La felicità si raggiunge grazie alla virtù
Cicerone, La felicità.
In questo saggio Seneca prende in esame tutte le passioni, con una sorprendente penetrazione psicologica, riconosce che esse sono, come i dolori, una legge della natura umana, e dichiara che il saggio non odia e non disprezza gli uomini che ne sono dominati: più che piangere sopra i loro mali, egli ne ride. Ma nello stesso tempo li comprende e li ama, perchè gli uomini sono infelici.
La persona saggia non deve camminare con incertezza né a piccoli passi; infatti ha tanta fiducia in sé che non esita ad andare incontro alla sorte e non dovrà mai cederle il passo. Né ha ragione di temerla, perché, non solo le proprie ricchezze e la posizione pubblica, ma anche il suo corpo e gli occhi e la mano e tutto ciò che gli rende più cara la vita e persino se stesso annovera tra i beni fuggevoli e vive come se fosse stato affidato a se stesso in concessione e disposto a restituirsi senza malumore a chi lo reclamasse.
E non per questo si ritiene poco importante - perché sa di non appartenersi - ma svolgerà tutti i suoi compiti con tanta diligenza, con tanta attenzione come un uomo coscienzioso e responsabile è solito tutelare le cose rimesse alla sua coscienza.
E quando poi gli sarà ingiunto di restituirle, non si lamenterà con la sorte ma dirà: "Sono grato di ciò che ho posseduto e ho avuto in uso. Ho curato le tue cose con grande profitto, ma poiché così stabilisci, ecco che te le restituisco grato e volentieri. Se vorrai che io tenga ancora qualcosa di tuo, lo conserverò; se decidi diversamente, io, allora, argenteria, denaro, casa, servitù ti restituisco.". Poniamo che la natura reclarni le cose che per prima ci aveva affidato, noi le diremo: "Riprenditi un animo migliore di quello che mi hai dato; non sto a tergiversare o a rifiutarmi; sono pronto a darti spontaneamente ciò che tu mi desti mentre ne ero inconsapevole: prenditelo."
Che c'è di grave nel tornare da dove sei venuto? è destinato a vivere male chi non saprà morire bene. Dunque occorre prima di tutto considerare la vita tra le cose di poco conto. Come dice Cicerone, ci sono insopportabili i gladiatori che vogliono in ogni modo impetrare la grazia della vita; li applaudiamo, invece, se ostentano il disprezzo di essa. Sappi che anche a noi accade la stessa cosa; spesso infatti è causa di morte la paura di morire.
Proprio la sorte, che ama scherzare, dice: "A che scopo dovrei risparmiarti, animale meschino e tremebondo? Tanto più profondamente ti farai ferire e trapassare, perché non te la senti di porgere la gola Tu invece vivrai più a lungo e morirai in maniera più rapida, tu che aspetti la spada non sottraendo il collo né mettendo davanti le mani, ma con coraggio."
Chi avrà paura della morte non farà mai nulla da uomo che vive; invece chi saprà che questa condizione è stata stabilita subito nel momento in cui egli è stato concepito, vivrà secondo i patti e contemporaneamente con la stessa forza d'animo si prodigherà, perché nulla delle cose che accadono sia improvvisa. Infatti guardando a tutto ciò che può avvenire come se fosse sul punto di realizzarsi, saprà attenuare la forza di tutte le disgrazie, che non portano niente di sorprendente a chi vi si è preparato e se le aspetta, mentre giungono con tutto il loro peso su chi si sente sicuro e spera solo nelle cose favorevoli.
Si tratti di una malattia, della prigionia, di un crollo, di un incendio: nulla di ciò sarà improvviso; sapevo in che albergo tumultuoso la natura mi aveva chiuso. Tante volte si sono levate grida di dolore nelle mie vicinanze; tante volte torce e ceri hanno preceduto esequie immature oltre la soglia della mia casa; spesso mi è risuonato accanto il fragore di un edificio che crollava; molti tra quelli che il foro, la curia la conversazione aveva messo in relazione con me una notte la morte li ha portati via. Mi dovrei meravigliare che tocchino anche a me i pericoli che mi sono sempre girati attorno?
C'è una grande parte dell'umanità che mentre si accinge a navigare non pensa alla tempesta. Io non mi vergognerò mai di citare un cattivo autore,ma, in questo caso, felice. Publilio affermò, infatti: "A chiunque può capitare ciò che può capitare agli altri. Chi si sarà impresso questo principio nel profondo dell'animo e guarderà tutte le disgrazie altrui, delle quali tutti i giorni c'è grande abbondanza, così come se esse avessero la strada spianata anche verso di lui, sarà preparato molto prima di venire assalito".
"Non pensavo che sarebbe successo e avresti mai pensato tu che questo mi sarebbe accaduto?" E perché no? Quali sono quelle ricchezze che non possono essere seguite da vicino dalla miseria e dalla fame e dall'indigenza? Quale carica pubblica di cui la toga pretesta, il bastone da augure e le cinghie patrizie non può essere seguita dalla veste miserabile, dal marchio del disonore e da mille macchie fino all'estremo disprezzo? Quale regno c'è al quale non siano già preparati la rovina e l'annientamento e l'oppressore e il boia? Né queste cose sono separate da lunghi intervalli di tempo, ma intercorre un momento solo tra il trono e l'omaggio alle ginocchia altrui.
Hai ricoperto le più alte cariche onorifiche: forse tanto alte o tanto insperate o tanto totalizzanti quanto quelle di Seiano? Il giorno che il senato lo aveva applaudito il popolo lo fece a pezzi; di colui sul quale gli dei e gli uomini avevano accumulato quanto era possibile accumulare, non rimase nulla che il carnefice potesse strappare.
Sei re: non ti rimanderò a Creso, che dovette vedere da vivo il proprio rogo e accendersi e spegnersi, fatto superstite non solo al proprio regno, ma anche alla propria morte, non a Giugurta che il popolo romano poté contemplare come a uno spettacolo entro l'anno in cui ne aveva avuto paura. Vedemmo Tolemeo re dell'Africa, Mitridate re dell'Armenia tra le guardie di Gaio; l'uno venne mandato in esilio, l'altro si augurava di esservi mandato come migliore garanzia. In tanto profondo sconvolgimento di situazioni che volgono in alto e in basso, se non consideri come destinato a succedere tutto ciò che può succedere, dai forza contro te stesso alle avversità, che sogliono essere sconfitte da chi le vede prima.
Bisogna limitare l'andare in giro di qua e di là, che è proprio di gran parte degli uomini che vagano per case, per teatri e per fori: si offrono di occuparsi degli affari degli altri, sembra che abbiano sempre qualcosa da fare. Se chiederai a qualcuno di questi mentre esce di casa: "Dove vai?", ti risponderà: "Non lo so, per Ercole; ma vedrò qualcuno, farò qualcosa." Vanno vagando senza un proposito cercando occupazioni e non fanno le cose che avevano deciso, ma quelle in cui si sono imbattuti. Spingono quelli che si parano loro davanti e travolgono sé e altri, mentre corrono a salutare qualcuno che non ricambierà il loro saluto o a seguire il funerale di una persona sconosciuta o Il processo di uno che è spesso in contesa o le nozze di una che si sposa spesso e, dopo aver seguito la lettiga, in alcuni luoghi l'hanno persino portata; quindi, tornando a casa con la loro stanchezza inutile, giurano che non sanno loro stessi perché sono usciti, dove siano stati, già pronti il giorno dopo a girovagare su quegli stessi passi.
Dunque ogni fatica deve riferirsi a qualche scopo, deve riguardare qualche scopo. Non è l'operosità che li agita rendendoli inquieti, ma sono le false immagini delle cose che li agitano come pazzi; infatti nemmeno i pazzi si muovono senza una qualche speranza: li attrae l'aspetto di una cosa, la cui inconsistenza la mente, presa nel suo delirio, non è riuscita a cogliere.
Da questo male deriva quel vizio tristissimo, l'origliare e il curiosare tra gli affari pubblici e privati e il venire a conoscenza di molte cose che né si raccontano né si ascoltano senza rischi. Io penso che seguendo quest'idea Democrito abbia scritto così: "Chi intenderà vivere nella tranquillità non faccia molte cose né privatamente né pubblicamente" chiaramente riferendosi alle cose superflue. Infatti, se sono necessarie, si devono fare, sia privatamente che pubblicamente, non solo molte ma innumerevoli cose, ma laddove nessun compito importante ci spinga, bisogna contenere l'agire.
Infatti chi fa molte cose spesso dà potere su di sé alla sorte, che è norma del tutto sicura sperimentare di rado, mentre per il resto occorre sempre riflettere su di essa e non ripromettersi nulla sulla sua affidabilità: "Navigherò, a meno che non capiti qualche incidente" e "Diventerò pretore, a meno che non si frapponga un qualche ostacolo" e "Mi riuscirà l'affare, a meno che non intervenga qualcosa".
Questo è il motivo per cui diremmo che all'uomo saggio non accade niente di inaspettato: non lo abbiamo esentato dalle vicende umane, ma dagli errori, né a lui capitano tutte le cose come le ha volute, ma come le ha pensate; e prima di tutto egli aveva ben presente che qualcosa potesse far resistenza ai suoi progetti. E' poi d'obbligo che il dolore di un piacere deluso arrivi in forma attenuata alla persona alla quale non è stata promessa comunque la riuscita.
Dobbiamo anche rendere noi stessi disponibili a non indulgere a un'eccessiva programmazione delle cose, a rivolgerci a quelle nelle quali ci avrà fatto imbattere il caso e a non temere né un cambiamento di programma né di condizione, a patto che non finiamo preda della volubilità, difetto nemicissimo della quiete interiore.
In ogni modo l'animo va richiamato da tutte le sollecitazioni esterne a se stesso: si affidi a se stesso, gioisca di sé, rivolga lo sguardo a se stesso, si ritiri quanto può dalle cose degli altri e si applichi a sé, non patisca i danni, interpreti favorevolmente anche le avversità. Alla notizia del naufragio, il nostro Zenone venendo a sapere che erano andati perduti tutti i suoi averi, disse: "La fortuna mi impone di dedicarmi più agevolmente alla filosofia." Un tiranno minacciava di morte il filosofo Teodoro e per di più minacciava di negargli la sepoltura: questi gli disse: "Hai di che compiacerti con te stesso, è in tuo potere un mezzo litro di sangue; infatti per quanto riguarda la sepoltura, povero te se pensi che mi interessi l'imputridire sopra o sotto terra." Giulio Cano uomo tra i primi per grandezza, avendo a lungo discusso con Gaio, dopo che quel tiranno, mentre se ne andava, gli disse: "Perché tu non ti faccia allettare da una vana speranza, ho dato ordine che tu sia accompagnato al supplizio," Cano rispose: "Ti ringrazio, ottimo principe." Non so che cosa abbia pensato; infatti mi vengono in mente molte ipotesi. Volle essere offensivo e mostrare quanto grande fosse la crudeltà in cui la morte rappresentava un beneficio? Oppure gli rimproverò la follia quotidiana? infatti rendevano grazie sia coloro i cui figli erano stati uccisi, sia coloro i cui beni erano stati portati via. 0ppure accolse l'annuncio volentieri come se si trattasse della libertà? Qualsiasi sia la soluzione, diede una risposta coraggiosa. Credi forse che egli abbia trascorso i dieci giorni che mancavano al supplizio senza alcuna occupazione? E' incredibile che cosa riuscì a dire quell'uomo, che cosa riuscì a fare, quanto tranquillamente sia vissuto. Giocava a dama, mentre il centurione che trascinava la schiera dei condannati a morte gli ordinò di seguirlo. Chiamato, contò i sassolini e al suo compagno disse: "Bada dopo la mia morte di non mentire, dicendo che hai vinto"; poi, facendo segno al centurione, disse: "Sarai testimone che vincevo io di una mossa." Pensi tu che Cano con quella scacchiera abbia davvero giocato? Si prese gioco. Erano tristi gli amici che sapevano di perdere un tale uomo: "Perché siete tristi?" disse. "Voi vi chiedete se le anime siano immortali: io lo saprò tra poco." E non smise di scrutare la verità nemmeno alla fine e di fare della sua morte un argomento di discussione. Lo accompagnava il suo filosofo e ormai non era lontano il tumulo sul quale tutti i giorni si svolgeva un sacrificio in onore del nostro dio Cesare e il filosofo gli chiese: "Che pensi ora, Cano? o che intenzione hai?" "Mi sono proposto", disse Cano, "di osservare in quel momento fuggevole se l'animo avrà la sensazione di uscir fuori dal corpo" e promise, se avesse sperimentato qualcosa, che avrebbe fatto il giro degli amici e avrebbe loro indicato quale fosse lo stato delle anime.
Ecco la tranquillità nel mezzo della tempesta, ecco l'animo degno dell'eternità, che chiama la sua morte a testimonianza del vero, che collocato su quell'ultimo fatale gradino interroga la sua anima mentre questa esce dal corpo e si mette a imparare non solo fino alla morte ma qualcosa anche dalla stessa morte: nessuno ha filosofato più a lungo. Non dimenticheremo frettolosamente un grand'uomo e ne dovremo parlare con cura: ti consegneremo alla memoria di tutti i tempi, o uomo insigne, tu parte così importante della strage di Gaio.
Ma non giova per nulla rimuovere le cause del dolore privato; infatti ci prende talvolta l'odio per il genere umano. Quando avrai pensato quanto sia rara la franchezza e quanto sconosciuta l'innocenza e come la realtà non si trovi se non quando conviene, e vengono in mente la massa di tanti crimini e guadagni e perdite derivanti dal piacere parimenti insopportabili, e l'ambizione che ormai fino a tal punto non si contiene nei suoi limiti che splende attraverso la vergogna, l'animo è spinto nella notte e come fossero stati sconvolti i valori, che né è lecito sperare né conviene avere, spuntano le tenebre.
A questo dunque dobbiamo rivolgerci, a che tutti i vizi della gente ci sembrino non odiosi ma ridicoli ed ad imitare piuttosto Democrito che Eraclito. Costui infatti, ogni volta che era stato in pubblico piangeva, quello invece rideva, a costui tutto ciò che facciamo sembravano disgrazie, a quello sciocchezze. Occorre dunque saper sdrammatizzare ogni cosa e sopportarla con animo indulgente: è più degno di un uomo ridere della vita che piangerne.
Aggiungi che acquista meriti maggiori per il genere umano chi ride piuttosto che chi piange: quello lascia al genere umano una qualche speranza, costui invece piange stoltamente delle cose che dispera possano essere corrette; e per chi contempla le cose nel loro insieme è di animo più forte chi non trattiene il riso di chi non trattiene le lacrime, dal momento che suscita un'emozione piacevolissima e in mezzo a tanto apparato non ritiene nulla grande, nulla serio, nemmeno misero.
Ciascuno di noi si ponga davanti agli occhi, ad una ad una, le cose per le quali siamo lieti e tristi e saprà che è vero ciò che disse Bione che tutte le cose che riguardano gli uomini sono del tutto simili a inizi e che la loro vita non e più sacra o seria del loro concepimento, e che nati dal nulla sono ricondotti al nulla.
Ma è meglio accettare le abitudini comuni, le disgrazie e i difetti umani serenamente senza cadere né nel riso né nelle lacrime; infatti tormentarsi per le disgrazie altrui significa infelicità infinita, provar piacere delle disgrazie altrui è un piacere disumano.
Anche nelle proprie disgrazie occorre comportarsi in modo da concedere al dolore solo quanto la natura richiede, non quanto richiedano le convenzioni; molti infatti versano lacrime per ostentazione e hanno gli occhi asciutti ogni volta che manca il pubblico, poiché giudicano vergognoso non piangere quando lo fanno tutti: tanto profondamente si è consolidato questo vizio, quello di dipendere dall'opinione altrui, che diventa finzione anche un sentimento tra i più naturali, il dolore.
Segue la parte che non senza motivo suole rattristare e mettere in ansia. Laddove la sorte dei buoni è cattiva, laddove Socrate viene costretto a morire in carcere, Rutilio a vivere in esilio, Pompeo e Cicerone a offrire il collo ai vincitori, è proprio Catone, ritratto vivente della virtù, che gettandosi sulla spada, rende chiaro il destino suo e della repubblica. E' inevitabile tormentarsi per il fatto che la sorte paga compensi tanto iniqui; e allora che cosa potrebbe sperare ognuno per sé, vedendo che i migliori subiscono tale sorte?
Che significa dunque? Guarda come ciascuno di loro abbia saputo sopportare e, se furono forti, impara a rimpiangerli con il loro stesso animo, se morirono con la debolezza di una donna, non andò perso nulla: o sono degni della tua ammirazione per la loro virtù, o sono indegni del tuo rimpianto per la loro ignavia. Lodiamo chi è degno tante volte di lodi e diciamo: "Tanto più sei forte, tanto più sei felice! Sei scampato a ogni disgrazia, all'invidia, alla malattia, sei uscito di prigione; tu non sei apparso agli dei degno di una cattiva sorte". Bisogna invece costringere coloro che cercano di sottrarsi e in punto di morte si voltano a guardare la vita.
Non piangerò nessuno che è lieto, nessuno che piange: quello mi ha terso di sua iniziativa le lacrime, questo con le sue lacrime si è reso indegno. Io dovrei piangere Ercole, per il fatto che viene bruciato vivo, o Regolo perché è trafitto da tanti chiodi, o Catone, perché ferisce le sue ferite? Tutti costoro trovarono col sacrificio di un breve spazio di tempo in che modo diventare eterni, e con la morte pervennero all'immortalità.
Anche quella è materia non trascurabile di inquietudini, se tu ti affatichi a darti una posa e non ti mostri a nessuno nella tua schiettezza, così come fanno molti, la cui vita è finta e costruita per l'esibizione; infatti è fonte di tormento la continua osservazione di se stessi, e alimenta il timore di essere scoperti diversi da come si è soliti presentarsi. Né mai ci liberiamo dall'ansietà, se pensiamo di essere giudicati ogni volta che siamo guardati; infatti, da una parte accadono molte cose che contro la nostra volontà ci mettono a nudo, dall'altra, per quanto abbia successo tanta cura di sé, tuttavia non è piacevole o sicura una vita che si nasconde sempre sotto la maschera.
Al contrario, quanto piacere possiede quella schiettezza sincera e di per sé priva di ornamenti, che non si serve di nulla per coprire la propria indole! Tuttavia, anche questa vita va incontro al pericolo del disprezzo, se tutto è scoperto a tutti; ci sono infatti persone che provano fastidio per tutto ciò a cui si sono potute accostare troppo da vicino. Ma per la virtù non c'è il pericolo di avvilirsi se è posta sotto gli occhi ed è meglio essere disprezzati per la schiettezza che tormentati da una continua finzione. Usiamo tuttavia misura nella cosa: c'è molta differenza tra il vivere con semplicità o con trascuratezza. Occorre sapersi ritirare molto anche in sé; infatti la frequentazione di persone dissimili turba il buon equilibrio raggiunto, rinnova le emozioni ed esaspera ciò che nell'animo è ancora debole e non pienamente guarito. Tuttavia queste condizioni vanno mescolate e alternate, la solitudine e la compagnia: quella genererà in noi nostalgia degli uomini, questa di noi stessi, e l'una sarà rimedio dell'altra; la solitudine guarirà l'insofferenza della folla, la folla la noia della solitudine.
Nemmeno bisogna tenere la mente uniformemente nella stessa applicazione, ma occorre richiamarla agli svaghi. Socrate non si vergognava di giocare coi fanciulli, Catone rilassava col vino l'animo provato dalle fatiche politiche e Scipione muoveva a tempo di musica quel corpo avvezzo ai trionfi e alle fatiche di guerra, non snervandosi in mollezze, come ora è abitudine di quanti ondeggiano persino nell'andatura superando la mollezza femminica, ma come quegli antichi uomini erano soliti tra lo svago e i giorni di festa danzare in modo virile, non andando incontro a una perdita di dignità, anche qualora venissero guardati dai loro nemici. Occorre concedere una pausa agli animi: riposati, rinasceranno migliori e più combattivi. Come non si deve essere impositivi coi campi fertili? Infatti una produttività mai interrotta li esaurirà in fretta. Cosi una fatica continua indebolirà gli slanci degli animi, e questi riacquisteranno le forze se per un po' risparmiati e lasciati a riposo; dal protrarsi delle fatiche nascono un certo qual torpore e un infiacchimento degli animi. E a ciò non tenderebbe un tanto grande desiderio degli uomini, se lo svago e il gioco non possedessero un certo naturale piacere; però il ricorso frequente a questi toglierà ogni gravità e ogni forza dagli animi; infatti, anche il sonno è necessario a ridare forze, tuttavia qualora tu lo continui giorno e notte, diventerà la morte. C'è molta differenza tra l'allentare una tensione e dissolverla del tutto.
I legislatori istituirono i giorni festivi, perché gli uomini fossero costretti pubblicamente a divertirsi, come interponendo la necessaria moderazione alle fatiche; e come ho detto alcuni grandi uomini si concedevano in determinati giorni feste mensili, alcuni non c'era giorno che non dividessero tra l'ozio e gli impegni. Tra questi ricordiamo il grande oratore Asinio Pollione che soleva non farsi trattenere da nessuna occupazione oltre l'ora decima; non leggeva nemmeno le lettere dopo quell'ora, perché non gliene derivasse una qualche nuova preoccupazione, ma si liberava della stanchezza di tutta una giornata in quelle due ore. Alcuni sogliono fare pausa a metà della giornata e rimandare alle ore pomeridiane una qualche occupazione
più leggera. Anche i nostri antenati vietavano che in senato ci fosse una nuova mozione oltre l'ora decima. I soldati si dividono i turni di guardia, e la notte è libera dalla ronda per coloro che ritornano da una spedizione.
Bisogna essere indulgenti con l'animo e concedergli ripetutamente il riposo che funga da alimento e forza. Bisogna fare anche passeggiate all'aperto, affinché l'animo si arricchisca e si innalzi grazie all'apertura degli orizzonti e all'abbondanza di aria pura da inspirare; talvolta un viaggio o un cammino e il cambiare luoghi e le cene e le bevute più generose daranno energia.
Talvolta è opportuno arrivare anche fino all'ebbrezza, non perché ci sommerga, ma perché abbia effetto tranquillante; infatti dissolve gli affanni e muove l'animo dal profondo e, come cura alcune malattie, così anche la tristezza, e Libero non è detto così per la libertà di parola ma perché libera l'animo dalla schiavitù delle preoccupazioni e gli dà indipendenza e forza e lo rende più audace verso ogni impresa. Ma nella libertà come nel vino è salutare la moderazione. Si crede che Solone e Arcesilao abbiano accondisceso al vino, a Catone fu rinfacciata l'ebbrezza: chiunque gliela rinfacci, potrà rendere più facilmente onesto questo vizio. Ma non bisogna farlo nemmeno spesso, in modo che l'animo non prenda una cattiva abitudine, e tuttavia talvolta occorre spingerlo all'esultanza e alla libertà, e la triste sobrietà va per un po' abbandonata. Infatti sia che diamo retta al poeta greco:" "Talvolta è piacevole anche fare follie", sia a Platone: "Invano chi è padrone di sé bussa alla porta della poesia", sia ad Aristotele: "Non ci fu nessun grande ingegno senza un pizzico di follia", non può esprimere qualcosa di grande e superiore agli altri se non una mente eccitata. Una volta che ha disprezzato le cose usuali e comuni e per divina ispirazione si è elevata più in alto, allora infine suole cantare qualcosa di più grande delle capacità umane. Non può attingere qualcosa di sublime e di elevato finché rimane in sé:" è necessario si stacchi dal consueto e scarti verso l'alto e morda i freni e trascini il suo auriga e lo conduca là dove da solo avrebbe avuto paura di salire.
Tu hai, carissimo Sereno, i mezzi che possono difendere la serenità, che possono restituirla, che resistono ai mali striscianti; sappi tuttavia che nessuno di loro è sufficientemente efficace per coloro che salvaguardano una situazione di debolezza, a meno che una cura sollecita e assidua non circondi l'animo vacillante. Puoi forse trovare una città più infelice di quanto lo fu quella degli ateniesi, quando la dilaniavano i trenta tiranni? Avevano ucciso milletrecento cittadini, tutti i migliori, e non per questo si fermavano, ma era la stessa crudeltà che si fomentava da sola. Nella città in cui si trovava l'Areopago il più sacro dei tribunali, nella quale si trovavano un senato e un popolo simile al senato, si raccoglieva ogni giorno un tristo collegio di carnefici e la curia infelice si faceva stretta per i tiranni che la affollavano: avrebbe forse potuto vivere in tranquillità quella città in cui c'erano tanti tiranni quanti avrebbero potuto essere gli sgherri? Non si poteva presentare agli animi nemmeno un barlume di speranza di riacquistare la libertà, né si profilava spazio ad alcun rimedio contro tanta violenza di mali; da dove infatti recuperare tanti Armodii per la povera città? Eppure c'era Socrate e consolava i senatori affranti, esortava quanti disperavano della repubblica, ai ricchi che temevano a causa delle loro ricchezze, rimproverava il tardivo pentimento di una cupidigia foriera di pericolo e a quanti erano desiderosi di imitarlo andava portando un grande esempio, col suo incedere libero fra i trenta dominatori. Tuttavia quest'uomo la stessa Atene lo uccise in carcere, e la Libertà non tollerò la libertà di colui che aveva sfidato la schiera compatta dei tiranni: sappi pure che anche in uno stato oppresso c'è la possibilità per un uomo saggio di manifestarsi.
SENECA - De tranquillitate animi.
14 ottobre 2014
Tratto da De tranquillitate animi