovani occupati. Come documenta il XIII Rapporto Isfol di monitoraggio dell’apprendistato (dicembre 2012) si può stimare che gli apprendisti rappresentino circa il 15% dei giovani under 30 occupati; su base annua l’apprendistato è il contratto prevalente per circa il 20-25% degli under 30 occupati alle dipendenze e rappresenta il contratto prevalente e maggioritario solo per una ristretta fascia di età (19-20 anni): la funzione occupazionale è assolta infatti anche da altri strumenti, senza dimenticare che comunque oltre il 60% dei giovani under 30 risulta occupato con contratti a tempo indeterminato.
Un altro importante indicatore per misurare il «successo» dell’apprendistato chiama in causa la sua funzione di trampolino per un impiego stabile: si tratta del tasso di trasformazione contrattuale da apprendistato a tempo indeterminato; attualmente – dopo il varo del Testo Unico nel 2011 – dovremmo dire «tasso di proseguimento dopo la conclusione della fase formativa». Tra l’altro un livello elevato di tasso di proseguimento, seppur variabile da settore a settore, è richiesto all’impresa da molti contratti collettivi come clausola per consentire la stipula di nuovi contratti. Non esistono molte misure a questo proposito: uno studio sul Veneto (cfr. Veneto Lavoro, L’apprendistato in Veneto: consistenza, evoluzione, tassi di trasformazione, «Misure», n. 35, 2011) ha documentato, per quel mercato del lavoro, sufficientemente rappresentativo della situazione del Centro Nord del Paese, un tasso di trasformazione medio dei contratti di apprendistato pari al 20%. Esso ha oscillato negli anni, variando soprattutto in relazione non tanto alle dinamiche congiunturali o normative – che si riflettono piuttosto sul numero di assunzioni – quanto all’età dell’apprendista, al settore di impiego e alla durata effettiva del periodo di apprendistato. Il basso tasso medio di trasformazione si spiega soprattutto con le frequenti dimissioni – che a volte possono essere «obbligate» o quanto meno «incentivate» – nel corso dei primi mesi del contratto (i licenziamenti sono relativamente pochi), dimissioni che incidono soprattutto tra gli apprendisti più giovani e nei settori legati alla stagionalità turistica. È vero altresì che il tasso di trasformazione dei contratti di apprendistato è superiore, ma non di molto, a quello dei «normali» contratti a termine, una volta depurati anche questi dalla componente stagionale più marcata. Anzi: per questi ultimi la trasformazione interviene in tempi più brevi, in genere entro un anno dall’assunzione. Non è agevole quindi sostenere che «il contratto di apprendistato dev’essere la porta per l’occupazione stabile»: anche altre strade conducono al medesimo risultato.
Quanto alla funzione di inserimento, si può ricordare che l’apprendistato rappresenta il contratto di esordio per la metà scarsa dei giovani. Occorre aggiungere che – come non si stancano di ripetere i sostenitori del «contratto unico» – nel mercato del lavoro reale i soggetti interessati all’inserimento in una data realtà aziendale, perché al loro primo impiego o in reingresso da periodi di inattività o di disoccupazione, non sono certamente solo i giovani: quindi è improprio e parziale attendersi dall’apprendistato l’assolvimento della funzione di inserimento per tutti i possibili soggetti interessati. In tal senso un’estensione del contratto di apprendistato agli adulti è stata prevista di recente, con il Testo Unico del 2011, per i lavoratori collocati in lista di mobilità, a prescindere dall’età. A parte il fatto che dal 2013 la consistenza delle liste di mobilità si è più che dimezzata a seguito dell’abolizione di tale programma per i lavoratori licenziati dalle piccole imprese (con meno di 15 dipendenti), tale allargamento risulta quantomeno eccentrico e, non a caso, non risulta aver trovato riscontri significativi, anche se finora sul punto specifico non si dispone di buone evidenze.
Poiché l’elemento distintivo del contratto di apprendistato è l’obbligo del contenuto formativo, la sua scarsa diffusione può, alla fine, essere ritenuta indice del basso investimento delle imprese italiane in capitale umano? Rispondere affermativamente, per analogia con il giudizio che usualmente si dà a partire anche da altri indicatori (quota di imprese o di lavoratori adulti impegnati in attività di life long learning ecc.), equivarrebbe a scoprire l’acqua calda: ma in realtà una risposta secca e poco problematica è per forza troppo superficiale.
L’apprendistato era la forma normale di ingresso al lavoro nei settori artigianali e nel commercio al dettaglio e la formazione connessa era tutta interna all’impresa: la sua applicazione in altri ambiti – quelli peraltro con sempre maggior impatto occupazionale –, nelle medie imprese industriali e nei settori nuovi del terziario, non ha potuto giovarsi di prassi e istituzioni rodate nel tempo, come avvenuto per la prima versione dell’apprendistato che non aveva fatto altro che modernizzare l’antico «garzonato». Le difficoltà espansive dell’apprendistato non possono dunque essere prese tout court come un segnale che, nonostante l’enfasi sulla formazione continua, di fatto nei rapporti di lavoro instaurati nelle (soprattutto piccole) imprese italiane non ci sia niente da insegnare e quindi niente da imparare. I tanti tormenti sulla regolazione della formazione esterna e interna all’impresa sono piuttosto una sicura spia delle diffuse difficoltà ad esplicitare in che cosa consista la formazione e a normarne sia i caratteri trasversali sia quelli firm specific, fatti salvi gli aspetti più ovvi (rudimenti di informatica, basi di inglese, nozioni di sicurezza sul lavoro), e sono altresì la spia della diffidenza delle imprese, a volte motivata a volte no, per gli obblighi formativi «imposti» dal legislatore. Nella sostanza i problemi dell’apprendistato sul lato formativo non sono troppo diversi da quelli che interessano la formazione professionale continua e il suo troppo lento radicamento. Problemi che sono risolvibili non tanto con aggiustamenti sulle regole – qualche decina di ore di formazione esterna in più o in meno – quanto con la sperimentazione e l’evidenziazione dell’utilità effettiva del contratto in sé, delle sue caratteristiche e dei suoi esiti, tanto da renderne sopportabili i diversi costi organizzativi.
Più in generale le difficoltà a organizzare e assicurare gli aspetti formativi in un percorso di apprendistato rimandano alle difficoltà che incontriamo nel qualificare il lavoro com’è oggi, disperso in un caleidoscopio di settori e professioni che stentiamo a definire e classificare (o dobbiamo sempre ricominciare inseguendo le nuove tecnologie e le nuove modalità di organizzazione dell’impresa): lavoro allo stesso tempo più banale e più personalizzato di un tempo, meno faticoso e anche meno sicuro, più qualificato e nondimeno più sfuggente.
Bruno Anastasia
Tratto da rivistailmulino.it.
21 ottobre 2013
Tratto da larivistail mulino.it