Platone e Aristotele e tutto lo stuolo di sapienti destinati a seguire orientamenti diversi ricavarono di più dalla condotta di vita di Socrate che non dalle sue parole.
Seneca Lettere morali a Lucilio
Jean-Claude Trichet, presidente della Banca Centrale Europea, nel suo intervento al workshop Ambrosetti di Cernobbio, ha affermato che la scarsa flessibilità del mercato del lavoro è uno dei punti critici della limitata crescita dell’Europa rispetto a quella degli Usa.
Trichet ha sottolineato che negli Usa il ritmo di nascita e scomparsa delle imprese è molto più elevato che in Europa e questo spiegherebbe, in parte, la maggiore mobilità che si riscontra nel mercato del lavoro Usa.
Gli operatori economici, però, non credono che una maggiore flessibilità del lavoro, in Europa, debba essere ottenuta tramite un accresciuto turn over delle imprese, pur ritenendo, oramai, assodato che la flessibilità e la mobilità nel mercato del lavoro sono componenti fondamentali del vantaggio competitivo delle imprese che operano nel villaggio globale dell’economia.
D’altra parte la necessità di ridurre il grado di protezione dell’occupazione, in Europa, ha la sua ragion d’essere anche nella necessità di ridurre la disoccupazione che è molto più alta che negli Usa.
Peraltro, anche in alcuni paesi europei sta facendosi strada il principio che è meglio avere meno rigidità e più occupazione e che la sola attenuazione di alcune rigidità nel mercato del lavoro può esercitare un effetto redistributivo in termini di opportunità.
Quando si parla di ridurre le rigidità del mercato del lavoro si può fare riferimento, fondamentalmente, a due tipologie di interventi: flessibilità delle retribuzioni e flessibilità delle tipologie contrattuali.
Se le retribuzioni si adattano, in tempo reale, ai differenziali di produttività e alle crisi congiunturali, allora l’impresa può adottare strategie che potrebbero consentirle di non perdere competitività. Alcune grandi imprese europee hanno concordato con i sindacati riduzioni di salario a fronte del mantenimento dell’occupazione, ad esempio.
Gli stessi risultati possono essere ottenuti, se l’impresa può godere di una regolamentazione del mercato del lavoro che consenta di stipulare contratti legati alla ciclicità o alla temporalità di crisi o di espansioni.
Con il decreto legislativo 276/2003 (la cosiddetta legge Biagi) si è avuta in Italia una piccola rivoluzione nel mercato del lavoro che ha consentito di aumentare la possibilità di incontro tra domanda e offerta di lavoro e di ridurre la disoccupazione.
La legge, se pur migliorabile, è comunque buona; andrebbe, forse, ammorbidita con un rafforzamento degli ammortizzatori sociali che possano sostenere quei lavoratori momentaneamente usciti dal mercato.
Anche i dati ISTAT del terzo trimestre 2006 confermano la vivacità del mercato del lavoro in Italia.
Il tasso di disoccupazione è sceso al 6,1% (3,6% al Nord, 5,5% al Centro, 10,7% al Sud), rispetto al 7,1% del terzo trimestre 2005. I nuovi posti di lavoro sono 459 mila e riguardano comparti finora in crisi, come quello agricolo. L’aumento dell’occupazione riguarda, in particolare, le donne, con 264 mila unità in più, e la componente degli stranieri, con 172 mila unità lavorative in più. La disoccupazione dei giovani tra i 15 e i 24 anni di età è scesa al 18,9%. Il forte aumento dell’occupazione è da attribuirsi ai contratti a termine; infatti, dei 388 mila nuovi posti di lavoro dipendente circa il 50% riguarda contratti di lavoro a termine. Questi, comunque, sono stabilizzati attorno al 9,8% della popolazione lavorativa (2.249.000 su 23.000.000).
La domanda che gli operatori si pongono è la seguente “E’ meglio avere più lavoro flessibile e più occupazione o più lavoro stabile e più disoccupazione?”. La legge Biagi puntava a conseguire il primo obiettivo e, sembra, ci sia riuscita.
Eugenio Caruso
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