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Spreco alimentare e spreco energetico


Ciascuno è tanto infelice quanto esso crede.
Leopardi, Zibaldone

È necessario diminuire il consumo dei combustibili fossili perché il loro utilizzo provoca gravi danni alla salute, al clima e all’ambiente. Emerge la necessità di una maggiore efficienza nell’uso delle risorse e di una riduzione dei consumi, trasversale a tutti i settori dell’economia: dall’edilizia alla produzione, dai trasporti ai servizi. In questo quadro, il settore agroalimentare è caratterizzato da relazioni particolarmente complesse poiché oltre a consumare energia – spesso in modo poco efficiente e quindi con sprechi significativi – riveste anche un ruolo centrale nella produzione di energie rinnovabili.
Nei paesi occidentali le filiere agroalimentari consumano tra il 10 e il 30% dell’energia complessiva; la forbice è dovuta sia a differenze nei sistemi di produzione e distribuzione del cibo, che a differenze metodologiche nelle analisi. L’agricoltura industriale raggiunge rese elevate grazie all’utilizzo di energia fossile, che ha sostituito il lavoro umano e animale: una tonnellata equivalente petrolio corrisponde a oltre 4 anni-uomo di lavoro manuale. L’industria della trasformazione è altrettanto energivora, a causa del confezionamento e delle lavorazioni cui vengono sottoposti gli alimenti; ad esempio, le insalate in busta richiedono un input energetico che può arrivare a 7800 kcal per kg di prodotto, ma forniscono soltanto 200 kcal alimentari. Altre attività che incidono in modo significativo sui consumi energetici della filiera sono distribuzione e trasporto, soprattutto per quanto riguarda la catena del freddo e l’approvvigionamento di beni alimentari dall’estero. Il trasporto di alimenti su lunghe distanze e prevalentemente su gomma può rivelarsi non soltanto inefficiente, ma anche estremamente inquinante.
Questi consumi si traducono in un bilancio energetico largamente negativo per il settore agroalimentare. Negli Stati Uniti per produrre una caloria di cibo sono necessarie circa 10 calorie di energia fossile. In Italia, secondo stime Enea, il consumo finale di energia del settore agricolo per il 2010 è stato di circa 3,06 Mtep (2% circa del totale), mentre quello del settore agroalimentare è stato di 19,46 Mtep, pari a circa il 15% del consumo finale complessivo di energia.

Sprechi nel settore agroalimentare: un doppio spreco di energia
A consumi elevati si aggiungono sistemi produttivi poco efficienti. Secondo stime Fao (2011), circa un terzo del cibo prodotto e distribuito nel mondo viene sprecato lungo la filiera. Questo spreco comporta anche un doppio spreco di energia: da un lato le grandi quantità di input energetici utilizzati nella filiera, dall’altro l’energia alimentare prodotta ma non consumata.
Negli Stati Uniti il consumo energetico attribuibile ai rifiuti alimentari (incluso lo spreco di cibo) è pari al 2,5 % del totale nazionale.
In Italia, ipotizzando una percentuale di cibo sprecato del 20% – in realtà relativamente bassa – circa il 3% del consumo finale di energia sarebbe attribuibile allo spreco alimentare. Questo dato è equivalente ai consumi energetici finali di circa 1.600.000 italiani. Se si considera che, nel 2010, la produzione agricola italiana lasciata in campo è stata di oltre 1,5 milioni di tonnellate, pari al 3,2% della produzione totale e che i relativi consumi dell’agricoltura sono stati, nel 2010, pari a 3,06 Mtep (Enea 2011), il costo energetico dello spreco di cibo in agricoltura è stimabile in circa 98 Ktep (0,098 Mtep; 1tep=1tonnellata di petrolio equivalente)). Includendo anche l’industria alimentare, i cui consumi energetici sono stati pari a 3,1 Mtep (Enea 2011) e il cui spreco è stato pari a circa il 2,6% del prodotto finale, il costo energetico dello spreco di cibo nei primi due segmenti è stimabile in circa 178 Ktep. Con quest’energia, sarebbe possibile riscaldare per un anno ca. 122.000 appartamenti da 100 m2 di classe G, o 312.000 di classe C, o 730.000 di classe A (stime Unibo su valori Eni).
Gettare cibo ancora consumabile non significa soltanto aver utilizzato inutilmente le risorse impiegate nei processi produttivi, ma anche sprecare l’energia chimica contenuta negli alimenti.
In uno studio condotto in un ipermercato di Bologna, è stato rilevato che in un anno vengono smaltiti come rifiuto fino a 92.000 kg di cibo commestibile. Questa quantità, tradotta in termini di energia chimica (alimentare), equivale a perdere ca. 310.000 kcal al giorno, di cui quasi un terzo è rappresentato dalla carne. Si è stimato che con questi 252 kg di cibo sarebbe possibile fornire una dieta giornaliera completa ed equilibrata per 18 persone. Allo stesso tempo, sarebbe possibile fornire una dieta giornaliera parziale ad altre 323 persone (stime Unibo).

Il settore agroalimentare come produttore di energie rinnovabili: tra competizione e integrazione
Consumi e sprechi, ma anche opportunità per la produzione di energia rinnovabile: studi dell’Enea (2011) suggeriscono che l’adozione di misure di efficienza energetica e l’utilizzo di energie rinnovabili potrebbe garantire, tra risparmi di energia e produzione potenziale, almeno 11 Mtep, pari al 56,5% dei consumi del settore agroalimentare.
Gli scarti della filiera agroalimentare potrebbero rivelarsi un’importante fonte di energia rinnovabile, integrabile con le produzioni alimentari. Ad esempio, i residui colturali potrebbero garantire importanti risorse. Da uno studio del Centro ricerche produzioni animali emerge che a livello nazionale la quantità di biomassa da scarti agricoli potrebbe garantire la produzione di 6,5 miliardi di m3 di gas metano equivalenti, corrispondenti ai consumi (per riscaldamento e uso domestico) di oltre 16 milioni di cittadini italiani. Nella sola regione Emilia- Romagna sarebbe possibile ricavare da alcuni scarti di lavorazione industriale (mais, pomodoro, patate, leguminose) circa 11 milioni di m3 di biometano, utilizzabili per i consumi di metano (per riscaldamento e uso domestico) di circa 28.000 italiani.
Nella fase di consumo, inoltre, i rifiuti alimentari potrebbero essere recuperati a fini energetici, diminuendo la quantità di Rsu (rifiuti solidi urbani) da smaltire. Se le circa 46000 t/anno di rifiuti alimentari prodotte dalla città di Bologna fossero recuperate e opportunamente trattate in un impianto per la produzione di biogas, sarebbe possibile ricavare circa 4 milioni di m3 di biometano, che potrebbero sostituire quasi interamente il metano di origine fossile (o un terzo del gasolio) consumato dall’azienda di trasporto pubblico locale (stime Unibo su dati Normanno 2010). In conclusione, sistemi agroalimentari virtuosi potrebbero rivestire un ruolo importante per un utilizzo più sostenibile ed efficiente dell’energia, attraverso l’impiego dei residui agricoli e produttivi come fonti di energia, il recupero dello spreco alimentare e la sensibilizzazione verso scelte di consumo individuale più responsabili.

12 dicembre 2014

LOGO Matteo Vittuari, Fabio De Menna - da Ecoscienza 5/2014

Dipartimento di Scienze e tecnologie agroalimentari, Università di Bologna.

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Tratto da www.ecoscienza.it

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