E’ per me sempre un piacere leggere e recensire un libro di Gianpaolo Pansa che ritengo essere uno dei giornalisti più validi oggi in circolazione. Essendo un lettore “feroce” ho l’occasione di analizzare centinaia di articoli e di saggi di estrazione politica differenziata. Errori ortografici, latitanza dei congiuntivi, assoluta ignoranza degli accenti tonici, errato uso del cui, errata pronuncia di parole straniere sono all’ordine del giorno, come l’uso di rùbrica, bàule, leccòrnia, celebrissimo, asprissimo, in degli, c'abbiamo, qual'è, un pò. Poche settimane fa un noto presentatore radio irrideva Renato Brunetta che usava (correttamente) gli aggettivi succubo e succuba. Il livello culturale di molti giornalisti è ai minimi storici e forse è questo il motivo per cui alle argomentazioni hanno sostituito l’insulto, all’obiettività, la partigianeria, all'informazione il cabaret.
Il libro di Pansa è il racconto di episodi e personaggi importanti e no che hanno attraversato la storia del Paese, dal dopoguerra a oggi, e , pertanto, e anche la storia dello stesso Pansa. Per semplificare la vita ai lettori corre, pertanto, l’obbligo di ricordare quale sia stata l’avventura del Pansa giornalista.
Allievo di Alessandro Galante Garrone all'Università di Torino si laurea in Scienze politiche con una tesi intitolata Guerra partigiana tra Genova e il Po. Agli inizi degli anni sessanta entra nel quotidiano torinese La Stampa. L'elenco delle sue collaborazioni è il seguente:
con quotidiani
1961-1964: La Stampa (direttore Giulio De Benedetti);
1964-1968: Il Giorno (direttore Italo Pietra);
1969-1973: La Stampa, inviato da Milano (direttore Alberto Ronchey);
1973- ottobre 1977: redattore capo al Messaggero (direttore Alessandro Perrone); inviato per il Corriere della Sera (direttore Piero Ottone);
novembre 1977-1991: La Repubblica, editorialista (direttore Eugenio Scalfari). Nell'ottobre 1978 assume la vicedirezione. Riprende a scrivere, sporadicamente, per il quotidiano nel 2000; il 1º ottobre 2008, trovandosi in contrasto con la linea editoriale, lascia il Gruppo Editoriale L'Espresso;
ottobre 2008-dicembre 2010: Il Riformista (direttore Antonio Polito);
settembre 2009-oggi: Libero, dove nel gennaio 2011 ha portato il «Bestiario» (direttore Maurizio Belpietro).
con settimanali
1983-1984: crea la rubrica «Quaderno italiano» su Epoca (direttore Sandro Mayer);
1984-1987: crea la rubrica «Chi sale e chi scende» su L'Espresso (direttore Giovanni Valentini);
1987-1990: crea la rubrica «Bestiario» su Panorama - pre Berlusconi (direzione di Claudio Rinaldi, Pansa è il condirettore);
1990- settembre 2008: il «Bestiario» prosegue su L'Espresso (direttore Claudio Rinaldi, Giulio Anselmi, poi Daniela Hamaoui).
Negli anni della sua collaborazione al quotidiano la Repubblica, Pansa è stato tra i rappresentanti della linea editoriale vicina alla sinistra di opposizione, senza risparmiare critiche anche al Partito Comunista Italiano. Sono note inoltre alcune sarcastiche definizioni che Pansa ha dedicato a politici italiani, come quella di "Parolaio rosso", per Fausto Bertinotti o quella di "Dalemoni", allusiva al cosiddetto "inciucio" tra Massimo D'Alema e Silvio Berlusconi ai tempi della Bicamerale. Pansa non fu tenero neanche con i colleghi giornalisti: nel 1980 scrisse su la Repubblica un articolo intitolato «Il giornalista dimezzato», in cui stigmatizzava il comportamento, da lui giudicato ipocrita, dei colleghi.
Nel settore dei saggi storici la sua attività ha avuto come principale interesse la Resistenza italiana, già oggetto della sua tesi di laurea (pubblicata da Laterza nel 1967 con il titolo Guerra partigiana tra Genova e il Po). Nel 2001 Pansa pubblica Le notti dei fuochi, sulla guerra civile italiana combattuta tra il 1919 e il 1922, conclusa con la presa del potere da parte del fascismo. Nel 2002 esce I figli dell'Aquila, racconto della storia di un soldato volontario dell'esercito della Repubblica sociale italiana. Con questo libro comincia il ciclo «dei vinti», cioè una serie libri sulle violenze compiute da partigiani nei confronti di fascisti durante e dopo la seconda guerra mondiale. Escono successivamente Il sangue dei vinti (vincitore del Premio Cimitile 2005), Sconosciuto 1945, La Grande Bugia e I gendarmi della memoria. I suoi libri sul revisionismo gli procurarono molte critiche e offese da parte di colleghi del Gruppo Editoriale l'Espresso atteggiamenti che lo costrinsero ad abbanmdonare il Gruppo.
De Gasperi ha salvato la libertà dell’Italia e non era affatto un lacchè del governo americano. Togliatti veniva chiamato il Migliore, ma per molti era il Peggiore perché s’inchinava davanti ai Stalin. L'editore Feltrinelli non è stato eliminato dai servizi segreti, si è ucciso nell’inseguire la chimera di una rivoluzione proletaria. Il Sessantotto si è rivelato un tragico bluff che ha distrutto la nostra università. L’avvocato Agnelli era di certo un gran signore, ma copriva le mazzette pagate ai politici pure dalla Fiat. Andreotti Belzebù le ha sbagliate tutte? Assolutamente no. Sono alcuni dei giudizi che troviamo in Sangue, sesso, soldi. Un titolo che fotografa la natura profonda dell’Italia che abbiamo costruito dal 1946 in poi. Giampaolo Pansa la racconta con la lucidità del testimone e la forza del narratore capace di evocare con secca efficacia personaggi, ambienti, vizi e virtù, tragedie e commedie di sessant’anni di vita italiana. Soltanto lui poteva scrivere una storia controcorrente come questa, dove la cattiveria allegra gli consente di evitare la spocchia delle narrazioni accademiche e la palude di una storiografia al servizio della politica. Sangue, sesso, soldi è un libro anarchico e sorprendente. La scena è occupata anche da sconosciuti, donne e uomini che presentano le loro storie private. E ci aiutano a intravedere un’Italia ormai al di là dei sessant’anni, una signora matura che ha creato molto e peccato tanto. Le traversie, gli amori, le nefandezze della Repubblica vengono narrati da una prospettiva insolita che ne rivela i lati ambigui e smentisce le ricostruzioni di comodo. Qualcuno sosterrà che Pansa ha scritto un altro testo revisionista.
ALCUNI STRALCI DEL LIBRO
La voglia di arricchirsi in modo illecito ha intossicato la vita politica trascinandola nel baratro della criminalità. Gli anni di Tangentopoli, con i tanti processi e le molte vittime, ci hanno svelato un'Italia ributtante. Abbiamo vissuto una tragedia che continua ancora e azzera la credibilità delle istituzioni. La sobrietà, una virtù che i partiti dovrebbero considerare il bene più prezioso, si dissolve ogni giorno sotto lo tsunami di una corruzione invincibile e volgare. Quando è cominciato questo inferno? A mio parere, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, in un'Italia che sembrava destinata a diventare all'istante una democrazia perfetta. Soltanto in seguito ci siamo resi conto che era un traguardo impossibile. Per un motivo che oggi mi sembra più evidente di allora: venivamo da vent'anni di fascismo. La dittatura non era stata una parentesi, un incidente passeggero, bensì una condizione di normalità, accettata senza problemi. C'è una verità che non si vuole ammettere: siamo stati quasi tutti fascisti. Lo sono stato anch'io, almeno nei due anni iniziali di scuola elementare. Ho cominciato a frequentare la prima classe nell'ottobre del 1941. Ero un bambino magro, dalle gambe lunghe, sempre vestito con decoro. Così voleva mia madre Giovanna che aveva un negozio di mode e credo mi abbia cucito di malavoglia la divisa da Figlio della Lupa. Per ordine del regime, la dovevano portare tutti i maschi dai 6 agli 8 anni, in attesa di diventare Balilla. La divisa consisteva in una camicia nera, attraversata da due fasce bianche incrociate e da un cinturone alto e anch'esso bianco, pantaloni corti di panno ruvidogrigioverde, lo stesso colore dei calzettoni. E infine il fez, un piccolo copricapo di feltro nero a forma di cono tronco, che terminava con un fiocco. Conservo una fotografia del Pansa Figlio della Lupa, forse scattata da mio padre Ernesto. Sul retro c'è una data, scritta a penna: 10 giugno 1943. Era il terzo anniversario della nostra entrata in guerra. Di diverso dal Duce e dal fascismo non esisteva nulla. Nella nostra piccola città si sapeva tutto di tutti. Ma non si conoscevano oppositori del regime. Di certo qualcuno che non la pensava come Mussolini c'era, ma se ne stava al coperto per non rischiare il carcere e la disapprovazione di una maggioranza molto vasta. Dopo la fine della guerra e il crollo definitivo del fascismo, si è scritto tanto sulla presenza di un'opposizione clandestina. Però questa si trovava soltanto nelle carceri. Dove stavano rinchiusi, spesso da anni, i pochissimi avversari del regime. Oppure nelle cellule invisibili dei comunisti, gli unici ad aver conservato un minimo di organizzazione politica. Esiste una prova del fatto che l'Italia fosse un paese quasi del tutto fascista, per convinzione, per obbligo o per quieto vivere. È una prova indicibile, e infatti non viene mai ricordata. Poiché suscita sempre un sentimento profondo di vergogna. Nel settembre 1938 il regime aveva emanato le leggi razziali, un complesso di norme infami destinate a colpire gli ebrei.
Anche nella mia città viveva da secoli una comunità israelitica che si ritrovava in una splendida sinagoga oggi restaurata. Era composta da persone che conoscevamo tutti: il commerciante ebreo, l'insegnante ebreo, il medico ebreo, il pensionato ebreo. Ma contro quelle leggi nessuno protestò, s'indignò, si rammaricò. E ci fu anche qualcuno che si congratulò con il Duce. Lo stesso silenzio inerte accolse le razzie degli ebrei, destinati ai campi di sterminio nazisti. A Casale Monferrato iniziarono nel febbraio 1944 e vennero completate in aprile. Alla cattura degli israeliti, in gran parte donne e uomini anziani, provvedevano agenti di polizia del commissariato cittadino. Gli arrestati venivano rinchiusi nel piccolo carcere che sorgeva in fondo alla strada dove abitavo. Di qui erano inviati al campo di transito allestito a Fossoli, in Emilia. E di lì partivano per le camere a gas di Auschwitz e di altri luoghi infernali. (...) L'Italia si è scoperta antifascista soltanto dopo il 25 aprile 1945.
Una volta conclusa la guerra, i pochi che nell'ottobre di due anni prima si erano dati alla macchia, e avevano combattuto da partigiani, si trovarono circondati da una marea di ribelli della venticinquesima ora. Gente che aveva scoperto la lotta per la libertà solo quando l'Italia era ritornata libera. Grazie ai soldati inglesi, americani e di tante altre nazionalità che, per salvarci da una dittatura, si erano sacrificati a migliaia nella lenta avanzata dalla Sicilia verso il Nord. Da quel momento diventammo una democrazia con più partiti e un'Assemblea costituente eletta il 2 giugno 1946, incaricata di scrivere la Costituzione. (...) Tutto bene? Per niente. La democrazia è un mestiere che non s'impara in quattro e quattr'otto. Soprattutto in un paese distrutto dalla guerra che dopo vent'anni di dittatura scopre l'asprezza della battaglia tra i partiti. Accadde così nell'Italia che all'inizio del 1948 si avviava alle prime elezioni destinate a decidere il nostro avvenire, ancora in bilico tra una democrazia liberale e un regime autoritario guidato dai comunisti.
In tempi di massiccio assenteismo elettorale, è giusto ricordare quanti andarono ai seggi il 18 aprile 1948: il 92,2 per cento degli aventi diritto al voto. Il racconto che i lettori troveranno in questo libro s'inizia con il confronto tra i protagonisti di quella battaglia politica, le due figure simbolo del primo dopoguerra: Alcide De Gasperi e Palmiro Togliatti.
Sono loro a introdurci in una lunga storia che arriva ai giorni nostri. E al caos brutale che rende un inferno questo 2013. Perché ho deciso di ripercorrere sessant'anni di vita italiana? (...) A incitarmi è la paura che mi ispira il futuro. Non il mio, quello personale, di un signore ben al di là dei settant'anni. Mi inquieta l'avvenire del nostro paese, oggi immerso in una crisi destinata a durare per un tempo lungo e a diventare sempre più pesante.
Invece il passato mi appare meno carico di pericoli del futuro. I rischi che abbiamo corso negli ultimi decenni li abbiamo comunque superati. Mentre le sorprese cattive che ci attendono al varco sono una gigantesca nuvola nera che incombe sulle nostre vite e può generare il peggio. Ecco perché il tempo trascorso mi sembra ben più rassicurante del tempo che ci aspetta.
IL PASSATO CHE TORNA (...) Ho preferito un racconto molto personale. Mettendo in ordine cronologico una sequenza di eventi politici, sociali, di costume, di vita vissuta e dei personaggi che li rappresentavano. Non tutti, perché sarebbe stato impossibile. Ma soltanto quelli che consideravo i più adatti a rievocare le fasi a mio avviso degne di ricordo all'interno di una lunga vicenda. Ogni evento ha dato origine a una storia, proprio come quelle che il re della filastrocca chiede alla sua serva di raccontargli. Voglio fermarmi un istante sulla faccenda della narrazione personale. (...) Qualcuno mi accuserà di presunzione per aver sopravvalutato la biografia di Giampaolo Pansa? Può essere un rimprovero fondato. Ma replico presentando l'attenuante dell'età. Ho scoperto che, con l'avanzare degli anni, è difficile sottrarsi al proprio passato. Ritorna a galla di continuo, bussa alla nostra porta e pretende di essere ascoltato. È per questo che, invecchiando, ripensiamo sempre più spesso ai nostri genitori. Li rivediamo come erano da giovani e, insieme, ritorniamo con la memoria alla nostra infanzia e poi all'adolescenza. Con tutto quello che le accompagna: gli amici, i maestri che ci hanno aiutato a crescere, anche quelli indiretti, come i libri e i giornali che abbiamo letto, la scoperta del sesso, le donne amate. L'aver scelto la parte del testimone mi ha spinto ad andare controcorrente rispetto a molte sacre scritture di storia contemporanea. L'avevo già fatto a proposito della guerra civile, attraverso una serie di libri iniziata con I figli dell'Aquila e Il sangue dei vinti. Un'esperienza che ha segnato la mia età matura, ben più di quanto mi aspettassi. Dieci anni fa non mi rendevo conto di fare del revisionismo scandaloso. Ma quando mi hanno osteggiato, e aggredito anche con azioni violente, per quel peccato imperdonabile, ne sono stato contento. Perché ho compreso di aver battuto una strada che quasi nessuno voleva percorrere. Avevo infranto una cortina di bugie, eretta da tanti sepolcri imbiancati.
Politici, intellettuali, docenti di storia, direttori di giornale e opinionisti che per ottusità culturale e opportunismo ideologico non accettavano che qualcuno rifiutasse la grande bugia sulla Resistenza. Una finzione messa sugli altari dentro una teca di vetro. E da venerare con un culto quasi religioso. Officiato con rigore maniacale dai tanti che ho chiamato, ricorrendo a un'immagine beffarda, i Gendarmi della memoria. Pure questo libro è un testo revisionista. Lo è per due motivi. Prima di tutto perché inserisce nella narrazione di molti eventi importanti anche vicende in apparenza minori e personaggi sconosciuti.
I racconti che qui troverete consentono di osservare la storia italiana di tanti decenni non soltanto guardando verso l'alto, a personaggi che tutti conoscono, ma pure verso il basso. Ho tentato di farlo attraverso le figure di donne e di uomini che l'accademia non considera mai degne di menzione. Mentre possono aiutarci a sbirciare la grande storia da una prospettiva insolita che ne rivela aspetti sconosciuti. Un esempio per tutti? La mostruosa epidemia dell'Eternit rievocata attraverso una vicenda vera narrata da un amico della mia città che ha perso la madre e la moglie uccise dall'amianto.
REVISIONISTA? SÌ Esiste poi un secondo motivo che mi spinge ad affermare il revisionismo di questo racconto. Qui siamo su un terreno che spingerà molti a rinfacciarmi di aver scritto un libro di destra. Voglio subito dire che l'etichetta non mi spaventa. Anzi, la considero una medaglia, se per destra s'intende l'opposto di una sinistra culturale marmorea e bugiarda che per anni ha spacciato una lettura della storia italiana inquinata dal partito preso. E seguita a spacciarla con la boria di chi si difende aggrappandosi al complesso dei migliori. Ossia alla convinzione di essere il meglio fico del bigoncio e di saperla più lunga di tutti. A questi pennacchioni rossi o rossicci non piaceranno i giudizi che qui troverete. Ne elenco qualcuno. Alcide De Gasperi ha salvato la libertà dell'Italia e non era affatto un lacchè del governo americano. Una vittoria del Fronte popolare guidato da Palmiro Togliatti e da Pietro Nenni avrebbe imprigionato il nostro paese dentro un regime succube dell'Unione Sovietica. L'aiuto degli Stati Uniti nel 1947 e nel 1948 ha impedito che molti italiani morissero di fame e di freddo.
Il miracolo economico non è stato il trionfo del capitalismo selvaggio e del consumismo. Ma il risultato del lavoro e della tenacia di tanti signori nessuno che cercavano un minimo di benessere. Il Sessantotto si è rivelato un tragico bluff che ha distrutto la nostra università. E ha dissolto il principio di autorità indispensabile a qualsiasi ordinamento sociale. La borghesia di sinistra non era per niente illuminata e saggia. Disprezzava chi non apparteneva ai suoi clan, odiava i poliziotti, urlava: «Basco nero - il tuo posto è al cimitero». E firmava appelli mortuari contro il commissario Luigi Calabresi, ritenuto a torto l'assassino dell'anarchico Giuseppe Pinelli. La Meglio gioventù spaccava il cranio agli avversari a colpi di spranga e di chiavi inglesi. Il terrorismo rosso esisteva e non era affatto un'invenzione delle destre reazionarie. I brigatisti erano militanti in carne e ossa che volevano distruggere il capitalismo ammazzando cristiani senza colpa.
L'editore Giangiacomo Feltrinelli non è stato eliminato dalla Cia americana, ma si è ucciso nell'inseguire il sogno folle di una rivoluzione proletaria. Un paradosso per un miliardario com'era lui. L'avvocato Agnelli era di certo un gran signore, ma copriva le mazzette pagate ai politici pure dalla Fiat. La violenza verbale era ed è ancora il tratto distintivo dei giornali ritenuti progressisti, per niente diversi dai fogli di centrodestra, e spesso peggiori.
La decadenza dell'Italia di oggi non è dovuta soltanto a Silvio Berlusconi, ma va messa in conto all'intero sistema politico. E dunque anche a una sinistra inconcludente e incapace di essere all'altezza delle sfide che ci attendono. (...)
Per questo è lecito domandarsi dove stia andando la nostra repubblica. Verso il baratro che di solito inghiotte le nazioni ormai prive di coraggio e incapaci di curare i propri mali? Oppure saprà ritrovare la fiducia e la forza che l'hanno aiutata a superare tante crisi? Spero che i lettori di Sangue, sesso, soldi non cerchino una risposta da me.
Eugenio Caruso - 7 novembre 2013
Tratto da