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Attila, l'unno che terrorizzò l'Europa.


Platone afferma non esserci alcun re che non sia discendente da schiavi e nessuno schiavo che non sia discendente da re.
Seneca Lettere morali a Lucilio


In questo sito, abbiamo illustrato vita, caratteristiche e comportamenti di grandi personaggi della storia, come Cesare, Alessandro Magno, Marco Aurelio, Sun Tzu, Carlo V d'Asburgo, Nabucodonosor, Elisabetta I, Carlo Magno, Hammurabi, Pietro I di Russia, Caterina la Grande, Gengis Khan, Sargon il Grande, quali figure emblematiche da tenere come modelli perchè ritengo che coloro che hanno lasciato una traccia significativa nel corso della storia abbiano qualcosa da insegnare, a tutti non solo agli imprenditori, sotto gli aspetti dei loro lati, sia positivi, che negativi. Mi soffermo in questo articolo sulla vita di Attila che è stato molto più di uno stereotipato esempio di barbarie tramandatoci dagli storiografi cristiani. Attila fu un uomo di enormi ambizioni che schierò al suo fianco forze mai viste prima. Con il suo esercito di guerrieri unni a cavallo, corroborato da una dozzina di tribù alleate e da contingenti di macchine ossidionali, per un periodo Attila fu il Gengis Khan dell'Europa. Dall'odierna Ungheria creò un impero che andava dal Baltico ai Balcani, dal Reno al Mar Caspio e tenne in costante ricatto gli imperi romani d'Oriente e d'Occidente. Gli unni diedero vita alla Volkerwanderung, quella migrazione di popoli e tribù che interessò l'Europa per secoli. Attila non riuscì però a portare a termine la missione della creazione di un impero stabile perchè era schiavo delle sue contraddizioni e dei suoi dilemmi. Egli era a capo di un popolo all'apice del cambiamento; i loro avi erano stati pastori dediti al nomadismo loro, invece, non erano più nomadi e non erano ancora un popolo sedentario. Il problema di Attila era trovare un territorio per il suo popolo nell'area dell'impero romano in declino; aveva nel suo dna lo stimolo al nomadismo e portandosi dietro eserciti di centinaia di migliaia di uomini vagò per l'Europa, invase la Francia, l'Italia e i Balcani, seminando terrore, senza trovare un'ubi consistam. Ma Attila sentì anche la necessità di pace e stabilità e a tale scopo istituì un corpo di segretari che si occupassero della corrispondenza in latino e greco e inviò e ricevette ambasciatori da est e da ovest. Attila si applicò per condurre una politica di pace così come fece per la politica di guerra. Man mano che si cerca di fare luce sul personaggio e si dissipano i preconcetti si può anche capire perchè, in Ungheria, Attila sia considerato un eroe nazionale. Mai, prima di lui, si era formata una forza di tale potenza, mai prima di lui un uomo solo aveva messo in pericolo il mondo romano, mai prima di lui un capo era stato ammirato dalla sua gente, mai prima di lui un comandante aveva saputo trasformare nemici in fedeli alleati. Bisognerà attendere settecentocinquanta anni prima di trovare un altrettanto abile condottiero, l'impareggiabile stratega e costruttore di imperi che fu Gengis Khan. Attila non fu un costruttore di imperi ma fu il detonatore di quell'esplosione che mandò in briciole ciò che restava dell'impero romano; da quel'esplosione, lentamente, si faranno strada i concetti di Europa, con Carlo Magno e di nazioni europee, alla scomparsa del regno carolingio. Lo storico Ammiano scrive nel 376 d.C. "una razza di uomini fino ad allora sconosciuta è apparsa da qualche remoto angolo della terra, sradicando e distruggendo ogni cosa sul suo cammino come un ciclone che cala dalle montagne".

Origine degli unni
Pare che gli unni fossero il ramo occidentale della stirpe degli xiongnu, tribù nomade originaria della Cina nord-orientale e dell'Asia centrale. Originariamente gli xiongnu risiedevano nella grande ansa settentrionale del Fiume Giallo, nel territorio oggi conosciuto come Ordos, nella Mongolia interna; sarebbero rimasti una delle tante tribù nomadi dell'Asia centrale se non fosse stato per un precursore di Attila di nome Motun asceso al potere nel 209 a.C. di cui ci ha lasciato testimonianza lo storico cinese Ssu-ma Ch'ien. Motun prese il potere uccidendo il padre e un sovrano confinante il cui teschio divenne il suo calice. Gli xiongnu, sotto Motun, fondarono un impero nella steppa che raggiunse i 1.000 chilometri di estensione a nord, fino al lago Bajkal e circa 4.000 a ovest fino al lago d'Aral. L'impero degli xiongnu aveva rapporti commerciali con la Siberia e con il regno cinese degli han, i quali erano ben felici di garantirsi la pace con il commercio e con doni e tributi al prepotente vicino settentrionale. Secondo gli storici cinesi la forza degli xiongnu nasceva da un binomio: cavallo e arco. La nascita del primo impero mongolo era qualcosa di nuovo nei rapporti tra la Cina e i barbari cosicchè il primo imperatore della dinastia Jin (221-206 a.C.) iniziò la costruzione della grande muraglia, un segno della separazione tra nomadi e sedentari, tra pastori e agricoltori, tra barbari e civilizzati. Dopo più di duecento anni di vessazioni gli han, grazie a consistenti contigenti di truppe mercenarie, iniziarono una serie di campagne contro gli xiongnu; una parte di questi venne integrata dagli han un'altra venne definitivamente cacciata dalla Mongolia da tribù provenienti dalla Manciuria e iniziò la diaspora degli xiongnu verso ovest. Essi fuggirono lungo le vie commerciali; attraverso la valle dell'Ily, raggiunsero il sud del Kazakhstan e, infine, il fiume Syr-Darya intorno al 120 d.C.: 2.800 chilometri in trent'anni. Nel 160 il greco Tolomeo colloca i Chuni a nord del mar dì'Azov; 2.000 chilometri in quarant'anni. Nel 350 d.C. gli unni attraversarono il Volga: impetuose bande di arcieri a cavallo guidarono i loro carri e le colonne di mandrie nella prateria che era dominata dai sarmati, genti iraniane che l'avevano strappata agli sciti più di 500 anni prima; uno dei gruppi della confederazione sarmatica era quello degli alani. Gli unni li spazzarono via, clan dopo clan e gli alani sarebbero diventati uno dei frammenti della grande esplosione di popoli che migrò tra l'Europa e l'Africa. Il capo degli unni Balamber, con la sua cavalleria composta da unni e alani sottomessi annientò gli ostrogoti di Ermanarico, sovrano di un regno che si estendeva dal Mar Nero al Baltico.
Gli unni cominciarono a premere sui confini e a riversarsi nelle terre abitate dai visigoti; Atanarico stabilì una linea di difesa lungo il Dnester, ma gli unni aggirarono i goti e li presero alle spalle. I goti si ritirarono nella Moldavia e stabilirono un'altra linea difensiva lungo il fiume Prut, senza avere, peraltro, alcuna speranza di vittoria. Chiesero, allora, di poter attraversare il Danubio ed essere ammessi in territorio romano; riuscirono a convincere l'imperatore d'Oriente, Valente, a consentire l'attraversamento del Danubio e a trovare salvezza nella provincia romana della Mesia (attuali Serbia e Bulgaria). Secondo gli accordi, i goti sarebbero stati coscritti nell'esercito romano e a loro sarebbe stata concessa piena cittadinanza, ma in realtà non accadde niente di tutto questo. Anche gli ostrogoti, infatti, incalzati dagli unni, senza essere invitati, entrarono nei confini dell'impero. La presenza delle due popolazioni in un'area ristretta, come la Mesia, portò ad una penuria di cibo, e, quindi, all'inizio delle ostilità tra romani e goti. Dopo la clamorosa vittoria sui romani ad Adrianopoli, in cui l'imperatore Valente fu ucciso, i goti invasero la Tracia e saccheggiarono i Balcani, arrivando sino in Grecia, ma alla fine persero la guerra. Atanarico riuscì a negoziare una pace, nel 381, con il nuovo imperatore Teodosio I, e ottenne che i visigoti divenissero alleati ufficiali di Roma, concedendo alla nuova nazione dei visigoti una autonomia che prima mai era stata concessa ai popoli sottomessi ai romani. La pace fu ratificata nel 382, dai nuovi capi dei visigoti, e il trattato valse fino alla morte di Teodosio nel 395.
Intanto gli unni, nel 395, volsero la loro attenzione alle provincie orientali dell'Impero, lasciate sguarnite. Per raggiungerle dovettero cavalcare attorno al mar Nero per circa 1.500 chilometri; con due o tre cavalli a testa un esercito di nomadi senza carri, poteva percorrere centosessanta chilometri al giorno nelle steppe della Russia meridionale e giungere in vista del Caucaso entro un mese. Di lì altre due settimane per passare la catena del Caucaso, superare la Georgia, l'Armenia, il limite orientale dell'Impero e 1.200 chilometri più avanti trovarsi davanti le ricche città della costa siriana e fenicia. Quell'estate i villaggi della Turchia centrale furono dati alle fiamme e bande di unni catturarono enormi bottini e 18.000 schiavi in Siria. Notizia delle imprese degli unni giunsero anche in Palestina dove Girolamo, poi santo, e i cristiani di Terrasanta ed Egitto tremarono per la loro sorte. Fortunatamente gli unni furono fermati, non dai dai romani, ma da un esercito persiano che recuperò i beni trafugati e liberò i 18.000 schiavi. Gli unni se ne tornarono indietro, costeggiando il mar Caspio, quasi senza bottino ma avevano ampliato notevolmente le loro conoscenze geografiche e la loro esperienza militare contro un esercito ben strutturato. Nel 408 Uldino guidò un'armata unna allo scopo di invadere la Tracia, ma l'avanzata fu fermata da una notevole elargizione di danaro da parte dell'impero d'Oriente. Nei successivi quindici anni gli unni se ne stettero tranquilli.

xiongnu

Impero degli xiongnu

L'incontro con le popolazioni nordiche
I Visigoti, nel 395, proclamato re Alarico, invasero la Tracia, la Macedonia, e poi la Tessaglia, dove furono fermati dal generale Stilicone, reggente dell'Impero romano d'occidente, per conto dell'imperatore Onorio, ancora bambino. Ma l'imperatore d'oriente, Arcadio, intimò a Stilicone di rientrare in occidente, e all'esercito romano-orientale di rientrare a Costantinopoli, lasciando un contingente alle Termopili per difendere la Grecia. I visigoti si impossessarono del passo, attraversarono la Beozia e l'Attica, occuparono il Pireo e costrinsero Atene alla resa. Nel corso del 396, tutto il Peloponneso fu occupato; Corinto, Argo, Sparta e molte altre città subirono la violenza e le devastazioni dei visigoti. Nel 397, Stilicone sbarcò a Corinto con un esercito e cacciò i visigoti dall'Arcadia e li accerchiò ad Elice. Ma, ancora una volta, richiamato per una rivolta in Africa, fece con loro un'alleanza contro l'impero d'oriente, permettendogli di ritirarsi sulle montagne verso il nord dell'Epiro, dove Arcadio, nel 399, offrì loro del denaro e nominò il loro re, Alarico, magister militum dell'Illiria, concludendo così la pace. Alarico approfittò della collaborazione con l'impero d'oriente per rafforzarsi, soprattutto riarmò i visigoti negli arsenali romani. I visigoti, passando da Aemona, nel 401 arrivarono in Italia, e si diressero su Milano, dove si trovava l'imperatore Onorio, ma furono fermati a Pollenzo (402), da Stilicone, che nominò Alarico magister militum, purché lasciasse l'Italia. Dopo essere usciti dall'Italia, i visigoti non si allontanarono dai confini e, nel 403, rientrarono, assediando Verona, dove vennero sconfitti da Stilicone che li costrinse a rinnovare il patto di alleanza contro l'impero d'oriente e dovettero rientrare in Epiro. Ma presto abbandonarono l'Illiria per stabilirsi tra il Norico e la Pannonia, dove rimasero sino alla morte di Stilicone (23 agosto 408). Tra il 400 e il 410, i visigoti entrarono in Italia e per ottenere un tributo e una provincia in cui stabilirsi, tentarono a più riprese un accordo con l'imperatore Onorio, che era trincerato a Ravenna, finché, spazientiti, ritornarono a Roma e, il 24 agosto 410 la saccheggiarono. I visigoti lasciarono Roma carichi di bottino e tentarono di passare in Africa, il granaio dell'impero. Ma una tempesta disperse e affondò le navi quando erano già in parte cariche e pronte a partire. Allora ripresero la via del nord; ma in Calabria, nei pressi di Cosenza, Alarico si ammalò improvvisamente e morì. I Visigoti continuarono ad avanzare verso la Gallia e, nella primavera del 412 attraversarono il Colle del Monginevro. Una volta arrivati in Gallia, i visigoti si stabilirono tra la Provenza e l'Aquitania, e il loro re Ataulfo strinse un patto con Onorio: in cambio di rifornimenti, terre ed oro, gli avrebbe consegnato l'usurpatore ed avrebbe liberato Galla Placidia, sorella di Onorio fatta prigioniera durante il Sacco di Roma del 410. Il re visigoto mantenne la parola, ma Onorio no. Il re visigoto, in risposta, non liberò Galla Placidia e anzi attaccò prima Marsiglia (che gli resistette) e poi occupò Narbona, Tolosa e Bordeaux. Nel gennaio del 414, Ataulfo sposò Galla Placidia, e grazie all'influenza della moglie, progettò una politica di fusione fra goti e romani. Ma il generale Flavio Costanzo bloccò i porti gallici poi costrinse i visigoti ad arretrare prima a Narbona e poi, valicati i Pirenei, a ritirarsi verso la Tarraconense, occupando Barcellona. Costanzo, nel 418, li richiamò in Gallia, permettendo ai visigoti di stanziarsi nella Valle della Garonna, in Aquitania. Questa donazione venne probabilmente fatta con il contratto di hospitalitas, l'obbligo di ospitare i soldati dell'esercito romano. La scelta dell'Aquitania come luogo di stanziamento dei visigoti sembra motivata da ragioni di carattere strategico: infatti era un luogo poco distante sia dalla Spagna occupata in parte da altri "barbari", sia dalla Gallia nord-occidentale, dove si erano rivoltati i bagaudi. Il primo insediamento formò il nucleo del futuro regno visigoto che si sarebbe espanso fin oltre i Pirenei. Il re visogoto Walia stabilì la propria corte a Tolosa, che divenne così la capitale visigota. Così stavano le cose mentre Attila, attorno al 420 giungeva a maturità: l'impero romano diviso in due parti, entrambe lacerate da conflitti religiosi e politici, una mezza dozzina di popolazioni barbariche in cerca di una "patria", le frontiere settentrionali in preda al caos, gli effettivi dei due eserciti costituiti in gran parte dagli stessi "barbari". A un ambizioso condottiero tutto questo appariva molto promettente.
Gli unni avevano già mostrato un potenziale militare impressionante; con la loro azione avevano costretto alani, ostrogoti, visigoti, vandali a spostarsi verso ovest e a entrare in rotta di collisione con i romani. La supremazia militare sulle popolazioni rivali, più civilizzate, era dovuta a quattro elementi: 1. l'antica arte degli arcieri a cavallo, 2. una nuova versione di un'arma antica, l'arco asimmetrico, 3. una nuova tecnica militare fatta di assalto, arretramento e imboscata, 4. la capacità di comando.

Attila
La data di nascita di Attila si aggira intorno al 406, perse il padre da bambino. Secondo il costume unno, imparò ad andare a cavallo prima ancora di imparare a camminare, a cinque anni già sapeva combattere con arco e frecce. All'inizio del V secolo Roma aveva concluso un trattato di pace con il re Ruga, zio di Attila, in base al quale l'Urbe doveva pagare un tributo annuo di 350 libbre d'oro ed entrambi gli schieramenti trattenevano ostaggi di alto rango come garanzia. Tra gli ostaggi, vi fu anche Attila, mandato a vivere a Ravenna, nell'Impero Romano d'Occidente, dove imparò il latino. A vent'anni Attila tornò tra la sua gente partecipando a numerose invasioni scatenate dallo zio Ruga.
Coevo di Attila un altro importante personaggio calcò le scene della storia in quell'epoca: Flavio Ezio. Verso il 410 egli passò un periodo di tempo come ostaggio di rango presso gli unni. Egli aveva già ricoperto quel ruolo tra i goti di Alarico. L'esperienza fece di Ezio un personaggio straordinario, sia come mediatore di pace, sia come comandante militare. Parlava goto, unno, greco e latino, aveva amici ovunque e divenne il più importante generale dell'impero. L'esperienza di Ezio fu subito messa a frutto; dal 423 l'Impero era lacerato dalla guerra tra Roma e Costantinopoli. Nel 425 Ezio si recò presso gli unni portando con sè forzieri pieni d'oro. Un anticipo se lo avessero aiutato a sgominare l'esercito d'Oriente che assediava Ravenna. Un'armata di unni si aggregò a Ezio e fu determinante nello sconfiggere l'esercito nemico. Ezio nominato comes fu inviato in Gallia per riportare ordine sulla turbolenta frontiera settentrionale e vi rimase per sette anni. Gli unni tornarono in Pannonia Valeria, dove in segno di gratitudine fu loro concesso di assumere il controllo del territorio. Fu dunque grazie a Ezio che gli unni, sotto il comando di Ruga, poterono stringere la presa sull'odierna Ungheria. Ruga, a quanto pare, fu l'uomo che diede solide fondamenta al regno unno. Possedeva un esercito molto forte e ambasciatori sufficientemente scaltri da ottenere, dall'Impero d'Oriente, il tributo annuo di cui s'è detto, oltre alla promessa della consegna di profughi unni che erano fuggiti per contrasti con Ruga. Alla morte di questi nel 435, il regno fu spartito tra i due fratelli Bleda e Attila, nipoti di Ruga. All'inizio tutto filò liscio, gli unni erano in pace con Roma e continuavano a spillare ricchezze dall'Oriente. Ezio richiese ancora l'aiuto degli unni per risolvere le turbolenze della Gallia; essi furono impiegati contro franchi,burgundi, bagaudi e visigoti. Nel 436/437 contribuirono alla distruzione del regno dei burgundi, che ispirò la saga dei Nibelunghi; sempre nel 437 truppe unne arruolate nell'esercito di Litorio, ufficiale di Ezio, contribuirono alla repressione dei bagaudi in Armorica e alla sconfitta dei visigoti alle porte di Narbona, che costrinse i goti a levare l'assedio. L'impiego degli unni come mercenari di Roma non mancò di provocare polemiche tra gli scrittori cristiani del tempo: tali scrittori erano scandalizzati dal fatto che Litorio permettesse agli unni di fare sacrifici alle loro divinità pagane e per il fatto che alcune bande di unni saccheggiassero alcune regioni dell'Impero senza alcun controllo, sostenendo che se i romani avessero perseverato a utilizzare un popolo pagano (gli unni) contro un popolo cristiano seppur ariano (i visigoti), avrebbero perso presto il sostegno di Dio. Nel 439 Litorio, dopo alcune vittorie, era arrivato con i suoi unni alle porte di Tolosa, intenzionato a conquistarla e a sottomettere definitivamente i visigoti: nella battaglia che ne risultò, però, le sue truppe mercenarie unne subirono una grave sconfitta, mentre lo stesso Litorio fu catturato e giustiziato. La sconfitta di Litorio spinse Ezio a firmare una pace con i visigoti riconfermante il trattato del 418, dopodiché tornò in Italia, per l'emergenza dei vandali, che proprio in quell'anno avevano conquistato Cartagine.
La fonte principale di informazioni su Attila è dello storico Prisco di Panion. Egli descrive il villaggio che i nomadi unni hanno costruito e in cui si sono insediati come una grande città dalle solide mura di legno. Descrive lo stesso Attila così: « Basso di statura, con un largo torace e una testa grande; i suoi occhi erano piccoli, la sua barba sottile e brizzolata; e aveva un naso piatto e una carnagione scura, che metteva in evidenza la sua origine.» L'aspetto fisico di Attila era probabilmente più sul tipo asiatico orientale o mongolo, o forse un misto di questo tipo e quello delle popolazioni turche centro-asiatiche. Comunque egli probabilmente aveva i lineamenti tipici orientali, che gli Europei non erano abituati a vedere. Attila è conosciuto nella storia occidentale e nella tradizione come il "Flagello di Dio", e il suo nome è diventato sinonimo di crudeltà e barbarie; la figura di Attila, in realtà, è più complessa. Gli unni all'epoca di Attila avevano avuto modo di interagire con la civiltà romana, principalmente tramite i germani tanto che Prisco, all'epoca dell'ambasciata di Teodosio nel 448, identificò il gotico, l'unno e il latino come i tre principali idiomi del popolo di Attila. Prisco riferisce anche di un suo incontro con un prigioniero romano che si era così integrato nello stile di vita degli unni da non voler più ritornare a casa, e il resoconto che lo storico fa di Attila, della sua semplicità ed umiltà è chiaramente intriso di ammirazione.

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Attila visto come un demonio. Miniatura dell'epoca.

Accordi di Margus e campagne del 441-442
In quel periodo gli unni stanno concordando con gli ambasciatori dell'imperatore Teodosio II il ritorno di numerosi fuggiaschi rifugiatisi entro i confini dell'Impero romano d'Oriente. Nell'inverno del 439, Attila e Bleda si incontrano con i legati imperiali a Margus (l'odierna Požarevac) e concludono un accordo molto vantaggioso con il quale i romani accettano non solo di riconsegnare i fuggitivi, ma portano a 700 libbre romane il tributo in oro, aprono i mercati ai commercianti unni e pagano un riscatto di otto solidi per ogni prigioniero romano. Soddisfatti dell'accordo, gli unni levano gli accampamenti facendo ritorno in Pannonia. Accettando questo trattato di pace, i romani d'oriente sperano di aver rimosso ogni pericolo di attacco unno, per poter così sguarnire il limes danubiano di truppe per inviarle in Africa a combattere i vandali, che hanno occupato Cartagine. Nell'anno successivo, il 440, Genserico, re dei vandali, invade la Sicilia con una potente flotta. Il timore da parte di Teodosio II che le scorrerie della flotta vandala possano danneggiare anche l'Impero d'Oriente, oltre al legame dinastico che lo lega all'Imperatore d'occidente, il cugino Valentiniano III, lo spinge a inviare, nella primavera del 441, un'immensa flotta di 1100 navi in Sicilia in vista di uno sbarco in Africa per riconquistare Cartagine. Attila, forse su richiesta del re vandalo Genserico, decide di approfittare dello sguarnimento del limes danubiano cogliendo un pretesto per rompere gli accordi di Margus. Nel 440 gli unni fanno di nuovo la loro comparsa sui confini dell'impero aggredendo i mercanti sulla sponda settentrionale del Danubio. Attila e Bleda minacciano una nuova guerra, asserendo che i romani non hanno rispettato gli accordi presi e che il vescovo di Margus, nei pressi dell'odierna Belgrado, ha attraversato il Danubio per saccheggiare e violare le tombe dei re degli unni. Gli unni attraversano il fiume e devastano le città dell'Illiria e le fortezze, tra cui, secondo lo storico Prisco di Panion, Viminacium. Il vescovo di Margus, il profanatore di tombe che ha provocato l'ira degli unni, timoroso per la propria sorte, accetta di consegnare la città di Margus agli unni in cambio della sua incolumità. Trovando i confini sguarniti è facile per Attila e Bleda aprirsi un varco attraverso l'Illiria per raggiungere i Balcani. L'esercito degli unni, dopo aver saccheggiato Margus e Viminacium, occupa Sigindunum (l'attuale Belgrado) e Sirmium (l'attuale Sremska Mitrovica). Nel 442 conquistano Naissus, oggi Niš con l'uso di arieti e torri d'assedio di nuova concezione e giungono in vista di Bisanzio. Teodosio, allarmato, richiama le truppe dal Nordafrica, ma prima che la flotta sia tornata accetta di firmare una pace con gli unni. Soddisfatte le loro pretese, gli unni fanno ritorno nel loro impero. Secondo Giordane (che riporta quanto riferito da Prisco di Panion), qualche tempo dopo, nel periodo di pace che seguì la ritirata da Bisanzio, forse intorno al 445, Blenda muore ed Attila diventa l'unico re; si trattò, molto probabilmente di un fratricidio; la diarchia non ha mai funzionato. Blenda concepiva solo la guerra, mentre Attila aveva capito, anche, che la pace costava meno della guerra e gli ambasciatori meno degli eserciti. Attila si era assicurato una solida base di governo, rappresentata da un'elite di fedelissimi che gli scrittori greci chiamavano logades (plurale di logas, scelto) e la ristretta cerchia doveva essere già formata, altrimenti Attila non sarebbe stato in grado di impossessarsi del potere assoluto. Tra i logades c'erano il suo vice Onegesio e il fratello Scotta, due zii, Albaras e Laudarico, Edika, capo degli sciri, una tribù alleata.
Dopo la partenza degli unni, la città di Costantinopoli attraversa un periodo di gravi calamità, sia naturali, sia causate dall'uomo: lotte sanguinarie tra le fazioni dell'Ippodromo, epidemie nel 445 e nel 446, quest'ultima a seguito di una carestia; quattro mesi di terremoti che distrussero gran parte delle mura causando migliaia di vittime, e dando origine, nel 447, a una nuova epidemia, proprio quando Attila, consolidato il suo potere, si mette di nuovo in marcia verso il sud dell'impero attraverso la Mesia. Teodosio II ha infatti interrotto il versamento del tributo, e di fronte alle proteste di Attila per le 6.000 libbre d'oro di arretrati non versati, si rifiuta di pagarli, causando una nuova offensiva per rappresaglia degli unni nei Balcani. L'esercito romano, capeggiato dal magister militum Arnegisclo, li sfida sul fiume Utus (attuale Vit) subendo una sconfitta. Compiendo razzie lungo il Danubio gli unni sottomettono i campi militari di Ratiera e si impossessano di Sardica (Sofia), Philippopolis (Plovdiv) nell'odierna Bulgaria, Naisso (Serbia), e Arcadiopolis, nell'odierna Turchia; affrontano e sconfiggono, nuovamente, l'esercito romano alle porte di Costantinopoli. Gli unni non trovano più ostacoli e proseguono la loro avanzata nei Balcani fino alle Termopili. Costantinopoli si salva grazie all'intervento del prefetto Flavio Costantino, che coinvolge la cittadinanza nella ricostruzione delle mura abbattute dal terremoto e nella costruzione di alcuni tratti di una nuova linea fortificata davanti alle antiche mura; Teodosio ammette, comunque, la sconfitta ed invia l'ufficiale di corte Anatolio a negoziare le condizioni di pace, questa volta più pesanti del trattato precedente. L'imperatore acconsente a cedere oltre 6.000 libbre d'oro romane (1.963 kg) come sanzione per non aver rispettato i patti; il tributo annuale viene triplicato fino a 2.100 libbre d'oro (687 kg) e l'ammontare del riscatto di ogni prigioniero romano aumenta fino a 12 solidi. Come condizione per la pace, Attila pretende inoltre che i romani lascino libera una striscia di terra che si estende per 480 km ad est di Sigindunum (Belgrado) e oltre 100 km a sud del Danubio. Con questa guerra si ha la sensazione che Attila inizi a rendersi conto di aver realizzato un impero; il suo regno arriva al Caspio ad est, al Baltico a nord-est, al mare del nord a settentrione. Di una cosa Attila è certo: di poter disporre dell'impero romano d'oriente a suo piacimento. Ezio stesso si è mosso da Roma e si è recato da Attila, nella capitale unna di Seghedino, per trattare le condizioni di pace; i due protagonisti degli avvenimenti dell'eppca hanno così modo di conoscersi e apprezzarsi. Gli storici Cassiodoro e Prisco ci hanno lasciato la testimonianza di Attila come quella di un uomo che aveva il fascino del potere, fascino che risiedeva in parte nella sua autostima, in parte nella sua austerità e in parte nella sua generosità in cui si crogiolavano i suoi eletti e gli ospiti. Aveva improvvise manifestazioni di benevolenza che potevano sciogliere la roccia. Al suo cospetto si avvertiva il carisma nel suo senso originario, teologico, il fluire di una forza che trasforma l'uomo comune in un leader. Non ebbe mai l'intenzione di assumere una valenza divina come era d'uso tra gli imperatori romani. Questa follia non faceva parte della cultura nomade. Un sovrano poteva affermare di compiere un dovere divino, come farà Gengis Khan e come facevano gli imperatori cinesi, ma era ben diverso dal reclamare una dignità divina.

Il primo giallo della storia
La storia comincia con l'arrivo di ambasciatori di Attila alla corte di Teodosio II, nella primavera del 449. La comitiva è guidata da Edika e ne fanno parte Oreste, un romano della corte di Attila e una piccola scorta di assistenti. L'ambasceria comunica all'imperatore cosa fare per salvaguardare la pace. Deve smettere di dare asilo ai profughi unni che stanno coltivando le terre a sud del Danubio, terre che appartengono ad Attila e deve inviare alla corte unna ambasciatori di rango elevato. In attesa della risposta di Teodosio la delegazione viene ospitata negli appartamenti del tesoriere Crisafio, un eunuco corrotto e corruttore, ma l'uomo più potente dell'Impero. Crisafio, tramite l'interprete di corte Vigila, sonda con prudenza la fedeltà di Edika nei confronti di Attila, gli chiede del livello di sicurezza di Attila e gli prospetta la possibilità di diventare ricchissimo. Il disegno di Crisafio è il seguente: Edika rientrerà in patria, ucciderà Attila, quindi tornerà a Costantinopoli per godersi una vita di serenità e ricchezze. Edika acconsente ma a un prezzo, chiede un anticipo, 50 libbre d'oro da distribuire alla sua scorta per garantirsi che collabori con lui nella congiura. Sostiene che al ritorno a Seghedino, anche lui, come gli altri, sarebbe stato interrogato da Attila in merito a chi, fra i romani, gli avesse fatto doni e a quanto denaro avesse ricevuto, e che, a causa dei compagni di missione, non avrebbe potuto nascondere 50 libbre d'oro. Si stabilisce, dunque, l'invio di un'ambasceria presso Attila con il pretesto di negoziare sulle sue richieste, ma in realtà per studiare le modalità della consegna delle 50 libbre d'oro. Lo storico Prisco di Panion (che non sa nulla della congiura) partecipa personalmente all'ambasceria e, in un frammento sopravvissuto della sua Storia, descrive accuratamente questo viaggio diplomatico, a cui prendono parte: Massimino (l'ambasciatore di alto rango richiesto da Attila), Prisco e l'interprete Vigila, oltre agli ambasciatori di Attila, Edika e Oreste. Quando la delegazione giunge in prossimità degli accampamenti, è ricevuta da messaggeri unni che dicono di sapere «già tutto ciò di cui la nostra ambasceria avrebbe dovuto discutere e ci dicono che se non avevamo nient'altro da dire potevamo andarcene subito.» In serata un messaggero di Attila li ferma comunicando loro che Attila aveva cambiato idea e, vista l'ora tarda, li invitava a fermarsi per la notte. «Il mattino successivo arriva l'ordine da parte del re unno di andarcene, se non avevano nulla di nuovo da comunicargli». Prisco, allora, contatta uno dei messi di Attila, Scotta, promettendogli un premio se fosse stato in grado di convincere il re unno a conceder loro un'udienza. Scotta riesce nell'intento. Attila, che era stato già informato della congiura dallo stesso Edika, il quale fin dall'inizio non aveva avuto alcuna intenzione di tradire il suo capo, decide di far finta di esserne ignaro. Attila resta molto ostile con gli ambasciatori, sostenendo che finché i romani non avessero restituito tutti i fuggiaschi, non avrebbe più concesso loro il diritto di essere ricevuti. Alla risposta dell'interprete, Vigila, che tutti i fuggiaschi erano stati consegnati, Attila si «arrabbia ancora di più e lo insulta violentemente, gridandogli che l'avrebbe fatto impalare e divorare dagli uccelli se il fatto di punirlo ... per ... le sue parole sfrontate e senza vergogna non avesse costituito una violazione dei diritti degli ambasciatori». Si decide che Vigila ritorni a Costantinopoli per ribadire a Teodosio la richiesta da parte di Attila di restituire tutti i fuggiaschi unni; lo scopo del viaggio è, principalmente, quello di prelevare l'oro per Edika. Gli ambasciatori romani ricevono altri ambasciatori unni che proibiscono loro di comprare qualsiasi cosa se non generi alimentari fintanto non fossero state soddisfatte le richieste degli unni. Mentre Vigila parte per Costantinopoli, gli altri ambasciatori seguono Attila in una delle sue residenze, praticamente prigionieri. Vigila torna da Attila con lo scopo di portargli la risposta di Teodosio per quanto riguarda la restituzione dei fuggitivi. Gli unni, perquisiscono Vigila, gli trovano addosso 50 libbre d'oro e gli chiedono a cosa gli servissero dato che per volontà di Attila gli ambasciatori romani potevano comprare solo del cibo e con 50 libbre d'oro si poteva comprare tanto cibo da sfamare un piccolo esercito; quando gli unni minacciano di uccidergli un figlio, Vigila confessa l'intrigo, cadendo nella trappola di Attila, che aveva proibito ai messi romani di comprare tutto ciò che non fosse cibo appunto per impedire a Vigila di trovare giustificazioni per le 50 libbre d'oro con cui intendeva pagare Edika. Racconta ancora Prisco che Attila permette a Vigila di riscattare il figlio al prezzo di 50 libbre d'oro e ordina a Oreste di presentarsi all'Imperatore con appesa al collo la borsa in cui Vigila aveva messo l'oro destinato a Edika. Egli doveva mostrarla al sovrano e all'eunuco e domandar loro se la riconoscevano. Oreste doveva anche dire chiaramente che Teodosio era figlio di padre nobile e che pure Attila lo era... ma mentre Attila aveva preservato intatto il suo nobile lignaggio, Teodosio era decaduto del proprio e ormai non era altro che un servo di Attila, tenuto a pagargli un tributo. Cercando di aggredirlo di nascosto come il più infido degli schiavi, quindi, egli aveva commesso ingiustizia contro un imperatore che la sorte gli aveva dato come mentore. Naturalmente la storia si chiude con un'ingente somma di danaro che Teodosio è costretto a consegnare agli unni.
Nel 450 il fronte danubiano a sud del regno di Attila è pacificato: le guerre vinte e il folle complotto contro la sua vita hanno fornito ad Attila il denaro e la sicurezza necessari per elevarsi al ruolo di imperatore e di imboccare la strada della stabilità. Ma questo comportamento non è nel dna di Attila nè in quello dei suoi unni. Al momento Roma si presenta come un ostacolo troppo ostico per Attila, ma, la sua provincia settentrionale, la Gallia, è un bersaglio più accessibile. Occupando la provincia romana il suo impero si estenderebbe dal Baltico all'Atlantico. La Gallia è spezzettata in tanti staterelli: i britanni, occupano l'odierna Britannia, i vandali, gli alani e gli svevi hanno passato il Reno, nel 406, riversandosi nella Spagna, i burgundi, si sono stanziati in Savoia, bande di nomadi bacaudi terrorizzano il nord, i visigoti si sono fermati in Aquitania e, nel 439, l'impero romano ha riconosciuto la loro indipendenza. Sul versante nord-orientale, anche i franchi conservano una solida indipendenza. Ma il cuore della Gallia, con capitale Arles, continua a pulsare, poichè nelle aree centrali e meridionali gli abitanti della provincia galloromana possono contare sulla protezione di Roma. Qui Ezio dal 424 ha costruito le basi di un suo potere personale come paladino della Gallia, opponendo resistenza armata, prima ai visigoti, poi ai germani; naturalmente per condurre le sue guerre di contenimento dei "barbari" si è sempre servito di eserciti di "barbari". Oltre a Ezio va citato anche Avito, statista e futuro imperatore, che, di fatto, è, in Gallia, l'equivalente di un sovrano; a suo merito va ascritta la pace firmata nel 439 con Teodorico, re dei visigoti. Attila, prima di muovere l'esercito verso ovest, manda una comunicazione a Valentiniano III, a Roma, informadolo di avere l'intenzione di attaccare i visigoti, per proteggere Gaiserico re dei vandali, e che non ha nessuna intenzione di attaccare Roma. D'altra parte tra Attila e Roma ci sono sempre stati buoni rapporti; in particolare con Flavio Ezio. L'Impero d'Occidente aveva conferito ad Attila addirittura la carica onorifica di magister militum per le truppe messe a disposizione da Attila contro visigoti e burgundi. Attila prepara un esercito che i romani non hanno mai visto prima; richiama tutte le popolazioni e tribù del suo impero, per un totale, probabilmente, di cinquecentomila uomini. Tra di essi ci sono i gepidi, contingenti di ostrogoti, i rugi, gli sciri, che costituiscono il cuore del suo esercito, akatziri ed eruli, alani, contingenti di turingi e burgundi e longobardi. La campagna di Attila sarebbe andata secondo i suoi piani se non fossero intervenuti tre avvenimenti che spingono il re unno a rischiare troppo, andando incontro alla sconfitta o alla non vittoria dei campi catalaunici.

attila 1

Massima espansione dell'Impero unno.


Attila in Gallia
Onoria, figlia di Gallia Placidia, costretta dal fratello, Valentiniano III a sposare un uomo che non ama, contatta Attila chiedendogli di salvarla da un matrimonio combinato. Onoria nella primavera del 450 invia al re degli unni una richiesta d'aiuto, insieme al proprio anello, perché vuole sottrarsi all'obbligo di fidanzamento con il senatore Flavio Basso Ercolano. La sua non è una proposta di matrimonio, ma Attila interpreta il messaggio in questo senso e accetta pretendendo in dote metà dell'Impero d'Occidente. Quando Valentiniano scopre l'intrigo manda in esilio Onoria, e invia un messaggio ad Attila, nel quale disconosce la legittimità della presunta proposta matrimoniale. Attila, per nulla persuaso, invia un'ambasciata a Ravenna per affermare che la proposta resta valida dal punto di vista legale e che sarebbe venuto per esigere ciò che era un suo diritto. L'insana azione di una donna sconvolta dalla frustrazione produce una reazione altrettanto folle da parte di Attila. Questo è il primo avvenimento inatteso.
Il secondo accade a Costantinopoli; Teodosio II è morto cadendo da cavallo; il suo successore Marciano ha annullato il tributo agli unni. Le continue invasioni da parte degli unni hanno devastato i Balcani e non c'è quasi più niente da saccheggiare, pertanto Attila è privato di quel flusso continuo di oro che gli permette di mantenere l'esercito.
Alla morte del re dei franchi la lotta tra i due figli per la successione sancisce la rottura tra Attila ed Ezio, poiché l'uno dà il suo appoggio al figlio maggiore, e l'altro al minore, che era considerato da Ezio come un figlio. Questo terzo imprevisto, che crea una barriera di incomunicabilità tra Attila ed Ezio, sarà quello più grave.
Attila attraversa la Germania, con un vero e proprio Blitzkrieg, provocando morte e distruzioni. Conquista molte città, tra cui Basilea, Strasburgo, Spira, Worms, Francoforte, Colonia, Magonza. Secondo una leggenda, a Colonia Attila avrebbe incontrato sant'Orsola, che si sarebbe trovata in città con undicimila compagne. Attila sarebbe rimasto colpito dalla straordinaria bellezza di Orsola, cosa questa che in un primo momento le avrebbe salvato la vita. Ma al suo rifiuto di concederglisi, il re unno l'avrebbe fatta uccidere a colpi di freccia e massacrare anche le 11.000 donne che la seguivano. Il Blitzkrieg di Attila non riesce in pieno perchè la cavalleria deve aspettare l'arrivo dei carri con le macchine ossidionali per la conquista delle città e questo concede tempo a Ezio di organizzare il suo esercito. Gli unni attraversano il Reno a Coblenza, abbattendo centinaia di alberi per realizzare i pontoni su cui far passare i carri. Un distaccamento viene inviato a reclutare la frangia dei franchi che combatte per l'erede appoggiato da Attila. Gli unni trovano una certa resistenza a Strasburgo, da parte di contingenti di burgundi. Ma l'assalto principale avviene a Coblenza, nel punto di confluenza di Reno e Mosella. Nella primavera del 451 l'esercito di Attila risale la Mosella su entrambe le rive in due tronconi che si riuniscono al ponte di Treviri; un ciclopico baluardo anche per le macchine di Attila. Questi, infatti, si lascia Treviri alle spalle e converge su Metz, che dopo strenua resistenza deve arrendersi. Entrati a Metz alla vigilia di Pasqua del 451, gli unni “diedero alle fiamme la città, passarono gli abitanti a fil di spada e trucidarono i sacerdoti cristiani sui sacri altari”. Seguono la stessa sorte di Metz tutte le città francesi attraversate da Attila. Si salva Parigi perché non si trova sul percorso che Attila ha in mente, indipendentemente dalla veridicità della leggenda che coinvolge santa Genoveffa. Gli unni si dirigono a sud-ovest, con l'intento di oltrepasare le pianure della Champagne, attraversare la Loira e puntare su Tolosa la capitale dei visigoti. Sulla via ci sono però due grandi città, Troyes e Orléans; quest'ultima è stata per secoli un punto strtegico per andare verso ovest. Nell'occupare Troyes Attila avrebbe pronunciato, davanti al vescovo Lupo, che asseriva d'essere un uomo di dio, la famosa frase "Ego sum Attila, flagellum dei". Nel frattempo Ezio avvia la controffensiva, raduna le truppe tra franchi, burgundi e celti. L'inarrestabile marcia verso occidente di Attila e l'intermediazione di Avito, convincono Teodorico, re dei Visigoti, ad allearsi con i Romani. La diplomazia e le lusinghe producono quello che nessuna guerra avrebbe prodotto: una forza in grado di affrontare il più grande esercito che abbia mai minacciato Roma. Ezio incoraggiato da questo successo riesce a coinvolgere anche gli svevi di Bayeux, i franchi di Rennes, i sarmati di Poitiers, i sassoni, i liticiani, i burgundi, e altri clan minori. Ezio e Teodorico, con un esercito immenso, puntano verso il nodo strategico di Orléans, e lo stesso sta facendo Attila. Romani e visigoti arrivano per primi in tempo per costruire un'imponente fortificazione attorno alla città. Considerando che Orléans è inespugnabile e i suoi uomini stanchi, Attila si ritira dalle foreste della Loira cercando uno spazio aperto dove avrebbe potuto combattere in condizioni più favorevoli. Ezio lo segue pronto ad approfittare della prima occasione favorevole. Attila potrebbe continuare la ritirata, per dar modo ai suoi uomini di riprendersi e di trovare una posizione vantaggiosa, ma l'orgoglio ha il sopravvento e, il 21 giugno 451, si prepara alla battaglia.

attila in gallia


Battaglia dei Campi Catalaunici
Gli unni adottano un atteggiamento difensivo con i carri disposti come base di approvvigionamento, mentre gli arcieri a cavallo lanciano i loro vorticosi assalti contro gli avversari pesantemente armati. Attila è al centro, Valamiro con gli ostrogoti e Ardarico con i gepidi sono alle ali. Nello schieramento romano un'ala è costituita da Ezio con le sue truppe, l'altra da Teodorico con i visigoti e al centro c'è Sangibano con gli alani. Giordane scriverà che Attila abbia spronato i suoi uomini con questo discorso "Dopo che avete vinto tanti popoli, sarebbe sciocco, anzi insolente da parte mia, vostro re, incitarvi a parole. A cos'altro siete avvezzi se non a combattere? E cosa è più doce per un prode guerriero della vendetta ottenuta con le proprie mani? Non curatevi di questa congerie di razze diverse! Guardatevi come stanno in riga con gli scudi serrati, intralciati non dalle ferite ma dalla polvere della battaglia. Avanti, allora, gettatevi nella mischia! Levate in alto il coraggio e fate esplodere la vostra furia! Mostrate la vostra destrezza, miei unni, la vostra prodezza in battaglia! Perchè mai il cielo avrebbe reso vittoriosi gli unni su così tanti popoli se non per prepararli alla gioia di questo scontro? .... Scaglierò io la prima lancia e chiunque rimanga fermo mentre Attila combatte è un uomo morto". Non può trattarsi delle parole originali dette da Attila, ma Giordane ha voluto cogliere un segno dello spirito del "combattere fino alla morte" che aveva animato i guerieri di quella battaglia. Perchè se gli unni erano pronti a morire per amore di Attila i nemici erano pronti a morire per paura di Attila. Teodorico viene disarcionato e muore nella mischia, ma gli attacchi vorticosi degli arcieri unni a cavallo non riescono a rompere lo schieramento nemico, anzi romani e visigoti penetrano nella cavalleria unna, arrivando ai carri. Attila si ritira all'interno del cerchio. La vista il giorno successivo è quella di montagne di cadaveri, gli unni asserragliati nella loro base difensiva e romani e visigoti in posizione di accerchiamento.
La battaglia di Chalôn (o dei Campi Catalaunici) è stata definita da alcuni storici una delle quindici battaglie più decisive combattute dall'uomo: se avesse vinto Attila, la storia d'Europa sarebbe stata diversa. La battaglia di Chalôn diventò famosa, anche, per la sua violenza. Scorsero fiumi di sangue: Giordane parla di 180.000 soldati morti. A un certo punto della battaglia Attila pensa d'essere sconfitto, così ordina che gli sia preparata la pira funeraria. Tuttavia i visigoti, comandati dal figlio di Teodorico, Torismondo, abbandonano il campo di battaglia ed Ezio è costretto a ritirarsi. Altre ricostruzioni vedono invece Ezio stesso, preoccupato per una supremazia militare dei visigoti in Gallia, incitare Torismondo a tornare subito nelle sue terre per sostenere la sua successione al trono. La ritirata dei romani è comunque così improvvisa che inizialmente Attila la considera uno stratagemma di Ezio per attirarlo in trappola, tanto è vero che invece di attaccare ordina alle proprie truppe di mantenere una posizione difensiva; successivamente, quando Ezio è oramai lontano, ordina la ritirata. Giova notare che, in realtà, lo stop all'avanzata degli unni non avviene a Chalôn, ma a Orléans, quando Attila si rende conto di non poter invadere la Champagne, che avrebbe offerto preziosi pascoli e un territorio ideale per i suoi arcieri. A Orléans Attila decide la ritirata cercando di mantenere compatto il suo esercito ed evitando il contatto con il nemico; quella dei Campi Catalaunici fu, forse, un infortunio tattico perchè Attila aveva già deciso di lasciare la Gallia. La Gallia era salva, ma Attila era ancora pronto a combattere. Nell'autunno del 451 Attila rientra in Pannonia dove avrebbe potuto governare un impero di pari potenza di quelli di Roma e di Costantinopoli ed essere ricordato dalla storia come il Gengis Khan d'Europa. Ma Attila è intrappolato da troppe pulsioni: la vergogna per essersi ritirato dalla Gallia, la pressione dei suoi comandanti e dei popoli alleati di riprendere la guerra, l'innata propensione al "movimento".

Invasione dell'Italia e morte
La lezione della Gallia era servita ad Attila per comprendere che avrebbe avuto grandi difficoltà a sconfiggere gli eserciti di Roma e dei visigoti, alleati. Se fosse riuscito ad affrontare Roma da sola avrebbe avuto migliori probabilità e il miraggio della conquista dell'Italia era un ottimo catalizzatore per le mire di saccheggio della sua precaria confederazione. Le porte del percorso per invadere l'Italia erano alcuni obiettivi invitanti, in particolare, Lubiana, Trieste e Aquileia.
Attila torna in Italia nel 452 con la pretesa di reclamare con Onoria metà dell'impero. Il suo esercito, composto soprattutto da truppe germaniche, avanza su Lubiana e Trieste, ma si ferma ad Aquileia, città fortificata di grande importanza strategica: il suo possesso permette di controllare gran parte dell'Italia settentrionale. Attila la cinge d'assedio per tre mesi conquistandola; la città viene rasa al suolo senza lasciare nessuna traccia della sua esistenza. Quindi si dirige verso Padova, che saccheggia. Prima del suo arrivo molti abitanti della città cercano rifugio nelle paludi, dove avrebbero poi fondato Venezia. Dopo la presa di Aquileia l'avanzata di Attila verso Milano avviene senza difficoltà in quanto nessuna città tenta la resistenza, la paura di subire la stesa sorte di Aquileia terrorizza le popolazioni: gli unni raccolgono un copioso bottino saccheggiando Vicenza, Verona, Brescia, Bergamo e Milano, dove, Attila si insedia per qualche tempo nel palazzo reale. Nel frattempo Valentiniano fugge da Ravenna a Roma; Ezio rimane sul campo ma manca di un esercito in grado di ingaggiare battaglia e resta in attesa dell'esercito che Marciano dovrebbe convogliare sul Danubio per chiudere in una sacca gli unni. Attila si ferma sul Po, in una località tramandata col nome di "Ager Ambulejus", dove incontra, nell'attuale Governolo, un'ambasciata formata dal prefetto Trigezio, dal console Avienno e da papa Leone I. Dopo l'incontro Attila si ritira con tutto l'esercito senza pretese né sulla mano di Onoria, né sulle terre in precedenza reclamate. Sono state date diverse interpretazioni della sua azione. La fame e la malaria che accompagnavano la sua invasione potrebbero aver ridotto la sua armata allo stremo, ma l'ipotesi più plausibile è che l'ambasciata portasse un'ingente quantità d'oro al sovrano unno e che lo abbia persuaso ad abbandonare la sua campagna. Questa ipotesi si accorda con la linea politica generalmente seguita da Attila, cioè di chiedere un riscatto per evitare le incursioni unne nei territori minacciati. L'apologia cattolica non parlerà mai di un riscatto in oro bensì di un miracolo compiuto dal papa (che verrà fatto santo) che avrebbe convinto l'unno a lasciare l'Italia. Quali che fossero le sue ragioni, Attila lascia l'Italia e ritorna al suo palazzo.
Da lì pianifica di attaccare nuovamente Costantinopoli e reclamare il tributo che Marciano ha tagliato. Comunque, muore nei primi mesi del 453; la tradizione, secondo Prisco, dice che la notte dopo un banchetto che celebrava il suo ultimo matrimonio (con un'ungherese di nome Krimhilda, poi abbreviato con Ildiko), egli ebbe una copiosa epistassi e morì soffocato. I suoi guerrieri, dopo aver scoperto la sua morte, si tagliarono i capelli e si sfregiarono con le loro spade in segno di lutto così che, dice Giordane, "il più grande di tutti i guerrieri dovette essere pianto senza lamenti femminili e senza lacrime, ma con il sangue degli uomini". Fu seppellito in un triplo sarcofago d'oro, argento e ferro con il bottino delle sue conquiste e il corteo funebre fu ucciso per mantenere segreto il suo luogo di sepoltura. Secondo le leggende ungheresi il sarcofago si trova tra il Danubio e il Tibisco, in Ungheria. Dopo la sua morte, continuò a vivere come figura leggendaria: i personaggi di Etzel nella Saga Nibelunga e di Atli nella Saga Volsunga e nell'Edda poetica sono (seppur in maniera vaga e decisamente alterata) basati sulla sua vita.
Della tomba di Attila si persero le tracce già in epoca del tardo impero romano. D'altronde è verosimile il racconto di Prisco secondo cui Attila fosse stato sepolto in una notte di novilunio in una radura immersa nella bruma non in un tumulo, come consuetudine di quel popolo, ma in una semplice fossa, di cui non sarebbe rimasta traccia visibile già una settimana dopo. Verosimile è pure il fatto che la fossa fosse stata scavata dagli schiavi, così come la deposizione del cadavere e del corredo funebre di favoloso valore sarebbe stata opera loro e che le quattro guardie, incaricate di sorvegliare il buon esito del funerale, avrebbero al termine eliminato questi scomodi testimoni e sarebbero esse stesse state epurate al loro rientro alla reggia, appunto perché fosse mantenuto il segreto totale circa l'ubicazione della sepoltura. Il sepolcro sarebbe prossimo ad un importante corso d'acqua, come nella tradizione religiosa unna.

Come altri condottieri Attila non si preoccupò della successione, pertanto, alla sua morte la discordia serpeggiò subito fra i figli. Di essa approfittarono subito i gepidi, ai quali presto si unirono altri popoli, per affrancarsi dal dominio degli unni. La coalizione dei popoli affrancati ottenne una definitiva vittoria sugli unni che dovettero retrocedere fino al Mar Nero. Dei figli di Attila, Ellac morì nel conflitto con i popoli germanici, Ernac si stabilì nell'odierna Romania, Dengizico forse nell'Illirico. Dopo un infelice tentativo di riscossa, Dengizico nel 469 fu ucciso, e la sua testa portata a Costantinopoli. Finì con lui per sempre l'impero degli unni che senza una guida unica, autorevole e autoritaria, come Attila, si rivelò un castello di carte.Pochi unni sopravvisero assorbiti da altri popoli o lentamente disseminati a est, dissolti come la polvere dopo un'esplosione, affondando nel tempo dal quale erano emersi un secolo prima. Ma Attila come pochi, dopo morto divenne leggenda, fiaba e mito.

LOGO Eugenio Caruso - 17 marzo 2014


Tratto da

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www.impresaoggi.com