Il sovrano si rivolge al mercante e con atteggiamento benevolo e disponibile gli chiede: «Che cosa posso fare per voi?» Il mercante risponde:
«Maestà, dateci buona moneta e strade sicure, al resto pensiamo noi»
Kant
Con questo articolo proseguo la pubblicazione di alcuni stralci del mio libro storico-economico L'estinzione dei dinosauri di stato. Il libro racconta i primi sessant'anni della Repubblica soffermandosi sulla nascita, maturità e morte delle grandi istituzioni (partiti, enti economici, sindacati) che hanno caratterizzato questo periodo della nostra storia. La bibliografia sarà riportata nell'ultimo articolo di questa serie di stralci. Il libro può essere acquistato in libreria, in tutte le librerie on-line, oppure on line presso la casa editrice Mind.
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LE POLITICHE ECONOMICHE NEGLI ANNI SESSANTA
La fine del miracolo economico
La storiografia economica fissa al 1964 la fine del miracolo economico. Esso, peraltro, non si esaurisce per morte naturale, ma alla sua conclusione contribuisce in modo determinante la stretta messa in atto proprio in quell’anno, per allentare la tensione sui prezzi manifestatasi tra la fine del 1962 e il 1964. Nella realtà il pericolo dell’inflazione viene drammatizzato per ragioni politiche; Guido Carli, infatti, ha posto in essere adeguate restrizioni al credito, ma Moro, timoroso che l’inflazione possa allarmare i ceti moderati e rafforzare il Pli, vuole dimostrare che centro-sinistra e lotta all’inflazione sono compatibili, cosicché, lacci e lacciuoli al credito vengono inaspriti e la dinamica salariale bloccata. L’inflazione è stroncata, ma la “cura da cavallo” cui è stata sottoposta l’economia del Paese interrompe bruscamente un’espansione che ha avvicinato l’Italia alle altre economie dell’Europa occidentale. Lo stesso errore verrà commesso con la grave crisi economica 2008 - 2013, quando le politiche di austerità volute dall'Ue e interpretate, malamente, dal governo Monti bloccheranno in modo drastico lo sviluppo del paese.
Una concausa della fine del grande periodo espansivo è stata la nazionalizzazione dell’energia elettrica; questa, infatti, si abbatte come un ciclone su un’economia ancora debole e in fase di strutturazione. La nazionalizzazione viene effettuata con il trasferimento allo Stato degli impianti elettrici in cambio di congrui indennizzi. Le società ex elettriche si trovano a disporre di notevole liquidità, che sono costrette a investire in settori nei quali non hanno competenze: diventano così facile preda di finanzieri più interessati alla liquidità che a progetti industriali. Da parte sua l’Enel perde progressivamente la competitività che il settore privato aveva faticosamente conquistato.
Tra il 1962 e il 1974 l’incidenza delle esportazioni sul prodotto interno lordo passa dal 12 al 20%. Le imprese italiane, che devono fronteggiare il rallentamento della domanda interna per il colpo d’arresto della dinamica salariale del 1964 e per la diminuzione dell’occupazione, riescono ad aumentare le esportazioni sfruttando la competitività, assicurata da livelli salariali inferiori a quelli dei concorrenti. Questo periodo sarà il più lungo in cui il saldo delle partite correnti con l’estero resterà positivo; sarà la crisi petrolifera del 1973 a invertire la tendenza. È degno di nota che questo balzo delle esportazioni non sia realizzato dalle grandi imprese, né tantomeno dalle imprese delle partecipazioni statali, ma dalle piccole e medie aziende, che hanno avviato la politica della flessibilizzazione degli impianti e della specializzazione in nicchie di mercato, e che sanno sfruttare una congiuntura mondiale che continua a essere sostenuta.
Dopo gli aumenti salariali degli anni 1969-1970, va maturando una crisi economica che si manifesta con il primo shock petrolifero del 1973. Tra l’autunno caldo e il 1973 il sistema di protezione sociale consente di alimentare la domanda interna e sostenere l’occupazione attraverso il trasferimento di reddito da parte dello Stato; la produzione riesce a seguire l’andamento della domanda e si evitano strappi inflazionistici. Ma, gradualmente, si evidenziano le prime incrinature di questo sistema. Con il rallentamento della domanda di alcuni beni, la rigidità delle grandi imprese rivela di non poter ridurre i costi di produzione in modo da rilanciare, in modo significativo, la domanda. Con il calo delle entrate fiscali aumentano i trasferimenti dello Stato per coprire il disavanzo di bilancio e l’inflazione inizia a radicarsi.
In questo quadro, la crisi petrolifera è particolarmente dura e colpisce maggiormente l’Italia, per l’acerbità del sistema produttivo e il Regno Unito per la sua obsolescenza. La crisi si abbatte sulle aziende pubbliche con effetti catastrofici. La flessione della domanda provoca perdite nei bilanci che diventano strutturali quando il management di Stato e i politici che li proteggono teorizzano che è possibile produrre in perdita purché vengano coperti i costi fissi (in gran parte oneri finanziari). L’aumento dei tassi di interesse non fa che peggiorare la situazione. Proseguire nella politica di espansione della produzione attraverso l’indebitamento, con il miraggio di una riduzione dei costi che stimoli la domanda, diventa un suicidio per gran parte dell’industria pubblica italiana. La crisi però non colpisce solo l’impresa pubblica ma anche quella privata; i capitalisti italiani, senza capitali e che non amano il rischio, si affidano alle cure di Mediobanca che, con l’abilità che le è propria nel costruire impalcature finanziarie, si pone l’obiettivo della salvaguardia della grande impresa: Fiat, Pirelli, Snia, Montedison.
27 ottobre 2013
Eugenio Caruso
Tratto da