Il sovrano si rivolge al mercante e con atteggiamento benevolo e disponibile gli chiede: «Che cosa posso fare per voi?» Il mercante risponde:
«Maestà, dateci buona moneta e strade sicure, al resto pensiamo noi»
Kant
Con questo articolo proseguo la pubblicazione di alcuni stralci del mio libro storico-economico L'estinzione dei dinosauri di stato. Il libro racconta i primi sessant'anni della Repubblica soffermandosi sulla nascita, maturità e morte delle grandi istituzioni (partiti, enti economici, sindacati) che hanno caratterizzato questo periodo della nostra storia. La bibliografia sarà riportata nell'ultimo articolo di questa serie di stralci. Il libro può essere acquistato in libreria, in tutte le librerie on-line, oppure on line presso la casa editrice Mind.
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LE POLITICHE ECONOMICHE NEGLI ANNI SESSANTA
Il problema energetico
Gli anni Sessanta rappresentano un importante snodo della politica in campo energetico. I socialisti, infatti, impongono la nazionalizzazione del settore, con la costituzione dell’Ente nazionale per l’energia elettrica (Enel). Il punto è che – nonostante le tariffe elettriche siano fissate dal Comitato interministeriale dei prezzi (Cip) e che, nel 1961, sia stata completata l’unificazione delle tariffe elettriche su tutto il territorio nazionale – le società elettriche private fanno utili che distribuiscono agli azionisti e la cosa è ritenuta peccaminosa nella “chiesa socialista”.
È interessante notare che il massimo teorizzatore della pianificazione economica, Pasquale Saraceno, è contrario a questa nazionalizzazione; egli sostiene, infatti, che due grandi società elettriche – la meridionale Sme e la piemontese Sip – sono già pubbliche, essendo di proprietà dell’Iri, e che queste società potrebbero fare una politica di investimenti e di prezzi, costringendo i privati a seguirle (Toniolo, 1998). I nazionalizzatori affermano che un produttore unico sarebbe in grado di realizzare economie di scala tali da consentire vistose riduzioni delle tariffe. Nella cruda realtà dei fatti questo calo tariffario non si vedrà mai poiché, appena costituito l’ente, i lavoratori delle ex aziende private chiedono che i loro stipendi siano adeguati agli stipendi dei lavoratori delle aziende statali. Il costo del lavoro pro capite, a lira corrente, aumenta rapidamente portandosi, all’inizio degli anni Settanta, su tassi di crescita superiori al 10% l’anno. Il numero degli addetti sale a ritmi vertiginosi. L’ente è costretto ad acquistare impianti e componenti sul mercato nazionale da altre aziende pubbliche, spesso inefficienti e fuori mercato, perdendo la possibilità di acquistare il meglio al minor costo. L’opzione nucleare viene bloccata, prima per l’opposizione dello Stato all’iniziativa privata, poi per le indecisioni sul tipo di reattore e per i problemi finanziari dell’Enel, impegnata a indennizzare gli azionisti delle società nazionalizzate e, infine, per le opposizioni delle comunità locali. L’unica centrale che verrà realizzata dall’Enel sarà quella da 840 megawatt di Caorso, che avviata nel 1968 e terminata, dopo enormi ritardi, nel 1981, andrà soggetta a una serie innumerevole di inconvenienti tecnici fino al fermo definitivo.
Se analizziamo la storia dell’Enel possiamo affermare che essa è caratterizzata da una serie interminabile di errori commessi dai suoi manager. La legge istitutiva dell’ente gli assegna il compito di sviluppare il proprio potenziale produttivo per soddisfare le future richieste del mercato. Una grossa centrale elettrica richiede un decina d’anni per essere completata, pertanto la programmazione deve essere fatta con proiezioni di almeno quindici anni. Nel 1975 i grandi manager di Stato dell’Enel prevedono che nel 1990 la richiesta di energia elettrica sarà tra i 420 e i 520 terawattore, i dati a consuntivo del 1995 daranno poco più di 200 terawattore, molto meno della metà; la previsione del 1980, sempre per il 1990, si attesta tra 330 e 380 terawattore.
Le ragioni di questi enormi scarti tra previsioni e consuntivi possono essere tante, ma il dato di fatto è che vengono commessi clamorosi errori.
A causa di queste errate previsioni, la storia dell’Enel è costellata di mastodontici piani di investimento. Nel 1967 il direttore generale dell’ente pronostica che entro il 1980 l’Enel avrebbe avuto installati 6.500 megawatt nucleari. Nel 1975 si prevede la costruzione di 20.000 megawatt nucleari da realizzarsi entro il 1985. Il primo Piano energetico nazionale (Pen), sempre nel 1975, prevede addirittura, entro il 1990, l’entrata in funzione di reattori nucleari per una produzione compresa tra 46.000 e 62.000 megawatt. Il secondo Pen, nel 1977, prevede “solo” 12.000 megawatt nucleari entro il 1985. Nel 1979, i piani dell’Enel prevedono la costruzione di quattordici impianti a carbone da 640 megawatt ciascuno. Il Pen del 1981 approva la scelta nucleare più carbone, con la trasformazione a carbone di centrali termoelettriche per 3.700 megawatt e la costruzione ex novo di impianti a carbone per 17.000 megawatt. Il Pen del 1985 conferma i 12.000 megawatt nucleari e riduce a 12.000 megawatt gli impianti a carbone. Fortunatamente questi giganteschi piani non verranno mai realizzati perché il management dell’Enel, ancora una volta, nelle proprie valutazioni non ha saputo tener conto delle difficoltà riguardanti la scelta dei combustibili (si alternano via via le ipotesi olio, nucleare, nucleare più carbone, carbone, policombustibili, gas), delle difficoltà finanziarie e autorizzative, dei tempi di realizzazione. Questa serie di problemi rallenta lo sviluppo di una produzione che sarebbe stata enormemente in eccesso rispetto alla domanda (Toniolo, 1998). L’Enel, con il passare degli anni, perde credibilità e potere contrattuale, tanto che qualunque Amministrazione locale è in grado di porre il veto alla costruzione di qualsiasi tipo di nuova centrale. Negli anni Ottanta la situazione degenera al punto che l’Enel si trova costretta a passare dai faraonici piani di produzione endogena alla necessità di ingenti acquisti di energia elettrica dall’estero.
Nel frattempo il settore evolve verso una completa dipendenza dagli idrocarburi. La lunga fase espansiva delle economie industrializzate ha determinato un’enorme richiesta di materie prime, e quindi anche di petrolio e gas. I produttori di petrolio si associano in un cartello, l’Opec, cosicché il potere di mercato passa dalla domanda all’offerta. Nel 1973, quando scoppia la guerra del Kippur tra Egitto e Israele, si assiste alla prima grave crisi petrolifera. Il petrolio viene usato come arma economica dai Paesi arabi, che ne riducono la produzione. I continui rincari del greggio costringono i Paesi consumatori a varare misure di emergenza. In Italia iniziano le “domeniche a piedi” e viene aumentato il prezzo di benzina e gasolio. Per ridurre i consumi elettrici viene ridotto l’orario di apertura dei negozi, l’illuminazione pubblica viene pressoché dimezzata, le trasmissioni televisive terminano alle 22,45. L’Italia, il cui approvvigionamento elettrico dipende in gran parte dall’estero, viene colpita duramente dal punto di vista economico. L’inflazione supera le due cifre e nel 1975, per la prima volta dalla fine della guerra, si ha una caduta del reddito (Nardozzi, 1980).
5 novembre 2013
Eugenio Caruso
Tratto da