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Ancora sul cambiamento climatico


La dignità non consiste nel possedere onori, ma nella coscienza di meritarli.
Aristotele


Dal 1988, anno dell’istituzione dell’IPCC, ad oggi sono trascorsi 25 anni. L’IPCC ha pubblicato cinque Assessment Report ovvero, in media, un report ogni cinque anni. L’ultimo Assessment Report (AR5, Working Group I) è stato presentato a fine settembre a Stoccolma, altri pezzi dell’AR5 (WGII, WGII e Synthesis Report) saranno presentati nel corso del 2014 a Yokohama, Berlino e Copenaghen. Cosa è cambiato rispetto a 25 anni fa o, più in generale, rispetto ai precedenti rapporti? Di certo, conosciamo meglio la dinamica del clima, ne sappiamo di più, abbiamo ridotto – anche se non annullato – lo spazio dell’incertezza. La celebre frase del SAR (Second Assessment Report) “the balance of evidence suggests a discernible human influence on the global climate” che all’epoca, nel 1995, aveva venature rivoluzionarie, oggi è un dato acquisito. Di più, l’AR5 assegna una maggiore probabilità alla responsabilità dell’azione umana nel cambiamento climatico. In particolare, ciò a cui assistiamo con la pubblicazione dei diversi rapporti è una progressiva crescita di tale probabilità. Nel SAR del 1995 essa era pari al 50%, nel TAR (Third Assessment Report) del 2001 veniva stimata al 66%, nell’AR4 (Forth Assessment Report) del 2007 era al 90%, oggi con l’AR5 tocca quota 95%, ovvero la quasi certezza. Anche l’impatto del cambiamento climatico è giudicato in crescita. Se nell’AR4 la crescita del livello dei mari a fine secolo era stimata tra 18 e 59 cm., nell’AR5 essa sale a quota 26-82 cm. Ciò che dunque ci sta dicendo, da tempo, il maggior organismo scientifico internazionale sul clima - che opera nell’ambito delle Nazioni Unite - è che siamo di fronte ad un problema nuovo, di dimensioni crescenti, imputabile alla specie umana. E’ interessante osservare come la tonalità espressiva dell’IPCC sia tutt’altro che estremista. Piuttosto essa sembra improntata a un’estrema cautela: sono occorsi ben 18 anni affinché la probabilità assegnata alla responsabilità dell’azione umana nel cambiamento climatico crescesse di un valore inferiore al 50%.
Dunque, non siamo di fronte a un organismo che fa propaganda scientifica di bassa lega, piuttosto esso rappresenta la voce della comunità scientifica odierna. Ma, si dirà, la comunità scientifica è composta anche da voci che dissentono dalle tesi dell’IPCC. E’ vero, speculare all’IPCC, vi è un NIPCC (Non Intergovernmental Panel con Climate Change) che ritiene che non vi sia evidenza scientifica sufficiente a sostegno della tesi che le emissioni di gas serra antropogeniche possano causare un riscaldamento catastrofico dell’atmosfera del pianeta. Altrettanto vero è che esistono diverse pubblicazioni scientifiche che dissentono dalle conclusioni principali centrali dell’IPCC. Qual è la rilevanza quantitativa di tali studi? Assai modesta, secondo un articolo molto citato pubblicato quest’anno: “among abstracts expressing a position on AGW (anthropogenic global warming), 97.1% endorsed the consensus position that humans are causing global warming”. Forse il dato, come sostengono alcuni, è sovrastimato; forse esso va citato insieme all’altro dato, presente all’interno del medesimo articolo scientifico, secondo il quale il 66,4% degli 11.944 studi peer-reviewed investigati non esprime una posizione in merito al global warming antropogenico. E tuttavia, pur con tutti i caveat immaginabili, è innegabile che una parte straordinariamente maggioritaria della comunità scientifica internazionale che si esprime sulla questione climatica sia allineata alle tesi dell’IPCC. E’ vero che la maggioranza non è sinonimo di verità - all’inizio, Copernico e Einstein erano, diciamo così, in netta minoranza - ma è altrettanto vero che non vi è ragione per la quale i policy maker dovrebbero preferire la tesi di una minoranza esigua di scienziati rispetto a quella della maggioranza che la pensa in modo opposto. E la ragione difetterebbe ulteriormente se si pensa che il principio precauzionale suggerisce che, qualora vi siano rischi di danni gravi e irreversibili, occorre agire subito anziché attendere ulteriore informazione scientifica che metta fine alle querelle degli scienziati. D’altra parte, nella lotta contro il fumo, non si sono sprecate intere decadi al fine di acquisire ulteriore evidenza scientifica circa il nesso di causalità fumo-cancro?
Pertanto, avrebbe senso che i policy maker prestassero attenzione all’IPCC. E infatti i policy maker, nelle loro esternazioni oratorie, annettono grande importanza ai messaggi del Panel. Ma, com’è noto, per i policy maker i due elementi parole-azioni non stanno in relazione biunivoca: piuttosto, l’area costitutiva delle seconde è un modesto sottoinsieme di quella, debordante, delle prime. Ecco allora che quando è il momento di passare dal piano positivo - ciò che è - a quello normativo - ciò che dovrebbe essere - l’azione si fa evanescente. La storia delle recenti Conferenze delle Parti (COP) - da Bali a Copenaghen, a quella dello scorso anno tenutasi a Doha - testimonia tale sterilità operativa: il sapere prodotto dall’IPCC non genera l’azione auspicata. La 19ma COP, svoltasi a Varsavia dall’11 al 22 novembre 2013, è stata un’occasione di rilancio della lotta contro il cambiamento climatico? Vediamo qual è il punto di partenza. La COP di Doha ha esteso il Protocollo di Kyoto al periodo 2013-2020. E questo è certamente un risultato positivo, sia per il suo valore simbolico sia per la potenziale utilità che il framework legale-istituzionale che caratterizza il Protocollo potrà avere in futuro. Tuttavia, il numero dei paesi che hanno aderito all’accordo è estremamente limitato: Unione Europea, Australia, Svizzera, Norvegia, cioè solo il 15% delle emissioni mondiali. Paesi importanti, quali Giappone, Russia, Nuova Zelanda, Canada, sono usciti dal Protocollo, andando ad aggiungersi all’insieme assai numeroso di paesi che non lo hanno mai accettato, in primis i due principali emettitori mondiali Stati Uniti e Cina. Inoltre Doha, oltre a definire per i paesi soggetti a vincolo, una riduzione delle emissioni del 18% al 2020 rispetto all’anno base 1990, prevede la definizione entro il 2015 di strategie tese a tagliare le emissioni di 8-13 Gton. In altre parole, essa ha fatto propria la strategia del rimando che ha caratterizzato altre COP: il Doha Climate Gateway prevede “a timetable to adopt a universal climate agreement by 2015, which will come into effect in 2020”. Sarà così? I governi avranno la forza e la volontà di adottare un accordo internazionale forte che riduca drasticamente le emissioni di gas serra? Varsavia sarà un primo passo verso tale accordo? Vi sono parecchie ragioni per credere che ciò non avverrà. La COP di Copenaghen del 2009 ha dimostrato che non vi sono le condizioni per un accordo del genere. Copenaghen, per quanto definito nella Bali Road map, rappresentava il luogo e il momento per tale accordo: ma esso non c’è stato. Ora Doha, con disegno analogo, ripropone la medesima strategia della road map. Ci sembra di poter dire che le condizioni non sono cambiate. Di fatto, tutto è nelle mani di Stati Uniti e Cina. Finché i due principali emettitori non accetteranno di tagliare sensibilmente le proprie emissioni e, a seguire, di entrare in un accordo internazionale robusto, gli altri paesi non avranno alcun interesse a farlo. Tanto l’Action Plan annunciato da Obama la scorsa estate, quanto i progetti pilota di emissions trading in alcune aree della Cina, rappresentano segnali assai timidi di un’inversione di tendenza dei due governi. D’altra parte, il traino che alcuni paesi, Unione Europea in testa, esercitano rispetto agli altri è - lo dimostrano i fatti - insufficiente. Di qui la situazione di stallo, a fronte di emissioni crescenti e di reiterate dichiarazioni retoriche da parte dei policy maker.
Cos’è che può rovesciare tale situazione? Esiste, da qualche parte, una cesoia in grado di spezzare le catene che bloccano al palo le politiche climatiche mondiali? Sembrerebbe di no, perché il materiale costitutivo di tale cesoia è la saggezza e, fino ad oggi, la saggezza esibita dai policy maker è ancora allo stato di vapore - ossia di retorica - e non solidifica in azioni. Forse ciò dipende da una pluralità di cause: dal clima morale di un’epoca accumulatrice che ha abolito l’idea di limite, oppure dalla maggiore impellenza di altre questioni - crisi economica in primis -, oppure dalla modesta qualità dell’attuale classe politica mondiale. Oppure ciò dipende - come dimostrano la complessità intrinseca alle COP e le procedure in stile Kafka del CDM - dal peso inenarrabile di una sovrastruttura burocratica, creata dagli umani, che li svuota di energia e annulla l’azione feconda. Oppure, più probabilmente, lo stallo è il risultato della combinazione dei fattori sopra citati. Se questa analisi è corretta, saremmo di fronte a forze strutturali di lungo periodo, iceberg possenti che potranno essere sciolti solo dal calore di una nuova primavera politica che, fino ad oggi, purtroppo, nessun report dell’IPCC è stato in grado di risvegliare. Enzo Di Giulio.


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13 febbraio 2014

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