"Non fare infrastrutture costa più che farle". Lo ha affermato il presidente di Autostrade, Gian Maria Gros-Pietro rilevando che il maggior costo riguarda "i danni all'ambiente, la sicurezza, la vita delle persone, la salute e i tempi".
"Siamo consapevoli - ha detto gros-Pietro intervenendo alla presentazione del rapporto "I costi del non fare" dell'Agici - che le infrastrutture consumano e occupano il territorio e non si può pensare di duplicare infrastrutture solo perché c'é domanda. Servono scelte politiche e affrontare il tema della selezione delle attività. E' importante vedere quale ritorno ha il sistema dagli investimenti in infrastrutture. Il costo del non fare deve essere una variabile nella strategia della dotazione infrastrutturale e nella valutazione dei costi".
Il presidente di Autostrade ha quindi osservato che bisogna vedere "quanto avere come dotazione infrastrutturale e quanto dobbiamo spendere. Noi dovremmo avere come dotazione quella media degli altri Paesi europei, un traguardo non eccessivamente ambizioso".
Richiamando la realizzazione dell'alta velocità sulla Torino-Lione per spiegare il il concetto dei costi-benefici, Gros Pietro ha osservato: "Sono piemontese e in questi mesi si sta discutendo se fare o meno l'alta velocità Torino-Lione. Se Cavour avesse utilizzato gli stessi metodi di valutazione costi-benefici, anziché fare il tunnel del Frejus avrebbe potenziato le mulattiere".
Di seguito viene riportata la relazione dell’Agici.
Di fronte al lungo elenco di progetti di interesse pubblico rimasti nei cassetti, l’interrogativo più immediato riguarda le cause di tale immobilismo. Perché in Italia progetti di evidente utilità pubblica non vanno avanti, anche quando sono stati espletati i riti burocratici e sono state già ottenute tutte le approvazioni e le autorizzazioni previste dalle normative? Qual è il male oscuro che mina i processi di ammodernamento di un Paese costretto ad una perenne rincorsa?
Le lungaggini burocratiche, la pluralità dei soggetti chiamati in causa e la complessità delle procedure autorizzative non spiegano tutto. Anche perché negli ultimi anni molto si è cercato di fare per semplificare e rendere più snelli gli iter che seguono la presentazione dei progetti.
Il vero nodo del problema, come è riconosciuto da tutti, riguarda la questione dell’accettabilità sociale che si tramuta spesso in un’opposizione irragionevole verso tutto ciò che, intervenendo sul territorio, è destinato in qualche misura a modificane alcuni tratti e alcuni aspetti. Sotto la mannaia della sindrome di Nimby (Not in my backyard) cadono le teste di tutti i progetti, siano essi centrali energetiche, infrastrutture stradali, impianti di trattamento dei rifiuti eccetera. Non vengono risparmiate nemmeno quelle opere e quelle installazioni ideate proprio per contenere il consumo di materie prime e per tutelare meglio l’ambiente, come è il caso degli impianti eolici.
Ma se l’interrogativo principale riguarda il perché, non meno importante è un secondo interrogativo: quanto ci costa?
Che si tratti di un tema rilevante è confermato dalla stessa attenzione che gli viene dedicata in ambito internazionale. La problematica della “no action” rientra, infatti, tra le priorità di studio che si è data l’OCSE, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico tra paesi industrializzati.
La stessa Unione Europea ne ha fatto un criterio per le scelte di policy a fronte del paradosso che si viene a manifestare quando sono proprio le istanze ambientaliste a bloccare la realizzazione di opere destinate a migliorare le condizioni ambientali.
I costi del “non fare” in tre settori critici
Lo studio realizzato da Agici-Finanza Impresa alla fine del 2006, individua, quantificandoli, i costi per la collettività derivanti dalla mancata realizzazione delle infrastrutture nel periodo 2005-2020.
Queste le principali conclusioni dello studio.
Il costo del “non fare” (CNF) in Italia ammonterà a 200 miliardi di euro nel periodo 2005 al 2020, corrispondente ad oltre 3.300 euro per ciascun italiano, neonati compresi. Per una famiglia di quattro persone si tratta di una tassa aggiuntiva di oltre 1.000 euro l’anno per 15 anni.
Tale stima, peraltro, è in difetto per la semplice ragione che l’analisi non prende in considerazioni l’intero elenco delle opere di pubblica utilità, ma solo quelle comprese all’interno di
tre grandi settori infrastrutturali: energia, vie di comunicazione stradali e trattamento dei rifiuti.
Lo studio giunge a questa stima rapportando i costi unitari del “non fare” nei tre settori indicati (vale a dire il costo di ogni MWh non generato, di ogni tonnellata di rifiuti non termovalorizzata e di ogni km di strade non costruito) ai fabbisogni previsti nei tre settori.
Nel campo dell’impiantistica per i rifiuti, ad esempio, pur assumendo uno scenario di forte progressione della raccolta differenziata (collocata ad un valore del 65% a fine periodo) viene indicata la necessità di una dotazione complessiva di 105 termovalorizzatori sul territorio nazionale (più del doppio di quelli attualmente in esercizio) per poter arrivare a quell’azzeramento del conferimento in discarica che rappresenta un obiettivo nazionale ed europeo. La mancata realizzazione di un termovalorizzatore per rifiuti urbani per una città di 370.000 abitanti costerebbe alla collettività, nel corso di 15 anni di attività dell’impianto, non meno di 110 milioni di euro. Complessivamente, uno stato di inerzia in questo settore (che non riguarda peraltro, solo la necessità di avere all’opera nuovi termovalorizzatori, ma anche altri impianti come quelli dedicati al compostaggio) si tradurrebbe in
un costo per la collettività di circa 30 miliardi di euro.
Più salato è il conto nel settore dell’energia. Qui il fabbisogno impiantistico calcolato in base alle stime di crescita della domanda di energia elettrica e ricavato mantenendo in vita un mix produttivo che continua a presentarsi sbilanciato a favore del gas, richiederebbe la realizzazione, entro il 2020, di 20 nuove centrali termoelettriche, di cui 16 a gas da 800 MW ciascuna e 5 a carbone da 1.000 MW, nonché di 146 impianti da 50 MW da fonti rinnovabili. Richiederebbe, inoltre, la messa in opera di 4.800 km di elettrodotti e l’entrata in servizio di 3 rigassificatori.
Nel periodo considerato, ogni centrale a gas non realizzata costerebbe alla collettività 1,6 miliardi di euro. Ancora più rilevante sarebbe il
costo del non fare delle centrali a carbone, calcolabile, mantenendo l’attuale mix produttivo, in 6 miliardi di euro per 2.000 MW. E ancora, l’inerzia nel settore della rigassificazione ci costerebbe 2,1 miliardi di euro per ogni impianto non fatto, mentre pagheremmo 800 milioni di euro per ogni 85 km di elettrodotti non portati a compimento. In tutto,
l’immobilismo nel settore energetico costerebbe alla collettività non meno di 40 miliardi di euro.
Ma è soprattutto
nel settore delle infrastrutture viarie che la mancata rimozione degli ostacoli che si frappongono alla realizzazione delle opere avrebbe un peso esorbitante, calcolabile complessivamente, sempre entro il 2020, in 133 miliardi di euro.
In particolare, per le autostrade si valuta la necessità di avere oltre 1.900 km aggiuntivi rispetto alla situazione attuale. Questa indicazione può sembrare un’enormità: l’avallo di un’aggressiva politica di cementificazione. Ma si tratta della dotazione minima necessaria per allentare la congestione, aumentare gli indici di sicurezza e per allineare l’Italia alle dotazioni autostradali dei principali paesi europei. Il fabbisogno indicato è in ogni caso coerente con i programmi in cantiere e richiede, per la sua copertura, un investimento complessivo di 34 miliardi di euro. Una spesa ingente, ma che diventa poca cosa di fronte ai costi del “non fare”, visto che
la mancata realizzazione di una sola autostrada di rilevanza regionale di 50 km verrebbe a costare alla collettività ben 4,9 miliardi di euro. Ed altrettanto salato sarebbe il conto presentato se venisse a mancare la costruzione di una tangenziale in una grande area urbana: 40 km “mancati” di una simile infrastruttura comporterebbero un costo di 3,7 miliardi di euro.
16 novembre 2006
Tratto da ANSA