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L'economia verde.


Un asset dell'impresa moderna: il brand verde
Eugenio Caruso


L’economia verde è quella in cui la crescita del reddito e dell’occupazione è guidata da investimenti pubblici e privati in grado di ridurre le emissioni di carbonio e l’inquinamento, aumentare l’energia e l’efficienza delle risorse, prevenire la perdita di biodiversità e dei servizi ecosistemici. La definizione di green economy dell’UNEP (United Nations Environment Programme) promuove l’utilizzo sostenibile del capitale naturale e dell’energia, a seguito di un’approfondita analisi e di un’oggettiva valutazione economica. In questi due ambiti sono stati individuati 11 elementi prioritari per un modello di sviluppo sostenibile, attinenti, in parte, alla sfera del capitale naturale e, in parte, ai settori produttivi. L’agricoltura è uno dei settori chiave della strategia UNEP.
In ambito europeo, la comunicazione “Rio + 20: verso un’economia verde e una migliore governance” è la road map della green economy per il raggiungimento di obiettivi ambiziosi e condivisi, tra i quali, la promozione dell’agricoltura sostenibile, dell’uso del suolo e dell’approvvigionamento alimentare. Tali obiettivi sono stati adottati anche attraverso le numerose riforme che hanno interessato la Politica Agricola Comune (PAC). Sul piano produttivo, l’orientamento al mercato e la competitività dell’agricoltura si arricchiscono di un’importante innovazione: una maggiore attenzione allo sviluppo rurale (che associa alla conservazione del paesaggio la protezione dell’ambiente, la qualità e sicurezza dei prodotti alimentari e il benessere degli animali) e alla multifunzionalità dell’agricoltura. Su quest’ultimo aspetto, in particolare, le filiere agroalimentari, pur rimanendo centrali e prioritarie, lasciano spazio a filiere “di qualità ecologica” per il conseguimento di una produzione alimentare e di una gestione sostenibile delle risorse naturali, di un’azione per il clima e di uno sviluppo equilibrato del territorio. In Italia, in particolare, un processo ormai decennale sta trasformando l’agricoltura: accanto a fenomeni come la riduzione delle superfici agricole utilizzate e, quindi, l’abbandono delle campagne, si rileva anche un forte orientamento “green” nella conservazione di specificità territoriali e tradizionali che, accanto all’innovazione qualitativa dei prodotti, hanno consentito anche di reggere le sfide di un mercato globalizzato.
La questione urbana e la crisi delle idee
Nonostante il progredire della scienza e della tecnologia, dell’innovazione e del patrimonio della conoscenza che ha portato a un miglioramento della condizione umana (nutrizione, controllo di diverse malattie, diminuzione della mortalità infantile, allungamento della vita, educazione, comunicazione ecc.), le dinamiche demografiche conseguenti a fenomeni ambientali, sociali ed economici risultano spesso drammatiche. Ne è un esempio la questione urbana, che mostra problematiche e contrasti sempre più estremi, seppur legati alle diverse realtà nazionali. La crescita urbana è dovuta principalmente alla crescita demografica, anche se i tassi di fertilità sono più bassi nelle aree urbane che nelle zone rurali di tutto il mondo. Le migrazioni danno un contributo significativo all’urbanizzazione, poiché le persone si muovono in cerca di migliori opportunità sociali ed economiche. Tuttavia, la povertà aumenta più rapidamente nelle aree urbane che in quelle rurali, dove, nonostante le minori opportunità sociali ed economiche, è sempre possibile dedicarsi a un'agricoltura di sussistenza. Nel 2007, l’UNFPA (United Nations Population Fund) aveva previsto che, per la prima volta nella storia dell’umanità, già a partire dal 2008 oltre il 50% della popolazione mondiale si sarebbe trovato a vivere in città e che, nel 2030, la popolazione urbana sfiorerà i 5 miliardi. La crescita urbana è concentrata soprattutto nei paesi del terzo mondo (Africa ed Asia), dove si aggrava la corsa verso le città-megalopoli, con l’accumularsi dei diseredati nelle bidonville. Diversa l’evoluzione dei paesi in via di transizione (Cina), dove la maggior parte della nuova crescita urbana ha luogo in città medio-piccole, che, tuttavia, risultano avere meno risorse per rispondere alla portata del cambiamento. Nel nostro paese, l’evoluzione urbana è andata verso la crescita di piccole e grandi aree metropolitane, con la progressiva incorporazione dei Comuni (piccoli e medi) di prima gravitazione e la saldatura delle armature urbane, soprattutto lungo le grandi direttrici lineari. Un fenomeno recente nelle aree metropolitane è, inoltre, quello di una importante diminuzione della popolazione residente nei centri principali, seguita da un incremento della popolazione residente nei Comuni di prima e seconda cintura. La recente crisi economica ha aggravato la questione urbana in alcune metropoli. Il problema non riguarda solo le risorse con le quali contrastare l’insostenibilità e garantire la qualità della vita in città. Il vero nodo da sciogliere è rappresentato dalla mancanza di idee e strategie per affrontare la crisi dei sistemi insediativi, per rivedere i modelli sociali, abitativi, di consumo o proporne di nuovi, al fine di contribuire al miglioramento della qualità della vita di milioni di persone. Alcune esperienze, messe in essere a livello internazionale, sostengono l’importanza dell’azione collettiva per l’affermazione di un nuovo e più sostenibile stile di vita, attraverso: il potenziamento delle relazioni con le amministrazioni locali; il coinvolgimento della comunità nei processi di costruzione della “resilienza”; la diffusione di conoscenze e competenze sui processi di trasformazione che investono il clima, l’atmosfera, le acque, le emissioni di inquinanti; la partecipazione al trattamento delle tematiche fondamentali per la vita della comunità (alimentazione, energia, trasporti, salute, aspetti psicologici, economia e sostentamento ecc.); la definizione di un vasto numero di progetti coordinati per promuovere la riduzione dell’uso dell’energia in una scala temporale di 15-20 anni, abbracciando tutte le aree e gli ambiti della vita della comunità.
Agricoltura e Smart City
Il concetto di Smart City è utilizzato, per lo più, per indicare una città in cui tutte le risorse siano accessibili attraverso una infrastruttura di rete efficiente e sulla quale girino servizi informativi attraverso cui cittadino e amministrazione possano dialogare. Ogni Comune è però un microcosmo, con tipicità e caratteristiche che lo distinguono da ogni altro e le difficoltà si enfatizzano per quei Comuni che, a ridosso dei grandi centri metropolitani, risentono delle problematiche portate dalla vicina metropoli senza avere a disposizione le risorse finanziarie per fronteggiarle. Dalla cooperazione e dall’integrazione di più partner e funzioni è però possibile ricavare quella spinta e quelle risorse aggiuntive per avviare un circolo virtuoso che porti alla valorizzazione del territorio, creando un solido substrato socio-economico. L’idea nuova, veicolata dal concetto di Smart City, è infatti quella di un sistema integrato, basato su un numero finito di sottosistemi (sicurezza, acqua, salute, infrastrutture, economia, ambiente, agricoltura ecc.), da gestire in maniera coordinata, per assicurare sviluppo e crescita sostenibile. Nel quadro Smart City l’agricoltura urbana, della quale tratteremo in seguito, e l’accorciamento della filiera tra aree rurali e centri urbani possono contribuire a garantire un’alimentazione sana, utilizzando metodologie di coltivazione meno aggressive verso l’ambiente e favorendo la creazione di una micro-economia. In quest’ottica, l’agricoltura (così come l’acqua e l’energia) ripensata, attualizzata e riorganizzata, è parte integrante e strategica del nuovo modo di considerare la città.
L’agricoltura periurbana
La gestione del territorio nei suoi aspetti sociali, ambientali ed economici diviene particolarmente difficile nelle situazioni ditransizione, dove tipologie ambientali ben definite mutano, più o meno bruscamente. È questo il tipico caso delle periferie urbane, dove l’ambiente costruito è ancora frammentato da realtà agricole preesistenti che resistono all’avanzata del cemento. Le periferie sono aree spesso poco servite e poco controllate, connotate da situazioni di disagio sociale ed economico e viste come zone improduttive. Queste aree, mentre da un lato sono caratterizzate da una perdita di aspetti “rurali” (perdita di suolo fertile, di terreno agricolo, di paesaggio naturale ecc.), dall’altra stentano ad acquisire gli attributi più prettamente urbani, restando caratterizzati da mancanza di pianificazione, accessibilità, servizi e infrastrutture e da una bassa densità abitativa. Dal punto di vista sociale, chi va a vivere in queste aree proviene, spesso, da zone lontane e manca, quindi, di un giusto senso di appartenenza. Cambiando ottica i relitti produttivi ivi presenti e appartenenti alla preesistente economia agricola, possono rappresentare un importante valore aggiunto per l’ambiente urbano limitrofo. Nell’ area peri-urbana, infatti, l’agricoltura mostra tutta la valenza ambientale, sociale ed economica dei suoi elementi caratterizzanti, ad esempio il suo ruolo nel preservare le aree libere, lì dove il suolo (libero) è risorsa scarsa e preziosa. Infatti, anche se nel contesto peri-urbano la pressione esercitata dalla città verso gli spazi liberi circostanti è molto forte e spesso non governata (Mazzocchi, 2011), queste zone possono cogliere l’opportunità di un mercato in cui collocare prodotti agricoli freschi, sfruttando i vantaggi economici offerti da una filiera corta. Questo nuovo modo di guardare alle aree peri-urbane può portare alla creazione di posti di lavoro, non solo in ambito agricolo, ma anche ricreativo, ristorativo e dell’accoglienza (agriturismi a ridosso della città). In questo senso, le attività, agricole e non, che si realizzano in tali ambiti, assumono un carattere sempre più distinto rispetto alle tipologie rintracciabili nelle aree a maggiore grado di ruralità (Pascucci, 2007), determinando la creazione di nuove opportunità di sviluppo locale e la protezione dei valori ambientali e socio-culturali preesistenti allo sviluppo della città. La gestione delle aree peri-urbane richiede un approccio integrato: in particolare, è necessario promuovere il concetto base di multifunzionalità per valorizzare le numerose vocazioni e potenzialità. Il tipico Piano Regolatore Generale (PRG) per la gestione del territorio risulta uno strumento troppo rigido dal punto di vista dell’integrazione. Il processo pianificatorio dovrebbe, infatti, partire da interventi di tipo igienico-sanitario, ambientale e paesaggistico per approdare a necessità gestionali volte a raccordare gli aspetti di salvaguardia e conservazione ambientale con quelli di sviluppo sociale ed economico dell’area. Un PRG evoluto dovrebbe prevedere aree destinate a Parco Agricolo. In Italia sono ormai molte le iniziative in questo senso. Andiamo dalla ormai pluriennale esperienza del Parco Agricolo Sud Milano, del Parco Agricolo della Piana di Prato, al costituendo Parco Agricolo Casal del Marmo di Roma Capitale, dove si sono recentemente promosse iniziative quali Farmer’s Market, Orti Urbani, una rete di fattorie educative per le scuole di vario ordine e grado, la realizzazione di un marchio di qualità Romana per tutelare e rilanciare la qualità dei prodotti a km zero ed il lavoro degli agricoltori del territorio. Il Parco Agricolo è uno strumento di protezione, gestione e valorizzazione di realtà territoriali legate, appunto, al paesaggio agricolo tradizionale italiano, di derivazione per lo più regionale, regolati da apposite leggi (ad esempio il Dgr 3 agosto 2000 – n. 7/818 per il Parco Regionale Agricolo Sud Milano), ma anche, in alcuni casi, municipale, come nel caso di Casal del Marmo a Roma. I Parchi Agricoli sono pensati per integrare gli interventi da realizzare e coordinare le politiche regionali, provinciali e municipali nei singoli territori.
L’agricoltura urbana
Nell’ambito del discorso sull’agricoltura, è importante fare riferimento a un fenomeno abbastanza recente e in evidente espansione: quello degli orti urbani, ovvero la sempre più diffusa abitudine di coltivare direttamente, dove possibile, una parte delle verdure e della frutta che poi si consumerà. Negli ultimi anni, questo fenomeno di carattere sociale, largamente spontaneo, si è rafforzato anche a causa della crisi economica, con portata internazionale ed esempi facilmente reperibili in tutti i continenti. Dai tetti di Parigi e Shangai alle aiuole di Cleveland, da Wellington in Nuova Zelanda agli orti urbani di San Pietroburgo. In Italia, il fenomeno è molto più diffuso di quanto si pensi. L’ISTAT (2013) riporta che la superficie media comunale dei capoluoghi di provincia, utilizzata come superficie agricola (SAU), è pari al 45,5% del territorio, mentre una tipologia di verde in crescente diffusione nelle città sono appunto gli “orti urbani”, attivati in ben 44 amministrazioni per una superficie media pari allo 0,2% della SAU presente (72% delle città del Nord-ovest, poco meno del 60% di quelle del Nord-est e il 41% del Centro; nel Mezzogiorno gli orti urbani risultano presenti solo a Napoli, Andria, Barletta e Palermo) (ISTAT, 2013). Molti di questi Comuni hanno affidato la gestione degli orti sulle aree pubbliche ad Associazioni no profit. Altre iniziative simili partono dalle parrocchie, dai centri sociali e dai centri anziani, ma sono presenti anche gruppi auto-organizzati di cittadini che spesso coltivano aree urbane abbandonate senza alcuna autorizzazione da parte delle autorità comunali, con problemi di tipo paesaggistico e di controllo della qualità dei prodotti edibili. L’iniziativa della coltivazione degli orti vede per lo più protagonisti anziani e pensionati, assumendo una duplice valenza di carattere sanitario e sociale. Sempre più spesso, inoltre, gli orti vengono coltivati da persone che hanno perso il lavoro e contribuiscono, in questo modo, al sostegno familiare, assumendo così un valore di inclusione sociale di categorie deboli e di sostegno all’economia domestica, rafforzando altresì il senso di autonomia economica e alimentare di persone fuori dal mondo del lavoro. Dal punto di vista della gestione del territorio, la presenza di orti urbani regolamentati contrasta il degrado del paesaggio e permette di trovare una nuova destinazione d’uso per le aree abbandonate e dismesse, soprattutto nelle periferie, con gli indubbi vantaggi che ne derivano. Le aree coltivate rappresentano ambienti umidi che migliorano il microclima generale, contrastando attivamente le bolle di calore così frequenti e pericolose in città, soprattutto per anziani e bambini. La presenza ed il viavai continuo di persone nella zona degli orti, inoltre, aumenta il controllo sociale del territorio di quartiere nelle aree periferiche, rendendo più difficile l’instaurarsi di fenomeni di degrado sociale (spaccio di droga, prostituzione), migliorando la fruibilità dell’ambiente da parte dei bambini, dei giovani e degli anziani e favorendo il senso di appartenenza al territorio. Oltre a quanto già detto, non è da trascurare l’indotto economico mosso dall’iniziativa degli orti urbani. Esiste infatti un mercato delle sementi e delle piantine da orto, dei fertilizzanti e dei prodotti fito-sanitari, che gira intorno a queste iniziative e che può rappresentare un consistente incremento di reddito per le aziende agricole dell’hinterland cittadino. Iniziative del genere possono rappresentare, senza dubbio, una buona pratica da implementare e/o incrementare a livello municipale, inserendole in una più ampia programmazione di attività a sfondo ambientale e sociale rivolta ad una città sempre più smart. A questo scopo, sarebbe opportuno incrementare la realizzazione ed applicazione dei Piani del verde urbano. L’ISTAT (2013), infatti, riporta che meno di un quinto dei Comuni ha approvato il Piano del verde, e solo il 45,7% di essi ha adottato un Regolamento del verde urbano.
La filiera corta
La filiera corta è stata negli ultimi anni protagonista di un importante sviluppo che ha favorito il dibattito scientifico e politico e del quale l’opinione pubblica è sempre più consapevole. L’agricoltura periurbana entra a pieno titolo nella definizione ed identificazione di filiere corte di produzione agricola a servizio delle aree urbane, per permettere ai consumatori, oltre ad una riduzione dei prezzi al consumo, anche un più diretto controllo sulla qualità dei prodotti consumati e sui metodi di coltivazione. Anche se le aree agricole peri-urbane soffrono spesso per un diffuso degrado e per l’aumento dell’inquinamento, il recupero e la razionalizzazione della gestione di queste aree potrebbe portare ad un’agricoltura peri-urbana consistente e di qualità, permettendo anche la nascita e la diffusione di organizzazioni sociali di tipo spontaneo, come ad esempio i Gruppi di Acquisto Solidale, i quali, soprattutto in momenti di crisi economica e sociale come quella che stiamo vivendo, permettono un abbattimento dei costi di acquisto e, contemporaneamente, il riconoscimento di un prezzo più equo per i produttori. L’interesse per il fenomeno è giustificato dal fatto che le filiere corte toccano alcuni dei temi più attuali del dibattito sul cibo: il problema del rapporto tra cambiamento globale, disponibilità di risorse naturali e produzione agricola; i conflitti economici e sociali che si generano tra i diversi attori delle filiere agroalimentari; la questione delle interazioni fra città, vista come luogo di consumo, e campagna, considerata solo come luogo di produzione; il bisogno, sempre più sentito dal consumatore, di esercitare un controllo diretto sulla qualità del cibo portato in tavola, in un mondo globalizzato dove la provenienza, a volte lontanissima, di frutta, verdura, carne, fa nascere dubbi sulle modalità di coltivazione, confezionamento ecc. È necessario chiedersi se, e in che modo, l’accorciamento della filiera alimentare possa fornire risposte adeguate all’esigenza di produrre cibo più accessibile, magari con una maggiore efficienza nell’uso delle risorse. Inoltre, la domanda di prodotti alimentari da luoghi vicini potrebbe contribuire a ridurne la destinazione energetica, con un effetto positivo sui prezzi alimentari. La valutazione ambientale, quindi, deve essere rigorosa e attenta, e incorporare – oltre al concetto delle food miles – anche altri aspetti, che vanno dalla biodiversità al paesaggio. Il consumo locale, in altri termini, non deve diventare una forma di chiusura e di protezionismo, ma una delle tante risposte che, integrate ad altre, possono contribuire a sviluppare comportamenti sociali ed alimentari più sostenibili.

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tratto da www.enea.it
21 marzo 2014

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