Non si deve sciupare ciò che si ha con il desiderio di ciò che non si ha.
Epicuro, Massime capitali
Il tema della food security si è
progressivamente fatto spazio
nell’agenda politica e mediatica degli
ultimi anni. A sollevare le preoccupazioni
è stato soprattutto l’aumento dei prezzi
alimentari registrato tra il 2007 e il 2011.
Un impetuoso e allarmante tumulto
dei mercati che ha seguito oltre mezzo
secolo di prezzi stagnanti delle derrate
agricole, interrotto solo dalle fiammate
delle quotazioni che negli anni settanta
avevano accompagnato lo storico shock
petrolifero che seguì l’embargo deciso dai
paesi Opec.
Questa inversione di tendenza è stata
interpretata da molti studiosi
come il segno inequivocabile del
passaggio da un’era di abbondanza a
un’era di scarsità del cibo. Senza entrare
nelle questioni, sempre troppo trascurate,
che attengono l’iniqua distribuzione delle
risorse alimentari, è chiaro che il mondo
si trova dinanzi alla sfida di nutrire
circa due miliardi di persone in più nei
prossimi trent’anni. Questo ci dicono
le previsioni sulla crescita demografica
globale. Con inevitabili implicazioni sugli
ecosistemi.
Ci sono due strade per produrre più
cibo: sfruttare nuove terre o rendere
più produttive quelle già utilizzate.
Ambedue hanno impatti che a oggi
sembrano difficilmente sostenibili
su un quadro di risorse naturali già
ipersfruttato. Soprattutto la prima, che
dovrebbe inevitabilmente far leva sul
prosciugamento di zone umide o sulla
deforestazione. Ma anche la seconda,
che ha visto un aumento impressionante
della produttività dal dopoguerra a oggi
grazie soprattutto alla specializzazione
colturale e all’uso massiccio della chimica
in agricoltura, con conseguenze sulla
biodiversità e l’ambiente in generale,
che oggi iniziamo a pagare a un
prezzo talmente elevato da rischiare di
compromettere la stessa riproducibilità
di risorse naturali fondamentali per
le generazioni future. In generale, si
calcola che allo stato attuale le attività
umane portino a un tasso di perdita di
biodiversità mille volte superiore a quello
naturale. Anche se la traduzione in valori
economici è materia controversa quando
parliamo di beni cosiddetti pubblici
o collettivi, si stima che il valore della
perdita di biodiversità terrestre registrata
negli ultimi dieci anni sia pari a circa l’1%
del Pil globale.
Ma gli impatti non riguardano solo la
biodiversità. L’acqua e i cambiamenti
climatici sono altri due aspetti
intimamente connessi con l’attività
agricola. Soprattutto in un’era di profondi
cambiamenti dei consumi che caratterizza
vaste aree del mondo. Nei cosiddetti paesi
emergenti, che spesso vengono sintetizzati
con l’acronimo di Bric (Brasile, Russia,
India, Cina), dove risiede circa un terzo
della popolazione mondiale, la crescita
economica sta spingendo verso nuovi stili
alimentari, simili a quelli delle aree più
sviluppate. Per fare un esempio in Cina, la
domanda individuale di carne è destinata
ad aumentare di oltre 28 kg nei prossimi
quarant’anni (oltre il 50% in più rispetto
a quella attuale). Stessa tendenza per i
prodotti lattiero-caseari che vedranno
un aumento della domanda pari a circa
il 70% rispetto agli attuali livelli. Questo
sentiero di progressiva sostituzione dei
prodotti amidacei con quelli proteici ha
un effetto moltiplicatore sulla domanda
di alcune materie prime agricole vegetali,
come soia e grano, che sono alla base
dell’alimentazione animale. Seppur con
l’ampia variabilità dipendente dai sistemi
di allevamento in uso, per produrre un
chilo di pollo ne occorrono da due a
quattro di grano, mentre per produrre una
bistecca di manzo dello stesso peso ne
servono dai sette ai dieci.
Stessa pressione sulle risorse idriche.
L’agricoltura tra le attività umane è
infatti quella che consuma più acqua,
circa il 70% del totale, e si stima che il
suo fabbisogno al 2050 aumenterà tra il
30 il 50 % rispetto ai livelli attuali. Ed è
anche una delle attività che più influenza
il cambiamento climatico, in particolare
per le emissioni di gas serra associate
alle attività di allevamento, che a oggi
contribuiscono per circa il 15% al livello
complessivo di CO2 prodotta da attività
umane. Se si considera che per soddisfare
la domanda di proteine da qui al 2050
bisognerà passare dalle attuali 300 milioni
di tonnellate di carne prodotte a circa 500
milioni, risulta evidente la portata della
sfida ambientale che abbiamo di fronte.
Come uscirne? La sola via possibile
appare quella di “produrre di più
inquinando meno”. Una strada che
richiede il contributo di molte
componenti a partire dalla ricerca e dalle
politiche per l’agricoltura. Un concetto
che in questi anni ha avuto molta eco
è quello dell’intensificazione sostenibile.
Come per altri settori economici, l’azione
principale da intraprendere sarebbe
assumere l’impatto ambientale come
parte integrante dei processi produttivi.
Questo significa un più razionale utilizzo
dei nutrienti, dell’acqua e dell’energia, una
maggiore attenzione alla conservazione
delle risorse idriche e dei suoli, un
impiego più massiccio delle risorse
biologiche nella difesa delle colture e
non in ultimo una rivalutazione del
capitale di conoscenze locali che consenta
di adattare, o meglio contestualizzare,
l’innovazione rispetto alle caratteristiche
dei luoghi in cui viene trasferita.
Felice Adinolfi - da Ecoscienza - 15 novembre 2014
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Tratto da ecoscienza 4/14