Gioire e rallegrarsi sono prerogattive della virtù; l'ira, invece, si accompagna alla tristezza in cui sempre ricade dopo ogni suo atto, vuoi per rimorso, vuoi per aver fallito lo scopo.
Seneca, De ira
Con questo articolo proseguo la pubblicazione di alcuni stralci del mio libro storico-economico L'estinzione dei dinosauri di stato. Il libro racconta i primi sessant'anni della Repubblica soffermandosi sulla nascita, maturità e declino di quelle grandi istituzioni (partiti, enti economici, sindacati) che hanno caratterizzato questo periodo della nostra storia. La bibliografia sarà riportata nell'ultimo articolo di questa serie di stralci. Il libro può essere acquistato in libreria, in tutte le librerie on-line, oppure on line presso la casa editrice Mind.
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Il federalismo negli anni novanta.
Dall’inizio degli anni Novanta la Lega avvia un’appassionata campagna politica sul federalismo, argomento che da decenni era stato messo in naftalina. I giornalisti, che come al solito si rivelano impreparati alle novità, iniziano un’altrettanto veemente campagna di disinformazione sui rischi che il federalismo farebbe correre al Paese. I media, sempre in vena di ridicolizzare i “barbari leghisti”, si scatenano nell’intervista all’attore, al cantautore, alla pornostar, allo scrittore, allo scienziato, per sottolineare la posizione antifederalista delle “persone importanti”.
Un elemento comune a tutte queste prese di posizione è l’evidente disinformazione su cosa sia il federalismo, su come esso sia stato un’idea portante della rivoluzione risorgimentale in Italia prima che tale rivoluzione venisse imbrigliata dall’espansionismo sabaudo, e su come abbia permeato tutta la storia politica e culturale del Paese. Nell’Italia dei prefetti, lo scontro risorgimentale tra federalismo liberale e unitarismo democratico è stato rimosso da tempo, ma l’azione dei federalisti ha sensibilizzato gli studiosi più attenti e riportato quello scontro sul palcoscenico del dibattito politico. In ogni caso non si è molto lontani dal vero se si afferma che la storia del nostro Paese, dall’unificazione, non presenta elementi certi che possano convincere della bontà dei risultati ottenuti con lo Stato unitario. Semmai elementi opposti: non ultimo la dittatura fascista che di quell’unitarismo è stata l’apoteosi; oppure l’odierno meridionalismo a oltranza, che non accetta l’interruzione del flusso monetario che da Roma e da Bruxelles arriva al Sud per coprire l’incapacità degli amministratori locali, meridionalismo che fa saltare i Governi perché “le cose non cambino”; o, ancora, l’esaltazione stantia dei valori risorgimentali, con il carico di menzogne e favolette che i veri studiosi ben conoscono (Del Boca, 2011; Petacco, 2011).
Intellettuali, uomini politici e della società civile si sono battuti per attuare in Italia un forte decentramento, prima, durante e dopo il Risorgimento, con le
uniche pause degli anni bui del fascismo e del regime consociativo. Scriveva Niccolò Tommaseo: «[…] ogni cosa accerta quanto sia difficile comporre l’Italia in quella materiale unità politica che, da ultimo, riesce tanto comoda al Governo dei despoti». Il rivoluzionario Pierre-Joseph Proudhon scriveva «Non ho mai creduto all’unità d’Italia. È un’idea che ho respinto sul piano dei principi e che contesto sul terreno della pratica. L’immensa maggioranza degli italiani è federalista e la vostra unità, così come l’avete costruita, ci ispira pietà e fastidio. È odiosa e non l’accetteremo per nulla al mondo […] Il movimento dell’unità d’Italia è diventato la politica degli affari. Se vogliamo chiamarla con il suo nome è corruzione. Unità, dunque, centralizzazione, grossi emolumenti, sinecure, monopoli, privilegi, concessioni, regalie». Parole del 1862, attuali come se fossero state scritte oggi.
Com’è stata costruita quell’unità lo spiega Antonio Gramsci: «Lo Stato italiano è una feroce dittatura che ha messo a ferro e fuoco il Sud del Paese e le isole, crocifiggendo, seppellendo vivi i contadini poveri che gli scrittori tentarono di infangare con il marchio di briganti» (Gramsci, 1991). Giuseppe La Farina, patriota siciliano, commentando le annessioni di Toscana, Romagna, Modena e Parma, scriveva: «Io non avea scorto da nessuna parte quell’entusiasmo per l’unità italiana che io mi era atteso di manifestarsi ovunque. Il Piemonte era guardato come uno straniero e un conquistatore. […] per timore si sopporta la dominazione piemontese […] le predisposizioni sarebbero a pigliare le armi contro di noi […]» (La Farina, 1859). Lo stesso Giuseppe Garibaldi fu costretto ad affermare in Parlamento: «Mi avete fatto straniero in patria».
D’altra parte, quando si esalta la retorica del Risorgimento occorre sempre ricordare che le basi dell’unità d’Italia affondano nelle astuzie, nei tranelli, nei doppi giochi e nei tradimenti orditi da quell’uomo «corruttore in politica e insaziabilmente assetato di potere e di denaro» che fu Camillo Cavour, e nella carneficina di francesi e austriaci che si affrontarono il 24 giugno 1959 a Solferino. In quella battaglia gli unici italiani che si distinsero per valore e coraggio furono i veneti che combattevano nell’esercito di Francesco Giuseppe. Lo stesso Cavour era favorevole a un’Italia divisa in tre parti: «La Superiore dal Piemonte alle coste dell’Istria e della Dalmazia con le Bocche di Cattaro sotto il re Sabaudo. La Inferiore sotto il re Borbonico se non si potesse metterne altri. La Centrale sotto il re che più conviene» (Petacco, 2011).
Per Carlo Cattaneo, il capostipite dei federalisti italiani, il federalismo è la più valida garanzia della libertà civile e di quella politica, contro i rischi del dispotismo e dell’oppressione che lo Stato unitario può generare. Anche il fondatore del Partito Popolare, don Luigi Sturzo, fu assertore del primato delle autonomie locali, rispetto alla burocrazia statale e alle sue regole di autoconservazione, mentre Luigi Einaudi affermava che la guerra era il risultato del «dogma funesto della sovranità assoluta». Scriveva infine Norberto Bobbio nel 1945, nel saggio introduttivo al volume di Cattaneo Stati Uniti d’Italia :«Per chi vuol progredire, il federalismo, nella sua faccia rivolta verso il futuro, è una teorica di progresso; la democrazia degli stati accentrati ha già
dato i suoi frutti e sono per la maggior parte frutti avvelenati. Ed è una teorica del progresso perché è una teorica di quell’unico ideale in nome del quale si compie e si matura ogni conquista civile: la libertà» (Cattaneo, 1991).
23 febbraio 2015
Eugenio Caruso da L'estinzione dei dinosauri di stato.
Tratto da L'estinzione dei dinosauri di stato