Nessuno ti restituirà piú i tuoi anni, nessuno ti renderà un’altra volta a te stesso. La vita proseguirà lungo la strada per cui si è avviata, senza fermarsi né tornare indietro. E lo farà in silenzio, senza rumore, senza nulla che t’avverta della sua velocità. Non c’è ordine di re né volontà di popolo che possa prolungarla; correrà com’è partita il primo giorno, senza deviazioni né soste. Cosa accadrà? Tu sei affaccendato, ma la vita ha fretta: intanto arriverà la morte e per lei, tu lo voglia o no, il tempo dovrai trovarlo.
Seneca, De brevitate vitae
Il
De brevitate Vitae è un'opera dedicata a Pompeo Paolino, cavaliere originario di Arles e prefetto dell'Annona. Seneca cerca di convincerlo a lasciare le sue attività pubbliche e a dedicarsi allo studio della filosofia. Le argomentazioni usate dal filosofo si imperniano sul valore del tempo e la necessità di metterlo a frutto nel modo migliore. Se gli uomini non sprecassero la propria vita in sterili occupazioni, se non se la lasciassero scivolare tra le dita, si accorgerebbero che essa non è affatto breve, come sembra quando ad assorbirla sono invece le preoccupazioni materiali. Di questo trattato resta impressa non tanto la scala di valori in base alla quale Seneca impartisce le sue istruzioni sul corretto uso della vita, quanto la riflessione sul rapporto che lega l'esistenza al tempo. Si può "esistere" a lungo eppure non avere "vissuto a lungo" e questo perché passato, presente e futuro hanno una consistenza diversa, a seconda di come vengono valorizzati. "La vita si divide in tre tempi: passato, presente e futuro. Di questi il presente è breve, il futuro incerto, il passato sicuro. Solo su quest'ultimo, infatti, la fortuna ha perso la sua autorità, perché non può essere ridotto in potere di nessuno". In un'epoca come la nostra in cui il tempo è un valore ancor più prezioso di quanto non lo fosse per Seneca, questo insegnamento rimane uno dei più attuali e difficili da mettere a frutto.
Con un dialogare vivace e discorsivo, Seneca comincia da subito a criticare quanti si lamentano per la brevità della vita umana, non risparmiando nemmeno personaggi famosi per la loro sapienza come Ippocrate, fondatore della medicina “scientifica”, e Aristotele. A detta di Seneca l'esistenza umana non è breve, ma viene resa tale dalla nostra incapacità di adoperare il tempo che ci è stato assegnato in maniera proficua. Molti infatti sprecano i propri giorni negli affari pubblici (i
negotia), ora impegnandosi in una campagna elettorale, ora ascoltando i propri clienti, ora contendendosi un’eredità. Tutto questo avviene perché non ci si rende conto del fatto che il tempo è il nostro bene più prezioso. Gli uomini sono spesso restii a dare il proprio denaro, ma concedono con facilità il proprio tempo, non rendendosi conto che è proprio questa l'unica cosa per cui sia giusto essere avari: "Sono avari nel tenere i beni; appena si giunge alla perdita di tempo, diventano molto prodighi in quell’unica cosa in cui l’avarizia è un pregio".
Quelli sempre "occupati" - così Seneca definisce, quasi con disprezzo, le persone impegnate in attività non essenziali - sprecano il presente, che è l'unico tempo veramente in loro possesso, e rimandano alla vecchiaia il momento in cui potranno finalmente dedicarsi all'otium. Seneca rafforza questa sua teoria citando le parole di tre celebri occupati che lasciarono nei loro scritti lamentele di questo tipo: l'imperatore Augusto, il retore Cicerone e il tribuno della plebe Livio Druso.
Ma non sono solo i
negotia a consumare il tempo degli uomini. Anche le attività svolte nel tempo libero (gli
otia) possono rivelarsi un ostacolo al nostro vivere. Tra queste attività possiamo contare i banchetti, l'attenzione nei confronti del proprio corpo e del gioco della palla, e persino l'eccessiva erudizione storica riguardante fatti di scarsa importanza o in certi casi addirittura meritevoli di essere scordati, come le notizie riguardanti i sanguinosi giochi del circo.
L'unico modo per usare in maniera proficua il proprio tempo consiste dunque nel ritirarsi a vita privata e dedicarsi alla filosofia, la sola attività che consente a chi vi si applica di conoscere il pensiero degli uomini più saggi dell'antichità, con cui possiamo dialogare come se fossero nostri contemporanei, rendendoci di fatto simili a un dio. Per questo Seneca invita il destinatario dell'opera, Paolino, a ritirarsi dalla vita pubblica, poiché solo il saggio vive veramente e, per quanto poco a lungo abbia vissuto, è sempre disposto a morire senza rimpianti, mentre gli occupati non possono dire di aver vissuto veramente.
CONTESTO DEL DIALOGO
Il De brevitate vitae fa parte di un gruppo di dodici dialoghi scritti da Seneca. Ma il termine “dialogo” è nel caso di Seneca estremamente fuorviante: se si esclude il
De tranquillitate animi, la forma assunta da queste opere non è per nulla simile ai dialoghi platonici o aristotelici, dove in maniera simile a uno spettacolo teatrale due o più personaggi si scambiano le rispettive opinioni all'interno di un discorso in certi casi anche molto simile al parlato. In Seneca l'unico a parlare è sempre l'autore, mentre la sola forma di contraddittorio si trova nelle rimostranze che l'autore stesso immagina che si potrebbero rivolgere alle teorie che espone (è l'artificio retorico del finto contraddittore). In tal senso, in Seneca “dialogo” va inteso nel senso originario di “trattazione, dissertazione”.
Per quanto la tradizione filosofica latina di cui Seneca era erede avesse al suo interno opere come le
Tusculanae disputationes di Cicerone, in cui la presenza dell'interlocutore era quasi del tutto assente, il vero modello dei Dialoghi erano le diatribe popolari. Questo genere letterario era sorto in età ellenistica nell'ambito della filosofia cinica. A differenza delle altre scuole filosofiche quella cinica, fondata da Diogene di Sinope e basata sul principio dell'autosufficienza e dell'inutilità delle ricchezze, era molto vicina al popolo. Per diffondere la propria filosofia i cinici si recavano spesso al mercato, attiravano l'attenzione della gente rotolandosi per terra o compiendo altre azioni strane e cominciavano a declamare discorsi di varia natura, per lo più rivolti contro il lusso, il commercio e le altre attività che - a loro dire - non erano necessarie all'uomo. Le diatribe erano dunque nate per diffondere il sapere filosofico tra persone che non erano “addette ai lavori” e proprio per questo motivo dovevano avere un linguaggio semplice e vicino al parlato, un’argomentazione non troppo complessa e alla portata di tutti e privilegiare temi di natura etico-morale. Il discorso non aveva inoltre una struttura predefinita, ma l'autore improvvisava sfruttando gli spunti che venivano tratti dall'argomento stesso della diatriba. Frequenti erano anche i riferimenti alla vita quotidiana, che svolgevano la funzione di rendere maggiormente comprensibili i concetti più difficili e di attirare l'attenzione dell'uditorio.
Anche all'interno del
De brevitate vitae Seneca fa uso di tutte queste strategie. Frequentissimo è infatti l'utilizzo di esempi, tratti sia dalla vita quotidiana della nobiltà dell'epoca, sia da personaggi famosi come appunto Augusto, Cicerone e Druso. Il continuo utilizzo di domande retoriche e una preferenza per la paratassi ( paratassi (- dal greco
parà, "accanto" e
táxis, "disposizione"- , è un modo di costruire il periodo caratterizzato dall'accostamento di frasi dello stesso ordine, ossia coordinate tra loro) invece che per l'ipotassi (ipotassi - dal greco
hypó, "sotto" e
táxis, "disposizione" - è la strutturazione sintattica per cui il periodo è caratterizzato da diversi livelli di subordinazione), tipico della costruzione del periodo senechiana, rende il suo scritto di lettura veloce e simile al linguaggio parlato. Caratteristica anche l’abilità con cui Seneca concentra il proprio pensiero in brevi frasi argute, mordaci e sentenziose, da cui proviene il netto appello al lettore affinché non sprechi i giorni della sua vita .
Anche la dedica dell'opera a un personaggio proveniente dal ceto degli
equites e probabilmente non esperto di filosofia è servito a tenere volutamente il tono generale della conversazione a un livello medio, evitando tecnicismi o questioni eccessivamente specialistiche. Ma Paolino era pur sempre un personaggio di estrazione elevata e questo fatto escludeva una delle caratteristiche proprie della diatriba, ovvero l'uso di un linguaggio volgare.
Eugenio Caruso - 8 gennaio 2015
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