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Luci e ombre sul manifatturiero italiano. Marchi svenduti.



Penso che molti avrebbero potuto raggiungeere la saggezza se non avessero ritenuto d'averla già raggiunta.
Seneca, De tranquillitate


Rapporto Eurispes. La vicenda di Telecom Italia è solo la punta dell’iceberg di una tendenza tutta italiana, che ha attraversato la nostra storia degli ultimi vent’anni, un fenomeno che va visto e vede protagoniste in negativo le piccole e grandi imprese del Made in Italy. Di fatto le multinazionali straniere acquistano marchi italiani di prestigio e di grande valore, affidando ad altri la realizzazione di prodotti di alta qualità con conseguenti benefici in termini di ricavi e di utili di bilancio. In particolare, sono 437 i passaggi di proprietà dall’Italia all’estero registrati dal 2008 al 2012, secondo le rilevazioni di Kpmg, mentre i gruppi stranieri hanno speso circa 55 miliardi di euro per ottenere i marchi italiani. Tuttavia, la situazione a livello generale appare preoccupante. Infatti, se negli anni i protagonisti degli acquisti in Italia sono stati Francia, Stati Uniti, Germania, Regno Unito, in tempi recenti sono in crescita le operazioni di acquisizione da parte di paesi non occidentali come India e Cina, anche Giappone, Corea, Qatar, Turchia e Thailandia.
Se il Made in Italy ottiene una buona considerazione dai consumatori dei diversi paesi, la produzione italiana appare in difficoltà alla prova del mercato interno e, in taluni casi, globale. La globalizzazione dei mercati, il successo del capitalismo finanziario, la formazione di nuovi oligopoli, ma anche l’esplosione della diffusione e dell’utilizzo di Internet e la proliferazione delle nuove tecnologie dell’informazione hanno progressivamente sgretolato le barriere territoriali e culturali esistenti, originando un unico scenario competitivo che coincide con l’intero globo. Tutto ciò riguarda chiaramente non solo l’importazione o l’esportazione delle merci, ma comporta anche una transazione e uno scambio di valori, tradizioni, stili di vita e modelli culturali diversi. Negli ultimi vent’anni la globalizzazione ha vissuto continue espansioni e accelerazioni segnate ad esempio dall’ingresso della Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) e del progressivo sviluppo delle nuove tecnologie. Con conseguenze importanti anche nell’economia italiana. Nella nuova realtà economica le imprese sono chiamate a seguire l’internazionalizzazione dell’economia per crescere e poter produrre secondo le esigenze dei mercati, diventando sempre più competitive. Spesso questa è una scelta imprescindibile per la sopravvivenza e per il successo dell’impresa che deve affrontare, in uno scenario competitivo nazionale e globale, molteplici concorrenti che possono mettere in discussione la posizione raggiunta sul mercato.
Una parola chiave per lo sviluppo delle aziende è innovazione, che deve essere ricercata nei molteplici aspetti della produzione, nel settore commerciale e nella logistica, e che richiede una formazione continua e l’impegno di specifiche professionalità. Infatti, oltre alla capacità di integrarsi in modo consapevole nel sistema economico-sociale e a rispondere alle richieste di trasparenza e responsabilità che provengono dalla società civile, l’impresa moderna deve essere in grado di rinnovarsi continuamente, differenziare i prodotti e i servizi al fine di anticipare e soddisfare le richieste del mercato e le esigenze del consumatore interno ed esterno al paese. Oggi l’impresa si rinnova seguendo i cambiamenti delle società, adeguandosi alla mobilità e alla variabilità, proponendo un modello d’impresa decentralizzato, libero da schemi costrittivi, regole, leggi e ruoli. Le aziende italiane che si presentano nei mercati globali non solo vendono prodotti e servizi, ma trasmettono valori, tradizioni e una produzione artistica e artigianale che da sempre ha sancito l’affermazione e l’attrazione per l’Italian Style nel mondo.
La cultura come valore, la tradizione e la storia della produzione si propongono quali elementi distintivi di un Made in Italy che ha contribuito allo sviluppo del Paese, creando professionalità e diffondendo benessere, facendo conoscere la cultura italiana nel mondo. Se il passato è fonte di orgoglio, oggi diventa sempre più il volano adatto per affrontare le continue sfide del mercato e cogliere quelle opportunità indispensabili alla crescita dell’Italia. La strada del rinnovamento spinge le aziende a ricercare elementi distintivi nella propria produzione e nella tradizione, valorizzando quella cultura industriale che diventa simbolo di un paese.
Un chiaro esempio di questo rinnovato interesse è l’istituzione degli archivi e dei musei di impresa, una realtà che conta circa 600 strutture dedicate, luoghi di interesse per turisti e per tutti gli appassionati della produzione industriale del nostro Paese: tra i più visitati il Museo della Ferrari che, insieme a quello della Ducati, rappresentano il simbolo della passione per i motori e le corse, quello del cioccolato Perugina e della liquirizia Amarelli, oppure quelli del design come Alessi, e della moda come quello dedicato a Salvatore Ferragamo.
Un sostegno allo sviluppo di questo investimento culturale è legato alla normativa “Misure in materia fiscale” (legge 342/2000) che ha introdotto il principio di piena deducibilità delle erogazioni liberali a favore di arte e di cultura dal reddito d’impresa, migliorando e agevolando così le opportunità di investimento delle aziende in questo settore. Sono noti gli interventi di conservazione del patrimonio artistico-culturale italiano curati dall’Olivetti, come il restauro dei cavalli della Basilica di San Marco a Venezia, le mostre nei principali musei di Londra, New York, Parigi, Città del Messico e Milano, occasioni per presentare nello scenario internazionale l’eccellenza del Made in Italy. Di assoluto richiamo, poi, è stato il finanziamento del restauro del cenacolo di Leonardo Da Vinci a Milano. La testimonianza dell’impegno dell’impresa Olivetti nel valore della cultura italiana mette in luce quanto il sistema produttivo della fabbrica possa trasmettere il valore della competitività della produzione italiana nel mondo.
Per quanto l’Italia sia ancora indietro rispetto ad altri paesi come Stati Uniti e Gran Bretagna, negli ultimi tre anni quasi la metà delle aziende hanno investito in cultura (mentre il 23% hanno organizzato progetti autonomamente), il 67% considerano rilevante ed efficace l’investimento in cultura; nel complesso si tratta di circa 2.500-3.000 milioni di euro di investimenti stimati (in concreto riguardano mostre, musei, eventi e spettacoli)(fonte Civita).
L’Italia, in oltre 150 anni di storia, è diventata uno dei più importanti paesi industrializzati al mondo, con un modo distintivo di fare impresa che si riconosce in settori cruciali come quelli dell’energia elettrica, degli idrocarburi, della chimica, della siderurgia, dell’auto e dei più conosciuti comparti del Made in Italy. Nell’immaginario collettivo è la moda, soprattutto quella delle grandi firme come Valentino, Versace, Armani o Salvatore Ferragamo, a diventare sinonimo del Made in Italy seguita ad esempio dalla Ferrari, vera e propria icona nel mondo. Nel Secondo Dopoguerra l’Italia si è distinta per la quantità di prodotti esportati, un successo dovuto oltre al design, anche all’innovazione e alla qualità dei beni come mobili, casalinghi, alimentari e per i servizi proposti per il turismo.
Elementi di distinzione del nostro Paese nello scenario globale sono quindi il valore del Made in Italy, la posizione strategica per i flussi nel Mediterraneo e la rete dei distretti industriali che continuano ad essere oggetto di attrazione da parte di investitori esteri. In questo scenario si inserisce il fenomeno delle acquisizioni di rinomate imprese italiane mentre continua l’investimento sull’Italia di numerose multinazionali (1,2 milioni di addetti diretti e 1,9 milioni nell’indotto e, pur essendo solo lo 0,3% delle imprese attive sul territorio nazionale, esprimono il 24,4% della spesa). L’importanza della storia aziendale è un aspetto apprezzato anche a livello internazionale come dimostra l’istituzione dell’associazione “Les Hénokiens” che racchiude al suo interno imprese bi-centenarie che hanno fatto del proprio patrimonio storico-culturale un’arma vincente (fondata nel 1981) e alla quale partecipano diverse aziende italiane come Amarelli (1731), Confetti Mario Pelino (1783), la Ditta Bortolo Nardini (1779), Fratelli Piacenza (1733), Fabbrica d’armi Pietro Beretta (1526) per citarne alcune. È un ulteriore modo per evidenziare come la matrice familiare della proprietà si salda con i valori imprenditoriali utili nelle scelte strategiche aziendali, facendo emergere il valore aggiunto delle “family business”.
Chiaramente non mancano i limiti di una tale gestione, come le difficoltà ad accedere al mercato dei capitali riducendo così la stessa crescita, problemi di nepotismo e di inadeguata organizzazione e tensione finanziaria, per segnalare le più comuni. La fragilità di questo sistema può essere legata, poi, alle successioni generazionali a volte vissute come un vero e proprio dramma per la preoccupazione di individuare un management adeguato rispetto alle esigenze dell’impresa, ai timori per la probabile poca esperienza delle nuove generazione e alla minore capacità di leadership.
Di fatto, emerge la fragilità di un capitalismo familiare, dove la personalità del fondatore è spesso in grado di svolgere la propria attività meglio di qualsiasi altro manager, ma il rischio è che il successo acquisito sia dovuto al carisma e alle capacità di quella persona e, quindi, non facilmente replicabile. Quindi, la trasmissione dell’impresa ai figli non è accompagnata da garanzie di successo, né tantomeno è semplice, per quanto vi siano comunque esempi illustri di soluzioni ideali per la continuazione dell’attività aziendale.
L'Italia si distingue nello scenario europeo per l’importante quota di produzione nell’industria manifatturiera sul Pil e per l’investimento sui servizi che caratterizzano il sistema produttivo. Se l’Italia non eccelle in maniera particolare in àmbiti come l’elettronica, la chimica, la farmaceutica e il settore aerospaziale, sia pur con picchi di eccellenza (Bracco e Mapei), nel comparto dell’industria manifatturiera e nei servizi (distribuzione e turismo), lo scenario economico italiano si caratterizza per la presenza limitata di grandi gruppi e imprese, e per il contributo dei distretti industriali che ne definiscono la fisionomia. In Italia, nel 2001 i distretti di Pmi erano 199, tra i quali si distingue una forte specializzazione per i settori tradizionali del Made in Italy. Tra questi, sono 96 i Distretti Industriali italiani attivi nei settori di eccellenza che, secondo la Fondazione Edison, escludendo il comparto alimentare, contano nel 2001 più di 85mila imprese, con una occupazione di circa 867mila addetti. L’Italia è rinomata nel mondo in quattro macro settori dell’eccellenza manifatturiera, definiti per semplicità con quattro “A”: Alimentari-bevande, Abbigliamento-moda, Arredo-casa, Automazione-meccanica; oppure conosciuti come delle tre “F”, indicanti Food, Fashion And Furniture.
Da sempre i prodotti tipici dell’area mediterranea attraggono l’interesse di clienti stranieri, dalla frutta alla verdura, passando per la pasta e il vino sino all’ampia gamma di formaggi; la moda, poi, richiama tutti coloro che amano il fashion e la produzione raffinata, elegante ed unica dello stile italiano: dal tessile agli accessori, la pelletteria e le calzature, l’oreficeria e la gioielleria, ecc. Rispetto al comparto dell’arredo casa, riscuotono successo le aziende rinomate dell’illuminotecnica, delle lampade, delle ceramiche e delle pietre ornamentali; va ricordato, poi, il valore riconosciuto nella produzione di vetri e mosaici per arredamento ed edilizia. Oltre alle principali icone del Made in Italy, quali Ferrari, Lamborghini, Maserati, si registrano importati risultati (commerciali, in termini di export e di addetti) nel settore dell’automazione e della meccanica, come auto di lusso, motocicli e biciclette, macchine agricole e yatch.
Il settore manifatturiero conferma la sua forza e il suo valore nell’economia italiana nello scenario internazionale. Infatti, secondo il Rapporto ICE 2012 “L’Italia nell’economia internazionale”, nel 2011 il nostro Paese si posiziona al secondo posto quale esportatore mondiale dei prodotti di abbigliamento e pelletteria, al terzo per quanto riguarda il settore tessile, l’arredamento, gli elettrodomestici e i prodotti minerali non metalliferi (come piastrelle, vetro e materiali da costruzione). Mentre è il quarto esportatore nei prodotti di metallo come utensileria e posateria, e si colloca al quinto posto nella siderurgia, gomma e plastiche, apparecchi elettrici e meccanica strumentale. È questo un comparto che permette all’Italia di essere competitiva sui mercati internazionali.
Secondo l’Atlante del Made in Italy realizzato da Assocamere Estero, la capacità di rinnovarsi e di produrre beni di qualità rappresenta un elemento importante per le aziende italiane che intendono incrementare le vendite non solo nei settori tradizionali ma anche in quelli a più elevato valore aggiunto – ad esempio gli apparecchi elettronici in Brasile (che hanno registrato un +51% nel 2011) o l’elettronica in Giappone (le vendite registrano un aumento di un terzo ogni anno), oppure laddove è il concept del prodotto ad ottenere maggiore riconoscibilità, come il Sistema Casa in SudAfrica (+36,7% nel 2011). La riflessione è frutto di un confronto tra gli itinerari dell’export italiano nel periodo pre-crisi (2006-2008) con quelli del periodo successivo (2009-2011), per mettere in luce le strategie adottate dalle imprese italiane nei mercati internazionali. Nei settori più dinamici, cioè quelli con una crescita annua più rilevante delle esportazioni, vi sono i metalli e i prodotti di ferro e acciaio utilizzati nell’edilizia da parte delle industrie estere: maggiori incrementi si registrano soprattutto a livello mondiale (+22,4%) e al di fuori dell’Ue (+23,6%), rispetto ai paesi Ue comunque in crescita (+20,4%).
Il settore agro-alimentare italiano sembra perdere impatto nei paesi extra-europei e si riduce nel contesto comunitario (soprattutto in Spagna e nel Regno Unito), così come quello dei mezzi di trasporto in àmbito europeo (mantengono il primato Russia con una crescita annua dell’export del +97,3%, India del +37,1%; entrambi i settori trovano spazi di intervento in Cina – +49,5% – a discapito dei prodotti farmaceutici).
Probabilmente, l’inasprimento delle misure protezionistiche, le barriere fitosanitarie introdotte in alcuni paesi, oltre ai sistemi doganali, hanno condizionato negativamente l’esportazione di prodotti alimentari italiani. Il settore della meccanica continua a offrire un importante contributo alle esportazioni: rappresenta un quarto delle vendite dei prodotti italiani all’interno dell’Ue (dato superiore alla media mondiale del 20%).
È questo un comparto particolarmente apprezzato dai paesi extra-europei, a eccezione del Giappone dove è il settore moda a essere il primo segmento rilevante (circa 30%) e della Turchia dove è importante il contributo offerto dalla metallurgia (23,3%). Infine, rispetto al grado di specializzazione, appare strategico l’export di macchinari verso i paesi Ue a 27; ma raggiunge buoni risultati anche nei Grandi Sistemi Paese come Brasile, India, Cina e Sudafrica che stanno attuando rilevanti processi di industrializzazione. È in questi paesi che la capacità produttiva italiana si trasforma in macchinari di qualità per i prodotti realizzati in loco. L’alto grado di specializzazione nel settore alimentare si conferma in Germania, Regno Unito e negli Stati Uniti, mentre in Svizzera e in Giappone, rispetto alla media mondiale, si distingue il comparto chimico-farmaceutico, in cui l’Italia anche a livello di ricerca è all’avanguardia.
Il settore dell’abbigliamento-tessile acquisisce spazio nel mercato russo, l’arredamento è oggetto di maggior interesse per la Francia, mentre in Spagna ottiene maggiore appeal l’elettronica. Secondo l’ICE, il valore complessivo delle esportazioni italiane è salito dell’11,1% tra il 2010 e il 2011, registrando un dato pari a 368 miliardi di euro. La crescita è stata sostenuta soprattutto per gli operatori di maggiori dimensioni come nel 2010, diversamente da quanto registrato nel 2009, quando l’aumento della flessione delle esportazioni era in correlazione con il crescere delle dimensioni aziendali. Allo stesso modo, nel momento della ripresa l’aumento delle esportazioni ha seguito un andamento simile alla dimensione aziendale, segnando così un recupero della quota delle imprese più grandi sulle esportazioni.
L’ampliamento delle multinazionali italiane sta diventando una caratteristica dell’attuale fase del processo di internazionalizzazione dell’Italia: nel 2011 è aumentato, infatti, il numero di partecipate estere (27.191 unità), mentre è in leggera flessione il numero degli addetti all’estero (1.557.000 unità). Sempre secondo il Rapporto ICE, le imprese italiane che investono all’estero sono quasi 8.000 unità; si tratta di aziende di piccole e medie dimensioni: il 61,2% hanno meno di 50 addetti, il 29,5% hanno un numero compreso tra 50 e i 249 addetti, il 9,3% sono quelle composte da meno di 250 dipendenti. Questi dati sono sostanzialmente confermati dallo stesso studio nel 2012 (oltre 27.000 partecipazioni estere, circa 1.585.000 addetti e più di 8.000 aziende investitrici), evidenziando un processo di lungo termine, espressione del progressivo miglioramento delle strategie di internazionalizzazione.
Sono le imprese più piccole a esprimere un maggiore interesse con proprie partecipate nei mercati esteri; le imprese di dimensioni intermedie (da 50 a 249 dipendenti) hanno sviluppato la propria attività in àmbito internazionale attraverso investimenti greenfield e acquisizioni. Infatti, proprio per le caratteristiche del sistema economico italiano con pochi grandi gruppi multinazionali e una costellazione di piccole imprese, sono i gruppi multinazionali di medie dimensioni ad avere un ruolo attivo nel processo di internazionalizzazione dell’Italia.
Se in generale si registra una maggiore facilità di accesso ai mercati esteri da parte delle aziende più grandi, rispetto al settore manifatturiero sono le aziende di medie dimensioni che registrano una maggiore propensione all’esportazione (si considera il valore delle esportazioni per addetto). In particolare, nei settori manifatturieri tipicamente Made in Italy – dall’alimentare, al tessile e all’abbigliamento, sino all’arredamento – il contributo delle piccole e medie imprese è più elevato della media, mentre le imprese con almeno 250 addetti offrono il maggiore contributo nell’industria estrattiva e petrolifera, nell’elettronica, nel settore dei mezzi di trasporto e dei servizi di telecomunicazioni e delle utilities. Inoltre, secondo il Rapporto ICE 2013, il numero degli esportatori italiani è cresciuto ancora nel corso del 2012, così come è in aumento il grado di diversificazione geografica delle esportazioni (numero medio di mercati per impresa). È quindi interessante segnalare che, nonostante il periodo di crisi e il rallentamento del commercio mondiale, il numero delle imprese esportatrici è continuato a salire. Tutto ciò potrebbe essere segno di una robustezza del tessuto imprenditoriale oppure, probabilmente, è conseguenza dell’effetto di deprezzamento dell’euro che permette anche alle piccole e piccolissime imprese di presentarsi nello scenario internazionale.
Se questi sono alcuni punti di forza dell’economia italiana, è bene ricordare che le possibilità di contrattazione su scala mondiale sono ridotte anche per la presenza di un numero esiguo di grandi gruppi, la circoscritta presenza italiana in settori importanti come quello dell’alta tecnologia e le conseguenti limitate opportunità di spesa in ricerca e sviluppo. Ne discende una grande ed evidente crisi di competitività, soprattutto nei confronti dei paesi emergenti dell’Asia e in primis della Cina, diventato un concorrente di primo piano in diversi settori manifatturieri Made in Italy.
L’Italia si presenta ancora con una struttura economica di primaria importanza: è l’ottava potenza economica per Pil, quarta per produzione mondiale nel manifatturiero e può vantare circa 1.022 nicchie di eccellenza di prodotto. Inoltre, nel comparto manifatturiero l’Italia è la seconda nazione in Europa e la quinta al mondo per valore aggiunto. Anche nel 2011 l’Italia si è posizionata al secondo posto, dopo la Germania, tra i paesi più competitivi nel commercio estero come registrato dal Trade Performance Index Unctad WTO.
Secondo quanto registrato dalla Fondazione Edison, nel 2012 il valore dell’export manifatturiero delle imprese italiane è di 373 miliardi di euro e l’attivo di 94 miliardi di euro, i più elevati valori raggiunti. Lo scenario così delineato mette in luce la qualità del sistema produttivo italiano e le specialità che attirano l’attenzione dei gruppi francesi, coreani, cinesi e asiatici che da tempo considerano l’Italia il bacino adatto per attrarre aziende che si distinguono per una rinomata cultura imprenditoriale, creatività e prestigio, elementi indispensabili oggi che i mercati si sono ampliati. Cambiano i luoghi e le regole della competizione.
Se la globalizzazione dei mercati è tra le principali cause di tale fenomeno con le opportunità offerte agli investitori di tutto il mondo (come Cina, Russia, Sud-Est asiatico, Medio Oriente) a vantaggio chiaramente di quelli che hanno finanze e risorse umane, si creano interessanti condizioni che sotto il profilo finanziario difficilmente possono essere sfruttati dai pochi grandi gruppi italiani, i quali non dispongono dei capitali e delle risorse per sostenere l’impatto di tali investimenti. Talvolta, queste acquisizioni diventano comunque occasione di crescita per i gruppi italiani che conoscono così una nuova fase produttiva e di espansione commerciale, individuando un sentiero positivo del business.
Si parla sempre più spesso di “shopping dissennato di brand Made in Italy”. Negli ultimi anni, con modalità e interessi differenti, imprenditori francesi, cinesi, giapponesi, arabi e americani si presentano in Italia affascinati dalle competenze e dalle capacità degli ingegneri, dei designer e degli operai, cogliendo rinnovate opportunità di investimento e di business per il futuro. Infatti, nonostante l’insieme delle statistiche a una prima lettura definisce un’immagine spesso negativa o perlomeno in chiaro-scuro dell’economia italiana, ancora oggi il nostro Paese è in grado di “fare la differenza” quando si tratta di realizzare non solo abiti e gioielli di lusso, ma anche tutti quei prodotti che dalla rubinetteria, agli arredi della cucina, ai giocattoli sino ai componenti per gli aerei, vengono apprezzati in tutto il mondo.
Le aziende devono necessariamente individuare la strategia di impresa e la struttura del management per poter crescere e trovare spazio nei mercati internazionali. È questo un passaggio affrontato dalle aziende italiane con modalità differenti, tra le quali vi è la partecipazione a un grande gruppo estero che ha acquisito nel tempo capitali finanziari e capacità imprenditoriali tali da possedere una buona distribuzione nei diversi paesi del mondo. Dal lato opposto, nello scenario italiano vi sono imprenditori di successo come Versace o Luxottica che confermano la propria volontà e l’impegno a mantenere la proprietà e la gestione dell’impresa, pur affrontando i continui cambiamenti del mercato e le difficoltà del sistema produttivo italiano. La crisi economica è tale da mettere in pericolo anche le aziende più forti e rinomate, ma vi sono altre strade alternative oltre a quella della vendita a fronte di una buona offerta. Probabilmente anche perché molte delle realtà imprenditoriali italiane, con una lunga storia oramai alle spalle, vivono in questi anni quella delicata fase del passaggio generazionale che richiede una forte capacità di rinnovamento e di indirizzo, che assicurino continuità e successo. Secondo gli esperti, infatti, sono necessari investimenti e una buona dose di coraggio per percorrere la strada verso la quotazione in Borsa. È questa una possibilità per difendere e far crescere un’industria manifatturiera specializzata, fatta di artigianalità e conoscenze – come spiega Andrea Guerra di Luxottica – che, attraverso la quotazione in Borsa, si può aprire al mondo e affrontare le sfide sempre nuove dello scenario globale. Nel passato i francesi avevano apprezzato imprese come la Edison, la Parmalat e la Bnl, mentre oggi il settore che attrae maggiormente gli investitori esteri è quello del lusso: tutti vogliono comprare perché un domani si riusciranno a raccogliere notevoli profitti dall’artigianato, dal gusto e dalla ricercatezza tipicamente Made in Italy.
Infatti, già in passato il passaggio di proprietà ha comportato uno svuotamento complessivo delle società acquisite, con la delocalizzazione della produzione e spesso con la chiusura di stabilimenti e la perdita di occupazione; successivamente, per produrre prodotti tipicamente italiani le aziende straniere si sono organizzate con l’importazione delle materie prime necessarie e oggi è oramai riconosciuta la tendenza ad acquistare direttamente marchi storici. Allo stesso tempo, imprenditori e manager mettono in luce l’altro lato della medaglia, quello riguardante le possibilità di sviluppo e di business che possono derivare dalle operazioni di acquisizione. D’altronde, partecipare all’attività di una realtà imprenditoriale solida e innovativa potrebbe offrire l’accesso ai mercati emergenti laddove l’impresa italiana, ad esempio, fatica ad arrivare, con un ampliamento della distribuzione. Non sempre, infatti, con la vendita delle aziende si procede alla delocalizzazione degli impianti produttivi oppure alla riduzione del personale e, dietro la notizia della perdita di un brand italiano, può esserci pure una nuova fase di sviluppo che rappresenta un auspicabile momento di ristoro che segue i gravi effetti della crisi.
Gusto all’italiana: il settore agroalimentare
Un settore di particolare interesse per gli investitori esteri è sicuramente quello dell’alimentare-bevande. Molti sono i marchi di prodotti rinomati della cucina italiana attualmente di proprietà straniera; curiosamente alcuni sono passati da una proprietà all’altra per poi tornare italiani. Il fenomeno della vendita delle aziende italiane alimentari inizia a partire dagli anni Settanta.
Unilever. È nel 1974 che la Unilever, multinazionale anglo-olandese, attualmente quarta impresa del largo consumo in Italia con un giro d’affari di 1,4 miliardi acquisisce la Algida, fondata a Roma nel 1945 da Italo Barbiani, attualmente una delle eccellenze del portafoglio di marchi della multinazionale. Sempre nel settore dei gelati acquisisce la Sorbetteria Ranieri, ormai chiusa da 10 anni. Ma la Unilever acquista nel corso degli anni marchi storici italiani anche in altri settori del mercato alimentare: nel settore del riso acquisisce la Riso Flora, impresa specialista del Riso Parboiled nata sul finire degli anni Sessanta (riacquistata successivamente dalla Colussi); nel settore dell’olio invece acquista nel 1993 la Bertolli, impresa alimentare fondata nel 1865 a Lucca specializzata nel settore dell’olio d’oliva, in seguito ceduta al Gruppo spagnolo Deoleo SOS; infine, nel settore confetture e conserve acquisisce la Santa Rosa, impresa nata a Bologna nel 1968 produttrice di confetture e conserve di pomodoro, la quale tuttavia ritorna ad essere italiana insieme a Pomodorissimo nel 2011, grazie alla loro acquisizione da parte di Valsoia, società bolognese fondata nel 1990 specializzata nella produzione di alimenti vegetali e salutistici.
Kraft Foods. La più grande impresa alimentare dell’America settentrionale e la seconda multinazionale alimentare al mondo, acquista inizialmente diverse realtà italiane del settore lattiero-caseario: nel 1984 l’impresa Fattorie Osella, nata nel 1925 presso Caramagna in Piemonte e nel 1985 il marchio Invernizzi, rivenduto nel 2003 alla francese Lactalis. Successivamente, tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, acquisisce diverse aziende fondamentali nei settori dei salumi e della pasta: la Negroni, impresa cremonese produttrice di salumi fondata a Cremona nel 1907 (tornata italiana nel 2002 grazie al Gruppo Veronesi), il marchio Simmenthal, fondato nel 1923 a Monza, e il Gruppo Fini, fondato a Modena nel 1912 specializzato nella produzione di pasta ripiena e salumi. In seguito, ognuna di queste tre società tornerà ad essere italiana. La Kraft nel 1992 infatti acquista la Splendid, marchio di caffè espresso fondato a Torino nel 1969 presso la torrefazione Società Generale del Caffè, già rilevata nel 1972 dall’americana ProcterandGamble; nel 2007 acquisisce la Saiwa, marchio alimentare fondato a Genova nel 1900 specializzato in cracker, patatine e biscotti, dopo che era passata sotto il controllo della multinazionale americana Nabisco nel 1965 e successivamente, nel 1989, del francese Gruppo Danone.
Nestlé. L’azienda svizzera, la più grande al mondo nel settore alimentare, amplia la sua presenza in Italia già nell’immediato dopoguerra acquistando nel 1948 la Maggi, nota per i dadi e l’omonimo brodo, mentre nel 1961 acquisisce la Locatelli, azienda di prodotti caseari nata nel 1860 e rivenduta alla Lactalis nel 1998, e La Gragnanese, impresa specializzata nella produzione di conserve vegetali. Nel 1988 acquista il Gruppo Buitoni, quattro anni dopo essere passato sotto il controllo della CIR di De Benedetti. Per quanto riguarda il settore dolciario, fondamentale è l’acquisto nel 1988 della Perugina, nata a Perugia nel 1907, marchio storico di prodotti dolciari italiani conosciuto in tutto il mondo grazie soprattutto al famoso Bacio Perugina. Nel settore della salumeria acquisisce Vismara, nata a Casatenovo nel 1898 e specialista del prosciutto cotto e del prosciutto crudo stagionato (passata poi alla Ferrarini). Le acquisizioni continuano nel settore dell’olio d’oliva con l’inglobamento della Sasso, impresa nata a Oneglia nel 1860, la quale, dopo essere passata alla Nestlé, torna ad essere italiana nel 2003 con la sua acquisizione da parte dell’impresa ligure Minerva Oli S.p.A., la quale però diventerà spagnola nel 2005 perché acquistata a sua volta dalla Deoleo, mentre nel settore della pasta la Nestlé acquista Pezzullo, il pastificio nato a Eboli nel 1940, ma anch’esso come la Buitoni viene acquisito dal Gruppo TMT nel 2005. Nel settore dei sughi e delle conserve la più importante acquisizione da parte della Nestlé è quella riguardante la Berni (oggi Co.Pad.Or.), impresa specializzata nella produzione e nella grande distribuzione di mostarde, di vegetali sottaceto e di aceti speciali a marchio Louit Frères, sottoli, salse, sughi, passate, e della nota linea di prodotti Condiriso, Carciofotto e Condipasta. Nel 1993 la Nestlé acquisisce tramite privatizzazione la Italgel, impresa italiana nata nel 1960 e specializza nel settore della pasticceria e alimenti surgelati, proprietaria dei marchi Gelati Motta, Valle degli Orti, Surgela, la Cremeria, Maxicono, Marefresco, Voglia di Pizza, Oggi in Tavola, Antica Gelateria del Corso, il Gruppo Dolciario Italiano e il marchio Alemagna, i quali torneranno nel 2009 ad essere italiani con il loro acquisto da parte della Bauli. Infine, nel 1998 è il turno del settore bevande, e quindi della Sanpellegrino, impresa nata nel 1899 a San Pellegrino Terme e specializzata nella produzione di acqua minerale e bibite analcoliche, acquisita insieme ai suoi marchi Levissima, Panna, Recoaro, Pejo, San Bernardo, la Claudia.
Bsn-Gervais-Danone. Durante gli anni Ottanta e Novanta la Kraft e la Nestlé anche il Gruppo francese Bsn-Gervais-Danone acquisisce marchi importanti dell’industria alimentare italiana come la Saiwa, la Galbani, acquisita nel 1989 e rivenduta nel 2002 al fondo di private equity BC Partners che a sua volta la cede al Gruppo francese Lactalis nel 2006; il marchio Agnesi, il più antico pastificio d’Italia nato nel 1824 nella provincia di Imperia, progressivamente inglobato dalla Bsn-Gervais Danone tra gli anni Ottanta e Novanta per poi essere riacquistato nel 1999 dal Gruppo italiano Colussi. Il settore maggiormente interessato dalla politica di acquisizioni aziendali della Bsn-Gervais Danone è quello delle bevande analcoliche: nel 1987 il Gruppo francese acquisisce il Gruppo Sangemini-Ferrarelle, comprendente i marchi Sangemini, Ferrarelle, Fabia, Boario, Fonte di Nepi. Oggi il Gruppo è passato all’italiana Italacqua.
Nel 1982 la Pernigotti cede la Sperlari alla multinazionale statunitense Heinz, che nel 1993 la cede a sua volta alla Hershey Foods Corporation. Nel 1997 la Sperlari viene nuovamente venduta alla finlandese Huhtamaki OYJ e nel 1999 passa all’olandese CSM NV. Attualmente la Sperlari, insieme alle italiane Saila, Dietorelle, Dietor e Galatine, fa parte della Leaf Italia S.r.l., società controllata dall’olandese Leaf International BV, impresa leader del mercato delle caramelle in Svezia, Olanda, Finlandia e Belgio e al secondo posto in Norvegia, Danimarca e Italia.
Nel 1993 il Gruppo Bacardi, produttore e distributore statunitense di alcolici, soprattutto rum, acquisisce la Martini e Rossi, impresa fondata nel 1863 a Torino, leader nel settore italiano di aperitivi e spumanti e famosa in tutto il mondo per i suoi prodotti che vanno dal vermut ai vini liquorosi, dallo spumante al gin, dal calvados al cognac e alla vodka, dando vita al Gruppo Bacardi-Martini.
Nel 1992 la Cinzano, impresa produttrice di alcolici specializzata in vermouth e spumanti con origini antichissime, risalenti al 1568, viene acquistata dalla “International Distillers Vintners” del Gruppo americano Grand Metropolitan, tornando italiana nel 1999 con il Gruppo Campari.
Anche il marchio Vecchia Romagna passa nelle mani della Grand Metropolitan durante i primi anni Novanta, ma anch’esso tornerà ad essere italiano, entrando a far parte dal 1999 del Gruppo Montenegro.
Nel 1997 la svizzera LindtandSprüngli, multinazionale specializzata nella produzione di cioccolato di lusso, acquisisce la Caffarel, impresa dolciaria fondata nel 1826.
Nel 1995 la Stock, storica impresa triestina di liquori e distillati nata nel 1884, diventa di proprietà della tedesca Eckes AG, società leader in Germania nella produzione e distribuzione di alcolici e succhi di frutta. Successivamente, nel 2008 la società tedesca cede la Stock al fondo di investimento statunitense Oaktree Capital Management, che comunica nel 2012 la chiusura dello storico stabilimento triestino dell’impresa per trasferire la produzione nella Repubblica Ceca.
La multinazionale francese Lactalis, gruppo industriale operante nel settore lattiero-caseario, con le acquisizioni dell’ultimo decennio è riuscita a raggiungere una posizione di quasi monopolio nel settore lattiero-caseario italiano. Già nel 1998 la multinazionale francese inizia la scalata del settore comprando la Locatelli dalla Nestlé; sempre dalla Nestlé, acquista nel 2003 la Invernizzi; nel 2005 acquista la Cademartori, uno dei marchi più antichi tra i formaggi italiani, da un altro grande Gruppo francese, Fromageries Bel, entrato in possesso dell’impresa nel 1994, diventando così in quegli anni il secondo operatore del settore in Italia dopo la Galbani. Ma proprio l’anno successivo all’acquisizione della Cademartori, nel 2006, la Lactalis ingloba anche la Galbani, ceduta dal fondo di private equity BC Partners; infine, nel 2011 conquista l’83% dell’intero Gruppo Parmalat diventando così leader mondiale nel settore dei latticini con un fatturato di 14,7 miliardi di euro, superando la Nestlé (10 miliardi) e la Danone (9,7 miliardi).
Anche l’impresa spagnola Deoleo S.A. è molto attiva negli anni Duemila, tanto che le acquisizioni di questo periodo le permetteranno di raggiungere una quota fondamentale del mercato dell’olio d’oliva a livello mondiale, pari al 22%, e una posizione dominante nel mercato italiano, con una quota del 50% nel settore dell’olio d’oliva e del 33% in quello extravergine: nel 2005 il Gruppo spagnolo acquisisce la Minerva oli S.p.A. e quindi il prestigioso marchio Sasso; nel 2006 la Carapelli, dal 2002 in mano ai fondi di investimento italiani BandS Private Equity Group, Arca Imprese Gestioni S.n.c. e Monte dei Paschi di Siena Venture; nel 2008 acquisisce il marchio internazionale Bertolli unitamente alle licenze per la produzione di olio e aceto balsamico e i marchi Maya, Dante e San Giorgio.
Nel 2003 la Birra Peroni S.p.A., nata a Vigevano nel 1846, comprendente i marchi Peroni e Nastro Azzurro, entra a far parte del colosso sudafricano SABMiller plc, tra i più grandi produttori di birra al mondo con oltre 200 marchi e circa 70.000 dipendenti in 75 paesi.
Nel 2005 la Scaldasole, impresa simbolo della cultura biologica in Italia, in mani straniere già dal 1995 quando viene acquistata dalla statunitense Heinz attraverso la sua controllata Plasmon, impresa leader degli omogeneizzati e dei biscotti per neonati, viene comprata dal Gruppo francese Andros, il quale nel 2007 amplia ulteriormente la sua presenza in Italia acquistando anche Solo Italia, impresa nata negli anni Novanta e specializzata nel settore dei dessert freschi.
Nel 2006 la Star, impresa alimentare brianzola fondata nel 1948 specializzata nella produzione di ragù e brodi e proprietaria di diversi marchi come Pummarò, Sogni d’oro, GranRagù Star, Orzo Bimbo, Risochef, Mellin, viene acquistata dalla spagnola Gallina Blanca del Gruppo Agrolimen.
Nel 2008 la Italpizza, impresa modenese fondata nel 1991 e specializzata in pizza surgelata, viene ceduta alla multinazionale inglese del settore dei congelati Bakkavor Acquisitions Limited.
L’argentino Molinos Rio de la Plata, uno dei Gruppi alimentari maggiori del Sud America, leader nel settore della soia, acquista nel 2008 una quota di minoranza di Delverde Industrie Alimentari S.p.A, pastificio fondato nel 1967 presso Fara San Martino in provincia di Chieti, per poi rilevare nel 2009 il 99,5% dell’impresa italiana.
Il 49% delle quote di Eridania Italia S.p.A., la più grande società saccarifera italiana fondata nel 1899 a Genova, viene acquistato nel 2011 dalla francese Cristalalco Sas, gruppo operante nel settore dello zucchero, dei prodotti alcolici, dell’alimentare e dei cosmetici.
Nel 2011 la Norcineria Fiorucci, impresa nata nel 1850 e specializzata in salumi, pasta, formaggi e aceto balsamico, dopo aver ceduto nel 2005 il 65% delle partecipazioni al fondo statunitense Vestar, viene venduta al Gruppo spagnolo Campofrio Food.
La Ruffino, impresa fondata nel 1877 e produttrice di vini di grande qualità esportati in tutto il mondo, vende progressivamente le proprie quote dal 2004 alla multinazionale americana Constellation Brands; il controllo del Gruppo Gancia passa invece nelle mani della multinazionale russa, leader nel mercato della vodka, Russian standard corporation.
L’impresa vinicola Casa Nova presso Greve, tra Firenze e Siena, una delle 600 aziende socie (di cui, attualmente, due terzi sono di proprietà straniera occidentale e pochissime sono rimaste toscane) del Chianti Classico Gallo Nero, è acquistata da un imprenditore della farmaceutica originario di Hong Kong, che ha voluto mantenere segreta l’identità.
Motori di lusso e non solo; il settore dell’automazione e della meccanica
Le macchine e le moto da corsa italiane, così come i veicoli eleganti o sportivi, hanno da sempre affascinato gli appassionati di tutto il mondo. Se nell’immaginario collettivo i motori efficienti ed eleganti Made in Italy sono sinonimo di raffinatezza e qualità, volendo approfondire che cosa racchiude il settore dell’automazione-meccanica, si scopre un mondo fatto di tecnologia, innovazione e cura del dettaglio di cui il comparto veicoli, prestigiosissimo, è solo la sua manifestazione più accentuata. È proprio per le peculiarità tecniche della progettazione e della realizzazione dei loro prodotti che le aziende italiane suscitano l’interesse degli imprenditori stranieri, a partire dagli anni Ottanta.
Nel 1984 l’impresa, fondata a Pordenone nel 1916, e tra le migliori nella produzione degli elettrodomestici in Europa, viene acquistata dal Gruppo svedese Electrolux. L’acquisizione permise a Electrolux di applicare economie di scala più sensibili, ampliando la gamma di prodotti commercializzati e acquisendo una posizione predominante in Europa e in Italia all’interno del settore. Con questa operazione la Electrolux arriva anche al marchio Rex, creato nel 1933 all’interno della Zanussi e infine i marchi italiani acquisiti dalla Zanussi tra il 1967 e il 1970: Becchi, Zoppas e Castor.
F.I.V.E. Bianchi S.p.A. l ’impresa milanese, conosciuta in particolar modo per la qualità delle bici da corsa prodotte, utilizzate soprattutto dai grandi campioni del passato come Girardengo, Gimondi e Coppi, viene acquisita nel 1997 dalla Cycleurope A.B., compagnia svedese appartenente al Gruppo Grimaldi, riconosciuta come la più importante holding mondiale nel settore ciclismo.
La Pirelli and C. S.p.A. vende nel 2000 la divisione Pirelli Optical Technologies specializzata nella produzione di componenti ottici, alla statunitense Corning Incorporated, impresa produttrice di vetro, ceramiche, materiali per impiego industriale e scientifico, mentre nel 2005 cede la Pirelli Cavi alla banca statunitense Goldman Sachs, la quale, successivamente all’acquisizione, cambia il nome della società in Prysmian.
Alla fine degli anni Ottanta, la proprietà dell’impresa produttrice di macchine per caffè e distributori automatici, Saeco, fondata nel 1981 a Bologna, passa all’uomo di affari austro-statunitense Gerhard Andingler per poi essere riacquistata dai vecchi proprietari e da altri partner italiani nel 1993. Nel 2004 le quote di maggioranza vengono acquisite dalla francese Pai Partners, che rivenderà l’impresa nel 2009 all’olandese Royal Philips Electronics, tra le più importanti al mondo nel settore dell’elettronica e leader in Europa nella produzione di macchine da caffè, con una quota di mercato del 30%.
Cantiere del Pardo. Uno dei marchi storici della vela italiana, costruttore di imbarcazioni apprezzate in tutto il mondo come icone del design Made in Italy, fondato a Bologna nel 1974, viene acquistato nel 2011 dal Gruppo tedesco Bavaria insieme al marchio Grand Soleil e la francese Dufour, posseduta dall’impresa bolognese. Il primo luglio di quest’anno il Gruppo tedesco ha ufficialmente messo in vendita la prestigiosa impresa italiana.
Gruppo Ferretti. La partecipazione straniera nel capitale sociale del Gruppo nato nel 1968 a Bologna risale al 1998. Da questo punto in poi il Gruppo Ferretti, la holding industriale italiana famosa in tutto il mondo, gioiello mondiale dell’ingegneria e delle competizioni sportive navali, ha subito continui cambiamenti di proprietà. L’ultimo nel 2012, quando il 75% delle quote azionarie passa al colosso cinese SHIG-Weichai Group, e le restanti quote vengono ripartite tra la RoyalBank of Scotland (12,5%) e il fondo di investimento statunitense Strategic Value Partners LLC (12,5%).
Atala. La famiglia Rizzato, fondatrice di Atala, impresa di biciclette e motocicli di piccola cilindrata creata nel 1921 a Monza dovette cedere la propria impresa nel 2002. In una prima fase rimane italiana, sotto la proprietà di un gruppo di imprenditori milanesi della Banca Antonveneta. Ma nel 2005 il 50% delle azioni vengono acquistate dalla turca Bianchi Bisiklet, a sua volta inglobata nel 2011 dal Gruppo olandese Accell e rinominata Accell Bisiklet. Il restante 50% delle azioni rimane tuttora in mani ad azionisti italiani che gestiscono l’impresa in piena autonomia.
Dytech-Dynamic Fluid Technologies S.p.A. La storica impresa piemontese è attiva nel settore della progettazione, produzione e vendita di componenti automobilistici, specialmente per la gestione dei fluidi vanta un fatturato di 312 milioni di euro, 3.300 dipendenti in tutto il mondo, ed è presente in Brasile, Argentina, Tunisia, Turchia, Russia, Serbia, Cina. L’impresa viene acquisita nel 2013 dai giapponesi della Tokai Rubber Industries Ltd.
Ducati Motor Holding S.p.A. La casa motociclistica italiana, tra le più famose al mondo, riesce a rimanere italiana fino al 1996 quando viene acquistata dal fondo di investimenti americano Texas Pacific Group. La Ducati torna ad essere italiana nel 2005 grazie all’acquisizione delle quote di maggioranza da parte di Investindustrial Holding S.A., ma nel 2012 la società Audi AG del Gruppo tedesco Volkswagen assorbe definitivamente l’impresa.
Lamborghini. Uno dei prodigi ingegneristici italiani, nato negli anni Sessanta viene ceduto verso la fine degli anni Ottanta, in seguito alla crisi del petrolio e dell’industria dell’automobile, alla statunitense Chrysler, per poi diventare indonesiana dal 1994 al 1998 e infine essere acquisita dal Gruppo tedesco della Volkswagen.
La moda, il lusso e lo stile italiano
Il settore della moda e del lusso Made in Italy ha da sempre contribuito a diffondere nel mondo l’immagine della produzione industriale italiana creativa e di qualità. Simboli di eleganza, raffinatezza e di una lavorazione artigianale, gli abiti e gli accessori di moda realizzati dalle grandi maison o dalle prestigiose aziende italiane sono diventati oggetto di interesse di grandi gruppi stranieri. Le operazioni di cessione dei brand, a parte qualche caso registrato nei primi anni Novanta, sono avvenute in maniera più continuativa a partire dai primi anni del Duemila, e con un enfasi ancora maggiore dal 2010 a oggi.
Nel 1990 la giapponese Edwin International acquista l’impresa di abbigliamento, jeans e abiti per il tempo libero Fiorucci, inaugurata nel 1967 e capace, grazie anche al design e alla creatività di un brand fresco e giovane, di innovarsi e di farsi apprezzare a livello mondiale.
La società giapponese Itochu Corporation, tra le imprese a più alto fatturato riconosciute nella rinomata lista Fortune Globe 500 nel 2013, rileva nel 1992 l’italiana Mila Schön un piccolo atelier d’Alta Moda inaugurato nel 1958 a Milano. E poi ancora: Conbipel (passato nel 2007 agli statunitensi dell’Oaktree Capital Management), Sergio Tacchini (2007 ai cinesi dell’Hembly International Holdings), Fila (2007 ai sudcoreani di Fila Korea), Belfe e Lario (2010 ai sudcoreani di E-Land), Mandarina Duck (2011 ai sudcoreani di E-Land), Coccinelle (2012 ai sudcoreani di E-Land), Safilo (2010 agli olandesi della Hal Holding), Ferrè (2011 ai francesi del Paris Group International), Miss Sixty-Energie, Lumberjack e Valentino S.p.A. (passate tutte nel 2012 al Crescent Hidepark con sede a Singapore).
Il Gruppo Kering-ex PPR fondato nel 1963 da François Pinault, inizialmente impegnato nella produzione di materiali da costruzione e che dalla metà degli anni Novanta diventa uno degli attori di maggior rilievo nel settore della distribuzione. La multinazionale si fa notare per l’acquisto di prestigiosi marchi italiani. Nel 1999 preleva la casa di moda Gucci, nata a Firenze nel 1921 e specializzata in pelletteria artigianale. Nel 2001 il Gruppo Gucci rileva Bottega Veneta, famosa in tutto il mondo per la creazione di beni di lusso caratterizzati da creatività, artigianalità e alta qualità. Un altro brand di successo oggi in mano al Gruppo Kering è Brioni, impresa romana leader nell’abbigliamento maschile su misura di qualità e successo in tutto il mondo. Nel 2013 il Gruppo Kering diventa l’azionario di maggioranza della Pomellato, al 4° posto nel panorama europeo gioielli-making presente nel mondo con 80 monomarca e circa 600 punti vendita.
Lvmh Moët Hennessy-Louis Vuitton. Diretto concorrente è il Gruppo Lvmh che dal 1987 ha registrato una crescita esponenziale, conseguenza di una strategia di sviluppo del marchio e dell’espansione della propria rete di vendita internazionale. Tra i settori del Gruppo Lvmh di interesse del fenomeno oggetto di esame vi sono quelli della moda e pelletteria, orologi e gioielli, selettivamente del comparto moda e lusso. Il leader mondiale del lusso nel suo processo di internazionalizzazione negli anni ha rilevato importanti griffe della moda. Tra i più recenti e rinomati si ricorda nel 2000 l’acquisto dell’impresa del Marchese Emilio Pucci di Barsento, stilista dell’elegante abbigliamento femminile. L’anno successivo è la volta della maison di moda di lusso Fendi, creata nel lontano 1925 da due artigiani pellettieri romani, rinomata per la qualità e il design delle borse e delle pellicce e acquistata da una joint venture paritetica fra la Lvmh appunto e il Gruppo Prada. Gli ultimi anni sono caratterizzati da due importanti acquisti da parte del Gruppo Lvmh. La storica impresa orafa fondata nel lontano 1884 da Sotirio Bulgari in via Dei Condotti a Roma, viene rilevata nel 2011 dal Gruppo Lvmh con un’operazione dal valore di circa 4,3 miliardi di euro. Nel luglio del 2013 il Gruppo Lvmh rileva il celebre marchio del cachemire Loro Piana per due miliardi di euro. L’impresa familiare ha ceduto l’80% delle sue quote al Gruppo francese, conservando una partecipazione nella società pari al 20% e mantenendo le funzioni alla guida dell’impresa.
La raffinatezza dell’arredamento affascina gli imprenditori del mondo
Le acquisizioni per il settore manifatturiero dell’arredo-casa riguardano soprattutto i sotto-settori della ceramica, dell’illuminazione, e dei mobili da cucina, tre dei comparti di maggior eccellenza del Made in Italy. Negli anni Novanta le acquisizioni più importanti coinvolgono la Pozzi-Ginori, la Ceramica Dolomite e le Ceramiche Senesi, mentre più recente (2013) la cessione in mani straniere del Gruppo Marrazzi, leader internazionale nel settore delle piastrelle di ceramica.
Per quanto riguarda il settore dei mobili da cucina, nel 2009 il sammarinese Gruppo Colombini, leader in Italia nel settore delle camere singole, acquisisce la partecipazione totalitaria di Febal Cucine S.p.A. e di Rossana RB S.r.l., due dei più importanti marchi italiani per notorietà.
Infine, nel settore dell’illuminazione da design è l’olandese Royal Philips Electronics ad aggiudicarsi due delle migliori aziende italiane del settore, sia dal punto di vista tecnico che artistico: nel 2009 la Ilti Luce S.r.l., fondata a Torino nel 1989, che in pochi anni diviene leader nell’applicazione delle tecnologie luminose Led all’architettura d’interni; nel 2010 la Luceplan, fondata nel 1978 con sede a Milano, uno dei marchi icona del design italiano da illuminazione.

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25 novembre 2014

Rapporto Eurispes 2013


Tratto da Rapporrto Eurispes

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