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I passi della crisi 2008-2014. Parte XXIII

La felicità è l'appagamento di tutte le nostre tendenze
I. Kant


L’articolo è  il seguito di
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I passi della crisi 2008 - 2011 - Parte XIII
I passi della crisi 2008 - 2012 - Parte XIV
I passi della crisi 2008 - 2012 - Parte XV
I passi della crisi 2008 - 2012 - Parte XVI
I passi della crisi 2008 - 2012 - Parte XVII
I passi della crisi 2008 - 2013 - Parte XVIII
I passi della crisi 2008 - 2013 - Parte XIX
I passi della crisi 2008 - 2013 - Parte XX
I passi della crisi 2008 - 2014 - Parte XXI
I passi della crisi 2008 - 2014. Parte XXII.

Con riferimento ai succitati articoli, questo prosegue, per il secondo quadrimestre del 2014, l'analisi delle performance economico-finanziarie degli stati sovrani e delle più importanti imprese del pianeta, dall'inizio della crisi economica che ha colpito il pianeta. Con particolare attenzione è analizzata la situazione italiana. Sono, inoltre, presi in considerazione tutte le più importanti iniziative degli stati e delle organizzazioni internazionali e nazionali, nonché gli andamenti delle economie di vari paesi.

Crescita a livello di prefisso telefonico (4 maggio 2014)
Una crescita dello 0,6%. È quanto prevede l’Istat in relazione al Pil italiano. Secondo l’istituto nazionale di statistica la crescita dell’Italia sarà quest’anno dello 0,6% in termini reali, meno di quanto stimato dal governo (+0,8%), e con un tasso di disoccupazione in aumento al 12,7%. Anche per il 2015 il Pil dovrebbe continuare a crescere con un aumento dell’1% ma comunque sotto l’1,3% stimato dal governo Renzi. Sono questi i dati contenuti nel report “Le prospettive per l’economia italiana nel 2014-2015” pubblicato dall’Istat. Lo scorso novembre l’istituto aveva ipotizzato per l’anno in corso un Pil a +0,7% e una disoccupazione al 12,4%. «Lo scenario di previsione è particolarmente legato alle ipotesi relative all’evoluzione della domanda internazionale, del tasso di cambio e dell’offerta di credito che sono soggette a forte incertezza nel periodo analizzato — si legge nel documento —. Le previsioni incorporano gli effetti macroeconomici di breve e medio termine della manovra di finanza pubblica presentata nel Documento di Economia e Finanza». Nel 2015 la disoccupazione dovrebbe scendere al 12,4%, dmentre per il 2016, secondo Istat, il prodotto interno lordo crescerà dell’1,4%, contro l’1,6% stimato dall’esecutivo Renzi. Non solo, secondo l’Istat l’Italia è ormai al top della classifica tra i Big Ue per la disoccupazione di lunga durata. «Nel 2013 — si legge nel rapporto — in Italia la quota dei disoccupati di lunga durata è risultata la più elevata tra i principali paesi europei, con un crescita rispetto all’anno precedente di circa 6 punti percentuali. Tale componente è cresciuta significativamente (circa il 56,4% del totale dei disoccupati, erano il 45,1% all’inizio della crisi), sia nel Mezzogiorno sia nel Nord-Est». Dal bonus di 80 euro deciso dal governo Renzi ci sarà «un minimo effetto positivo sui consumi privati nel 2014, con un effetto trascinamento» anche per i prossimi anni. Inoltre nell’anno in corso la spesa delle famiglie, dopo tre anni di riduzione, potrebbe segnare un aumento dello 0,2%. «Nel 2015 si prevede un ulteriore miglioramento con una crescita dei consumi delle famiglie pari allo 0,5%». Dato che potrebbe salire all’1% nel 2016.

Scatto finale per il decreto lavoro (5 maggio 2014).
Rush finale per decreto Poletti. La commissione Lavoro del Senato ha iniziato stamane l'esame dei circa tra 700 emendamenti e ordini del giorno presentati (il governo ha depositato otto proposte di modifica). Prima della pausa intorno alle ore 14 la commissione presieduta da Maurizio Sacconi ha approvato il primo degli otto emendamenti governativi, sul preambolo da inserire nell'articolo 1 del dl 34. In pratica si impegna il governo ad adottare il testo unico semplificato della disciplina dei rapporti di lavoro, con la previsione in via sperimentale del contratto a tempo indeterminato a protezione crescente (cavallo di battaglia del relatore, e senatore di Sc, Pietro Ichino). Via libera della commissione, con l'ok della maggioranza e il voto contrario delle opposizioni, all'emendamento del governo che prevede che le aziende che sforano il tetto del 20% di contratti a termine debbano pagare multe fino al 50% della retribuzione anziché essere obbligate ad assumere. Il governo ha poi riformulato l'emendamento che esonera dal rispetto del tetto legale di 36 mesi di durata massima del rapporto a termine per le attività di ricerca scientifica. «Si dà la possibilità di avere un termine oltre i 36 mesi solo per le attività di ricerca scientifica, purchè legato alla durata del progetto di ricerca - ha spiegato durante la pausa dei lavori della commissione il sottosegretario, Luigi Bobba -. La norma non è retroattiva e offre maggiori protezioni. Questi contratti infatti altrimenti sarebbero co.co.pro.». «Le eccellenze italiane non vengono più penalizzate», ha aggiunto il relatore Ichino; e il presidente della commissione Sacconi ha sottolineato come questa misura dà ora le stesse possibilità agli enti privati (nel settore pubblico già oggi i contratti vengono reiterati oltre i 3 anni). I lavori della commissione andranno avanti a oltranza fino alla chiusura delle votazione e all'assegnazione del mandato al relatore. Se non ci saranno intoppi, si prevede di chiudere entro le ore 22. Domani il dl è atteso in Aula.

Obbligo del POS per i professionisti (6 maggio 2014).
La norma che obbliga i professionisti e le imprese a consentire i pagamenti con il bancomat per importi al di sopra dei 30 euro non viola alcun parametro di legittimità né evidenzia eccessi di potere tali da giustificare la sua sospensione in via cautelare. Semmai, evidenzia solo un costo economico di certo non irreparabile. Lo ha stabilito il Tar del Lazio, sezione terza ter, con l'ordinanza 01932/2014 depositata il 30 aprile e resa nota ieri che ha rigettato l'istanza presentata dal Consiglio nazionale degli architetti contro il Dm 24 gennaio 2014 del ministro dello Sviluppo economico attuativo dell'articolo 15, comma 5 del Dl 179/2012 laddove prevede (articolo 2, comma 1) che l'obbligo di accettare pagamenti attraverso carte di debito si applica a tutti i pagamenti di importo superiore a 30 euro a favore di imprese e professionisti per l'acquisto di prodotti o la prestazione di servizi. A giudizio degli architetti si tratta di una norma insensatamente vessatoria e costosa stante che il suo scopo primario, quello di contrastare elusione ed evasione, può essere raggiunto attraverso pagamenti tracciati (bonifico o assegni) senza obbligare i professionisti ad attivare Pos costosi da installare e utilizzare, stante il divieto - ex articolo 15, comma 5 quater del Dl 179/2012 - di richiedere un sovraprezzo legato all'utilizzo di un determinato strumento di pagamento. E il Tar, alla luce della sommaria delibazione dell'atto impugnato e dei motivi di ricorso, ha ritenuto inesistente il "fumus boni juris" in quanto il decreto impugnato «sembra rispettare i limiti contenutistici e i criteri direttivi fissati dalla richiamata fonte legislativa che, all'articolo 9, comma 15-bis, impone perentoriamente e in modo generalizzato che a decorrere dal 30 giugno 2014, i soggetti che effettuano l'attività di vendita di prodotti e di prestazioni di servizi, anche professionali, sono tenuti ad accettare anche pagamenti effettuati attraverso carte di debito». Peraltro il decreto impugnato «ha dato attuazione al suddetto obbligo generale di fonte legale relativo all'uso tendenzialmente generalizzato delle carte di debito per le transazioni commerciali, mentre la fissazione di "importi minimi" da parte della fonte secondaria è espressamente indicata come "eventuale". Dura la reazione di Leopoldo Freyrie, presidente del Consiglio nazionale degli architetti. «Riconfermiamo - si legge in una nota - che l'obbligo di utilizzo del Pos da parte dei professionisti dal prossimo 30 giugno nulla ha a che fare con i principi di tracciabilità dei movimenti di denaro, realizzabili semplicemente con il bonifico elettronico configurandosi, invece, come una vera e propria gabella medioevale ingiustamente pagata a un soggetto privato terzo, le banche, che non svolgono alcun ruolo, nel rapporto tra committente e professionista. Il bonifico Stp costa la metà del pagamento via Pos e consente lo stesso risultato di tracciabilità». Peraltro – conclude Freyrie – «non ci fermeremo certo di fronte a questa ordinanza e sono sicuro che quando i giudici amministrativi entreranno nel merito del provvedimento che abbiamo impugnato sapranno cogliere tutti quei profili di illegittimità che noi abbiamo evidenziato». COME ERA DA PREVEDERSI IL CORPORATIVISMO DELLA ORGANIZZAZIONI PROFESSIONALI E' SEMPRE CONTRO QUALUNQUE INIZIATIVA DI MODERNIZZAZIONE.

Il decreto lavoro passa al senato (7 maggio 2014).
Il Dl Lavoro ha ottenuto il via libera del Senato e ora torna alla Camera per la terza e (nell’auspicio della maggioranza) ultima lettura. Il governo aveva posto la questione di fiducia, per non correre rischi dopo le tensioni degli ultimi giorni e i mal di pancia interni alla stessa maggioranza. E alla fine l’ha ottenuta, con 158 voti a favore, 122 contrari e nessun astenuto. Il voto ha riguardato un unico maxiemendamento che ha inglobato il testo già approvato dalla Camera il 23 aprile, integrato dalle modifiche introdotte nella commissione Lavoro di Palazzo Madama. Sostanzialmente, viene ridefinita la disciplina sui contratti a termini superando i vincoli della motivazione per le proroghe che potranno essere fino a cinque e viene posto un tetto del 20% nel numero di questi contratti sul totale dei dipendenti di un’azienda. Prima del voto in Aula era andata in scena la vistosa protesta del Movimento 5 Stelle: i senatori grillini hanno indossato magliette con la scritta «Schiavi mai» e si sono incatenati fra loro con delle manette. Oltre ai pentastellati, anche gli esponenti di Sinistra Ecologia e Libertà hanno duramente contestato il provvedimento, parlando apertamente, anche attraverso cartelli esposti dai banchi, di «massacro sociale» e di «nuova schiavitù». Prima del voto il Movimento 5 Stelle aveva duramente attaccato, con Maurizio Bucarella, la decisione di blindare la discussione con il voto di fiducia: «Ancora una volta il Parlamento viene espropriato di ogni funzione, per la sesta volta il governo Renzi violenta le istituzioni e la democrazia in questo Paese». Fortemente critica anche Forza Italia, che pure ha sostenuto il provvedimento, secondo cui la decisione di porre la fiducia è «l’ennesima fiducia per evitare la palude e le insidie della sinistra conservatrice» (Manuela Repetti) e che rileva come «nel testo finale c’è più Fornero che Biagi, non c’è flessibilità in entrata. C’è, insomma, tutta l’impotenza di un presidente del Consiglio che pretende di governare a colpi di slogan e slide» (Anna Maria Bernini). SINTESI DELLA SEDUTA. Con 158 voti favorevoli e 122 contrari, l'Assemblea ha rinnovato la fiducia al Governo, approvando il maxiemendamento sostitutivo del ddl n. 1464 di conversione, con modificazioni, del decreto-legge 20 marzo 2014, n. 34, recante disposizioni urgenti per favorire il rilancio dell'occupazione e per la semplificazione degli adempimenti a carico delle imprese (decreto Poletti). Il testo torna dunque alla Camera dei deputati. L'articolo 1 detta una nuova disciplina per il contratto a termine, che non prevede più il vincolo della motivazione sia per il primo contratto sia per le sue proroghe, ridotte da otto a cinque. In ciascuna azienda è previsto un limite massimo di rapporti di lavoro a termine pari al 20 per cento dell'organico stabile. Gli enti di ricerca sono esclusi dal limite del 20 per cento. Per le aziende che non rispettano il tetto è prevista una sanzione pecuniaria. L'articolo 2 detta una nuova disciplina per l'apprendistato. Il testo prevede che il contratto scritto contenga il piano formativo individuale in forma sintetica. Il decreto-legge riduce gli obblighi previsti per le nuove assunzioni degli apprendisti, riducendo al 20 per cento la percentuale minima di conversione di rapporti di apprendistato. L'obbligo di stabilizzazione è limitato alle aziende con più di 50 dipendenti. E' introdotta la possibilità di utilizzare l'apprendistato per attività stagionali. L'articolo 2-bis contiene norme di diritto transitorio. Fino al 31 dicembre, in aggiunta alla norma nazionale del 20 per cento, valgono le regole già scritte nei contratti vigenti. L'articolo 3 riguarda l'elenco anagrafico dei servizi pubblici per l'impiego, cui possono iscriversi anche i cittadini di altri Stati membri dell'Unione europea e i soggetti extracomunitari regolarmente soggiornanti in Italia. L'articolo 4 semplifica il sistema di adempimenti richiesti alle imprese per l'acquisizione del Documento unico di regolarità contributiva (DURC). L'articolo 5 prevede, a favore del datore di lavoro che stipula contratti di solidarietà, un beneficio consistente nella riduzione provvisoria della quota di contribuzione previdenziale a suo carico per i soli lavoratori interessati da una riduzione dell'orario di lavoro superiore al 20 per cento. In sede di replica il relatore, sen. Ichino (SC), ha negato l'incostituzionalità del decreto in materia di contratto a termine e di apprendistato, sottolineando che esso allinea l'Italia ai Paesi europei più avanzati. Ha ribadito inoltre che il provvedimento segna uno spartiacque rispetto ad una cultura del lavoro anacronistica e anticipa una riforma del mercato del lavoro che dovrà contenere anche i servizi all'impiego, il contratto di ricollocazione, la ridefinizione degli ammortizzatori sociali. Il Sottosegretario di Stato per il lavoro e le politiche sociali Bobba ha sottolineato che il ricorso alla decretazione d'urgenza si giustifica con la necessità di raggiungere in tempi brevi tre obiettivi fondamentali: agevolare le assunzioni in tempi di crisi, allungare la durata dei contratti a termine, soppiantare i contratti di lavoro con minori tutele. Il Sottosegretario ha negato che il decreto introduca forme di schiavitù e che gli emendamenti approvati alla Camera vengano dal partito della CGIL: le modifiche introdotte in Parlamento sono migliorative ma non stravolgono il testo originario del Governo. Tra le novità positive ha ricordato il rinvio ai contratti nazionali per le condizioni di lavoro più favorevoli; la deroga al tetto del 20 per cento per gli enti di ricerca; il potenziamento dell'offerta formativa pubblica e l'apprendistato stagionale. Dopo la posizione della questione di fiducia da parte del Ministro Maria Elena Boschi sull'approvazione del maxiemendamento 1.900 interamente sostitutivo dell'intero ddl, che fa salve le modifiche della Camera e recepisce quelle approvate in Commissione al Senato, il testo è stato trasmesso alla Commissione bilancio per la valutazione dei profili di copertura e il Presidente della 5a Commissione, sen. Azzollini (NCD), ha espresso in Aula parere favorevole. Nella discussione sulla fiducia hanno preso la parola i sen. Alesssandra Bencini (Misto); Petrocelli, Cioffi, Buccarella (M5S); Centinaio (LN); Uras (SEL); Malan, Galimberti, Scilipoti, Paola Pelino (FI). Nelle dichiarazioni di voto hanno preannunciato la fiducia i sen. Maran (SC), Mauro (PI), Berger (Aut-PSI), Sacconi (NCD), Annamaria Parente (PD). Hanno invece negato la fiducia i sen. Barani (GAL), Emanuela Munerato (LN-Aut), Barozzino (Misto-SEL), Nunzia Catalfo (M5S), Bonfrisco (FI-PdL). Il Presidente Calderoli ha sospeso brevemente la seduta quando i sen. di M5S si sono ammanettati e hanno esposto magliette con la scritta "Schiavi mai". Sinistra Ecologia e Libertà e Movimento 5 Stelle hanno criticato anzitutto il ricorso al decreto-legge e al voto di fiducia su un tema fondamentale per la vita dei cittadini. Nel merito, hanno accusato il Governo Renzi di essersi spinto molto più in là del centrodestra nello smantellare i diritti dei lavoratori e nel diffondere la precarietà. L'evidenza empirica dimostra che la riduzione delle tutele dei lavoratori non crea occupazione e non aumenta la produttività, ma serve solo ad abbattere i salari. Per aumentare la produttività occorre piuttosto investire in ricerca e sviluppo. La flexsecurity è una chimera: l'Esecutivo si accinge a sostituire gli ammortizzatori sociali con assicurazioni private, non risolve il problema degli esodati ma concorre alla demolizione della democrazia nei luoghi di lavoro. Secondo la Lega Nord e GAL il decreto-legge manca di coraggio e incisività: per creare nuove opportunità occupazionali, soprattutto per i giovani, è necessario ridurre la pressione fiscale sul lavoro e abrogare la legge Fornero. Secondo FI-PdL il decreto non segna una rottura con la cultura vetero-sindacale, rappresenta un passo indietro rispetto alla flexsecurity, non incentiva le imprese ad assumere e sarà fonte di ulteriore contenzioso. Scelta Civica, Popolari per l'Italia e Nuovo Centrodestra hanno difeso un provvedimento che rende più fluido un mercato del lavoro ingessato da norme troppe rigide. Aut-PSI, pur lamentando la mancata approvazione di un ordine del giorno per l'estensione dell'utilizzo dei voucher in agricoltura, ha auspicato norme più semplici e chiare che tengano conto delle specificità dei singoli mercati e realtà produttive. Secondo il PD il decreto riflette un giusto equilibrio tra flessibilità e tutele e sarà completato dall'istituzione di un'Agenzia del lavoro e da nuovi ammortizzatori sociali. Al termine della seduta, il Presidente di turno Calderoli ha richiamato l'attenzione del Governo su una notizia di agenzia secondo la quale il Presidente del Consiglio avrebbe commentato l'approvazione ieri sera di un ordine del giorno sulle riforme istituzionali in termini di "accozzaglia di valore pari a zero". (La seduta è terminata alle ore 16:54 ).

I tecnici del senato contro Renzi (9 maggio 2014).
Scontro tra Matteo Renzi e il presidente del Senato Pietro Grasso sui dubbi che i tecnici di Palazzo Madama hanno mosso alle coperture per il taglio dell'Irpef. Intervenendo su Canale 5, il presidente del Consiglio ha definito "tecnicamente false" le critiche del servizio Bilancio di Palazzo Madama al decreto che prevede un bonus di 80 euro sui redditi fino a 24.000 euro. L'uscita di Renzi ha ravvivato una polemica che si trascina dal 2 maggio e ha scatenato la replica del presidente del Senato, Piero Grasso. "Non posso accettare che si metta in discussione la serietà, l'autonomia e l'indipendenza degli uffici del Senato, in particolare degli uffici del bilancio che da 25 anni, nei confronti di tutti i governi, forniscono analisi sulla base dei dati che accompagnano i provvedimenti legislativi", ha detto la seconda carica dello Stato, come confermato dal suo portavoce. "Se i dati sono corretti, sulle analisi si può concordare o meno, senza arrivare ad accuse di falsità né a sospetti di interessi corporativi o addirittura a vendette personali", ha aggiunto Grasso. La manovra a favore dei redditi medi e bassi è finanziata per il 60% da maggiori entrate. Il contributo principale (1,8 miliardi) deriva dalle banche: l'imposta sostitutiva sulle quote rivalutate di Bankitalia sale dal 12 al 26%. Attirandosi la reazione polemica di Renzi, i tecnici del Senato hanno sostenuto che l'aumento dell'aliquota possa essere incostituzionale. Il bonus di 80 euro è valido da maggio a dicembre del 2014. In una nota il ministero dell'Economia riferisce di aver già elaborato le buste paga dei dipendenti che lavorano nelle amministrazioni centrali e periferiche dello Stato. "La predisposizione di quasi 800.000 buste paga con il beneficio fiscale testimonia la fattibilità e l'efficacia del provvedimento, che potrà essere implementato tempestivamente tanto nel settore pubblico quanto nel settore privato", si legge nella nota.

L'asparago rosa e la pedemontana (11 maggio 2014).
Siamo a un passo dall’Expo di Milano dedicato all’alimentazione, ma una coltivazione tipica del territorio lombardo è messa a rischio. E con lei la comunità che le è cresciuta intorno. Una parte consistente di terreni su cui cresce l’asparago rosa di Mezzago (cittadina in provincia di Monza e Brianza) si trova proprio sul percorso della Pedemontana. E ancora non si è riusciti a trovare una soluzione per preservare questa verdura, nonostante i progetti dell’autostrada abbiano ormai un’età decennale. La questione del terreno è centrale perché l’ortaggio deve la sua colorazione proprio ai campi disponibili nella zona: sono argillosi, ambiente solitamente avverso per questa coltura, e ricchi di minerali ferrosi. E per trovarne altri sarebbero necessarie lunghe e incerte ricerche, ma dalle istituzioni non arrivano risposte: «Abbiamo provato a chiedere senza risultati tanto in Regione quanto alla stessa Pedemontana», afferma Paola Santeramo, presidente di Confederazione italiana agricoltori di Milano, Lodi, Monza e Brianza che ha lanciato l’allarme. «Anche perché ci sono in gioco i destini di tre famiglie di coltivatori». E la questione è quanto mai attuale visto l’avvicinarsi di Expo 2015: «In ballo», ha specificato Santeramo», c’è la metà dei terreni coltivati ad asparago rosa, non una porzione residuale. Possibile che a meno di un anno dall’Expo non sia possibile trovare una soluzione per consentire a questo esempio di agricoltura sostenibile di svilupparsi insieme alla propria comunità?». Oltretutto una parte dei campi da cancellare si trova in una zona pregiata: «Uno dei campi in questione, quello di più recente sfruttamento, è nella zona a nord del Mezzago», specifica Giovanni Vitali, presidente della cooperativa asparagi, «quella più fertile e adatta per l’asparago». La storia dell’ortaggio, fino a questo momento, era quanto mai «rosa». Comincia a diffondersi agli inizi dello scorso secolo, per vivere il suo momento d’oro negli anni Trenta quando si trovava ancora nei mercati milanesi. Quarant’anni dopo però conosce un declino costante fino alla fine del Novecento, quando la sagra dedicata quasi scompare. All’inizio del nuovo millennio però la svolta: l’asparago diventa De.Co., cioè un prodotto di denominazione comunale. Un marchio, ottenuto da altri 45 prodotti in Lombardia, che è garanzia della provenienza dell’ortaggio e che ha permesso lo sviluppo di un’economia locale piuttosto fiorente. Senza contare la sagra ricca di eventi che quest’anno termina il 25 maggio. Un esempio di quanto piaccia ai clienti si è avuto all’ultimo mercato agricolo organizzato al Castello Sforzesco a Milano: «Gli stessi produttori erano stupiti», racconta Santeramo, «perché in appena due ore e mezza avevano esaurito tutta la merce: questo è anche un segno di come questa sia una coltivazione che si regge da sola senza bisogno di sussidi, è sufficiente che si lascino lavorare gli agricoltori in pace». Infatti la situazione di sospensione in cui vivono queste famiglie rende difficile programmare il futuro, elemento fondamentale per produrre asparagi: una nuova coltivazione inizia a rendere dopo due anni e ne dura circa dieci. Poi è necessario lasciar riposare il terreno per un certo tempo prima di ricominciare. Sono necessari dunque investimenti e programmazioni a lungo termine. Il meccanisno del NIMBY (Not In My Back Yard) colpisce ancora.

La giungla della burocrazia fiscale (12 maggio 2014).

Non c’è niente da fare: non solo abbiamo una pressione fiscale particolarmente alta, ma anche quella burocratica (legata a tutte le pratiche che il Fisco comporta) è da record. Solo nelle ultime due legislature sono state ben 629 le nuove norme in materia fiscale adottate dallo Stato e di queste appena 72 (l’11,4% del totale) sono servite a semplificare le procedure a carico delle imprese, 168 quelle neutre, mentre ben 389 hanno aumentato il peso di scartoffie ed adempimenti. In pratica, rivela un’analisi della Direzione politiche fiscali di Confartigianato, dal 2008 ad oggi quasi due nuove norme fiscali su tre hanno aumentato il carico di pratiche da istruire. L’anno peggiore è stato il 2013 (con 99 nuove norme che hanno prodotto un impatto burocratico e appena 6 che invece lo hanno ridotto), mentre il più «felice» è stato certamente il 2011 con ben 29 provvedimenti di riduzione del peso burocratico. La politica della semplificazione in Italia – sintetizza lo studio - appare insomma sempre più «come una tela di Penelope, visto che per una norma che semplifica ne vengono emanate 5,4 che hanno un impatto burocratico». Attribuendo valore zero alle norme neutre, -1 a quelle che semplificano ed un valore crescente da +1 a +3 a quelle che rendono progressivamente più complessa l’attività imprenditoriale, Confartigianato ha elaborato un «Indice della pressione burocratica fiscale», indice che nel giro di 5 anni è passato da un valore di 33 punti del 2009 ai 93 nel 2013. «Abbiamo un carico normativo sproporzionato rispetto agli altri Paesi: 2mila norme in Gran Bretagna e più di 100 mila da noi», denuncia Domenico Massimino, imprenditore edile, presidente di Confartigianato Cuneo e delegato per le questioni fiscali nel comitato di presidenza nazionale. «Negli anni passati era stato costituito un ministero della Semplificazione, ma evidentemente non è servito a molto». Il governo Renzi, che in materia fiscale ha ereditato dall’esecutivo precedente una legge delega già bell’è pronta, promette di intervenire presto. «A giugno saremo pronti con un primo robusto pacchetto di misure di semplificazione – conferma il viceministro all’Economia, Luigi Casero -. Le stiamo ancora definendo, ma certamente partiremo da qui per dare attuazione alla delega che in sostanza si regge su tre pilastri: riduzione del carico fiscale, certezza delle norme e, appunto, semplificazioni». Sono le manovre di bilancio di fine anno a produrre i maggiori «danni» sul fronte dell’aumento delle pratiche burocratiche: in media ognuna delle 5 leggi finanziarie o di stabilità prese in esame ha generato 17,4 norme con un impatto burocratico mentre sono state solo lo 0,4 quelle che hanno semplificato, con un saldo medio di 17 norme per provvedimento. In termini assoluti le più «pesanti» sono state quella del 2014, 43 con un impatto burocratico e nessuna semplificazione, quella del 2013 (saldo impatto burocratico +25) e il Salva Italia del 2011 (+24). Di contro solo il decreto Sviluppo del 2011, con 24 misure di semplificazione e altre 5 di segno opposto, ha prodotto un significativo -19. Sempre nello stesso anno il decreto Semplificazioni tributarie ha introdotto ben 21 semplificazioni, peccato però che le abbia accompagnate con altre 27 che invece hanno aumentato la burocrazia. Un vero paradosso. Tutto questo, denuncia Confartigianato, produce un notevole stress sulle imprese. Un sondaggio condotto tra ottobre 2013 e gennaio 2014, stila la classifica delle procedure più complicate e mette al primo posto, col 32,9% delle segnalazioni, proprio gli adempimenti fiscali. L’indagine segnala un «numero eccessivo» di dichiarazioni, comunicazioni e pagamenti che vengono richiesti e che si sovrappongono con scadenze diverse nell’anno, «e l’estrema difficoltà incontrata nel calcolare le differenti imposte». Per non parlare poi delle «continue modifiche delle regole», del «proliferare di nuovi adempimenti con scadenze ravvicinate e di istruzioni difficili da comprendere». «Se si volessero aiutare davvero le piccole imprese - sollecita Confartigianato - oltre a disboscare la selva di norme bisognerebbe anche alzare la soglia di reddito per applicare le contabilità semplificate». Altro capitolo dolente quello dei controlli. «Anche qui ci vorrebbe una razionalizzazione – sostiene Massimino -. Non è possibile che ci siano 12 enti che controllano la stessa impresa: bisogna arrivare ad un ente unico capace di verificare tutto». «Puntiamo decisamente ad alleggerire il peso degli oneri contabili e rivedremo certamente anche il sistema dei controlli - assicura Casero -. Il tutto per evitare, come spesso si dice, che l’azienda spenda più di commercialista che di tasse».

Renzi rilancia il terzo serrore (13 maggio 2014).
Un’Authority ad hoc e un testo di legge unico: sono questi i punti di partenza del presidente del Consiglio Matteo Renzi per riformare il terzo settore, che «in realtà è il primo», scrive nel documento di sintesi della riforma, che porterà un ddl delega che sarà in Consiglio dei ministri il 27 giugno. La sfida è lanciata: «Come promesso a Lucca, un mese fa. Adesso un mese di discussione e poi parte l'iter #lavoltabuona», scrive il premier su Twitter nella notte tra lunedì e martedì, pubblicando le linee guida della sua riforma e aprendo, da oggi al 13 giugno, una consultazione tra i cittadini, attraverso la mail terzosettorelavoltabuona@lavoro.gov.it. «Noi crediamo che profit e no profit possano oggi declinarsi in modo nuovo e complementare per rafforzare i diritti di cittadinanza attraverso la costruzione di reti solidali nelle quali lo Stato, le Regioni e i Comuni e le diverse associazioni e organizzazioni del settore collaborino in modo sistematico»: questa è la premessa, per valorizzare quell’«Italia generosa e laboriosa che tutti i giorni opera silenziosamente per migliorare la qualità della vita delle persone». I modi concreti per attuare quest’idea, passano prima di tutto per una riforma giuridica del settore, che vive ancora una condizione di ambiguità: non si può continuare ad avere confini poco chiari, come quelli di adesso, tra volontariato e cooperazione sociale, tra associazionismo di promozione sociale e impresa sociale, scrive il premier. Nè si può proseguire sulla strada di un’azione diretta dei poteri pubblici e di una proliferazione senza controllo di enti e organismi pubblici nel terzo settore: questa gestione si è rivelata «spesso costosa e inefficiente». In sostanza, bisogna avere il coraggio, scrive Renzi, di «sgomberare il campo da una visione idilliaca del mondo del privato sociale»: anche qui operano «soggetti non sempre trasparenti», che a volte usano lo status sociale «per aggirare obblighi di legge». Come si sviluppa la riforma giuridica? Cambiando il titolo II del libro I del Codice civile, anche alla luce dell’articolo 118 della Costituzione, modificando quindi le norme che riguardano la costituzione degli enti non profit e i criteri per la loro gestione economica. Ma anche costituendo un'Autorità del terzo settore, che disciplini e controlli. Il secondo passaggio cruciale della riforma è il servizio civile nazionale universale: fino ad un massimo di 100 mila giovani all’anno per il primo triennio potranno avere, secondo la riforma, 8 mesi di tempo (anziché i 12 del servizio militare) per operare nel terzo settore. Un periodo non inutile per la formazione: i giovani coinvolti potrebbero infatti usufruire di crediti universitari, tirocini professionali o di vedersi comunque riconosciute le competenze acquisite durante l’espletamento del servizio. Il servizio potrebbe anche essere svolto in parte in altri Paesi dell’Unione europea: un’occasione per approfondire una lingua e sviluppare ulteriori conoscenze. Un altro concetto attraverso cui Renzi pensa di riformare il settore del sociale è il sostegno economico: secondo il premier, bisognerebbe rimettere mano a tutte le forme di agevolazione fiscale a favore degli enti non profit ma anche potenziare il 5 per mille rendendo identificabili gli enti non profit che ne beneficiano. Una sorta di elenco pubblico, dove chi usufruisce del contributo è ben identificabile e chiaro a tutti. Inoltre il premier sostiene l’istituzione del voucher universale per i servizi alla persona e alla famiglia, ispirato al francese Chèque emploi service universel (CESU), riprendendo così un disegno di legge che prevedeva che i voucher emessi dalle società concessionarie venissero acquistati dalle famiglie o ricevuti dai dipendenti delle imprese e dai destinatari dei servizi di protezione sociale, per acquistare servizi di cura dei bambini, degli anziani non autosufficienti o delle persone con disabilità. Sempre restando sul fronte economico, la riforma punta sulla finanza etica, definendo un trattamento di favore per i cittadini che investono nei titoli finanziari etici. E introduce nuove modalità per assegnare alle organizzazioni di terzo settore in convenzione d’uso immobili pubblici inutilizzati e beni confiscati alla criminalità organizzata. Lo scopo: «Far decollare davvero l’impresa sociale».

Il settore immobiliare in ripresa (14 maggio 2014).
Migliora nel 2013 la possibilità di accesso delle famiglie italiane all’acquisto di un’abitazione, ma continua il calo delle compravendite che, con 407mila unità immobiliari scambiate, fa registrare un -9,2% rispetto all’anno precedente ben al di sotto delle 430mila registrate nel 1985, quasi 30 anni fa. Sono solo alcuni dei dati contenuti nel Rapporto Immobiliare 2014, lo studio annuale sul mercato delle abitazioni presentato a Roma, frutto della collaborazione fra l’Osservatorio del Mercato Immobiliare dell’Agenzia delle Entrate (Omi) e l’Associazione Bancaria Italiana (Abi). Il calo ha riguardato maggiormente le aree del centro (-10,3%) e delle isole (-10,8%). Seguono il sud (-9,8%), il nord-ovest (-8,8%) e il nord est (-7,5%). In termini di valore, l'anno scorso il mercato della casa ha perso circa 8 miliardi: si sono spesi per l'acquisto di abitazioni 67,5 miliardi di euro rispetto ai 75,7 miliardi registrati nel 2012. Nel 2013 l’indice di accessibilità (che sintetizza l’analisi dei vari fattori - reddito disponibile, prezzi delle case, andamento, tassi di interesse sui mutui - che influenzano la possibilità per le famiglie di comprare casa indebitandosi), ha registrato un miglioramento che lo riporta in linea con i valori pre-crisi superando le difficoltà registrate in seguito alla crisi dei debiti sovrani. L’andamento è principalmente dovuto a un miglioramento del prezzo relativo delle case rispetto al reddito disponibile, più precisamente alla diminuzione del prezzo delle case; al miglioramento contribuisce l’andamento dei tassi di interesse sui mutui. In termini distributivi, la quota di famiglie che dispone di un reddito sufficiente a coprire almeno il 30% del costo annuo del mutuo per l’acquisto di una casa è, infatti, di poco superiore al 50%, valore in buon recupero rispetto a 5 anni prima. Tuttavia nel 2013 è proseguito, anche se in forma attenuata, la flessione dei mutui ipotecari per l'acquisto di abitazioni registrata nel 2012 (-38,6%), attestandosi a -7,7% . A fine 2013 l'indice è risultato pari al 6,7%, 2,1 punti percentuali in più della prima metà dell'anno scorso tornando a livello pre-crisi. Il miglioramento dell’indice di accessibilità trova riscontro anche nella ripresa del mercato dei mutui: nei primi tre mesi del 2014 le nuove erogazioni (riferite a un campione, altamente rappresentativo, di 88 banche) hanno registrato un incremento superiore al 20% rispetto allo stesso periodo del 2013. Nel 2013, in tutti i Comuni le perdite più elevate si sono registrate nelle compravendite di abitazioni “monolocali” (-10,5%) e “piccole” (-9%). Unica eccezione il rialzo del 5,6% per le abitazioni ‘medio piccole’ nei capoluoghi del Nord Est. In generale, la tipologia abitativa più venduta è stata la “media”. Nelle maggiori città per numero di abitanti, le compravendite di case nel 2013 sono complessivamente diminuite del 5,5%. Napoli (-15,2%) e Genova (-10,3%) mostrano le flessioni più marcate, mentre Roma segue con una discesa del 7,3%. Segnali positivi invece per Milano, che risale del 3,4% e, in maniera più contenuta, Bologna con l’1,5%. Nei Comuni delle province delle grandi città la flessione nella compravendita di case risulta più elevata (-10,6%). I cali maggiori si registrano a Roma (-13,8%) e a Milano (-11,1%); Torino e Genova seguono ex aequo (-10,2%). Chiudono la serie, con il calo minore, i Comuni della provincia di Bologna (-5,7%).

Il complottino del 2011 (15 maggio 2014).
Al G20 del 2011 funzionari europei chiesero agli Stati Uniti di aderire a un "complotto" per far cadere l’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Nel memoir Stress test, anticipato oggi dalla Stampa e dal Daily Beast, Timothy Geithner, ex ministro del Tesoro americano, aggiunge nuovi tasselli al complotto ordito contro il Cavaliere per cacciarlo da Palazzo Chigi e mettere al suo posto Mario Monti, un tecnico scelto ad hoc per far passare le misure lacrime e sangue imposte da Bruxelles e dalla cancelliera tedesca Angela Merkel. "Ma a Obama dissi: 'Non possiamo avere il suo sangue sulle nostre mani'", racconta ancora Geithner nel volume che ripercorre la disastrosa situazione finanziaria che spinse quei funzionari a progettare il "complotto". Le prime indiscrezioni su un complotto ai danni di Berlusconi sono state appena sussurrate. E, inevitabilmente, i media hanno fatto a gara per distruggerle. Oggi, invece, Geithner spazza via qualunque dubbio sul drammatico piano che il 12 novembre del 2011, con lo spread tra i Btp decennali e i Bund tedeschi artificiosamente pompato sopra i 470 punti, Berlusconi si dimise dopo l'approvazione della legge della stabilità alla Camera. Ebbene, dietro a quelle dimissioni c'è un vero e proprio piano ordito a Bruxelles per far cadere un governo eletto democraticamente e piazzarne uno tecnico e asservito ai diktat dell'Unione europea. "Ad un certo punto, in quell'autunno, alcuni funzionari europei ci contattarono per cercare di costringere il premier italiano Berlusconi a cedere il potere - svela oggi Geithner - volevano che noi rifiutassimo di sostenere i prestiti dell’Fmi all’Italia, fino a quando non se ne fosse andato". Dal 26 gennaio 2009 al 28 febbraio 2013 Timothy Geithner ricopre, infatti, l'incarico di segretario al Tesoro degli Stati Uniti durante il primo governo presieduto da Barack Obama. L'obiettivo degli innominati "funzionari europei" è quello di accerchiare Berlusconi, anche attraverso i ricatti del Fondo monetario internazionale, pur di farlo uscire di scena. Il complotto non viene organizzato su due piedi, ma iniziò a essere tessuto nell'estate del 2010, quando "i mercati stavano scappando dall'Italia e la Spagna, settima e nona economia più grande al mondo". Nel saggio Stress test Geithner scrive di aver consigliato più volte ai colleghi europei di essere prudenti: "Se volevano tenere gli stivali sul collo della Grecia, dovevano anche assicurare i mercati che non avrebbero permesso il default dei paesi e dell’intero sistema bancario". Ma all’epoca Germania e Francia "rimproveravano ancora al nostro West selvaggio la crisi del 2008" e rifiutavano i consigli del Tesoro statunitense che chiedeva di mobilitare più risorse per prevenire il crollo economico del Vecchio Continente. Nell’estate del 2011 la situazione precipita. "La cancelliera Angela Merkel insisteva sul fatto che il libretto degli assegni della Germania era chiuso - racconta l'ex segretario del Tesoro - non le piaceva come i paesi che ricevevano assistenza europea (Spagna, Italia e Grecia) stavano facendo marcia indietro sulle riforme promesse". Quando a settembre Geithner arriva in Polonia per partecipare all'Ecofin, propone ai Paesi dell'Eurozona di adottare un piano simile al Term asset-backed securities loan facility (Talf), il muro di protezione creato dalla Federal reserve e finanziato dal governo e soprattutto dalla banca centrale per impedire insieme il default dei Paesi e delle banche. Viene quasi insultato. "Gli americani, però - continua Geithner - ricevevano spesso richieste per fare pressioni sulla Merkel affinchè fosse meno tirchia, o sugli italiani e spagnoli affinchè fossero più responsabili". È proprio in questo quadro di supponenza tedesca e incompetenza europea che arrivano le prime pressioni per cambiare il governo italiano. Al G20 di Cannes lo stesso governatore della Bce, Mario Draghi, gli promette "l'uso di una forza schiacciante". "Parlammo al presidente Obama di questo invito sorprendente - racconta Geithner - ma per quanto sarebbe stato utile avere una leadership migliore in Europa, non potevamo coinvolgerci in un complotto come quello". Nonostante il niet degli Stati Uniti, i "funzionari europei" riescono nell'intento: nel giro di poche settimane si dimette il premier greco George Papandreou, Berlusconi viene sostituito con Monti ("un economista che proiettava competenza tecnocratica") e in Spagna viene eletto Mariano Rajoy. A dicembre la Bce approva il piano per finanziare le banche. Piano che viene accolto con euforia da Bruxelles che si fionda a dichiarare che l'Europa è uscita dal tunnel della crisi. "Io non la pensavo così", sottolinea l'ex segretario del Tesoro. E, infatti, nel giugno del 2012 la minaccia del default tornerà a mettere in ginocchio i mercati del Vecchio Continente. Giova notare che tra qualche settimana recensirò il libro di Alan Friedman "Ammazziamo il gattopardo" nel quale risulta in modo inequivocabile l'esistenza del complotto raccontato da Timothy Geithner.

Diminuisce l'occupazione in Italia (20 maggio 2014).
Il tasso di occupazione in Europa tra i 20 e i 64 anni scende per il quinto anno consecutivo dal 2008 e l'Italia fa registrare il calo più accentuato dopo la Grecia: dal 61% nel 2012 scende al 59,8% del 2013, lontana dalla media della Ue-28 che scende a 68,3%, perdendo solo uno 0,1 sul 2012. Lo comunica Eurostat. Il livello di occupazione in Italia tra i 20 e i 64 anni torna così ai livelli del 2002: secondo Eurostat, l'occupazione in Italia non scendeva sotto il 60% dal 2002, quando era al 59,2%. I dati mostrano che nel 2013 «sul lavoro si è toccato un punto molto basso eppure inizio a vedere i segni di una ripresa» ha detto il premier Matteo Renzi, in conferenza stampa con il primo ministro polacco Donald Tusk. Solo la Grecia nel 2013 ha perso più dell'Italia: il tasso di occupazione è sceso da 55,3% a 53,2%, perdendo 2,1 punti. Tra i grandi Paesi europei, l'Italia è quella dove l'occupazione si è deteriora maggiormente: la Spagna, dove la disoccupazione galoppa, ha visto scendere il suo tasso di occupazione di 1,1 punti rispetto al 2012 (portandosi a 58,2%), mentre la Francia ha guadagnato uno 0,1 e ora è al 69,5%. Positiva anche la Gran Bretagna che con 0,7 punti tocca il 74,9%, e la Germania ne guadagna 0,4 e sale fino a 77,1%, superando di 0,1 punti il suo target fissato dalla strategia Europa 2020, cioè l'obiettivo per l'occupazione che i Paesi europei si sono impegnati a raggiungere, d'accordo con la Commissione che monitora i progressi. Per l'Italia l'obiettivo è un tasso di occupazione al 67%. In Europa il tasso di occupazione sale solo per gli over 55: secondo Eurostat, il tasso degli occupati tra i 55 e i 64 anni è salito costantemente dal 2002, portandosi da 38,1% a 50,1% nel 2013. Anche l'Italia segue il trend europeo con un miglioramento costante anche negli anni della crisi, e da 28,6% del 2002 tocca il 42,7% nel 2013, guadagnando 2,3 punti solo nell'ultimo anno.

Da ottobre 2014 cambia il calcolo del pil (22 maggio 2014).
Il 2014 è un anno di cambiamenti per il Sistema dei conti nazionali (Sec), l'impianto che definisce la metodologia armonizzata per la produzione di dati di contabilità nazionale all'interno dell'Unione europea. In Italia, come in gran parte dei paesi Ue, il passaggio ad «una nuova versione delle regole di contabilità» porta a miglioramenti dei metodi di misurazione e introduce nuove fonti informative con effetti positivi anche sul Pil. Nella nuova versione dei conti, ad esempio, le spese in Ricerca e Sviluppo e quelle per armamenti sono considerate come spese di investimento e non più componente dei costi intermedi, con un impatto sul Pil. Tutti i Paesi Ue, compresa l'Italia, inseriranno «una stima nei conti (e quindi nel Pil)» delle attività illegali, come «traffico di sostanze stupefacenti, servizi della prostituzione e contrabbando (di sigarette o alcol)». La novità sarà inserita a partire dal 2014 nei conti, in coerenza con le linee Eurostat, rileva l'Istat. Modifiche condivise a livello europeo e connesse, evidenzia l'Istat, al «necessario superamento di riserve relative all'applicazione omogenea tra paesi Ue degli standard già esistenti». Nello specifico, tra le riserve trasversali avanzate ce ne è una, sottolinea l'Istituto, che «ha una rilevanza maggiore», in quanto, appunto, riguarda l'inserimento nei conti delle attività illegali, che già il precedente sistema dei conti nazionali, datato 1995, aveva previsto, «in ottemperanza al principio secondo il quale le stime devono essere esaustive, cioè comprendere tutte le attività che producono reddito, indipendentemente dal loro status giuridico». L'Istat riconosce come la misurazione delle attività illegali sia «molto difficile, per l'ovvia ragione - spiega - che esse si sottraggono a qualsiasi forma di rilevazione, e lo stesso concetto di attività illegale può prestarsi a diverse interpretazioni». Ecco che, aggiunge, «allo scopo di garantire la massima comparabilità tra le stime prodotte dagli stati membri, Eurostat ha fornito linee guida ben definite. Le attività illegali di cui tutti i paesi inseriranno una stima nei conti (e quindi nel Pil) sono: traffico di sostanze stupefacenti, servizi della prostituzione e contrabbando (di sigarette o alcol)». Quindi viene almeno circoscritto il range per mettere a punto una stima del peso di quest'area. A riguardo può essere utile ricordare come l'Istat già inserisca nel Pil il sommerso economico, che deriva dall'attività di produzione di beni e servizi che, pur essendo legale, sfugge all'osservazione diretta in quanto connessa al fenomeno della frode fiscale e contributiva. Le ultime stime dedicate risalgono al 2008, e indicano come il valore aggiunto prodotto nell'area del sommerso sia compreso tra un minimo di 255 e un massimo 275 miliardi di euro. Il peso dell'economia sommersa è quindi stimato tra il 16,3% e il 17,5% del Pil. Per quel che riguarda, più in generale, il passaggio alle nuove linee metodologiche fissate dagli standard internazionali (Sna) e, in particolare da quelli europei (Sec), sono quattro le principali novità che hanno impatto su alcuni dei maggiori aggregati, spiega l'Istat in una nota: la capitalizzazione delle spese in Ricerca e Sviluppo (ReS); la riclassificazione da consumi intermedi a investimenti della spesa per armamenti sostenuta dalle amministrazioni Pubbliche; una nuova metodologia di stima degli scambi con l'estero di merci da sottoporre a lavorazione (processing), per i quali si registra il valore del solo servizio di trasformazione e non più quello dei beni scambiati; la verifica del perimetro delle Amministrazioni Pubbliche sulla base degli aggiustamenti metodologici introdotti dal Sec2010. Nella nuova versione dei conti, le spese in Ricerca e Sviluppo sono considerate come spese di investimento in quanto contribuiscono all'accumulazione, tramite capitale intangibile, di capacità produttiva; in precedenza esse erano una componente dei costi intermedi. «Questo cambiamento del metodo di contabilizzazione determina un impatto positivo sulla domanda aggregata e, quindi, sul Pil pari alla parte di spesa effettuata dalle imprese di mercato» sottolinea l'Istat. Anche la componente relativa alla spesa delle amministrazioni pubbliche, benché già contabilizzata quale domanda finale in quanto parte dei consumi intermedi e quindi della produzione di servizi ad uso della collettività, «avrà comunque un effetto positivo sul valore aggiunto, pari all'ammortamento dello stock di capitale di ReS che contribuisce, per definizione, a tale aggregato».

Scendono ancora le vendite al dettaglio (23 maggio 2014).
La crisi non molla la presa sul commercio. Le vendite al dettaglio rilevata dall'Istat a marzo sono calate dello 0,2% rispetto a febbraio e del 3,5% sullo stesso periodo dello scorso anno: crollano la vendite di alimenatari che segnano un meno 6,8% come non accadeva dall'inizio delle serie storiche, ovvero dal 1995. A condizionare il confronto con il 2013 è la Pasqua che lo scorso anno era in calendario a marzo. Le vendite di prodotti non alimentari calano invece dell'1,5%. Su base mensile, l'indice scende dello 0,2%, mentre nella media del trimestre gennaio-marzo 2014, registra una riduzione dello 0,3% nei confronti dei tre mesi precedenti. Nel confronto con febbraio scorso, diminuiscono le vendite di prodotti alimentari (-0,4%), mentre restano invariate quelle di prodotti non alimentari. Con riferimento alla forma distributiva, nel confronto con il mese di marzo 2013 si registrano cali sia per le vendite della grande distribuzione (-5,1%), sia per quelle delle imprese operanti su piccole superfici (-2,3%). Nei primi tre mesi del 2014, l'indice grezzo diminuisce dell'1,8% rispetto allo stesso periodo del 2013. Le vendite di prodotti alimentari segnano una flessione del 2,9% e quelle di prodotti non alimentari dell'1,3%. La caduta dei consumi continua; a volte sembra di vedere un fioca luce nel tunnel della crisi, poi notizie come il calo del pil e il calo dei consumi ci riportano a una triste verità: non ne siamo ancora fuori.

RISULTATI DELLE ELEZIONI EUROPEE (27 maggio 2014).
Trionfo Renzi, ridimensionamento Grillo, delusione Berlusconi. Le elezioni Europee e Comunali si sono trasformate in un vero plebiscito per il Partito democratico, il cui consenso è andato al di là di ogni più rosea aspettativa. Lo dicono i dati che parlano di una vittoria schiacciante per i democratici: il Pd va oltre il 40% dei consensi (40,81). Un plebiscito, sia per il partito che per il suo leader, con il voto che ha rappresentato un test sull’operato dell’esecutivo. Lo stesso Renzi, del resto non ha nascosto la sua gioia: “Un risultato storico. Sono commosso e determinato adesso al lavoro per un’Italia che cambi l’Europa. Grazie #unoxuno #senza paura” ha scritto su Twitter, rimandando alle prossime ore la conferenza stampa per commentare il trionfo. Perché di questo si tratta. La conferma arriva dai distacchi. Il Movimento 5 stelle, da più parti indicato come vero spauracchio per il Pd, si è fermato poco sopra il 21% (21,15%), il che significa quasi 20 punti di distacco. Altro che testa a testa, altro che #vinciamo noi: i 5 Stelle sono stati doppiati, il che pone seri dubbi sulla bontà della strategia elettorale di Grillo e company. E se il M5s non ride, Forza Italia è costretta a piangere. L’impatto di Silvio Berlusconi sul voto, infatti, è stato pressoché nullo: Forza Italia è ferma al 16,8%, in netto calo rispetto alle scorse politiche. Netto ridimensionamento degli azzurri e fine definitiva del berlusconismo? Oltre il Pd e Renzi, però, c’è anche un altro partito che può vantarsi di aver vinto la propria sfida: la Lega Nord di Matteo Salvini, infatti, con l’avvento del nuovo segretario federale sembra aver ritrovato nuova linfa nelle urne, che hanno premiato il Carroccio con il 6,15%, quindi ben al di sopra della soglia di sbarramento. In via Bellerio, quindi, sembrano assai lontani i tempi degli scandali che hanno coinvolto Umberto Bossi, la sua famiglia e tutto il vertice del partito. Poco sopra lo sbarramento, invece, sia la Lista Tsipras sia la mini coalizione formata da Ncd e Udc. La formazione che fa riferimento al leader della sinistra greca, infatti, è al 4,03, ovvero a un passo dallo spartiacque che definisce l’entrata nel Parlamento europeo. Un risultato interlocutorio, quindi, che ha rischiato seriamente di diventare beffa. Discorso simile, ma livellato verso l’alto, per Alfano e Casini, fermi al 4,38% (con molti voti racimolati al Sud e nelle isole) che mette entrambi in una posizione di rischio. Risultato onorevole, invece, per Fratelli d’Italia, a mezzo punto da quel 4% che avrebbe garantito l’ingresso nel parlamento Ue (3,66). I verdi prendono lo 0,9%, Scelta Europea (0,72), Italia dei Valori (0,66), Io cambio (0,18). In termini di coalizioni, inoltre, impossibile non notare il tracollo del centrodestra: il tonfo di Forza Italia e il modesto risultato di Alfano, infatti, mettono chi ha governato il Paese per anni in una posizione di netta subalternità non solo nei confronti del Pd, ma anche nei confronti del Movimento 5 stelle. In tal senso, onesta la disamina di Maurizio Gasparri: “C’è necessità di guardare a una nuova leadership”. Tutte considerazioni secondarie, tuttavia, se viste dalla prospettiva di Largo del Nazareno, dove l’entusiasmo è direttamente proporzionale al distacco su quelli che dovevano essere i competitors e si sono invece rivelati degli sparring partner. Basti un dato. Mai nella storia del centrosinistra italiano un partito si era spinto oltre la soglia del 40%, neanche ai tempi del mai così tanto evocato Enrico Berlinguer. Nel 1976, ad esempio, il Partito comunista italiano si fermò al 34,4%, record imbattuto fino ad oggi. Nel 1984, invece, dopo la morte del leader sardo, il Pci non si spinse oltre il 33%. In tempi più recenti, era rimasto negli annali il risultato conseguito da Veltroni nel 2008 (33%) e il 38% dell’Ulivo (più Rifondazione) nel 1996. Altro dato: i democratici sono stati votati da oltre 11 milioni di persone. Tradotto: un milione in meno di Veltroni nel 2008 (ma erano elezioni politiche) e poco meno di quanto preso nel 1984 dopo la morte di Berlinguer. Alla luce di questi numeri, quindi, quella di Matteo Renzi è una vittoria in stile democristiano: solo la Dc, infatti, riuscì a superare il 40%. Erano gli anni Cinquanta e la Balena Bianca non era certo un partito di sinistra (come l’attuale Pd, diranno i maligni). Da Nord a Sud senza soluzione di continuità: quello del Pd non è solo un successo numerico, ma anche geografico. I democratici, infatti, sono di gran lunga il primo partito in tutte le circoscrizioni della penisola. Cristallizzate anche gli altri due gradini del podio: non c’è parte d’Italia dove il M5s non sia secondo partito e Forza Italia terzo. Nel particolare, nella circoscrizione nord-occidentale, il dato del Pd è in linea con il dato nazionale (40,6%), mentre M5s e Fi (rispettivamente al 18 e 16%) pagano dazio nel terreno della Lega, che guadagna l’11,7% dei consensi. Carroccio molto bene anche nella circoscrizione nord-orientale con il 9,9%. Qui il Pd raccoglie il 43%, con il M5s al 18,8% e Forza Italia addirittura l 12,96%. Al centro, invece, è solo Pd: i democratici riescono addirittura a raggiungere il 46,6%, con M5s al 21% e Fi al 14%. Al Sud pesa l’astensionismo: Pd al 35%, M5s al 23,9% e Fi al 22%. Simile il risultato dell’Italia insulare, con i democratici al 35%, M5s al 27% e Forza Italia al 19%. Altro dato significativo: in nessuna provincia italiana il Pd è stato scalzato dal M5s. Il segretario della Lega è il candidato che ha ottenuto più preferenze in assoluto: 331.381, anche se divise in due circoscrizioni (222.720 mila nella circoscrizione Nord Ovest e 108.661 nel Nord Est). Raffaele Fitto (Forza Italia, circoscrizione meridionale) al secondo posto con 223mila preferenze. A seguire Simona Bonafè (Pd, 214mila preferenze al Centro) e Alessandra Moretti (Pd, 205mila preferenze nell’Italia Nord orientale). Il dato significativo, però, è proprio quello relativo all’exploit di Raffaele Fitto. Per molti, infatti, l’ex governatore pugliese sarebbe pronto a lanciare un’opa sul partito ormai orfano di Silvio Berlusconi. La nomina di Giovanni Toti a consigliere politico del Cavaliere, del resto, non era mai andato giù al politico pugliese. Che ora, dopo la debacle alle urne, potrebbe ritornare a batter cassa. Sulla sua testa, tuttavia, pesa una condanna in primo grado a quattro anni di reclusione e a cinque di interdizione dai pubblici uffici per i reati di corruzione, illecito finanziamento ai partiti e abuso d’ufficio nell’ambito di un’inchiesta per tangenti nella sanità pugliese. Unico dato negativo per il premier è quello relativo all’affluenza: sono andati a votare il 57,22% degli aventi diritto. Pochi, specie se paragonati al 2009, quando votarono il 66,5% degli italiani. Il calo è quindi pari a circa 8 punti percentuali, ma c’è da dire che cinque anni fa si votava nell’arco di 48 ore. Giova notare che gli elettori hanno premiato i due segretari di partito più giovani: Renzi e Salvini. Il Paese ha bisogno di facce nuove, di persone che abbiano il coraggio di gettare il cuore oltre l'ostacolo; non ne possono più delle mummie della vecchia partitocrazia.
Giova sottolineare come, anche questa volta, i sondaggisti abbiano fatto FLOP.
Il club Bilderberg (29 maggio 2014).
E' il vertice internazionale più esclusivo del mondo. Quest'anno la 62esima riunione del gruppo Bilderberg, dal 29 maggio al primo giugno, verrà ospitata dalla Danimarca, al Marriot Hotel di Copenhagen. Un incontro meno lussuoso rispetto a quello dello scorso anno: allora nella campagna inglese dell'Hertofordshire una normale stanza doppia del Grove Hotel costava dalle 400 sterline in su, quest'anno basteranno 230 euro. Una scelta di più basso profilo, probabilmente legata anche al fatto che la Danimarca è il cuore della rivolta antieuropesta lanciata da Morten Messerschmidt che alle ultime europee ha preso il 27% dei consensi. Dallo scorso anno il club si è dotato dell'ufficio stampa con la pubblicazione dei partecipanti agli incontri e la pubblicazione dei macro temi di discussione. Resta però difficile vedere chi entra ed esce dall'albergo: la polizia predisporrà, infatti, un cordone di sicurezza lontanto dall'albergo - interamente riservato per l'occasione per tenere lontani i curiosi e i giornalisti. E se le spese organizzative sono a carico dei membri danesi del Club (pagano sempre i membri del direttivo del paese ospitante), quelle per la sicurezza sono a carico dei contribuenti: lo scorso anno il governo inglese spese 1,8 milioni di sterline, facendo infuriare l'opinione pubblica. Di certo vi hanno preso parte tutti i membri dell'elite internazionale. In passato si è scoperto che i convenuti comprendevano Henry Kissinger, il principe Carlo, Peter Mandelson, lord Carrington, David Cameron, la regina Beatrice d'Olanda, per fare qualche nome. Negli ultimi anni i nobili sono sempre meno a favore dei grandi della finanza: da Bill Gates e Henry Kravis di Kkr, da Eric Schmidt di Google al Generale Petraeus. Gli italiani non mancano mai, ma quest'anno saranno solo quattro: Franco Bernabè, John Elkann, Mario Monti e Monica Maggioni. Lo scorso anno erano stati sette: Franco Bernabé, Lilli Gruber, Mario Monti, Enrico Tommaso Cucchiani, Gianfelice Rocca, Alberto Nagel ed Emanuele Ottolenghi .Impossibile, quindi, sapere di cosa si discuterà nello specifico. Il programma viene pubblicato solo dopo le riunioni, ma gli argomenti si ripetono: probabilmente quest'anno il gruppo parlerà di come arginare il potere crescente di Putin, già nel mirino da un paio di edizioni, e dell'asse Russia-Cina. Di certo si affronterà anche l'ondata anti euro rappresentata oltre che dai danesi, da Grillo, Le Pen e la Lega Nord. Insomma, abbastanza per alimentare le teorie del complotto: "Cosa ci fanno 140 persone chiuse in un albergo per un fine settimana?". Decidono i destini del mondo, sostengono i detrattori. "Mettono attorno a un tavolo gli uomini più potenti della Terra per discutere off the records dello stato del mondo e per promuovere il dialogo tra Europa e Stati Uniti", recita il sito del gruppo.

Relazione di Bankitalia (30 maggio 2014).
Per garantire gli obiettivi di riduzione del deficit e il pagamento del bonus di 80 euro il prossimo anno, per il 2015 il governo dovrà adottare interventi per ulteriore 14,3 miliardi. Lo calcola la Banca d'Italia nella Relazione Annuale presentata oggi, in occasione dell'Assemblea ordinaria dell'istituto di Via nazionale. Il report viene pubblicato alla fine del mese di maggio di ogni anno, proprio in occasione di questo appuntamento. La Relazione contiene un'ampia analisi dei principali sviluppi dell'economia italiana e internazionale nell'anno precedente e nei primi mesi di quello in corso, riporta la situazione di bilancio dell'Istituto indicando, comunque, che nel Def si stimano 17 miliardi di risparmi massimi nel 2015 dalla spending review.
In dettaglio scrive Banca d'Italia: «le stime tendenziali segnalano che, per conseguire il saldo programmato nel 2015, è necessario reperire risorse per almeno 7 miliardi». Il governo «si è anche impegnato a rendere strutturale la riduzione del cuneo fiscale introdotta per il 2014 con il decreto di aprile; a questo scopo sono necessari ulteriori 7,3 miliardi (in aggiunta ai 2,7 già reperiti dallo stesso decreto e accantonati in un apposito fondo)». Inoltre, sottolinea Bankitalia, «potrebbero essere considerati irrinunciabili alcuni dei maggiori esborsi individuati dal Def nello scenario tendenziale a politiche invariate rispetto a quello a legislazione vigente».
Ed è allarme costi sulla Tasi prima casa. La scelta è in mano ai Comuni. Se l'aliquota scelta da tutte le amministrazioni sarà quella massima del 2,5 per mille il prelievo sulle prime case salirà del 60% rispetto al 2013, tornando ai livelli dell'Imu 2012. Se ci si limiterà all'aliquota base dell'1 per mille l'aumento sul 2013 sarà del 12%, calcola la Banca d'Italia. «Considerando un'abitazione principale non di lusso, nella media dei Comuni capoluogo, il prelievo si è ridotto del 40% fra 2012 e 2013», spiega Palazzo Koch.
Che in merito all'occupazione sottolinea che : «Secondo dati provvisori, il calo dell'occupazione si sarebbe quasi arrestato nei primi tre mesi del 2014». Le recenti rilevazioni delle aspettative delle imprese sull'occupazione «sono in miglioramento rispetto al passato, rimanendo tuttavia orientate al pessimismo». La Banca d'Italia fa notare anche che «le retribuzioni nominali stanno mantenendo un profilo di crescita positivo; nei prossimi mesi si attendono incrementi anche in termini reali». Dall'avvio della fase recessiva, nel 2008, le retribuzioni per ora lavorata in termini reali sono diminuite dell'1,3%; nel 2013 sono rimaste invariate rispetto al 2012.
Secondo Bankitalia, tuttavia, il decreto Poletti sul lavoro e il bonus di 80 euro avranno effetti positivi sull'occupazione. In particolare, «la semplificazione delle regole, in una fase di riavvio ciclico - si legge nella Relazione - potrebbe stimolare nuove assunzioni».
A parere di Bankitalia, le norme contenute nella nuova normativa «semplificano, a beneficio delle imprese, l'utilizzo del contratto a termine, eliminando i rischi di contenzioso connessi con la specificazione della causale, e gli obblighi formativi relativi al contratto di apprendistato, affidati a iniziative regionali non sempre di qualità».
Legato al problema del lavoro è quello del calo dei consumi. La crisi, sottolinea Bankitalia, spaventa le famiglie italiane, che hanno sempre più paura di spendere. Ne consegue che i consumi, per effetto anche della sfiducia nei confronti del futuro e da una maggiore propensione al risparmio, calano molto più di quanto calino i redditi. La Relazione evidenzia che nel 2013 la spesa delle famiglie é scesa del 2,6%, a fronte di un calo del reddito disponibile dell'1,1%. La flessione dei consumi si é progressivamente attenuata nel corso dell'anno, fino ad arrestarsi nell'ultimo trimestre, in concomitanza con il deciso miglioramento del clima di fiducia e la stabilizzazione del reddito disponibile. Tuttavia, spiegano i tecnici di Via Nazionale, la spesa delle famiglie é ancora inferiore di circa l'8% a quella rilevata prima dell'avvio della crisi finanziaria globale.

Raccomandazioni dell'UE all'Italia (3 giugno 2014).
La buona notizia è che è saltata la bocciatura dei tempi supplementari per correggere il debito chiesto dall’Italia all’Europa. Quella cattiva è che le raccomandazioni che la Commissione propone di dare a Roma chiedono di «rinforzare le misure di bilancio per il 2014 alla luce del gap che emerge nei confronti degli obiettivi di riduzione del debito». Con un tocco amaro in più: «considerando», sottolineano, che servono «sforzi aggiuntivi» per correggere la deviazione dagli obiettivi di equilibrio, 0,6 punti di Pil, dunque 9 miliardi di euro. In sintesi vuol dire che l’Italia è lontana dal traguardo, ma anche che la partita si può ancora giocare. «È necessario garantire una migliore gestione dei fondi Ue con un’azione risoluta di miglioramento della capacità di amministrazione, della trasparenza, della valutazione e del controllo di qualità a livello regionale specialmente nelle Regioni del Mezzogiorno», è una delle indicazioni in particolare contenute nel rapporto. «L’Italia - si legge ancora nelle raccomandazioni - deve trasferire ulteriormente il carico fiscale dai fattori produttivi ai consumi, ai beni immobili e all’ambiente, nel rispetto degli obiettivi di bilancio». Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan commenta con un tweet: «Commissione Ue apprezza riforme italiane». E sul debito non si tira indietro: «E’ alto, lo sapevamo: acceleriamo riforme e privatizzazioni per ridurlo in modo sostenibile». Il commissario Ue agli affari economici Olli Rehn tiene però a sottolineare che «rinviare il raggiungimento degli obiettivi di medio termine non pone l’Italia in una buona posizione nei confronti delle regole che ha sottoscritto». Rehn ha poi ricordato che l’Italia ha inserito anche nella Costituzione l’obbligo di pareggio di bilancio. «Per questo è fondamentale - ha aggiunto - affrontare il problema del debito pubblico altissimo lavorando su sforzi strutturali adeguati». E sulla richiesta del premier Renzi di rivedere il funzionamento dell’Ue sui conti pubblici Rehn difende la governance economica, che «funziona e dà risultati», nonostante la «procedura piuttosto complicata». Ma, aggiunge, sarà un compito del prossimo commissario Ue «la sua semplificazione». Per questo, sostiene il commissario, servirà il «contributo di tutti, incluso del premier Renzi». Nelle sue raccomandazioni la Commissione Ue invita poi a rafforzare il sistema bancario, «garantendone la capacità di gestire e liquidare le attività deteriorate per rinvigorire l’erogazione di prestiti all’economia reale; promuovere l’accesso delle imprese, soprattutto di quelle di piccole e medie dimensioni, ai finanziamenti non bancari; continuare a promuovere e monitorare pratiche efficienti di governo societario in tutto il settore bancario, con particolare attenzione alle grandi banche cooperative (banche popolari) e alle fondazioni, al fine di migliorare l’efficacia dell’intermediazione finanziaria». Il primo ammonimento dell’Ue riguarda il 2015: «Il raggiungimento degli obiettivi di bilancio non è totalmente suffragato da misure sufficientemente dettagliate, soprattutto dal 2015». E si ribadisce l’appello a centrare i benchmark di riduzione del debito previsti dalla governance Ue. La valutazione politica offre invece un apprezzamento per il cantiere delle riforme aperto dall’Italia, la cui intensità però «va aumentata per sostenere la crescita e l’occupazione». C’è poi un incoraggiamento ad avanzare con fermezza sulla strada virtuosa tracciata dal governo, ma anche l’ammissione che i conti si fanno solo alla fine del gioco. Il successo politico alle europee del premier Renzi, si sottolinea, ha creato migliori condizioni di stabilità potenziale, eppure a Bruxelles resta il timore che in parlamento qualcosa possa andare storto. Certo si guarda a Roma con maggior ottimismo. Però le regole sono le regole. Il dato di fatto è che l’Italia deve avere un pareggio di bilancio o quasi. In altre parole, il deficit strutturale (cioè al netto di congiuntura e una tantum) non deve superare lo 0,5% del Pil. La Commissione stima che si sia oltre l’1%, e che la frenata debba essere dello 0,7% del Pil, al posto dello 0,1 previsto a Roma, pena una procedura dolorosa per la nostra immagine di superdebitori. Il tutto deve avvenire mantenendo il deficit sotto il 3% del prodotto, cosa che si sta avverando, visto che secondo Bruxelles nel 2014 saremo allo 2,6%. Lo 0,4% di fabbisogno a nostro vantaggio potrebbe essere oggetto di una trattativa costruttiva per maggiori margini di spesa pro crescita. Bruxelles torna poi a puntare il dito sulla trasparenza del mercato creditizio, sulla necessità di riequilibrare il carico fiscale sul lavoro (avviata), sul dramma occupazionale da contenere (con Jobs Act), sull’apertura incompleta dei mercati dei servizi (in particolare della pubblica amministrazione), sulla Giustizia civile ancora lenta e scoraggiante per gli investimenti, sulla lotta all’evasione da rafforzare ulteriormente, sul sistema scolastico che richiede maggior cura, sulle reti da sviluppare e l’autorità dei Trasporti da lanciare sul serio. Sono grosso modo le stesse cose dello scorso anno, la sintesi dei problemi di un Paese che non cresce da due decenni.

ISTAT: disoccupazione in salita (3 giugno 2014).
Il tasso di disoccupazione ad aprile resta fermo al 12,6% rispetto al mese precedente segnando un aumento di 0,6 punti rispetto allo stesso mese di un anno fa. E così il numero di disoccupati, pari a 3 milioni 216 mila, diminuisce dello 0,4% rispetto al mese precedente (-14 mila), ma aumenta del 4,5% su base annua (+138 mila). Il numero degli occupati scende invece a 22 milioni 295 mila, in diminuzione dello 0,3% rispetto al mese precedente (-68 mila) e dello 0,8% su base annua (-181 mila). A rivelarlo è l'Istat nella sua consueta indagine che riguarda il dato provvisorio di aprile e quello del primo trimestre di quest'anno. Record storico di disoccupazione nel primo trimestre. A fare impressione è soprattutto il dato relativo al primo trimestre del 2014. La disoccupazione ha raggiunto il 13,6%, in crescita di 0,8 punti percentuali rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Si tratta, in base a confronti annui, di un massimo storico, ovvero del valore più alto dall'inizio delle serie trimestrali, partite nel 1977. Secondo i dati diffusi oggi nel primo trimestre del 2014 il numero delle persone disoccupate ha sfiorato i 3,5 milioni, salendo precisamente a 3 milioni 487mila (in aumento di 212mila su base annua). Nel nostro paese oltre al tasso di disoccupazione in aumento, con un numero di senza lavoro oramai pari quasi a 3 milioni e mezzo continua a scendere anche il numero degli occupati. Che sono in diminuzione sia ad aprile dello 0,3% rispetto al mese precedente (-68 mila) che su base annua dello 0,8% (-181 mila). Anche passando ai numeri grezzi, non destagionalizzati, del primo trimestre del 2014, gli occupati risultano in calo, con una perdita di 211 mila persone al lavoro su base annua (-0,9%). Anche il tasso di disoccupazione dei giovani tra i 15 e i 24 anni è salito ancora raggiungendo nel primo trimestre un picco mai raggiunto prima balzando al 46,%. Nei primi tre mesi del 2014 la disoccupazione giovanile è aumentata di 0,4 punti percentuali su mese e di 3,8 punti su anno. Anche in questo caso si tratta, in base a confronti annui, di un massimo storico, ovvero sempre del valore più alto dall'inizio delle serie trimestrali, partite nel 1977. Il tasso di disoccupazione tocca il suo picco nel Mezzogiorno, dove vola al 21,7% nel primo trimestre del 2014. E tra i giovani (15-24 anni) raggiunge addirittura il 60,9%. In pratica sono 347mila i ragazzi in cerca di lavoro nel Sud, pari al 14,5% della popolazione in questa fascia d'età. Per quanto riguarda il dato di aprile i disoccupati tra i 15 e i 24 anni risultano 685 mila. con una incidenza sulla popolazione in questa fascia di età pari all'11,4%, invariata rispetto al mese precedente e in aumento di 0,8 punti su base annua. Sempre ad aprile il tasso di disoccupazione dei 15-24enni ovvero la quota dei disoccupati sul totale di quelli occupati o in cerca, è pari al 43,3%, in aumento di 0,4 punti percentuali rispetto al mese precedente e di 3,8 punti nel confronto tendenziale.

I provvedimenti della BCE (6 giugno 2014).
La Bce ha abbassato il costo del denaro dello 0,10% portandolo al minimo storico dello 0,15% dal già ridottissimo 0,25%. Non solo. Il tasso «overnight» è stato portato per la prima volta in terreno negativo. Vuol dire che alle banche non converrà più tenere i soldi depositati a Francoforte. Il primo pensiero va al mutuo e alle rate da pagare a fine mese. Per chi ha un finanziamento in corso non cambierà niente o quasi. I mutui ancorati al tasso Bce, nel nostro Paese, sono un’esigua fetta dell’1% appena. Per questo ristretto club di mutuatari ci sarà un risparmio ma, vista l’entità striminzita del taglio di oggi, si tratterà di pochi spiccioli in meno a fine mese. La gran parte dei prestiti per la casa seguono piuttosto l’andamento dell’Euribor e dell’Eurirs, gli indici specifici delle transazioni che avvengono tra banche. Il taglio di Draghi molto probabilmente li farà assottigliare ma anche questi due valori sono già a livelli minimi vicini allo zero, e si parla di un regresso impercettibile dello 0,10% per l’Euribor nei prossimi mesi. Il meccanismo di trasmissione non è immediato. Il taglio Bce potrebbe però innescare un volano positivo sugli spread dei mutui, vale a dire l’aliquota applicata dalle banche, come già accaduto in passato. A quel punto potrebbero esserci dei vantaggi per quelle famiglie che il mutuo lo devono ancora fare: le previsioni sono di spread sotto al 2% a fine anno. La buona notizia è anche per chi un mutuo già ce l’ha e magari l’ha fatto nei momenti più acuti della crisi. Con l’ulteriore riduzione dello spread diventerà più vantaggiosa la surroga vale a dire il passaggio a un tasso più conveniente. Oggi la surroga rappresenta già il 10% delle erogazioni e oltre il 20% di domande. A pagare saranno piuttosto i piccoli risparmiatori abituati a conti deposito e polizze che vedranno calare la remunerazione. Si parla di valori infinitesimali ma che arrivano in una fase in cui i risparmi sono già penalizzati dall’aumento di tasse e bolli. A scendere saranno anche i rendimenti delle obbligazioni. E i depositi negativi? Il territorio è tutto nuovo che in teoria non dovrebbe toccare le famiglie. Le ipotesi sono molte però tra cui anche quella che le banche vadano a scaricare questo nuovo scenario sui conti correnti dei privati. Gli esperti assicurano tuttavia che, se ci sarà un effetto, si tratterà tuttavia di un valori minimi. I depositi negativi dovrebbero innescare un meccanismo positivo per il tessuto economico. Le banche, per non pagare tassi negativi, concederanno di nuovo prestiti alle aziende con effetti benefici su tutto il Paese con più posti di lavoro e di conseguenza più consumi. Queste sono le attese. Le banche italiane ed europee però hanno davanti a sé la delicata prova degli stress test di ottobre. Capace che preferiscano lasciar passare questo cruciale appuntamento, prima di decidere di riaprire davvero i rubinetti del credito. Altre misure, dirette o indirette, per le imprese Draghi potrebbe però comunicarle nel corso della prossima ora. L’attesa è alta. Dopo il taglio dei tassi, gli aiuti per le imprese. La Bce interromperà la sterilizzazione della liquidità generata dal programma Smp, si prepara a varare un programma di acquisto di cartolarizzazioni (Abs), offrirà nuovi finanziamenti a lungo termine alle banche e continuerà a garantire l’allocazione della liquidità a rubinetto, tenendosi pronta a intervenire ancora con rapidità se necessario. E’ l’atteso pacchetto di misure annunciate da Mario Draghi per stimolare la ripresa economica e aiutare le aziende. In particolare dal nuovo “targeted Ltro” (Tltro) arriverà un importo iniziale combinato di 400 miliardi di euro (in due tranche, a settembre e in dicembre). Le banche, ha spiegato il numero uno della Bce, avranno inizialmente la possibilità di ottenere fondi per il 7% dell’’importo totale dei loro affidamenti al settore privato non finanziario dell’area euro, con l’esclusione dei mutui immobiliari alle famiglie. Inoltre, tra marzo 2015 e giugno 2016 le banche potranno ricevere ogni trimestre fino a tre volte l’importo dei loro affidamenti netti sempre a favore del settore privato non finanziario dell’area euro, con l’esclusione dei prestiti alle famiglie per l’acquisto di case. Le misure serviranno ad aumentare la liquidità immessa nel ciclo produttivo e a tassi più favorevoli che ovviamente dipenderanno da caso a caso. Certo non si tratta di un automatismo e si tratterà di vedere se le banche faranno davvero richiesta di questi finanziamenti perché altri programmi analoghi, come successo in Gran Bretagna, non hanno portato alle somme attese. Draghi lo ha detto chiaramente, l’istituto potrà offrire più credito soltanto se è nella condizione di farlo. Quindi prima di aprire maggiormente i rubinetti del credito dovranno pensare ad avere bilanci solidi. IL NOSTRO PARERE E' CHE QUESTE MISURE AVRANNO POCA INCIDENZA SULLA CRESCITA ECONOMICA IN ITALIA. L'UNICA VERA E SERIA OPERAZIONE SAREBBE QUELLA DELLA RIDUZIONE DEL CARICO FISCALE.

Lo spread a 135 pb (9 giugno 2014).
Sono i titoli di Stato italiani i protagonisti della giornata dei mercati, che avanzano incerti e privi di spunti macroeconomici di rilievo. Lo spread, la differenza di rendimento tra i decennali italiani e tedeschi scivola in area 135 punti base, ai minimi dalla metà di aprile 2011, prima dello scoppio della crisi del debito, con i Btp anni che rendono il 2,71% dopo essere scesi fino al 2,69%. Ormai la distanza dal rendimento dei decennali del Regno Unito si è ridotta a una manciata di punti base, mentre la Spagna è trattata dagli investitori come un emittente "più sicuro" degli Stati Uniti. Una contrazione di buon auspicio in vista della due giorni di aste in programma dal Tesoro (l'agenda dei mercati). Mercoledì saranno offerti in asta 6,5 miliardi di titoli a un anno, mentre giovedì sarà la volta dei Btp a media e lunga durata: oggi il ministero comunicherà l'ammontare che proverà a collocare. Già nei giorni scorsi il ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, aveva spiegato come il Paese sta cercando di trarre il massimo beneficio dalla riduzione dei tassi per rifinanziare il proprio debito. Insomma il trend sul debito pubblico italiano resta un buon viatico in vista della revisione del giudizio di Moody's venerdì prossimo e nonostante la bocciatura di SandP della scorsa settimana: secondo l'agenzia di rating è ancora troppo presto per valutare l'impatto dell'azione di governo sui conti del Paese. La giornata di oggi resta comunque priva di importanti spunti: l'attesa si sposta a domani, con i dati Istat sul Pil italiano, e a mercoledì con l'incontro tra il presidente della Bce, Mario Draghi, e il cancelliere tedesco, Angela Merkel: Berlino vuole capire quali sono le intenzioni dell'Eutower dopo l'ultimo taglio dei tassi. A livello internazionale si segnala la crescita del Pil giapponese che nel primo trimestre segna un +1,6% grazie alle spese delle famiglie aumentate del 2,3% tra gennaio e marzo rispetto al periodo compreso tra ottobre a dicembre. A trainare la crescita, però, è stato l'anticipo di molti acquisti di beni durevoli prima che scattasse l'aumento (dal 5 all'8 per cento) dell'imposta sui consumi. v

In aprile riparte la produzione industriale (10 giugno 2014).
Ad aprile la produzione industriale torna a salire, con un aumento dello 0,7% su marzo, (mese in cui era risultata negativa) e una crescita dell'1,6% su base annua (dato corretto per effetti di calendario). Lo rileva l'Istat, spiegando che il rialzo annuo è il più alto dall'agosto del 2011. Nella media dei primi quattro mesi dell'anno la produzione è aumentata dello 0,8% rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente. Ad aprile l'indice destagionalizzato registra variazioni congiunturali positive nei comparti dell'energia (+3,0%), dei beni di consumo (+2,2%) e dei beni intermedi (+0,5%). Segna invece una variazione negativa, il raggruppamento dei beni strumentali (-1,3%). Con riferimento alle sole attività manifatturiere, la produzione aumenta dello 0,4%. Gli indici corretti per gli effetti di calendario registrano, ad aprile 2014, aumenti tendenziali nei raggruppamenti dei beni intermedi (+3,9%) e dei beni di consumo (+3,2%). Segna una flessione il comparto dell'energia (-5,3%) e, in misura più lieve, quello dei beni strumentali (-0,7%). Le attività manifatturiere aumentano del 2,1%. Per quanto riguarda i settori di attività economica, ad aprile 2014 i comparti che registrano la maggiore crescita tendenziale sono quelli della metallurgia e fabbricazione di prodotti in metallo, esclusi macchine e impianti (+7,1%), delle industrie alimentari, bevande e tabacco (+5,8%) e della fabbricazione di mezzi di trasporto (+3,4%). Le diminuzioni maggiori si registrano nei settori della fabbricazione di coke e prodotti petroliferi raffinati (-8,1%), della fabbricazione di apparecchiature elettriche e apparecchiature per uso domestico non elettriche (-6,7%) e della fornitura di energia elettrica, gas, vapore ed aria (-4,9%).

Renzi alle banche: ora finanziate le imprese (17 giugno 2014).
«La crisi non è finita ma può essere vinta - ha detto oggi il premier Matteo Renzi inaugurando l'86ªa edizione Pitti Uomo a Firenze - Dobbiamo raccontare un Paese diverso, come succede con l'Expo. È giusto che ci sia una pulizia radicale, ma Expo è una gigantesca chance».
Renzi: politici i peggiori direttori commerciali.
«Raccontiamo sempre che ci sono problemi, siamo i peggiori direttori commerciali di noi stessi - ha detto il premier - Se le aziende che hanno successo avessero direttori commerciali come i politici italiani, sarebbero morte».
«Basta alibi: dare credito alle imprese». «Dopo l'innovazione portata da Mario Draghi e dal board della Bce - ha detto Renzi - non ci sono più alibi per non dare credito alle imprese, e quindi lo chiediamo con forza agli istituti di credito. Se è vero che da noi "credit crunch" non c'è stato, è vero che c'è stata una contrazione straordinaria del credito. Guai a chi oggi pensasse di avere ancora alibi».
«Chi vivesse di nostalgia non avrebbe spazio nella vita politica di oggi - ha detto Renzi - Se il premier partecipa a Pitti è perché crediamo che la pagina più bella non siano i 60 anni trascorsi. Dirlo significa essere arroganti e audaci. Il momento più bello e più grande per la moda deve ancora venire».
«Per un nuovo racconto del Paese oggi dobbiamo essere capaci di raccontare emozioni» ha affermato Renzi, ricordando che oggi iniziano gli esami di maturità: «Magari oggi non ci ricordiamo come sia andato il compito ma ci ricordiamo l'insieme delle emozioni, la notte della vigilia, lo sguardo di babbo e mamma che al mattino ci accompagnavano alla porta».
«Tav, intervenire su tratti da completare». «Sulle grandi opere infrastrutturali viarie - ha detto il premier - penso alla Tav ancora da completare fra Milano e Venezia e fra Napoli e Bari, noi abbiamo il bisogno, la necessità, direi l'urgenza, di intervenire immediatamente».

Ancora il rischio Argentina (18 giugno 2014).
L'Argentina pagherà, ma con modalità diverse da quelle imposte dalla Corte suprema degli Stati Uniti. Il governo di Buenos Aires, nella complessa vicenda del rimborso del debito, sceglie una "terza via": il ministro dell'Economia, Axel Kicillof, ha annunciato che il governo intende avviare i passi necessari «per pagare il debito ristrutturato in Argentina e sotto la legge argentina», ma ha aggiunto che i fondi avvoltoio non riusciranno a scardinare la ristrutturazione del debito già completata. Intanto però apre a una trattativa con gli americani. È questa la strategia finanziaria illustrata ieri da Kicillof. Una linea di massima che verrà dettagliata e negoziata nelle prossime due settimane. La sentenza della Corte suprema degli Stati Uniti, ricordiamo, obbliga l'Argentina a pagare 1,33 miliardi di dollari agli hedge funds (Nml e Aurelius) che non hanno accettato il concambio. Solo dopo aver onorato questo debito, la sentenza consente il pagamento delle cedole a chi ha aderito al concambio del 2005 e 2010. Il ministro Kicillof ha spiegato che se il Governo pagasse 1,33 miliardi di dollari, in contanti e in una sola tranche, agli hedge funds, si aprirebbe il baratro di un'immediata richiesta, per 15miliardi di dollari, da parte di altri creditori che non hanno accettato le offerte del governo argentino. Ma 15 miliardi di dollari costituiscono la metà delle riserve della Banca centrale argentina. Ecco perché la presidente Cristina Fernandez de Kirchner ha accusato il giudice Thomas Griesa di voler spingere l'Argentina verso il default. Infine il ministro dell'Economia ha aggiunto che non è possibile negoziare con i fondi avvoltoio, operativi con un metodo ben noto: acquistare a prezzi stracciati titoli in default per poi reclamare nei tribunali il 100% del loro valore. Una strategia già utilizzata in Perù, Ecuador e Panama. Kicillof ha poi ricordato che non sono stati i governi di Nestor Kirchner e di Cristina Fernandez a provocare un indebitamento così grave, quello degli anni '90. (La coppia presidenziale governa dal 2003). Bensì i governi precedenti, guidati da Carlos Menem, sempre appoggiati dal Fondo monetario internazionale.
Il miliardario che vuole mettere in ginocchio l'Argentina - Dr. Paul e Mr. Singer. I due volti di un 69enne miliardario americano, Paul (Elliott) Singer: quello di Mr. Singer, finanziere d'assalto e spietato avvoltoio degli hedge fund, noto per le battaglie di alto profilo, capace di mettere in ginocchio l'Argentina per le sue obbligazioni e di aprire ipoteche su future ristrutturazioni del debito sovrano di paesi in crisi, magari anche in Europa (una prossima Grecia?). Ma a fianco, i lineamenti tolleranti e socialmente responsabili di Dr. Paul, generoso benefattore che ha cuore l'istruzione, i poveri e la causa dei diritti degli omosessuali (in solidarietà con il figlio). È il prototipo del self made man, dell'americano che si è fatto da solo con le sue ambizioni e contraddizioni. Padre farmacista e madre casalinga ma una laurea a Harvard in legge, di famiglia ebraica ma politicamente e finanziariamente schierato con il partito repubblicano (sostenne Mitt Romney contro Barack Obama) nonché severo critico delle politiche accomodanti della Federal Reserve. Risiede a New York ed è il numero 1.177 nella classifica di Forbes dei più ricchi al mondo, con un patrimonio personale stimato in 1,5 miliardi di dollari. Una fortuna fatta con il colosso dei fondi hedge Elliott Management Corporation, in omaggio al suo secondo nome, che ha oggi in gestione asset per 21 miliardi di dollari (tre miliardi raccolti solo l'anno scorso). E che gli è servita anche a dare i natali a una fondazione caritatevole, la Paul E. Singer Foundation. La sua ascesa è stata esemplare. Negli studi inizialmente sceglie psicologia a Rochester per poi orientarsi sulla Giurisprudenza alla prestigiosa Harvard Law School. Nel 1974 il debutto professionale a Wall Street, che rimarrà la sua vocazione: viene assunto dalla banca d'investimento Donaldson, Lufkin and Jenrette per una posizione di avvocato nella divisione immobiliare. Tre anni dopo si mette già in proprio: con 1,3 milioni di dollari raccolti fra colleghi, amici e familiari fonda il suo hedge. La strategia affinata nel tempo combina la sua abilità legale con la sagacia di investitore: comprare debito di entità in crisi quando è superscontato per poi rivenderlo con un profitto oppure ricorrere in tribunale per ottenerne il rimborso (insomma l'Argentina è tutt'altro che un caso). Ha costruito attorno a sé una reputazione di vincitore e di duro: ha avuto solo due anni negativi dal 1977 e una media annuale di rendimenti del 14% rispetto al 10,8% dello SandP 500. Dal debutto l'hedge sotto il suo comando è stato coinvolto in molte delle operazioni di ristrutturazione aziendale oltre che di nazioni, da Chrysler a Delphi. Ha battuto, in anni recenti, persino i rivali Seth Klarman e John Paulson in tribunale in un duello per rilevare due miliardi di dollari di crediti nei confronti della fallita Lehman Brothers. Nel 1996 comincia la sua crociata nel debito sovrano: compra bond in default del Perù per 11,4 milioni di dollari. L'obiettivo fin dall'inizio è uno solo: ricorrere in tribunale. Nel 1998 perde in primo grado, il giudice boccia l'operazione per l'intento apertamente speculativo, ma due anni dopo vince in appello un risarcimento da 58 milioni. Nel 2002 tocca all'Argentina che dichiara default su quasi cento miliardi di debito estero: NML Capital, una divisione del suo hedge investita in bond per 182 milioni di dollari, rifiuta le offerte di ristrutturazione pari a 30 centesimi per dollaro. Valuta il suo investimento 2,3 miliardi. Il rifiuto continua negli anni successivi e a ottobre 2012 NML ottiene il temporaneo sequestro di una nave scuola militare argentina in Ghana per forzare, senza successo, la mano di Buenos Aires. Nel frattempo ha trovato modo di ottenere il pagamento di 127 milioni di dollari dal Congo per archiviare un investimento originale da 10 milioni su un debito sulla carta valutato 400 milioni. Il governo argentino lo apostrofa come l'inventore stesso dei "fondi avvoltoio", una tesi che però non ha trovato eco alla Corte Suprema americana. In Aula "l'avvoltoio" Mr. Singer ha avuto in questi giorni di nuovo ragione: la massima corte statunitense ha confermato una sentenza che gli dà diritto a un pagamento da circa 1,5 miliardi, un profitto in dollari che Buenos Aires ha stimato in più del 1.600 per cento. Fin qui il Mr. Hyde della finanza. L'altro volto di Singer, quello di Dr. Jekyll della filantropia, è forse meno noto ma è altrettanto rilevante. Sostiene la Harvard Graduate School of Education e ha creato il Premio Singer per l'eccellenza tra gli insegnanti delle scuole superiori. Finanzia il progetto VH1 Save The Music come la mensa per i poveri di New York, la Food Bank, e progetti di sviluppo nel quartiere afroamericano di Harlem. Dona alla polizia e soprattutto al National Gay and Lesbian Task Force Action Fund. Suo figlio ha sposato il partner in un matrimonio gay in Massachusetts e lui ha finanziato la causa della legalizzazione del matrimonio omosessuale anche a New York e in circoli repubblicani poco propensi ad ascoltarlo. Ha infine firmato il Giving Pledge, orchestrato da Warren Buffett e Bill Gates: l'impegno a devolvere in beneficenza - e non lasciare in eredità - oltre metà del proprio patrimonio personale «per affrontare i grandi dilemmi sociali ed economici del nostro tempo». Paul Singer, però, non ha rimorsi sui bond di Buenos Aires, che, nonostante un'economia in seria difficoltà, ritiene abbia le risorse necessarie a pagare. Per l'Argentina, lui, non piange di sicuro.

Il Dl IRPEF è legge (19 giugno 2014).
Dopo il voto di fiducia incassato ieri dal governo (342 sì e 201 no), via libera definitivo della Camera al decreto Irpef con 322 voti sì, 149 no ed 8 astenuti. Al momento del voto finale, a sopresa, si schierano a favore della conversione anche i deputati di Sel. Ma il leader del partito, Nichi Vendola, avverte: il voto favorevole «non é uno scivolo per avvicinarsi progressivamente all'area di governo. Io dico no». Per Vendola, il decreto «é ricco di contraddizioni», ma «interviene su una platea vasta che vive un disagio sociale straordinario». Per questo «Tutto ciò che assomiglia a una riparazione dei danni fatti alle famiglie va bene. Resta una perplessità di fondo sulle fonti di finanziamento del decreto», sottolinea Vendola. La sfida di Sel al Governo: direzione giusta, ora combattere diseguaglianze A dare l'annuncio in Aula della svolta maturata nel partito di Vendola, dopo il confronto interno degli ultimi giorni, è stata Titti Di Salvo, che nel corso delle dichiarazioni di voto finali sul provvedimento ha sottolineato come questa sia «la direzione da consolidare». Con questo voto, ha aggiunto, «noi sfidiamo il governo ad assumersi la responsabilità di andre vanti in un linea di politica economica in grado di combattere le disuguaglianze». Sel, ha poi chiarito Di Salvo contro ogni lettura malevola del riallinamento del partito, intende «giudicare il decreto a occhi aperti. E' un bonus elettorale? Può darsi. Non serve a niente? Vedremo... Noi diciamo che è la direzione da consolidare: trovate le risorse che servono laddove ci sono, trovatele per continuare in questa direzione». In disseso dal loro gruppo, hanno votato contro i due deputati di Sinistra Ecologia e Libertà Giulio Marcon e Giorgio Airaudo. «Voto in dissenso da Sel», ha spiegato Marcon nel corso del dibattito, perchè «Noi siamo all'opposizione del governo, nessuno si sogni di usare questo decreto per rimettere in discussione questo orientamento. Gli 80 euro vanno bene ma non vanno bene tante altre cose». D'accordo con lui il collega Airaudo, anche lui annunciando il voto di astensione: «Serve un altro governo e un'altra politica», ha concluso. Sul decreto l'esecutivo aveva già incassato la fiducia anche a palazzo Madama. Tra le principali novità del decreto, il bonus da 80 euro (già erogato nelle buste paga di maggio) destinato ai dipendenti con reddito sotto i 26mila euro. Per la Rai viene confermato il taglio di 150 milioni di euro, ma la Tv pubblica viene esclusa dalle riduzioni di costi operativi previste nel decreto per le partecipate dello Stato. Nel provvedimento è entrato anche il rinvio del pagamento dell'acconto Tasi per i Comuni in ritardo con le delibere delle aliquote. Il bonus da 80 euro è stato blindato dal Governo in attesa di estenderlo con la prossima legge di stabilità a nuclei monoreddito con più figli, pensionati e incapienti. Così come il taglio del 10% dell'Irap, eventualmente da rafforzare per le Pmi nell'ambito della delega fiscale. Dal restyling operato da Palazzo Madama, confermato in toto dalla Camera, anche a causa dei tempi ristretti rimasti a disposizione (il Dl scade il 23 giugno), è comunque arrivata qualche novità. A partire dalla proroga a ottobre del versamento della Tasi per i Comuni ritardatari nell'individuare le aliquote che è diventata già operativa con il decreto ad hoc varato dal Governo. Tra gli altri ritocchi, l'aumento della "tassa" sui fondi pensione dal'11% all'11,5% per sterilizzare gli effetti dell'innalzamento della tassazione sulle rendite finanziarie e il pagamento dell'imposta sulla rivalutazione dei beni d'impresa diluita in tre rate (16 giugno, 16 settembre e 16 dicembre) e non più in un'unica soluzione. La fiducia votata ieri dalla Camera, è la tredicesima "dell'era Renzi". Quanto alle pregiudiziali di costituzionalità, bocciate in Aula, quella posta dal M5S riguardava la natura non omogenea del decreto mentre la richiesta di Forza Italia puntava sulla violazione del principio di uguaglianza del bonus Irpef: entrambe sono state bocciate con 230 "no" e 92 voti favorevoli.

DRAGHI: ripresa lenta e fragile (21 giugno 2014).
«La ripresa è in corso da nove mesi ma è ancora debole, distribuita non uniformemente nell’area euro. Ed è fragile ». Il presidente della Bce Mario Draghi lo ha detto in una intervista quotidiano olandese De Telegraaf -. La disoccupazione è alta, in un contesto di bassa inflazione ma non di deflazione, nel senso di un calo dei prezzi in tutto lo spettro nell’area euro». Draghi, per ora non parla di acquisto di bond ma precisa che la strada è percorribile nell’ambito del mandato della banca centrale. «Per ora ci concentriamo sulle misure annunciate il 5 giugno». Ammette di non aver mai «esitato» ad assumere la presidenza dell’Eurotower, e invita a guardare avanti, a «lavorare per un futuro» in cui ci sia non sono stabilità, ma anche crescita e lavoro.
Di crisi e misure per la crescita ha parlato anche il ministro dell’Economia Carlo Padoan. «È urgente intervenire per contenere l’elevata pressione fiscale che è ostacolo al ritorno a ritmi di crescita in linea con i partner internazionali - detto intervenendo alla celebrazione per i 240 anni della Guardia di Finanza -. Serve un fisco più equo- ha sottolineato- un fisco equamente distribuito consentirà ai cittadini di affrontare meglio lo snodo che stiamo vivendo».
Nel corso della cerimonia sono stati diffusi i dati relativi all’attività delle Fiamme Gialle. Dall’inizio dell’anno sono stati quasi 10,3 miliardi di euro quelli recuperati dalla Guardia di finanza a tassazione sul fronte dell’evasione fiscale internazionale, «attuata attraverso la fittizia residenza all’estero, le stabili organizzazioni non dichiarate ed altre sofisticate manovre elusive». Per quanto riguarda le frodi carosello, realizzate attraverso «scatole vuote» create per emettere fatture false, sono stati denunciati 193 responsabili e scoperta un’evasione dell’Iva di oltre 235 milioni. Sono invece 460 i milioni di euro sequestrati agli evasori fiscali. Quanto ai controlli sugli scontrini e le ricevute, i dati del 2014 sono in linea con quelli dell’anno precedente: su 163.280 controlli effettuati, sono state riscontrate irregolarità nel 32,5% dei casi.
L’altro fronte su cui si è concentrata l’attività della Gdf è quello della lotta agli illeciti nella spesa pubblica. Negli otre 10.500 interventi eseguiti, sono state scoperte frodi allo Stato e all’Ue per 550 milioni, con sequestri per 195 milioni. Il danno erariale segnalato alla Corte dei Conti per cattiva gestione del denaro pubblico ammonta invece a 1,6 miliardi.

Riforma del senato (10 luglio 2014).
Oggi pomeriggio il ddl sulle riforme approda in aula al Senato. La commissione Affari costituzionali stamattina esprimerà il voto finale sugli ultimi articoli tra cui quello sul nuovo Senato che non sarà più eletto dai cittadini ma dai Consigli regionali che li sceglieranno con criteri proporzionali tra i propri membri e i sindaci dei capoluoghi dei rispettivi territori. Un giorno in più alla discussione in commissione, su proposta della stessa presidente Anna Finocchiaro, è stato deliberato dalla conferenza dei capigruppo che però ha respinto la richiesta delle opposizioni di far slittare di una settimana la discussione in aula. Quindi, tempi quasi integralmente rispettati per poter avere i primi sì di palazzo Madama già mercoledì prossimo, in concomitanza con la riunione del Consiglio europeo a cui Matteo Renzi potrà presentarsi come il leader di un Paese sulla strada del cambiamento. E i cambiamenti non riguarderanno solo il Senato e il nuovo Titolo V della Costituzione. E’ stata infatti approvata anche la modifica del sistema di elezione del capo dello Stato spostando dal quarto al nono scrutinio l’elezione del Presidente a maggioranza assoluta, prevedendo per i primi otto quella dei due terzi e dei tre quinti. L’intento evidente è quello di favorire intese più larghe per la scelta dell’inquilino del Quirinale, alla quale parteciperanno i 630 deputati e i cento nuovi senatori ma non ci saranno più i delegati delle Regioni. Novità anche per i referendum abrogativi: le firme per la convocazione passano dalle attuali 500 mila a 800 mila ma, di contro, si abbassa il quorum per la validità della consultazione, dalla metà più uno degli aventi diritto alla metà degli elettori dell’ultima consultazione per la Camera dei deputati. La nuova norma è stata accolta da più di una protesta di associazioni e circoli referendari, tra cui quella della segretaria di Radicali italiani, Rita Bernardini, che parla di atto «contro la democrazia», tutt’altro che compensato dal «contentino» dell’abbassamento del quorum, quando «il vero problema nella raccolta delle firme è quello di reperire gli autenticatori». Scatenati anche gli M5S e, in particolare, Beppe Grillo che inoltre, di fronte alla tenuta dell’asse maggioranza-FI sulle riforme, afferma che «il patto del Nazareno è un salvacondotto per il culo del noto pregiudicato Berlusconi che, per non finire in galera e poter sperare nella grazia, garantisce in cambio il suo appoggio al governo». Il consenso alla riforma a palazzo Madama sembra comunque essere scontato, nonostante i residui tentativi di resistenza ancora presenti nel Pd e in FI. Tra i dem, dopo la decisione di una dozzina di dissidenti di astenersi dal voto sulla modifica del calendario dei lavori, le attese sembrano spostarsi al passaggio della legge alla Camera, dove Pier Luigi Bersani promette di «dargli un’aggiustatina». Più complicata la situazione tra gli azzurri, dove la sacca di resistenza guidata da Minzolini e dagli amici di Fitto, appare tutt’altro che eliminata: un problema per lo stesso Berlusconi apparso indeciso sul da farsi, tanto da lasciare che si accavallassero per tutta la giornata annunci di convocazione dei gruppi parlamentari alla sua presenza senza che poi si decidesse nulla di concreto. I FRENATORI, I BENALTRISTI, I NOSTALGICI INIZIANO AD AVERE PAURA.

Imprevisto calo della produzione industriale in maggio (11 luglio 2014).
Il recupero di aprile si è dimostrato una illusione. Produzione industriale giù a maggio dell’1,2 per cento rispetto al mese precedente (il risultato peggiore da novembre 2012) e in calo dell'1,8 per cento se si fa il confronto con lo stesso periodo dello scorso anno. Un risultato «molto negativo, al di là delle previsioni» nel commento dell’Istat secondo cui, forse, il ponte del primo maggio ha comunque avuto un peso importante per determinare il flop. I numeri descrivono in particolare l’affanno della produzione di autoveicoli che a maggio è diminuita del 3% rispetto all'anno precedente. Tuttavia, nei primi cinque mesi dell'anno, c'è stato comunque un aumento del 5,2% rispetto allo stesso periodo del 2013. Le statistiche parlano di un settore in regresso generale. L’indice destagionalizzato presenta infatti una sola variazione congiunturale positiva: quella nel comparto dell'energia (+0,8%). Segno meno invece i beni strumentali (-1,7%), i beni intermedi e i beni di consumo (entrambi -1,5%). Gli indici corretti per gli effetti di calendario registrano, a maggio 2014, un solo aumento tendenziale nel raggruppamento dei beni intermedi (+0,5%); diminuiscono invece i beni strumentali (-3,9%), l'energia (-2,0%) e i beni di consumo (-1,7%). Per quanto riguarda i settori di attività economica, a maggio 2014, i comparti che registrano una crescita tendenziale sono quelli dell'attività estrattiva (+3,7%), della fabbricazione di articoli in gomma e materie plastiche, altri prodotti della lavorazione di minerali non metalliferi (+2,9%) e delle industrie alimentari, bevande e tabacco (+0,2%). Le diminuzioni maggiori si registrano nei settori della fabbricazione di apparecchiature elettriche e apparecchiature per uso domestico non elettriche (-6,5%), delle altre industrie manifatturiere, riparazione e installazione di macchine ed apparecchiature (-4,6%) e della fabbricazione di computer, prodotti di elettronica ed ottica, apparecchi elettromedicali, apparecchi di misurazione e orologi (-3,9%). Secondo le previsioni del Centro Studi di Confindustria, comunque, i dati di giugno segneranno una inversione di tendenza con un aumento della produzione industriale dello 0,7% rispetto a maggio. Tuttavia le statistiche Istat sono state accolte con generale preoccupazione. «Se si considera che le attività manifatturiere, cioè l'industria al netto dell'energia e dell'attività estrattiva, mostrano un ridimensionamento più elevato rispetto al dato generale (-1,5% su aprile) – ha spiegato Confcommercio – si deve concludere che il quadro economico effettivo è meno confortante di quello disegnato dal profilo del clima di fiducia delle famiglie e delle imprese». Pertanto, si legge in una nota, «si riducono le possibilità che la chiusura del 2014 rispetti le previsioni del governo di un Pil in crescita dello 0,8%». Federconsumatori e Adusbef, hanno invece invocato misure immediate «per rilanciare il sistema produttivo e l'occupazione e rimettere in moto la domanda interna ed il sistema economico». Va anche ricordato che a maggio il quadro della produzione industriale è risultato negativo, oltre le previsioni, anche nel resto d’Europa. Nei giorni scorsi era stato diffuso il dato relativo alla Germania: un pesante -1,8 per cento che evidenzia la difficoltà della locomotiva tedesca già emersa ad a aprile. Ieri - oltre che dell’Italia - è stata la volta della Francia, la cui industria ha fatto a maggio un mezzo capitombolo: la flessione è stata dell’1,7 per cento rispetto al mese di aprile, contro una stima che era positiva, pur se di poco. Un risultato negativo che è ancora più evidente se si guarda al solo comparto manifatturiero in senso stretto, che ha fatto segnare un arretramento del 2,3 per cento. Tutti numeri che portano a dubitare sul fatto che nel Continente si sia effettivamente concluso il ciclo di recessione.

INDESIT. Un altro marchio se ne va (11 luglio 2014)
Indesit diventa americana. Whirlpool ha raggiunto un accordo con Fineldo - la holding della famiglia Merloni - e altri membri della dinastia industriale per l’acquisto di una quota di maggioranza pari al 60,4% (rappresentanti il 66,8% dei diritti di voto) della storica azienda marchigiana a un prezzo di 758 milioni di euro, pari a 11 euro per azione. L’operazione - si legge in una nota - dovrebbe chiudersi entro la fine dell’anno con l’approvazione del tribunale di Ancona e le autorizzazioni dell’Antitrust. La società americana al perfezionamento dell’operazione lancerà un’Offerta pubblica di acquisto obbligatoria sulle restanti azioni Indesit a 11 euro per azione, salvo aggiustamenti al rialzo. Giovedì Indesit ha chiuso a piazza Affari a 10,53 euro. Il prezzo di acquisto rappresenta un premio del 4,5% rispetto ai corsi di mercato. A metà pomeriggio il titolo in Borsa sale di quasi il 3% e si porta sopra quota 10,8 euro, avvicinandosi al prezzo di vendita. Whirlpool, fa sapere la multinazionale americana che in Italia ha sede a Varese, intende finanziare l’operazione per cassa, insieme a finanziamenti bancari e al ricorso al mercato del debito statunitense e internazionale. C’era attesa sulla cessione dell’azienda di elettrodomestici, alla quale stavano guardando anche la svedese Electrolux e la cinese Sichuan Changong. «L’accordo ha l’obiettivo di dotare Indesit di tutti gli strumenti per costruire un futuro solido e sostenibile - ha affermato Gian Oddone Merli, amministratore delegato di Fineldo commentando l’operazione -. Nel corso di un dialogo durato molti mesi, Whirlpool ha dimostrato di essere il partner giusto in grado di esprimere una progettualità che premi il percorso di crescita e di attenzione alla qualità che ha sempre caratterizzato Indesit. I benefici che Indesit trarrà da questo investimento sono molteplici, non ultimo la possibilità di permettere al proprio know-how e ai propri prodotti di raggiungere una scala davvero globale». Ottimista anche Jeff Fettig, presidente e chief executive officer di Whirlpool Corporation:«Ci aspettiamo che questa opportunità posizioni il nostro business europeo su un percorso di crescita e di continua creazione di valore insieme a una società di riconosciuto standing e affermata quale Indesit». «Riteniamo - ha concluso Fetting - che questa acquisizione ci posizionerà in maniera ideale per una crescita sostenibile in un mercato altamente competitivo e sempre più globale quale quello degli elettrodomestici in Europa». I sindacati sono prudenti e chiedono una riunione per avere rassicurazioni sul rispetto del piano industriale concordato tra azienda, sindacati e governo. «Per noi è importante valutare la notizia, oltre che sul piano finanziario e commerciale, soprattutto in termini industriali. Per questo chiediamo che venga convocata una riunione al ministero dello Sviluppo economico per avere maggiori dettagli sull’operazione», ha detto Anna Trovo’, segretario nazionale della Fim Cisl. «Il piano industriale concordato con i sindacati e il governo a dicembre 2013 dovrà essere portato avanti secondo i patti, a prescindere dall’avvenuta scissione del pacchetto azionario», ha commentato Gianluca Ficco, il coordinatore nazionale Uilm del settore elettrodomestici. «Il settore degli elettrodomestici ha sofferto la crisi - ha spiegato segretario generale della Uilm Rocco Palombella - e abbiamo sottoscritto accordi per proteggere i livelli occupazionali e rilanciare la produzione, come è avvenuto anche nella lunga vertenza Indesit. Ecco perché siamo di fronte ad una vicenda tuttora sotto tutela e vigilata speciale».

Un milione di poveri in più in un anno (15 luglio 2014).
Quella dell'Istat è la fotografia di un Paese in gravissima difficoltà, ancora in piena crisi, sull'orlo del disastro sociale. Un italiano su dieci vive in povertà assoluta, cioè non ha nemmeno il minimo indispensabile per vivere. Un terzo delle famiglie è in condizioni di povertà: di questi oltre il 12 per cento si trovano in condizioni di povertà relativa, e quasi l'8 per cento in povertà assoluta. Sono dati spaventosi, da paese che una volta si definiva del Terzo mondo. Ma per dire quanto lo spettro della povertà stia avanzando con velocità impressionante, ecco un dato: la povertà assoluta è aumentata dell'1 per cento in un anno, vale a dire 1 milione e 206 mila persone povere in senso assoluto in più dell'anno precedente. L'equivalente di una grande città che si aggiunge alla massa di persone che non hanno di che vivere. L'ascensore sociale, quel meccanismo secondo cui dal dopoguerra al 2007 (anno di inizio della crisi) consentiva la speranza di migliorare la condizione economica e sociale propria e dei figli si è fermato. Anzi peggio: l'ascensore sociale sta precipitando ed è la classe media che sta scomparendo nelle sabbie mobili della povertà. Se il dato è drammatico per l'Italia intera, per il Sud è tragico. E per i giovani è nerissimo: senza lavoro e senza prospettive. E' allarme sociale, umanitario: nel 2013 sono stati oltre 400 mila i bambini sotto i 5 anni che hanno avuto bisogno di aiuto semplicemente per mangiare e bere il latte. Un paese ridotto così avrebbe bisogno di riforme immediate che invece stentano a diventare realtà. La riforma del Senato, quella che dovrebbe abolire il bicameralismo perfetto, ha cominciato l'esame in aula. Tra le polemiche trasversali, le fronde, i distinguo e le polemiche se ne andranno altri giorni. Poi toccherà alla riforma elettorale che è già stata approvata alla Camera. Ma c'è bisogno di lavoro e di crescita. Anche il Fondo monetario vede che la ripresa dell'area euro è debole (la produzione industriale è di nuovo in calo) e spinge per una maggiore crescita.

Grave crisi dell'editoria (15 luglio 2014).
L’editoria, quotidiana e periodica, ha perso nel 2013 quasi 700 milioni di ricavi. Il fatturato dei quotidiani è sceso del 7%, quello dei periodici il 17,2%. È quanto emerge dalla relazione Agcom(clicca qui per scaricarla integralmente). I ricavi dei quotidiani passano da 2,5 miliardi del 2012 a 2,3 miliardi del 2013. I periodici da 2,8 miliardi a 2,3. Anno nero, il 2013, anche per la pubblicità: il calo dei ricavi complessivi rispetto all’anno precedente è stato del 10,9%, da 8,3 miliardi a 7,4 miliardi. Crollano periodici (-24,1%) e quotidiani (-13,2%), ma vanno male anche tv (-10,1%) e cinema (-7%). La radio perde il 6,4%. Scende per il primo anno anche Internet (-2,5%). Anche il settore televisivo continua ad essere caratterizzato da un andamento economico negativo, con riferimento sia alla tv gratuita, meno 6%, sia alla pay-tv, meno 2%.
La crisi stringe ancora l’economia italiana soffocando nella stretta anche il settore delle comunicazioni che, nel 2013, ha registrato una perdita complessiva in termini di fatturato pari a 5,4 miliardi di euro rispetto al 2012, pari ad un calo del 9%. Il valore del macro-settore delle comunicazioni per il 2013 è stimato pari a 56,1 miliardi di euro, di cui 34,5 miliardi dovuto alle Tlc, 8,6 miliardi a Radio e Tv, 6,9 miliardi ai servizi postali e 6,1 miliardi all’Editoria e internet. Nel 2012 il settore delle comunicazioni aveva totalizzato 61,4 mld, con un calo di 4,4 miliardi rispetto al 2011 quando il valore del settore era di 65,8 miliardi. In particolare, i comparti che compongono il settore della comunicazione hanno registrato una riduzione nel valore pari nelle Tlc a -11% con un calo dei ricavi nella rete fissa del 7,43% e nella rete mobile del 13,87%, nei servizi media la riduzione del valore è stata -7% e nei servizi postali -2%. Sul fronte dei media, i ricavi della tv gratuita sono scesi del 5,97% mentre la tv a pagamento ha registrato una contrazione meno evidente pari a -2,02%, i ricavi dei quotidiani sono scesi del 7,02%, per i periodici il calo è stato del 17,28%, la radio ha registrato un calo dei ricavi del 4,94% e internet del 2,46. Nel 2013, per la prima volta da quando opera in questo settore, l’ex monopolista delle telecomunicazioni Telecom Italia ha registrato una quota di mercato nei servizi a banda larga inferiore al 50%.
Le trasformazioni «dovute alle nuove tecnologie non devono portare a nuove esclusioni. Il progresso tecnologico è fondamentale per il nostro Paese», ha detto Laura Boldrini, che ha introdotto la presentazione della relazione annuale 2014. «L’obiettivo deve essere quello di ridurre il digital divide che è il nuovo volto della vecchia disuguaglianza. Bisogna puntare -ha affermato Boldrini- ad una alfebetizzazione che coinvolga tutte le fasce sociali». Che ha evidenziato come «il ruolo fondamentale della scuola» e ha sottolineato che tutti devono «essere cittadini digitali o la cittadinanza risulterà fittizia.

Ripresa del settore auto (17 luglio 214).
Il mercato europeo dell’auto cresce a giugno del 4,3% sullo stesso mese 2013: le immatricolazioni nei 28 Paesi Ue più i 3 Efta (Islanda, Norvegia e Svizzera) sono state 1.230.363. Nei sei mesi sono il 6,2% in più (6.851.552). I dati sono di Acea, l’associazione delle case europee. A latere si registra un interesse in Borsa per il titolo Fiat (cresciuto fino al 5%) dopo che la versione online del maggior periodico tedesco, il Magere Magazine, ha scritto di un interesse della Volkswagen ad acquistare quote in Fiat Chrysler. Nessun commento dal Lingotto. Il paradosso è che a giugno tra i maggiori mercati europei dell’auto l’unico risultato in calo è proprio quello tedesco (-1,9%), mentre sono in crescita Francia (+2,5%), Italia (+3,8%), Regno Unito (+6,2%) e Spagna (+23,9%). Nei sei mesi il segno è positivo per tutti i principali mercati: +2,4% in Germania, +2,9% in Francia, +3,3% in Italia, +10,6% nel Regno Unito, +17,8% in Spagna. Nel periodo gennaio-giugno la casa automobilistica che registra più immatricolazioni è il gruppo Volkswagen (1.717.087, +7,1%), seguito da Psa Group (753.617, +5,2%) e dal gruppo Renault (663.063, +19,3%). A giugno il gruppo Fiat è cresciuto del 6,9% in Europa rispetto allo stesso mese 2013, con un risultato migliore del mercato (+4,3% nei 28 Paesi Ue+Efta). La quota è salita dal 5,9 al 6%. Nei 6 mesi le immatricolazioni aumentano del 2,8% ma la quota scende dal 6,4 al 6,1%. Fiat 500 è ancora una volta l’auto più venduta del segmento A nel mercato europeo (oltre 19 mila immatricolazioni, il 22,2% in più rispetto a un anno fa) seguita dalla Panda. Lo sottolinea il Lingotto. La 500L è prima nel suo segmento con una quota del 23,3%, in crescita da ventiquattro mesi consecutivi. Nuovo exploit per Jeep che continua a crescere sensibilmente in tutti i principali mercati europei e aumenta le immatricolazioni del 62%. Il marchio Fiat a giugno ha immatricolato oltre 57.500 vetture (+5,5%). La quota è del 4,7% a fronte del 4,6% di un anno fa. Il brand è cresciuto in quasi tutti i più importanti mercati europei: +4,7% in Italia, +8% in Germania, +13,2% nel Regno Unito e +52,9% in Spagna. Nei 6 mesi Fiat ha immatricolato circa 325 mila auto (+1,9%), con una quota del 4,7% (nel 2013 era 4,9%). Da inizio anno le immatricolazioni sono cresciute nel Regno Unito del 18,3% e in Spagna del 46,2%. «Decisamente positivi», spiega la casa torinese, i risultati a giugno dalla famiglia 500, con il 62,4% delle vendite al di fuori dell’Italia. La 500L si conferma l’auto più venduta del segmento, con 10 mila immatricolazioni (praticamente il 60% in più rispetto a un anno fa) e una quota del 23,3% (15,7% a giugno 2013). In Italia ha raggiunto una quota del 53,4% (+20,8%), in Spagna del 41,3% (+14,5%). È da 24 mesi consecutivi che continua a crescere: nel primo semestre in Europa le immatricolazioni sono cresciute del 54% sullo stesso periodo 2013. La 500, a 7 anni dalla commercializzazione,continua a essere al primo posto nelle classifiche di vendita del segmento A. In giugno ne sono state immatricolate oltre 19 mila (+22,2%) per una quota del 18,5%, 4,4 punti percentuali in più del 2013. La Panda è la seconda più venduta del segmento A, con quasi 13.500 immatricolazioni e una quota del 12,9% (+0,35%). Insieme, Panda e 500 a giugno hanno una quota del 31,4% del segmento (+4,7%). Lancia/Chrysler ha immatricolato oltre 6.800 vetture a giugno (+5,4%), e ha ottenuto una quota dello 0,6%, la stessa di un anno fa. In Germania ha aumentato le vendite del 54% (-1,9%il mercato), in Francia del 75,3% (+2,5% il mercato) e in Spagna dell’80,2%. Nel primo semestre sono state quasi 41 mila le Lancia/Chrysler immatricolate (-0,7%, quota stabile allo 0,6%). Continua ad andare bene la Ypsilon che ha aumentato le vendite rispetto al 2013 del 14,1% a giugno e del 13,3% da inizio annon. Le immatricolazioni di Alfa Romeo sono state a giugno quasi 5.800 (-2,3%) per una quota stabile allo 0,5%. Nei primi sei mesi del 2014 le Alfa Romeo registrate sono state quasi 33 mila (-9,3%). La quota è stata dello 0,5%, -0,1 punti percentuali rispetto allo stesso periodo del 2013. Il Lingotto segnala che il risultato ottenuto dal marchio nel mese è positivo in numerosi dei principali mercati: +6,5% in Germania, +14,8% in Francia, +28,1% nel Regno Unito,+76% in Spagna. Nei primi sei mesi del 2014 le Alfa Romeo registrate sono state quasi 33 mila (-9,3%). La quota è stata dello 0,5% (-0,1%). Tra i modelli continua il trend positivo di MiTo che registra in Italia il decimo mese consecutivo di crescita (+17% su giugno 2013) a fronte di un calo del segmento B del 3,8% e in Europa un aumento del 5,2% rispetto giugno 2013 mentre il segmento cala dell’1,2%. La Giulietta incrementa le vendite di oltre il 20% rispetto a giugno del 2013 in Francia e nel Regno Unito, in un segmento in crescita del 13% in Francia e stabile nel Regno Unito. Prosegue anche a giugno «l’exploit di vendite» della Jeep. Dopo il record di maggio con oltre 100 mila immatricolazioni a livello mondiale, il brand ha registrato in Europa oltre 3 mila vetture (+62%): è il marchio dal maggior aumento percentuale nel mese. Stabile la quota allo 0,2%. Jeep è cresciuto in quasi tutti i mercati: +42,9% in Italia, +69,3% in Germania, +48,5% in Francia, +73,4% nel Regno Unito, +24,3% in Spagna. Nei 6 mesi sono state oltre 16 mila le Jeep immatricolate (+43,8%). La quota è stabile allo 0,2%. Grand Cherokee si è confermata nelle prime posizioni del suo segmento: nel primo semestre dell’anno ne sono state registrate quasi 8 mila (+63,2%). Positivo il debutto della Cherokee, che a due mesi dall’inizio delle commercializzazioni sta avvicinandosi alle prime posizioni della classifica di vendite del segmento. I marchi di lusso e sportivi Ferrari e Maserati hanno immatricolato complessivamente 846 vetture in giugno e 4.603 nei sei mesi.

In calo l'industria italiana (21 luglio 2014).
Il dato di maggio non era una nuvola passeggera. Ancora un segno meno a maggio per l’industria italiana. Il fatturato scende dell’ 1,0% rispetto ad aprile, segando il secondo ribasso congiunturale consecutivo, mentre resta positivo su base annua, anche se appena sopra lo zero, con un incremento dello 0,1% (dato corretto per effetti calendario). Lo rileva l’Istat, che stavolta registra i dati peggiori sui mercati esteri. Se in termini tendenziali è ancora il mercato italiano a fare peggio, a livello mensile è invece l’estero, e dunque il Made in Italy, a pesare. In calo gli ordini del 2,1% a maggio. Le commesse calano anche su base annua, con un ribasso del 2,5% (dato grezzo). È la prima flessione dopo 8 mesi. Nel dettaglio, si registrano flessioni mensili sia sull’estero (-1,9%), sia, con una diminuzione più attenuata, sul territorio nazionale (-0,6%). Il dato annuo è invece frutto di un aumento dello 0,1% sul mercato interno e un ribasso dello 0,1% fuori confine. Passando all’indice grezzo, invece, il giro d’affari risulta in calo del 3,1%, con la componente interna dei beni intermedi che fa da zavorra. Per quanto riguarda gli ordinativi totali, si registra una flessione congiunturale del 2,1%, con una diminuzione del 4,5% degli ordinativi esteri e dello 0,2% di quelli interni. Guardando ai diversi comparti, l’Istat segnala un `boom´ per gli ordini che riguardano la fabbricazione di apparecchiature elettriche e apparecchiature per uso domestico non elettriche (+15,0%). E molto bene è andata anche per la fabbricazione di mezzi di trasporto (+10,6%). Male non va per il tessile (+4,4%), al contrario la diminuzione più ampia riguarda i prodotti chimici (-5,4%) e tra i segni meno c’è anche l’alimentare (-1,7%). In arretramento invece risultano la fabbricazione di macchinari e attrezzature (-13,6%) e quella di prodotti chimici (-8,8%).

Aumenta la fiducia degli italiani (22 luglio 2014).
Italiani più fiduciosi, ma soprattutto prudenti. E' l'identikit che emerge dalla survey "Global Consumer Confidence" di Nielsen relativa al secondo trimestre 2014, eseguita su un campione di 30mila individui in 60 Paesi.Secondo Nielsen la fiducia degli italiani cresce di 6 punti nel secondo trimestre 2014 rispetto al primo, toccando quota 51. L'Italia ha avuto anche l'incremento di fiducia maggiore dopo l'India (+7) e le viene accreditato anche un effetto traino sul trend europeo, il cui indice complessivo ha guadagnato due punti arrivando a quota 77. Fiducia maggiore, sì, ma realismo, anche. Infatti dall'indagine emerge anche una sostanziale prudenza dovuta dalla consapevolezza che la situazione resta critica: secondo il 95% degli intervistati da Nielsen l'Italia è attualmente in fase di recessione anche se in miglioramento rispetto al medesimo periodo del 2013. Gli italiani risultano più ottimisti rispetto alla media Ue e a francesi e spagnoli circa le prospettive di uscita dal tunnel della crisi: per il 56% dei nostri connazionali (4 punti in meno rispetto ai primi tre mesi dell'anno) non si uscirà dalla congiuntura negativa nei prossimi 12 mesi. La media Ue sale al 58%, mentre a pensarla così sono il 72% degli intervistati francesi e il 73% di quelli spagnoli. Certo, gli ultimi dati statistici diffusi dall'Istat in Italia (calo di fatturato e ordini per le imprese) e i segnali di rallentamento dell'economia tedesca non sembrano di buonissimo auspicio e potrebbero rappresentare una doccia fredda sul sentiment dei cittadini italiani ed europei. Tuttavia, «il miglioramento del clima di fiducia dei consumatori italiani – spiega Giovanni Fantasia. Amministratore delegato di Nielsen Italia - si inserisce all'interno di un contesto politico in cambiamento con l'insediamento di un nuovo esecutivo, che ha promesso l'adozione immediata di misure anti-crisi». Secondo Fantasia, «pur rimanendo ancora vigili nei comportamenti di acquisto e consumo, gli italiani mostrano piccoli segnali di miglioramento sul clima economico e sulla percezione del futuro rispetto al primo trimestre: segnali di fiducia che vanno colti e soprattutto conquistati, pena la conferma, anche per quest'anno, di un trend di fiducia che ha visto l'Italia scendere ai minimi storici». Al di fuori dell'Italia hanno fatto registrare un andamento positivo anche gli indici di Francia (60) e Regno Unito (90) (rispettivamente +1 e +3 punti rispetto al primo trimestre), così come quello degli Usa (+4 punti). La fiducia è, invece, diminuita complessivamente in America Latina (-3 punti), Medio Oriente (-1) e Giappone (-8). Anche la Germania ha fatto registrare una battuta d'arresto, con un decremento di 3 punti rispetto al primo trimestre 2014.

Passa il ddl sul senato (8 agosto 2014).
Il ddl Boschi sulle riforme è stato approvato venerdì dal Senato con 183 sì, nessun contrario e quattro astenuti, tra cui il senatore della Lega Roberto Calderoli e la senatrice a vita Elena Cattaneo. «Ci vorrà tempo, sarà difficile, ci saranno intoppi. Ma nessuno potrà più fermare il cambiamento iniziato oggi #italiariparte #lavoltabuona», ha commentato subito il premier Matteo Renzi. «Esprimo un ringraziamento per l’ equilibrio» dimostrato al «presidente Grasso, che credo abbia sempre cercato di mantenere l’imparzialità e il ruolo di garanzia in quest’aula», ha detto il ministro delle Riforme Maria Elena Boschi intervenendo in Aula prima del voto finale sul ddl. Ma intanto la spaccatura nella maggioranza è ormai evidente: 16 i dissidenti del Pd (tra cui Vannino Chiti, Felice Casson, Lucrezia Ricchiuti, Corradino Mineo e Walter Tocci) hanno annunciato che non avrebbero partecipato al voto, pur restando in Aula «come nostro dovere», a differenza dei senatori del Movimento Cinque Stelle, che hanno lasciato l’Aula platealmente in fila indiana. Tra i «dissidenti» di maggioranza anche 19 di Forza Italia (come Augusto Minzolini) 8 esponenti di Ncd e due del gruppo per l’Italia. Hanno annunciato che non avrebbero partecipato al voto anche Sel, gruppo misto e Lega: «183 sì sono pochissimi, questo vuol dire che in autunno saranno in balia del Nuovo Centrodestra», sottolinea il capogruppo della Lega Gian Marco Centinaio . Quello che si è concluso oggi è infatti soltanto il primo di almeno quattro passaggi parlamentari della riforma e, dopo l’approvazione definitiva il governo si è impegnato a sottoporla a referendum popolare. «È solo un primo passaggio, il lavoro che ci aspetta è ancora duro e complesso, ma è un passaggio fondamentale», ha sottolineato anche il ministro Boschi. «Sono stati quattro mesi impegnativi. Mi sembra che possiamo essere tutti soddisfatti: è un primo segnale importante della voglia di cambiare del Paese e della capacità di rispettare gli impegni presi con i cittadini». Boschi ha rimarcato il rispetto dell’impegno di approvare il provvedimento «entro la sospensione feriale e questo è stato possibile grazie al lavoro dei senatori e di tutta la struttura del Senato. Anche nei momenti più complicati - ha sottolineato Boschi - non è venuta meno la determinazione». Su chi ha espresso dissenso, Boschi ha manifestato dispiacere «per chi ha abbandonato l’Aula in un confronto democratico. Il dissenso si può esprimere senza uscire. Ma la maggioranza è stata ampia e quindi siamo soddisfatti di questo risultato». La riforma della Costituzione appena approvata riduce il Senato a camera di rappresentanza delle autonomie con meno di un terzo dei membri attuali, concentrando a Montecitorio il potere di fare le leggi e dare la fiducia al governo. Giovedì sera, dopo due settimane di sedute fiume e al termine di una giornata scandita dalle votazioni a raffica e dalle proteste dei senatori grillini, è stato completato il voto dei 40 articoli del testo. E sono stati archiviati gli oltre 7.000 emendamenti con cui opposizione e dissidenti della maggioranza hanno provato a cambiare i connotati della riforma. Il decreto sarà poi sottoposto a referendum. «Ribadisco quanto già annunciato dal Governo. È un impegno fatto proprio dai partiti della maggioranza. Anche ove si raggiungessero i due terzi del consenso in Parlamento al ddl di riforma costituzionale, il governo, d’accordo con la maggioranza allargata, conferma l’impegno a ricorrere al referendum per dare ai cittadini l’ultima parola sulle riforme costituzionali», ha detto il ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi. Caustico il commento di Giovanni Toti, eurodeputato e consigliere politico di Forza Italia: «Senza FI le riforme non si fanno. Renzi al Senato si ferma a 140, mentre la maggioranza è lontana. L’Italia cambia verso solo con FI», ha scritto su Twitter. Ne è convinto anche il leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi: «Grazie al vostro impegno e alla vostra lealtà. Dopo mesi tormentati, Forza Italia è tornata ad essere protagonista», ha scritto in una lettera ai deputati di Forza Italia, dove aggiunge anche: «Sono e sarò ancora vicino a voi per combattere e difendere la nostra libertà. Spero di poterlo fare a 360 gradi con il recupero, entro pochi mesi, della piena agibilità politica ed elettorale sottrattami con la sentenza del 1 agosto 2013. Il nostro movimento è diventato l'unica opposizione credibile a un governo che si è dimostrato fino qui incapace di tagliare le spese, di ridurre le tasse , di realizzare vere riforme strutturali in ambito economico Gli ultimi del Pil sono i peggiori da 14 anni e confermano la grave recessione». Terminata la fatica della prima lettura del ddl sulle Riforme, dopo la pausa estiva, la priorità andrà al ddl sulla Pubblica Amministrazione, che si comincerà a discutere il 3 settembre. L’Italicum, cioè il disegno di legge sulla riforma elettorale, andrà in parallelo all’esame del ddl Madia, ha deciso l’ufficio di presidenza della Commissione Affari Costituzionali.

Accordo per la giustizia civile (21 agosto 2014). Rispettate quindi le previsioni della vigilia. D'altronde, nell'ufficio che di Andrea Orlando si dovevano affrontare le riforme riguardanti soprattutto la giustizia civile che lo stesso premier ha definito su Twitter «che civile non è». I temi divisivi sono ben altri: intercettazioni, svuota-carceri, prescrizione: insomma la sfera del penale. Nell'ufficio di via Arenula ieri i partiti hanno invece voluto verificare le convergenze di opinioni su temi quali l'accelerazione del processo civile, della magistratura onoraria, del dimezzamento dell'arretrato dei processi, del diritto di famiglia e delle imprese. Al termine dell'incontro si è poi saputo che slitta ancora la decisione su ciò che concerne il Csm. «Abbiamo deciso di comune accordo che bisogna aspettare l'elezione dei membri ancora mancanti» spiega Alessia Morani, responsabile giustizia per il Pd. Soddisfazione, insomma, è il sentimento comune tra i partecipanti alla riunione. Anche il più teso alla vigilia, il viceministro Enrico Costa (Ncd) ha sospirato contento: «Siamo soddisfatti». Sarà lui infatti a dover difendere la riforma in Aula e quindi i punti qualificanti della riforma devono - per sua stessa ammissione - avere il pieno consenso del Nuovo centrodestra. Che per ora aspetta di vedere cosa accadrà per i punti dolenti (prescrizione, intercettazioni e separazione delle carriere delle toghe). Al di là delle più rosee aspettative, invece, l'accordo sulla responsabilità civile dei magistrati sul quale ieri si è ottenuto un primo abbozzo di massima. «È emersa la comune volontà - spiega Alessandro Pagano (Ncd), membro della Commissione giustizia di Montecitorio - di non accanirsi contro i magistrati o limitarne l'autonomia e l'indipendenza, ma d'altra parte è emerso l'interesse a tutelare i diritti dei cittadini, da troppi anni ormai calpestati». La soluzione, come spiega Walter Verini capogruppo Pd in Commissione giustizia, è un sistema «misto e indiretto» per risarcire le vittime di errori giudiziari senza «ledere l'indipendenza della magistratura». Insomma la prima parte della «bozza Orlando», ha superato la prova della maggioranza. E oggi si replica: stessa cornice (l'ufficio di via Arenula) con i rappresentanti delle opposizioni (a eccezione dei Cinque Stelle che hanno annunciato il loro forfait) per verificare eventuali convergenze. Sullo snellimento della giustizia civile è prevista l'approvazione di Forza Italia. Ma è sul resto del pacchetto che si dovranno annullare le distanze all'interno della maggioranza in vista della prossima scandenza. Nell'agenda di Palazzo Chigi, infatti, è prevista il 29 agosto la ratifica ufficiale della riforma. «Il metodo del ministro Orlando - conclude Pagano - è stato fin qui all'altezza della situazione. Ma occorre dar seguito concretamente con i fatti». «Per quanto riguarda il Csm - aggiunge - è chiaro che il vero nodo, è la modifica del sistema elettorale che ha consentito la formazione di correnti. Eliminarle è la missione che ci siamo dati e su questo tema ci confronteremo». Sulla necessità di passare dalle parole ai fatti concorda anche Renato Brunetta, capogruppo di Forza Italia alla Camera. Intervistato da SkyTg24 , il parlamentare ha così commentato l'incontro di ieri a via Arenula: «Finora il governo non ha prodotto un bel nulla, delle linee guida generiche, con il rischio che siano troppe linee guida e troppo generiche. Sarebbe meglio fare poche cose ma chiare. Aspettiamo il 29 e poi vedremo. Per ora la nostra posizione è di attesa ma non nascondiamo lo scetticismo».

Composizione azionaria delle imprese italiane (25 agosto 2014).
Sul listino italiano cresce il peso degli azionisti esteri che hanno partecipazioni di imprese quotate, per un valore di 215,1 miliardi (41,8% del totale). Predominante, seppur in leggera diminuzione, il peso delle famiglie nel capitale delle imprese (quotate e non) con partecipazioni pari a 893 miliardi, in aumento di 111,7 miliardi. Questi i dati principali di un rapporto del Centro studi di Unimpresa, sull'andamento del valore delle aziende italiane nell'ultimo anno. Secondo l'analisi di Unimpresa, basata su dati della Banca d'Italia, da gennaio 2013 a gennaio 2014, si è assistito a uno scatto in avanti del valore delle spa presenti sui listini di piazza Affari. Le partecipazioni di spa quotate in mano alle imprese italiane a gennaio 2014 valevano 141,6 miliardi (il 27,5% del totale) in crescita di 50,5 miliardi (+55,5%) rispetto ai 91 miliardi di gennaio 2013. Le banche continuano ad avere una presenza forte, seppure in lieve calo, nel capitale delle spa quotate con il 6,4%, pari a 32,7 miliardi in aumento di 572 milioni (+1,8%). Lo Stato ha nel suo portafoglio titoli azionari quotati italiani per 16,1 miliardi (+3,1%), in incremento di 5,3 miliardi (+48,9%) rispetto ai 10,8 miliardi di un anno prima. I privati (famiglie) controllano quote pari a 69,2 miliardi (il 13,5% del totale), cresciute di 14,6 miliardi (+26,8%) rispetto ai 54,6 miliardi dell'anno precedente. Gli stranieri controllano il 41,8% di piazza Affari con partecipazioni pari a 215,1 miliardi in aumento di 75,6 miliardi rispetto ai 139,5 miliardi di gennaio 2013. Complessivamente il valore delle società italiane quotate è salito in un anno di 159,5 miliardi (+45%) da 354,7 miliardi a 514,3 miliardi. Il peso degli stranieri scende, ma resta comunque significativo, se si guarda a tutto l'universo delle società per azioni. Le spa italiane, comprese le quotate, valgono (gennaio 2014) 1.955,7 miliardi, in aumento di 290,6 miliardi (+17,5%) rispetto ai 1.665,1 miliardi di gennaio 2013. La ripartizione delle quote è la seguente. Le imprese hanno il 12,4% pari a 242,4 miliardi, in aumento di 25,2 miliardi (+11,6%) sui 217,05 miliardi di un anno prima. Le banche hanno il 7% pari a 136,7 miliardi, in lieve calo di 3,5 miliardi (-2,5%) rispetto a 140,3 miliardi. Stabile anche la quota dello Stato che ora ha il 5,2% di spa con 102,05 miliardi, in aumento di 5,3 miliardi (+5,5%) rispetto ai 96,7 miliardi precedenti. I privati detengono il 45,7% di società per azioni, a conferma del carattere familiare dell'imprenditoria italiana, con 893,6 miliardi in aumento di 111,7 miliardi (+14,3%) rispetto ai 781,8 miliardi del 2013. La quota di imprese italiane in mano agli stranieri, che corrisponde al 22,2% del totale, è aumentata di 103,4 miliardi (+31,2%) da 331,4 miliardi a 434,8 miliardi. "Se da una parte va valutato positivamente l'aumento del valore delle imprese italiane, dall'altro bisogna guardare con attenzione la presenza degli stranieri e capire fino a che punto si tratta di investimenti utili allo sviluppo e dove finisce, invece, l'attività speculativa" commenta il presidente di Unimpresa, Paolo Longobardi. "La fortissima crisi che sta colpendo l'Italia più di altri paesi sta consegnando di fatto i pezzi pregiati della nostra economia a soggetti stranieri, che non sempre comprano con prospettive di lungo periodo o di investimento, ma spesso per fini speculativi" conclude Longobardi.

L'austerity spacca la Francia (25 agosto 2014).
L’austerità fa una nuova vittima. O meglio, due. La prima è Arnaud Montebourg, ministro francese dell’Economia. La seconda è proprio la Francia. Oggi Parigi si è svegliata senza il suo Primo ministro, Manuel Valls, dimessosi dopo la formazione di una nuova spaccatura nel governo a causa delle opinioni di Montebourg sull’austerity. Dimissioni durate poco, dato che l’Eliseo ha indicato nuovamente Valls per il rimpasto del consiglio dei ministri. Per il presidente francese François Hollande, il cui tasso di approvazione è ai minimi storici, uscire dall’impasse sembra essere una sfida impossibile da vincere. L’incertezza genera altra incertezza. E Parigi ha quasi del tutto perso la bussola. Per capire cosa è successo in Francia durante il weekend bisogna tornare indietro di qualche mese. Durante l’ultimo vertice europeo, il socialista Montebourg aveva aspramente criticato l’operato del cancelliere tedesco Angela Merkel, colpevolizzando la Germania per aver imposto a tutta l’eurozona politiche di consolidamento fiscale che avevano sortito più danni che benefici. Non solo. “Se la Francia è così debole è colpa dell’austerity”, aveva inoltre detto Montebourg. Frasi che non erano passate inosservate né a Berlino né a Parigi. Il presidente Hollande, pur di mantenere buoni i rapporti con la Merkel, aveva richiamato all’ordine Montebourg. “C’è bisogno di unità e di coordinamento per garantire alla Francia una solida ripresa economica”, aveva detto l’inquilino dell’Eliseo. Per un po’ di tempo, la situazione era tornata alla normalità. Fino allo scorso weekend. Complici i nuovi dati sul Pil francese per il secondo trimestre 2014, che ha sancito la stagnazione dell’economia transalpina, Montebourg è nuovamente uscito dai ranghi. In una intervista a Le Monde non solo ha tacciato la Germania di aver intrappolato tutta l’area euro dentro la gabbia dell’austerity, ma ha anche accusato Berlino di condizionare la politica monetaria della Banca centrale europea. “La Germania ha introdotto quell’aberrazione economica chiamata austerità che sta distruggendo l’Europa. Non possiamo continuare così”, ha detto Montebourg. Di qui, le dimissioni di Valls e le pirotecniche parole di Hollande - che era in visita alle Comore - nel tentativo di arginare la falla: “Il governo francese è sicuro che crescita e austerità siano due facce della stessa medaglia, chiunque la pensi così è benvenuto”. Austerity o no, la Francia continua a essere in crisi. In maggio, le previsioni macroeconomiche di primavera, a cura della Commissione europea, avevano quasi fatto tirare un sospiro di sollievo a Hollande, ancora scosso dall’affaire Julie Gayet. La Commissione aveva stimato un’espansione del Pil di un punto percentuale per l’anno in corso e di un punto e mezzo per il successivo. Sempre in doppia cifra il tasso di disoccupazione, ma in calo: 10,4% per il 2014 e 10,2% per il 2015. In contrazione anche il rapporto fra deficit e Pil, previsto a quota 3,9% nell’anno corrente e al 3,4% per il prossimo. Sempre oltre i parametri del Fiscal compact, che impone un massimo del 3%, ma comunque in parabola discendente. Più seria la situazione del rapporto tra debito pubblico e Pil. Secondo le stime della Commissione, la Francia passerà dal 93,5% registrato nel 2013 (nel 2012 si era a quota 90,6%) al 96,6% dell’anno prossimo. Numeri che avevano fatto storcere il naso agli economisti di Société Générale, del Crédit Agricole e di Natixis, che non avevano perso tempo a criticare il governo Hollande. Il 14 agosto scorso, la doccia gelata. La Francia è ufficialmente in stagnazione, dopo quattro trimestri consecutivi in cui il Pil non cresce oltre quota 0,2 per cento. E dire che, come ha ricordato Eurostat, la Francia aveva già applicato la nuova metodologia Sec 2010 per il ricalcolo del Pil, proprio come farà l’Italia in autunno. “La situazione è grave per due motivi. Primo, perché la Francia è ferma. Secondo, perché la debolezza di Hollande non consentirà al Paese di uscire dalla palude”, aveva tuonato Deutsche Bank in una nota ai clienti istituzionali. L’attacco di Montebourg, le dimissioni di Valls e la fronda socialista a supporto dell’ormai ex ministro dell’Economia arrivano nel momento più difficile di Hollande. Dopo mesi di attesa, la Commissione UE, così come Berlino, si attende risposte dalla Francia. “Dobbiamo accelerare sulle riforme, dobbiamo riguadagnare credibilità, dobbiamo migliorare la nostra competitività”, ha detto la settimana scorsa il presidente francese. Ma sul tavolo i dossier sono troppi e i margini operativi del governo pochi. Oltre alla pazienza dei partner europei, anche quella dei mercati finanziari rischia di finire in poco tempo. “Parigi, insieme a Roma, può essere l’epicentro dello stress nel caso non riuscisse a mantenere le promesse su consolidamento fiscale e riforme strutturali”, ha scritto stamattina HSBC. Le nuvole sull’Eliseo continuano ad addensarsi.

Riforma della PA (26 agosto 2014).
Tutto è pronto per il debutto della riforma della Pubblica amministrazione firmata dal ministro Marianna Madia, che dovrebbe arrivare questa settimana in consiglio dei ministri, probabilmente sotto forma di un decreto e un disegno di legge-delega. Le parole d’ordine sono note: incarichi a termine, mobilità interna, retribuzioni legate al merito, a partire da quelle dei dirigenti, delle quali dovrebbe essere rivista la parte «variabile». E «staffetta generazionale», col pensionamento dei dipendenti più anziani, soprattutto tra i 280 mila dirigenti della Pubblica amministrazione, per fare posto ai più giovani. E proprio mentre il governo Renzi delinea questi principi, lo Stato centrale sta per fare posto all’ennesima infornata di dirigenti. Si tratta dei 106 vincitori del concorso bandito dalla Scuola nazionale dell’Amministrazione, ormai nel 2011, che viene a maturazione in questi giorni. Entro maggio sarà reso pubblico l’elenco delle assegnazioni stilato in base alla graduatoria, ma già oggi possiamo sapere, ad esempio, che cinque dei vincitori andranno alla Presidenza del Consiglio, dove i dirigenti (secondo la Voce.info ) sono 304, 11 al ministero dell’Interno (159), altrettanti all’Istruzione (241), sei all’Economia (653), 22 all’Agenzia delle Dogane e 16 a quella delle Entrate. shadow carousel ?Le misure in preparazione Nell’audizione tenuta in Parlamento qualche giorno fa, Madia ha annunciato «un processo di riduzione non traumatica dei dirigenti e, più in generale, dei dipendenti vicini alla pensione, per favorire l’ingresso di giovani». Un’operazione, che potrebbe essere attuata forse anche ripristinando il vecchio «esonero di servizio» (sospensione dal lavoro nei 5 anni precedenti il momento di andare in pensione con 40 anni di anzianità contributiva), che «non vuole mettere in discussione gli equilibri» della riforma Fornero, e che garantirebbe, grazie allo sblocco delle assunzioni, un rinnovamento ma anche un risparmio complessivo dato dalla differenza tra gli stipendi attualmente pagati e quelli dei neoassunti, al netto della spesa per le pensioni erogate in anticipo. Tutti coloro che hanno vinto un concorso pubblico, hanno diritto all’assunzione: una quota dei nuovi ingressi sarà loro riservata. Fermo restando i processi avviati con il decreto 101 del 2013, che ha razionalizzato la spesa della P.a., Madia ha garantito «un riconoscimento ai precari di un certo punteggio nei futuri concorsi, aperti a tutti, che verranno banditi in applicazione del progetto “staffetta generazionale”». Una mappatura completa delle competenze presenti in tutti gli uffici, d’intesa con tutte le amministrazioni pubbliche, e una pianificazione dei fabbisogni di personale, presenti e futuri. Queste le premesse per determinare gli spostamenti di personale necessari, superando quella che Madia chiama «l’attuale ingessatura del sistema». La mobilità deve consentire spostamenti di personale, sia tra i diversi comparti della P.a. sia tra diversi livelli amministrativi. Sarà definito un allineamento delle diverse tabelle retributive e degli inquadramenti. La promessa è riformare il sistema di reclutamento, di carriera e misurazione dei risultati dei dirigenti, prima di tutto introducendo un «ruolo unico» della dirigenza pubblica, eventualmente articolato per territorio e per specifici profili professionali. L’obiettivo, secondo il ministro, è «mettere ordine nelle retribuzioni e consentire una reale mobilità tra le amministrazioni, con la rotazione degli incarichi». Quanto alle procedure di accesso, viene confermato il sistema di reclutamento e formazione assicurato dalla Scuola Nazionale dell’Amministrazione, e si prevede l’estensione a tutta la dirigenza della regola dell’unificazione dei concorsi per le diverse amministrazioni, introdotta dal decreto del 2013. Il principio è che nessun dirigente deve rimanere nella stessa postazione oltre un determinato tempo. Gli incarichi saranno assegnati sulla base di interpelli accessibili all’intero ruolo unico e saranno temporanei. Per i dirigenti che, nel corso della carriera, dovessero ritrovarsi privi di incarico, c’è la possibilità di ricercare un impiego nel settore privato, pur mantenendo la possibilità di rientrare nel pubblico, tramite un successivo interpello. Viene mantenuta la facoltà ella P.a. di acquisire a termine professionalità esterne. Quanto alle retribuzioni, niente tagli lineari ma una ridefinizione della parte variabile che sarà legata alle performance del servizio di appartenenza e del Paese (prodotto interno lordo). In questo modo i premi non verranno distribuiti a pioggia.

Cala la fiducia delle imprese (28 agosto 2014).
Torna a calare la fiducia delle imprese italiane ad agosto, con l'indice che passa a 88,2 da 90,8 punti, e bissa così il dato negativo arrivato dal fronte dei consumatori, che si ripercuote anche sull'andamento negativo delle vendite al dettaglio. L'Italia non è però un'anomalia, se si guarda ai dati della Commissione europea che tracciano un brusco calo del clima di fiducia economico dell'Europa e dell'Eurozona. Quanto alle imprese italiane, si tratta di un arretramento di 2,6 punti, che colpisce tutti i principali settori. La discesa segue il balzo segnato il mese scorso, quando erano stati raggiunti i massimi da circa tre anni. Un vantaggio ora completamente annullato (siamo di nuovo ai livelli di giugno). "Il calo dell'indice complessivo è dovuto al peggioramento della fiducia delle imprese di tutti i settori, manifatturiero, dei servizi di mercato, delle costruzioni e del commercio al dettaglio", spiega l'Istituto di Statistica nella sua nota. L'indice del clima di fiducia delle imprese manifatturiere scende a 95,7 da 99,1 di luglio. Peggiorano sia i giudizi sugli ordini che le attese di produzione (da -23 a -24 e da 7 a 1, i rispettivi saldi); il saldo relativo ai giudizi sulle scorte di magazzino passa da 0 a 3. Si tratta del livello peggiore da un anno a questa parte. Guardando all'analisi del clima di fiducia per raggruppamenti principali di industrie, qui si scorgono peggioramenti per i beni di consumo (da 98,0 a 94,8), per i beni intermedi (da 101,7 a 97,0) e per i beni strumentali (da 97,0 a 95,7). Ancora, nel segmento delle imprese di costruzione la fiducia scende a 77,0 da 83,0 di luglio. Peggiorano sia i giudizi sugli ordini o piani di costruzione (da -45 a -48) sia le attese sull'occupazione (da -14 a -22). L'indice destagionalizzato per quanto rigurda le imprese dei servizi scende a 87,5 da 92,3 di luglio. Il saldo dei giudizi sugli ordini passa da -5 a -11, sale leggermente (da -6 a -5) quello relativo alle attese; si contraggono le aspettative sull'andamento dell'economia in generale (da -24 a -33). Nel commercio al dettaglio, infine, l'indice del clima di fiducia scende a 98,3 da 101,4 di luglio. La fiducia peggiora sia nella grande distribuzione (da 101,0 a 97,2) sia in quella tradizionale (da 102,7 a 99,3). Il dato italiano fa il paio con la brusca caduta della fiducia economica dell'Eurozona e dell'Ue ad agosto. L'indice di fiducia economica dell'eurozona scende, infatti, a 100,6 punti (-1,5 punti da luglio) e scende nell'ue a 104,6 punti (-1,2 punti). Lo comunica la Commissione europea osservando che dopo un periodo di stabilità osservato negli ultimi cinque mesi, il calo di agosto ha riportato l'indicatore della zona euro ai livelli di dicembre 2013. Il peggioramento del sentiment è il risultato del deteriorarsi del clima di fiducia di commercio, consumatori, industria e servizi. Il dato definitivo dell'indice di fiducia dei consumatori, infatti, mostra una flessione di -1,6 punti a -10, caratterizzato da opinioni più pessimistiche sul problema della disoccupazione e più in generale sulla situazione economica. La flessione della fiducia è "fonte di preoccupazione": per questo è più che mai "urgente" procedere con riforme e politiche di bilancio che, assicurando la stabilità, sostengano la crescita, "in particolare attraverso una miglior gestione della spesa pubblica". Così il commissario Ue per gli affari economici, Jyrki Katainen, commenta i dati.

Sale ancora la disoccupazione (29 agosto 2014).
La disoccupazione torna a salire e a luglio balza al 12,6%, in rialzo di 0,3 punti percentuali su giugno e di 0,5 punti su base annua. Lo rileva l'Istat, che ha diffuso i dati provvisori: i disoccupati sono 3 milioni e 220mila, in aumento del 2,2% rispetto a giugno (+69mila) e del 4,6% su anno (+143mila). Nell'Eurozona, annunciano invece i dati di Eurostat, a luglio la disoccupazione è rimasta stabile all'11,5% rispetto a giugno, ma in calo dall'11,9% rispetto allo stesso mese dell'anno scorso. Nella Ue allargata si conferma il 10,2% di luglio, in calo rispetto a un anno prima (10,9%). In Italia viene così cancellata la flessione del mese precedente, con il tasso che si riporta ai livelli di maggio, appena sotto i massimi storici. Si conferma la difficoltà economica dellItalia, rappresentata oggi anche dal calo dei prezzi di agosto e dall'andamento negativo del Pil nel secondo trimestre. Per il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, si tratta di dati che "seguono l'andamento altalenante dell'economia. Sono gli effetti negativi della coda di una lunga crisi dalla quale il Paese sta faticosamente uscendo, cui si sono aggiunte le turbolenze internazionali che stanno pesando sull'economia di tutti i grandi Paesi europei". Sul mercato del lavoro, timidi segnali positivi arrivano per i giovani: il tasso di disoccupazione della popolazione in una fascia di età tra 15 e 24 anni, a luglio, è pari al 42,9%, in calo di 0,8 punti percentuali su base mensile, ma in rialzo di 2,9 punti nel confronto annuo. Secondo i dati Istat sono in cerca di un lavoro 705 mila under25. Sul totale della popolazione giovane, l'incidenza dei disoccupati è dell'11,8%, in aumento di 0,1 punti percentuali su giugno e di 1,1 punti sul luglio 2013. Preoccupa invece il dato degli occupati, che a luglio scendono dello 0,2% rispetto a giugno, in calo di 35 mila unità: è come se si fossero 'persi' più di mille occupati al giorno. Si registra una riduzione anche su base annua, con un ribasso dello 0,3% (-71mila). Gli occupati scendono a questo punto a quota 22 milioni 360mila. Il tasso di occupazione, pari al 55,6%, diminuisce di 0,1 punti percentuali sia su base mensile che su base annua. Sempre a luglio, il numero di individui inattivi tra i 15 e i 64 anni diminuisce dello 0,2% rispetto al mese precedente (-28 mila) e dell'1,1% rispetto a dodici mesi prima (-159 mila). Il tasso di inattività si attesta al 36,3%, in diminuzione di 0,1 punti percentuali in termini congiunturali e di 0,3 punti su base annua. Il peggioramento complessivo del quadro si compone con il calo dell'occupazione maschile e la stabilità di quella femminile. Il tasso di occupazione maschile, pari al 64,7%, diminuisce di 0,2 punti percentuali rispetto al mese precedente e di 0,1 punti su base annua. Quello femminile, pari al 46,5%, rimane stabile in termini congiunturali mentre diminuisce di 0,1 punti rispetto a dodici mesi prima. Aumentano per entrambi i tassi di disoccupazione. Se si considera il complesso del secondo trimestre 2014 (aprile-giugno), il tasso di disoccupazione è salito al 12,3%, in aumento di 0,2 punti percentuali su base annua. L'Istat sottolinea a tal proposito le forti disparità territoriali: al Sud la disoccupazione è al 20,3% (+0,5 punti). Guardando agli occupati, d'altra parte, nel secondo trimestre rallenta l'emorragia con un -0,1% complessivo (-14mila persone), che però si scompone in un +0,3% nel Nord, un +0,8% nel Centro e un -1,5% nel Mezzogiorno (-90mila persone). Per 105mila italiani usciti dalla fascia degli occupati si registrano 91mila stranieri in più, con il tasso di occupazione degli stranieri in crescita al 58,7% contro il 55,4% degli italiani. Tra aprile e giugno, nel confronto tendenziale con il 2013, si rileva che nell'industria in senso stretto l'occupazione è ripartita, mentre è scesa nelle costruzioni e nei servizi. Ancora, "non si arresta la flessione degli occupati a tempo pieno", mentre aumentano quelli a tempo parziale e riprende la crescita dei contratti a termine dopo cinque trimestri.

SBLOCCA ITALIA (29 agosto 2014).
Infrastrutture, appalti, banda larga e risposte ai sindaci. Sono questi i cardini del decreto legge "sblocca-Italia" presentato dal premier, Matteo Renzi, al termine del Consiglio dei Ministri che ha trattato anche della riforma della giustizia. Il premier ha illustrato in linea di massima i provvedimenti inaugurando il nuovo claim "passo dopo passo", riferimento del programma dei mille giorni.
"Lo sblocca-Italia nasce per risolvere i problemi burocratici", ha esordito il premier, ricordando che al vertice Ue del 6 ottobre il tema sul tavolo sarà la crescita. Ecco l'elenco dei contenuti principali elencati dal premier, inseriti "in 50 articoli", ha poi specificato il ministro delle Infrastrutture, Maurizio Lupi:
Sblocco opere finanziate e semplificazione
Alta velocità. Per alcune grandi opere, ha detto Renzi, "come l'alta velocità Napoli-Bari o la Palermo-Messina-Catania", la partenza dei lavori è "anticipata al 2015". Per la prima opera ci sono 4,1 miliardi già stanziati (su 6,7 miliardi di valore totele totali), la seconda vale 5,2 miliardi, ha specificato entrando nel dettaglio degli interventi Lupi. "La grande novità è che i cantieri devono aprire per queste due opere il 1° novembre 2015, data entro la quale non solo devono esser appaltate le opere, attraverso la nomina di commissario con poteri straordinari dell'ad del gruppo Fs", Michele Mario Elia. Ancora, sono sbloccati 4,6 miliardi per "cinque investimenti aeroportuali" (Malpensa, Fiumicino, Firenza, Genova e Salerno). "Abbiamo facilitato l'accesso alla defiscalizzazione delle opere, abbassando da 200 a 50 milioni il tetto per cui opere strategiche vi possono accedere", ha detto ancora Lupi.
I comuni. "Le 1617 mail ricevute dai sindaci", ha detto ancora Renzi, "ricevono risposta. Le richieste erano principalmente: 'dammi spazio nel patto di stabilità', e diciamo sì. 'Dammi denari', e se riesco te li do subito. 'Aiutami perché ho la sovrintendenza che blocca dei lavori' e ci impegniamo a convocare una conferenza dei servizi per sbloccare la situazione".
Cantierabilità
Altre opere. Renzi ha poi aggiunto 3,9 miliardi per le opere pubbliche cantierabili "a strettissimo giro", di cui 841 milioni dal fondo revoche del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e 3 miliardi 48 milioni dal Fondo di coesione e sviluppo. Il criterio è stato quello della "priorità dei grandi nodi metropolitani e logistici", ha spiegato Lupi. I fondi sono condizionati: i cantieri dovranno aprire entro date certe a dieci mesi dall'approvazione del decreto (le opere sono divise in lotti che devono partire entro il 31 dicembre 2014, il 30 giugno 2015 o il 31 agosto 2015). La Linea C di Roma, il passante ferroviario di Torino e la sua metropolitana, la metrotramvia di Firenze, la metropolitana di Napoli, il quadruplicamento della ferrovia Lucca-Pistoia, il ponte di collegamento tra Fiumicino e l'Eur a Roma sono le altre opere citate da Lupi insieme agli assi ferroviari strategici che hanno bisogno di risorse per proseguire i lavori: Brennero, Terzo valico e Alta velocità del Veneto. Autostrade. Con questo punto si chiede l'attivazione di risorse di privati, ha spiegato Lupi. Per il premier Renzi, ci sono "10 miliardi da sbloccare nei prossimi 12 mesi" attraverso la revisione ed eventualmente la "proroga di concessioni".
Altri interventi
Banda larga. Sul punto, il premier ha parlato di "incentivi per estendere la rete", mostrando una slide che indica un "credito d'imposta del 50%". Il ministro Guidi ha quindi aggiunto la defiscalizzazione delle "aree bianche", per portarvi le infrastrutture di Tlc anche se 'non convenienti' per il mercato.
Gas. Il presidente del Consiglio ha poi parlato del gasdotto Tap, che va dall'Azerbaijan alla Puglia passando per l'Adriatico: "Il 20 settembre sarò a Baku per il via libera al Tap, che oggi, per il combinato disposto della via e del decreto legge, è definitivamente sbloccato".
Edilizia. La norma sulle progettazioni tecniche si adegua alle prescrizioni dell'Europa. "Il provvedimento che tocca tutte le famiglie", ha spiegato Lupi, "è semplicissimo: le ristrutturazioni in casa propria non avverranno più con un'autorizzazione edilizia, ma con una semplice comunicazione al Comune". Il ministro dell'Economia, Padoan, ha aggiunto che per il comparto ci ci sono norme per facilitare l'attività delle socità di gestione immobiliare in Borsa.
Cdp. "Modifichiamo le norme della Cassa depositi e prestiti, che a questo punto avrà regole come gli altri Paesi europei", ha detto Renzi. "Estensione della garanzia per investimenti alle imprese", il titolo della relativa slide. Il ministro dell'Economia, Padoan, ha parlato di "ampliamento delle capacità" della cassa. Agroalimentare. Nel decreto, si prevede la realizzazione di un segno distintivo unico per le produzioni agroalimentari Made in Italy, anche in vista di Expo 2015, e un potenziamento degli strumenti di contrasto all'Italian sounding nel mondo. Sul piano della competitività si punta alla creazione di piattaforme logistico-distributive all'estero, al rafforzamento degli accordi con le reti di distribuzione, alla valorizzazione e tutela delle certificazioni di qualità e di origine dei prodotti. "Stimiamo di avere un aumento di un punto del Pil nel prossimo biennio con le aziende esportatrici", ha spiegato poi il ministro dello Sviluppo, Guidi.
Cassa in deroga. Nel dl c'è spazio per un rifinanziamento di 728 milioni degli ammortizzatori sociali in deroga, "che porta la dotazione complessiva a 1,72 miliardi: 320 milioni in più di quanto stabilito nella legge di Stabilità 2014", aggiunge il Ministero del Lavoro. La copertura da "interventi non decollati" e dalle risorse ministeriali "per la formazione continua e in misura limitata dalle risorse da destinare ai fondi interprofessionali".
Ambiente. Per la parte ambientale, come ha spiegato il ministro Galletti, "il decreto è ricco" e comprende la sistemazione delle norme sul dissesto idrogeologico e le terre e rocce da scavo.
Il provvedimento sblocca-Italia arrivato in Cdm, è figlio di aggiustamenti fino all'ultimora ed è stato snellito in maniera consistente dopo l'incontro della vigilia tra il ministro delle Infrastrutture, Lupi, il premier Renzi e il titolare delle Finanze, Padoan. Da quest'ultimo è arrivato l'altolà alle spese eccessive, e ne è emrso un provvedimento 'a costo zero' fatto di snellimenti burocratici e spostamento delle risorse già disponibili. In conferenza stampa, però, Padoan ha rivendicato l'importanza di "cambiare le leggi per avere un impatto sugli investimenti", citando il caso del miliardo di mini-bond emessi grazie alle norme approvate dal governo.
I rinvii
Ecobonus. Uno dei provvedimenti che Maurizio Lupi puntava a confermare (65% di detraibilità per l'efficientamento energetico) va verso l'estensione nella legge di Stabilità, con "l'impegno" di Renzi, "insieme a vari interventi". Dalle slide, emerge anche una voce di "facilitazioni per gli impianti di riscaldamento".
Appalti. La "rivoluzione" del codice dedicato verrà con un disegno di legge delega dedicato. "In Italia - ha spiegato Renzi - ci devono essere le stesse regole come ci sono in Europa. L'Italia ha il vezzo di peggiorare quello che prevede la legislazione europea. L'Europa in questo caso ci aiuta, non ci penalizza. Trovo questa norma rivoluzionaria".
Sparisce dall'elenco presentato dal governo il tema delle partecipate di Stato, che secondo il lavoro del Commissario alla spending review, Carlo Cottarelli, sono destinate a una netta sforbiciata. "Lo affronteremo in maniera organica nella Stabilità", ha spiegato sul punto il sottosegretario Delrio. Rispetto alle attese, anche l'incentivo fiscale per chi compra casa per affittarla a canone concordato non risulta nel provvedimento. Anch'esso, come Ecobonus e partecipate, finirà sul tavolo per la Stabilità.

Squinzi contro lo sblocca Italia (30 agosto 2014)
«Dal punto di vista concettuale i contenuti del provvedimento sblocca Italia sono condivisibili. Il problema è la quantità e la reale disponibilità dei fondi per sostenere questi investimenti, ad esempio quelli per le infrastrutture. Aspettiamo il testo definitivo ma la nostra impressione è che non sarà sufficiente per far ripartire il Paese». Giorgio Squinzi ha appena ascoltato le parole del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Graziano Delrio, sul palco della Festa dell'Unità, un confronto di un'ora che si è svolto in un clima di cordialità. Con il sottosegretario che ha recepito la richiesta del presidente di Confindustria di sgravi alla ricerca e innovazione per stimolare gli investimenti delle imprese. Dal presidente di Confindustria è arrivata la fotografia del Paese: «La situazione è drammatica, abbiamo perso il 24% di volume di produzione e il 15% di capacità produttiva, abbiamo perso un milione di posti di lavoro, abbiamo perso 9 punti di pil. Quest'anno auguro che il pil sia in pareggio, ma non ne sono convinto, dagli ultimi dati emerge un calo dello 0,2-0,3». Ecco perchè Squinzi è tornato ad incalzare sulla necessità di «un progetto a medio lungo termine per il Paese e fare tutti sacrifici, sacrifici importanti. Il Paese sta vivendo sopra i propri mezzi, e cioò vale per tutti, lavoratori, pensionati, imprese. Stiamo raschiando il fondo, ora siamo arrivati alla fine. Un Paese che ha il 43% di disoccupazione giovanile è destinato al disastro». Il lavoro lo creano le imprese, ha insistito Squinzi, che sul bonus di 80 euro ha ribadito la posizione di Confindustria: «Non hanno avuto un impatto reale sui consumi, avevamo detto, e non solo noi, che sarebbe stato meglio investire i circa 10 miliardi sul taglio al cuneo fiscale, che non vuol dire abbassare i salari, come qualcuno ha voluto dire e lo stesso presidente del Consiglio ha ipotizzato, noi vogliamo incrementarli, i salari, non diminuirli, e creare lavoro». Per ora, ha detto Squinzi rispondendo a una domanda, le imprese non si sentono protette dal governo, «per lo meno non ancora». E se Delrio ha elencato alcuni successi dell'esecutivo, Squinzi ha contestato il risultato sul calo dei costi dell'energia: «È stato uno spostamento di carico fiscale da un tipo di imprese a un altro». Invece bisogna intervenire sui problemi che frenano la competitività delle imprese, «che sono tra l'altro solo di tipo economico, sono di semplificazione». I ritardi nei permessi, l'«abuso di diritto fiscale». E ha insistito: «Dateci un Paese normale e le imprese faranno vedere cosa sanno fare. Ma la politica deve avere un progetto di futuro chiaro: la politica deve pensare alle prossime generazioni, avere un progetto». Bisogna intervenire sui temi della magistratura, del fisco, del pagamento dei debiti della Pa, «sono stati pagati solo 26 miliardi». Bisogna rilanciare l'edilizia, il settore più penalizzato con un calo del 60 per cento. «Si può dare un booster intervenendo su cose che non hanno costi straordinari per lo Stato». Si è soffermato sulle province: «Sono preoccupato, non si eleggono più, ma i dipendenti sono tutti lì». Ecco quindi che torna il tema della visione e del progetto: «Diteci il disegno complessivo. Allora il supporto a questo governo che è consistito in attesa benevola diventerà più sostanzioso. Ma dopo avere promesso che si faceva tutto in 30 giorni, poi si è detto mille giorni: mi sembra più realistico, ma bisogna farle le cose che servono per sbloccare questo Paese». E Squinzi ha rilanciato la necessità di una riforma del mercato del lavoro: «Il presidente del Consiglio mi sembra che ce l'abbia chiaro, mettiamoci mano. Nell'attrazione degli investimenti siamo all'84° posto». La direzione, ha detto il presidente di Confindustria, è un contratto unico a tempo indeterminanto che sia conveniente per imprese e lavoratori. E a una domanda sul peso dell'articolo 18: «Non mi tiro indietro - ha risposto- nella chimica non è fondamentale come in altri settori ma capisco che altri comparti sono sottoposti a pressioni enormi su questo tema». Squinzi ha ottenuto gli applausi della platea quando ha ricordato che è orgoglioso di avere nel proprio curriculum di imprenditore nè una riduzione di personale, nè un'ora di cassa integrazione, e ha sottolineato che la sua Confindustria è fatta di imprenditori che lottano sui mercati, non frequentatori di salotti buoni, e che l'associazione degli industriali non farà resistenze corporative di fronte agli interventi del governo. In chiusura, la riforma elettorale: per un giudizio Squinzi aspetta la fine dell'iter parlamentare, comunque è positivo tutto ciò che va verso la direzione di assicurare governabilità e stabilità. «In 18 mesi da presidente di Confindustria ho avuto davanti tre governi».

MOGHERINI: UNA VITTORIA DI RENZI (1 settembre 2014).
Tra amputazioni russe dell'Ucraina, Siria, Libia, Iraq in fiamme e Medio Oriente senza pace. Tra recessione, disoccupati a milioni, deflazione in agguato e preoccupante emorragia di consenso popolare al progetto integrativo. Tra rischio secessione della Gran Bretagna, il prossimo quinquennio si annuncia come il più difficile della storia europea dalla fine della seconda guerra mondiale. Per affrontarlo, i 28 capi di Stato e di Governo dell'Unione hanno deciso ieri a Bruxelles, dopo lunghi negoziati, di mettere un polacco, il premier Donald Tusk, alla guida del Consiglio europeo e dell'Eurozona. Un'italiana, il ministro degli Esteri Federica Mogherini, come Alto Rappresentante per la politica estera. E un lussemburghese, l'ex premier Jean-Claude Juncker, a presiedere la Commissione Ue. Matteo Renzi ha ottenuto un'indiscutibile vittoria diplomatica: malgrado le molte difficoltà iniziali, alla fine ha centrato il "suo" bersaglio e ci è riuscito nonostante l'Italia occupasse già con Mario Draghi la presidenza della Bce, cioè la poltrona europea più importante in quanto l'unica dichiarata, per statuto, indipendente dai desiderata dei governi. Per la Polonia un risultato storico: a soli 10 anni dall'ingresso nella famiglia comunitaria, Varsavia ha coronato la sua carriera di partner-modello che, ha ricordato Tusk, ha saputo coniugare «la disciplina di bilancio con la crescita del Pil del 20% negli ultimi sette anni», con la conquista di due presidenze in un colpo solo: quella del Consiglio europeo dei 28 e del club dei 18 dell'Eurozona pur non facendone parte. Una novità assoluta per garantire l'unità, evitando che la divisione istituzionale tra le due Europe diventasse permanente, ha spiegato il premier polacco. Sarà il nuovo triangolo del potere comunitario all'altezza delle emergenze a getto continuo che lo attendono al varco? Avrà la capacità di visione, coesione e di leadership necessaria e sufficiente per navigare in acque a dir poco molto insidiose? A prima vista si direbbe di no. Tusk è l'uomo che viene dall'Est e che per ora parla correntemente soltanto russo e tedesco, non esattamente le lingue ideali per mediare tra opposti interessi e diffidenze intraeuropee. Però ha assicurato che per dicembre colmerà la lacuna e sarà in grado di parlare inglese, la lingua franca prevalente nei negoziati Ue. La Mogherini ha sottolineato, e a ragione, il valore aggiunto che può derivare dal ricambio generazionale ma la sua relativa inesperienza e limitata rete di contatti internazionali fanno temere a molti che, in una congiuntura difficile e per di più con una politica estera comune tutta da inventare e governata dal voto all'unanimità, non sia il regista che potrà far dimenticare la povera performance quinquennale della Ashton. In realtà proprio la scarsa statura del suo predecessore potrebbe rappresentare il suo asso nella manica. In ogni caso la Mogherini lavorerà in tandem con Tusk, altra novità di ieri, soprattutto nella gestione dei rapporti con la Russia di Putin e il fronte orientale. Juncker è un uomo del passato, un vecchio leone dell'europeismo che non c'è più, quello sinceramente solidale, figlio di uno spirito di famiglia perso per strada. Non a caso il lussemburghese era in perfetta sintonia con Helmut Kohl, molto meno con Angela Merkel. Il cui "enfant gaté" è piuttosto Donald Tusk. La ragione di scelte deboli, che non si discostano molto da quelle fatte per guidare le istituzioni Ue nel quinquennio che sta per terminare, è purtroppo sempre la stessa: ormai i governi, che siano dell'Unione o dell'Eurozona non cambia, preferiscono concordare tra loro le politiche europee, usando Commissione e Consiglio per avallarle legalmente. Solo l'Europarlamento finora ha provato a resistere, anche se non sempre con successo. Dunque, salvo clamorose smentite, il rischio anche questa volta è che cambino gli uomini al timone delle istituzioni Ue ma che il corso della politica europea resti sempre lo stesso: deludente, inadeguato, quando non fallimentare.

L'OCSE sulla disoccupazione (3 settembre 2014).
La ripresa del mercato del lavoro resta incompleta: nonostante un lieve calo del tasso di disoccupazione, la situazione rimane ben lontana dai livelli di sei anni fa, prima che la crisi si abbattesse con la forza di un tornado anche sull’economia reale. L’Italia è uno dei Paesi che soffre di più: la disoccupazione continuerà a salire per tutto il 2014, arrivando a quota 12,9% contro il 12,6% del 2013 e solo nel 2015 scenderà, al 12,2%. A pagare il prezzo più alto sono i giovani: il 52,5% degli under venticinque italiani ha un contratto di lavoro precario. La percentuale è in lieve calo rispetto al 2012 (52,9%), ma è quasi doppia rispetto al 2000 (26,2%). È una fotografia a tinte fosche quella scattata dall’Ocse nel suo rapporto annuale, presentato questa mattina a Parigi, soprattutto perché non basterà qualche indicatore positivo nella crescita per cambiare rotta. L’esercito dei disoccupati, scrive l’organizzazione, ha ormai perso le motivazioni, e il capitale umano si è impoverito. I numeri sono drammatici: 16,3 milioni di persone nell’area Ocse sono senza un posto da almeno dodici mesi. A conti fatti, l’85% in più rispetto al 2007. Per i governi, dice l’Ocse, è urgente «dare la priorità alle misure per l’occupazione e la formazione di disoccupati di lunga durata». Le proiezioni dell’organizzazione indicano che il calo della disoccupazione scenderà fino ad attestarsi al 7,1% nell’ultimo trimestre del 2015. I risultati più incoraggianti arriveranno da Spagna (-2,2 punti percentuali), Irlanda (-2,1), Repubblica slovacca e Stati Uniti (entrambi -1.1%). Situazione ancora critica non solo in Italia, ma anche in Portogallo, Repubblica slovacca e Slovenia. Entro la fine del prossimo anno scenderanno sotto il 5% Austria, Germania, Islanda, Giappone, Corea, Messico, Norvegia e Svizzera. Cattive notizie pure per chi è riuscito a tenersi il lavoro, spiega il rapporto: molti hanno visto rallentare o addirittura scendere il reddito reale. È dunque urgente promuovere le riforme per «la competitività, la crescita e la creazione» di nuovi posti. Soprattutto, è necessario migliorare la qualità, partendo dal livello e dalla distribuzione degli utili, passando per la sicurezza e la qualità dell’ambiente. I più svantaggiati, dice l’Ocse, sono i giovani, i precari e i lavoratori meno qualificati. Il 70% dei lavoratori vive una “sfasatura” tra la loro occupazione e il loro percorso formativo, in altre parole, hanno qualifiche troppo elevate o troppo basse per il lavoro che svolgono o svolgono una professione che non ha nulla a che vedere con l’università frequentata. «L’eccessivo affidamento al lavoro temporaneo è dannoso per le persone e l’economia» spiega l’organizzazione. «I lavoratori con questi contratti si trovano spesso ad affrontare un grado di precarietà più elevato e le imprese tendono a investire meno nei lavoratori assunti senza un contratto fisso». Un meccanismo incancrenito che rischia di «deprimere la produttività e lo sviluppo del capitale umano». Servono, dunque, politiche in grado di regolare meglio, e in modo più incisivo, il mercato dei contratti che portino a una riduzione del gap tra garantiti e non garantiti. Per esempio, una stretta sulle false partite Iva: l’Italia è il quarto paese dell’area Ocse per numero di lavoratori che sulla carta sono liberi professionisti, ma, di fatto, offrono prestazioni subordinate. Secondo il rapporto nel nostro Paese costituiscono il 3,2% circa dei lavoratori dipendenti nei settori dell’industria e dei servizi, una percentuale superata (di pochi decimi di punto) solo da Repubblica Ceca, Slovacchia e Grecia.

CALA IL COSTO DEL DANARO (5 settembre 2014).
Mossa decisa, e a sorpresa, della Bce guidata da Mario Draghi: l’istituto di Francoforte ha ridotto i tassi d’interesse allo 0,05% dallo 0,15 per cento. Il costo del denaro in Europa tocca così i minimi storici. Al contempo, la Banca centrale ha lanciato un programma di acquisto di covered bond e asset backed securities (Abs) per aumentare l’offerta di moneta. Sui tassi «ora è chiaro che abbiamo raggiunto il livello minimo», ha detto Mario Draghi, suggerendo l’idea che non ci saranno ulteriori tagli. Immediate le reazioni sui mercati: l’euro ha toccato un minimo da un anno a 1,3036 nei confronti del dollaro. Gli indici delle Borse europee sono subito schizzate in rialzo dopo l’annuncio e hanno gradualmente esteso i guadagni chiudendo sui massimi di giornata: la piazza finanziaria più intonata è stata quella di Milano, con il Ftse Mib che ha tagliato il traguardo in crescita del 2,82% a 21.419 punti. Chiusura in rialzo anche per il Cac40 di Parigi che ha mostrato una crescita dell’1,65% a 4.494,94 punti, mentre il Dax di Francoforte è cresciuto dell’1,02% a 9.724,26 punti. A Madrid l’indice Ibex balza dell’1,96% a 11.100,1 punti. Il Consiglio direttivo dell’Eurotower ha deciso di ridurre il tasso sui depositi, da -0,1% a -0,2%, e quello marginale, da 0,4% a 0,3%. Il presidente della Bce Mario Draghi nella conferenza stampa ha annunciato anche un’altra misura, l’acquisto dei cosiddetti «Abs» (Asset backed securities), «solo titoli semplici e trasparenti». In particolare, la Bce acquisterà titoli basati su prestiti di famiglie e imprese. L’acquisto comincerà a ottobre. Il ritmo di crescita dell’area euro si è «indebolito» a fronte di dinamiche monetarie e del credito che restano sotto tono, ha motivato Draghi, aggiungendo che si tratta di un andamento «inferiore alle attese». Nessuna misura che la Bce possa varare può avere effetti sufficienti sull’economia senza le riforme strutturali. «Nessuno stimolo fiscale può bastare da solo senza riforme strutturali ambiziose, importanti e forti», ha affermato il presidente della Bce, «alcuni Stati hanno fatto passi importanti, altri devono ancora emettere e applicare questo genere di misure». «È evidente che questi sforzi devono guadagnare slancio per raggiungere una crescita sostenibile dell’economia e dell’occupazione nell’area euro», ha proseguito Draghi, che ha invitato inoltre i governi a non «vanificare» i risultati conseguiti in campo di consolidamento fiscale. La Bce ha ridotto le stime sul Pil dell’Eurozona rispetto alle previsioni di giugno: l’economia dell’area è ora vista in crescita dello 0,9% nel 2014 e dell’1,6% nel 2015. Lo ha spiegato in conferenza stampa il presidente della Bce, Mario Draghi. Rivista invece al rialzo all’1,9% la previsione per il 2016. La decisione del direttivo della Bce non è stata unanime. La Bce ha anche deciso di prendere in considerazione «ulteriori misure non convenzionali nell’ambito del proprio mandato» se sarà reso necessario da un «periodo troppo prolungato di bassa inflazione», ha detto ancora Draghi. Il varo del quantitative easing «è stato discusso» nella riunione della Bce di oggi e «alcuni governatori volevano che si facesse qualcosa di più, altri meno». Una mossa da parte della Bce era largamente attesa da parte degli operatori. Le recenti indicazioni macro avevano segnalato una ripresa economica dell’Eurozona più fragile del previsto, mentre l’inflazione continua a scendere, rafforzando la minaccia di deflazione. Ma la stampa internazionale parla di taglio dei tassi a sorpresa. «La Bce taglia i tassi ad un nuovo minimo record e l’euro crolla dopo la decisione a sorpresa», scrive il Financial Times. «La Bce taglia inaspettatamente il costo del denaro ad un nuovo minimo storico per far risalire l’inflazione», dice Reuters. Anche per l’agenzia Bloomberg la decisione presa da Draghi e dal consiglio direttivo di Francoforte è «inaspettata». La Bbc fa invece un titolo secco: «La Bce taglia i tassi allo 0,05%». Per il Wall Street Journal «la Bce a sorpresa taglia i tassi».

EURIBOR VERSO QUOTA ZERO ( 6 settembre 2014).
«Nuovo record per l'Euribor, oggi il tasso interbancario a 3 mesi è salito fino al 5,39%». Sono passati quasi 6 anni da quell''ottobre del 2008, ma sembra di essere in un mondo completamente differente, e forse (sotto l'aspetto finanziario) lo siamo. Ieri infatti quello stesso tasso è scivolato allo 0,10%, si tratta di un minimo storico ovviamente, mentre l'Euribor a un mese si è spinto fino allo 0,019%: meno di due centesimi dalla fatidica «soglia zero» che appariva "fantascienza" soltanto qualche mese fa. E che potrebbe essere anche abbattuta nelle prossime giornate. La politica ultra-espansiva della Bce è la principale ragione che potrebbe portare addirittura in negativo gli Euribor (dopo averlo fatto con i rendimenti dei titoli di Stato di molti Paesi europei e con l'«overnight», cioè il tasso al quale le banche si prestano per una notte il denaro). L'ultimo deciso calo è in effetti coinciso con le ultime mosse di Mario Draghi e soci, in particolare con la riduzione a -0,20% della remunerazione dei depositi. Piuttosto che "perdere" denaro lasciando in fondi inattivi presso l'Eurotower, le banche a questo punto potrebbero rimettere in circolo la liquidità, paradossalmente anche prestandosela a termine l'una con l'altra a tassi negativi (ma superiori a quel -0,20%) : questo spiega perché il tasso interbancario potrebbe avere un segno "meno" davanti. Del resto le scadenze a una e due settimane sono già scese sotto lo zero, e quelle successive potrebbero anche seguirle a breve: «L'Euribor 3 mesi - conferma Giuseppe Maraffino, strategist sul reddito fisso di Barclays Research - dovrebbe scendere fino a 3 centesimi, ma non escludiamo la possibilità di valori negativi». La notizia non può naturalmente che allietare quanti hanno già un mutuo a tasso variabile che, come è noto, è indicizzato proprio agli Euribor. Certo, i risparmi saranno limitati perché si tratta pur sempre di variazioni infinitesime di valori che sono già molto vicini allo zero. Ma se si volge lo sguardo al recente passato l'impatto è piuttosto rilevante, soprattutto per quanti hanno contratto il prestito negli anni della tempesta finanziaria poi culminata con il crack-Lehman. L'Abi calcola per esempio che su un mutuo tipo (venti anni, capitale iniziale di 100mila euro, spread 120 punti base) acceso nel 2008, quando l'Euribor 3 mesi medio era del 4,6%, il minor esborso rispetto alla rata iniziale si aggiri sui 300 euro mensili. Il risparmio decresce tornando a ritroso nel tempo: 262 euro per i mutui accesi nel 2007, 170 euro nel 2006, 107 euro nel 2005 e 95 euro nel 2004, semplicemente perché questi erano caratterizzati da condizioni meno penalizzanti. Va però anche ricordato che questi stessi mutui sono dovuti passare dalle «forche caudine» dell'ottobre 2008 e che da quel momento le rate si sono abbattute per tutti di circa un terzo (se il finanziamento originario era a 20 anni) e per qualcuno quasi della metà (30 anni): denaro che adesso torna di sicuro utile in una fase piuttosto difficile per le famiglie italiane. Per quest'ultime potrebbe però essere ancora più confortante sapere che la politica monetaria ultra-espansiva della Bce potrebbe rendere la tregua particolarmente lunga. Allo stato attuale, più che Euribor negativi, gli analisti si attendono tassi estremamente bassi per un periodo indefinito e sufficientemente in là nel tempo visto che non si prevede un ritorno al di sopra dell'1% (che resta pur sempre un livello storicamente basso) entro i prossimi 5 anni: sollievo per chi ha un variabile; e dubbi crescenti per chi a suo tempo ha scelto la "tranquillità" del fisso, pagandola piuttosto cara.

OCCORRONO TRE ANNI PER LE RIFORME DEL PAESE (7 settembre 2014).
Qualcuno in questi giorni ha voluto vedere un contrasto fra il ministro Padoan e il premier Renzi sui tempi del progetto riformatore, ma non è così. Anche a Palazzo Chigi, come al ministero dell'Economia, ci si rende conto che gli effetti delle riforme (quali e quante, si vedrà) non saranno percepiti prima di qualche anno. Ecco perché l'ultimo Renzi ha collocato il bilancio del suo governo alla primavera del 2017: quasi tre anni. E il suo ministro del Tesoro ha ribadito che un triennio è il «tempo minimo» per valutare l'efficacia dell'impegno riformatore. La prospettiva, come si vede, differisce solo di pochi mesi e non cambia la sostanza del problema: le innovazioni, quelle vere, richiedono tempi lunghi per essere approvate e soprattutto attuate, cioè calate nei meandri di un paese complesso fino a modificare - si spera in meglio - la vita dei cittadini. È noto il pensiero di Napoleone Bonaparte, quando valutava al 5 per cento la fatica di prendere una decisione e al 95 per cento lo sforzo necessario a metterla in pratica. I tre anni previsti da Padoan vogliono quindi essere un gesto di serietà verso l'Europa che si aspetta dall'Italia azioni concrete, ossia riforme realizzate e non solo promesse. In fondo anche Renzi si muove sulla stessa lunghezza d'onda quando fissa il traguardo del 2017. Questo non significa che si sia fatta chiarezza nel governo sulle cose da fare e su come fare. C'è molto da lavorare nella maggioranza, specie sulle questioni del lavoro e sul famoso articolo 18. Le riforme, quelle autentiche e non solo annunciate, richiedono un'istruttoria tutt'altro che conclusa. Tuttavia l'orizzonte del triennio vuol dire - almeno sulla carta - chiudere la porta al populismo e alla facile tentazione di fuggire le responsabilità con un bagno nel consenso elettorale. S'intende che il problema politico di Renzi non coincide con quello del ministro dell'Economia. Se davvero l'orizzonte della legislatura si allunga fino a tre anni, ne trae vantaggio il quadro della stabilità interna che si rafforza. I mercati finanziari ne saranno contenti, al pari dell'Unione. Abbiamo sentito il ministro tedesco Schäuble ripetere che è facile sopravvivere aumentando il debito pubblico, molto più arduo è rimettere in moto l'economia con le riforme strutturali. Dunque, brava Italia che si dà una prospettiva di medio termine. Ciò non toglie che Renzi abbia oggi un doppio problema. Da un lato, definire al più presto la qualità e la portata degli interventi, evitando in Parlamento le trappole della sua stessa maggioranza (compreso il Pd sui temi del lavoro), così da avviare sul serio un triennio riformatore che per ora è in buona misura virtuale. Dall'altro, conservare il consenso popolare fino al fatidico 2017. I sondaggi continuano a premiare il presidente del Consiglio anche in virtù dell'assenza totale di competitori credibili. È una condizione privilegiata che non durerà in eterno. Proprio perché le riforme non daranno benefici visibili prima di tre anni, il rischio di Renzi è evidente: perdere consenso e quindi slancio e quindi influenza sui vari attori politici. La prospettiva di Padoan, ministro tecnico, è più lineare. Renzi invece deve dialogare con l'opinione pubblica dimostrando di avere il passo del mezzo-fondista e ovviamente non può apparire succubo della Commissione europea e tanto meno della Germania.

I PROBLEMI ALL'INTERNO DEL PD (8 settembre 2014).
Una scadenza che non interessa praticamente nessun altro al mondo (probabilmente neppure al premier, che ha altro da fare: ieri lunga riunione con Cottarelli, Padoan, il consigliere economico Gutgeld, la Boschi e lo staff economico di Palazzo Chigi su tagli e legge di Stabilità; oggi un pranzo in Vaticano con segretario di Stato, presidente della Cei e alte gerarchie varie, domani Renzi incontrerà tutti i ministri per discutere di spending review), ma che agita molto le acque interne. Soprattutto dopo che due «grandi vecchi» come Massimo D'Alema e Pier Luigi Bersani hanno riaperto le ostilità, frenando le trattative della minoranza con Renzi e la Bindi tuona sul fatto che le ministre siano state scelte per la loro bellezza. Ma il silenzio che è seguito alle esternazioni polemiche dei due fa capire chiaramente che nelle «nuove leve» Pd, bersaniane o dalemiane o comunque anti-renziane che fossero in origine, nessuno o quasi ha intenzione di seguire i padri nobili sull'Aventino: «Vogliono tutti stare con Renzi, ormai», dice un dirigente filo-premier, «non per amore, magari, ma perché quel 40% delle Europee ha chiarito a tutti che la sua è l'unica leadership possibile, per gli anni a venire, e conviene stare con lui». Lo hanno capito anche Bersani e D'Alema, che tuttavia provano a convincere i loro a mettere almeno qualche condizione al premier pigliatutto. Così il fido bersaniano Alfredo D'Attorre si fa portavoce dell'ex segretario nel chiedere che la segreteria abbia «una funzione politica» e non sia «un semplice allargamento dello staff di Renzi». Insomma, le posizioni della minoranza devono «trovare ascolto» nel governo, e condizionarne le mosse. Sulla stessa linea anche Stefano Fassina, che avverte: «Se non risolviamo le differenze di fondo non credo sia possibile parlare di segreteria unitaria». E D'Attorre si spinge fino a chiedere una sorta di «conferenza programmatica» del Pd, nella quale si «ragioni sul ruolo e l'autonomia del partito nel momento in cui il suo segretario è anche presidente del Consiglio». È il vecchio sogno bersanian-dalemiano di recuperare un controllo sulla «Ditta» e di mettere le briglie al premier. Facile capire quanto la proposta possa essere gradita a Palazzo Chigi: Renzi non ci pensa per nulla, ovviamente. E purtroppo per Bersani, D'Alema e compagnia, non ci pensano neppure i giovani leoni delle loro correnti, pronti a entrare nella maggioranza renziana. Con la sola eccezione dei civatiani. Ma Renzi difficilmente si strapperà i capelli per l'assenza di Pippo: peraltro ha già infilato in segreteria, come responsabile economico, il civatiano Filippo Taddei, che probabilmente verrà confermato. Da sostituire ci sono Maria Elena Boschi, Marianna Madia, Lorenzo Lotti e Federica Mogherini, tutti al governo, e poi Pina Picierno emigrata al Parlamento europeo. C'è la solita grana delle «quote rosa»: il premier ci tiene a confermare il suo record di nomine femminili (ragion per cui il nome più gettonato dai bersaniani, ad esempio, è quello di Micaela Campana, molto vicina all'ex segretario), ma non è facilissimo. Per il posto della Mogherini in segreteria, ad esempio, sarebbe in pole position per competenza Enzo Amendola, giovane dalemiano e brillante capogruppo Pd in commissione Esteri. Ma la Mogherini andrà presto sostituita anche al governo, quando la sua nomina Ue diverrà ufficiale. Renzi ha già detto che non vuol fare rimpasti di sorta, e la soluzione di cui più si vocifera (sempre in ossequio alle quote rosa) è quella più «indolore» della promozione di Roberta Pinotti (assai apprezzata dal premier) agli Esteri, e del debutto di Marina Sereni, vicepresidente della Camera, alla Difesa.

NUOVE STIME SULL'ECONOMIA SOMMERSA E ILLEGALE (9 settembre 2014).
L’Istat dà nuove stime sull’economia sommersa e quella illegale: secondo l’istituto di statistica insieme valgono la bellezza di 200 miliardi tondi tondi. Ovvero più del 12% del Pil. Distinguendo le due voci, l’economia sommersa vale circa 187 miliardi (l’11,5% del Pil 2011). Si tratta delle somme connesse a lavoro irregolare e sottodichiarazione. Mentre l’illegalità (droga, prostituzione e contrabbando), vale circa 15,5 miliardi, sempre secondo i dati del 2011. Queste stime sono servite all’Istat per ricalcolare il Pil dell’Italia secondo il nuovo Sistema europeo dei conti e altri cambiamenti. L’anno di riferimento è il 2011, la cui stima passa, infatti, da 1.579,9 a 1.638,9 miliardi. Arriva così il nuovo Pil e rispetto al “vecchio” dato il livello risulta aumentato di 59 miliardi, ovvero rivalutato del 3,7%. I contributi principali arrivano dai cambiamenti relativi alla voce ricerca e sviluppo, che da costo diventa investimento(20,6 miliardi) e dall’inclusione nel Pil delle attività illegali, droga, prostituzione e contrabbando di sigarette compreso l’indotto (15,5 miliardi). A ciò si aggiungono una serie di altri effetti, di minore entità, che derivano tutti dall’aggiornamento del sistema nazionale dei conti (dal Sec 95 al Sec 2010) e dalle altre innovazioni introdotte dall’Istat. Il passaggio al nuovo Sec riguarda tutta l’Unione Europea. E guardando a quanto accaduto negli altri Paesi, l’Istat riporta i casi di Germania (che ha rivalutato il Pil del 3,4%), Francia (+3,2%) e Regno Unito (+4,6%). Nel Pil è stata quindi inserita l’illegalità, come previsto dai criteri fissati dall’Eurostat. La categoria illegalità comprende droga, prostituzione e contrabbando di sigarette, che contribuiscono alla rivalutazione del Pil per un punto percentuale, ovvero 15,5 miliardi di euro (compreso l’indotto della produzione di beni e servizi legali). Il rapporto tra deficit e Pil si abbassa di 0,2 punti percentuali. È questo l’effetto sui conti nazionali delle nuove regole europee e delle innovazioni introdotte dall’Istat. L’istituto nazionale di statistica spiega anche che il rapporto tra l’indebitamento netto e il Pil passa dal 3,7% al 3,5%, con riferimento al 2011.

Montezemolo lascia la Ferrari (10 settembre 2014)
A Maranello finisce l'era Montezemolo durata 23 anni. Dal 13 ottobre Luca Cordero di Montezemolo non sarà più presidente della Ferrari «su sua richiesta», si legge nel comunicato stampa diffuso questa mattina. L'addio arriverà a conclusione del festeggiamento dei 60 anni di Ferrari in America. Al suo posto arriverà Sergio Marchionne, amministratore delegato del gruppo Fca, esattamente come ipotizzava il mercato. L'avvicendamento pone termine alla "repubblica indipendente" di Ferrari nell'ambito del gruppo torinese e la integra di fatto anche nella gestione all'interno di Fca in vista della prossima quotazione a New York. Questo permetterà al gruppo di beneficiare a pieno del valore che Ferrari potrà portare al titolo.
«Del futuro della Ferrari - ha commenta Marchionne - io e Luca abbiamo discusso a lungo. Il nostro comune desiderio di vedere la Ferrari esprimere tutto il suo vero potenziale in pista ci ha portato ad alcune incomprensioni che si sono manifestate pubblicamente nello scorso week-end. Voglio ringraziare personalmente Luca per quanto ha fatto per la Fiat, per la Ferrari e per me». E un ringraziamento al manager arriva anche dalla famiglia Agnelli attraverso le parole del presidente di Fiat John Elkann: «Desidero ringraziare Luca a nome della mia famiglia e a titolo personale per quanto ha fatto per la Fiat e per la Ferrari. Ha ricoperto diverse posizioni di responsabilità, a partire dalla presidenza di Fiat dal 2004 al 2010, condividendo con me momenti di difficoltà, ma anche di grande soddisfazione. A Luca vanno i miei auguri per il suo futuro professionale e imprenditoriale, con la speranza, certamente condivisa, di vedere presto la Ferrari tornare a vincere». Marchionne coglie l'occasione, poi, per ricordare il percorso fatto insieme negli ultimi dieci anni: «Nel 2003 Luca ed io siamo stati nominati lo stesso giorno consiglieri di amministrazione della Fiat. Un anno dopo siamo diventati presidente lui e amministratore delegato io. Abbiamo lavorato insieme nei primi anni, condividendo preoccupazioni, problemi e successi. Come presidente della Ferrari ha portato l'azienda a un livello tecnologico e organizzativo di eccellenza e ha ottenuto importanti risultati economici». Da parte sua, Luca di Montezemolo, in un comunicato della casa del Cavallino rampante, conferma il ruolo che avrà il marchio premium del gruppo nell'ambito del debutto Oltreoceano: «La Ferrari avrà un ruolo importante all'interno del gruppo Fca nella prossima quotazione a Wall Street e si aprirà quindi una fase nuova e diversa che credo giusto debba essere guidata dall'amministratore delegato del gruppo. Finisce un'epoca e ho quindi deciso di lasciare la presidenza dopo quasi 23 anni meravigliosi e indimenticabili, dopo quelli passati a fianco di Enzo Ferrari negli anni Settanta». «Il mio ringraziamento - prosegue Montezemolo - va innanzi tutto a donne e uomini eccezionali in fabbrica, negli uffici, nei campi di gara, sui mercati di tutto il mondo che sono stati i veri artefici in questi anni della grande crescita dell'azienda, delle tante memorabili vittorie e del successo del marchio diventato grazie a loro uno dei più forti al mondo. Un saluto e un ringraziamento a tutti i nostri partner tecnici e commerciali, ai dealer di ogni Paese e in modo particolare ai clienti e ai collezionisti con cui condivido la stessa passione. Ma il mio pensiero va oggi anche ai nostri tifosi che non hanno mai fatto mancare alla Scuderia il loro entusiasmo soprattutto nei momenti più difficili. La Ferrari è la più bella azienda del mondo e per me è stato un grande privilegio e onore esserne stato il leader. Le ho dedicato tutto il mio impegno ed entusiasmo e insieme alla mia famiglia ha rappresentato e rappresenta la cosa più importante della mia vita». «Auguro agli azionisti - conclude il comunicato di Montezemolo -, e in particolare a Piero Ferrari che mi è stato sempre vicino, e atutte le persone dell'Azienda ancora tanti anni di successo che la Ferrari merita».


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Eugenio Caruso

Tratto da

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www.impresaoggi.com