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Sintesi del rapporto svimez 2014.


Sopportiamo, dunque, copn animo generoso tutto ciò che per legge dell'Universo ci tocca patire.
Seneca, Lettere a Lucilio


Di fronte all’emergenza sociale con il crollo occupazionale e a quella produttiva, con il rischio di desertificazione industriale, serve una strategia di sviluppo nazionale centrata sul Mezzogiorno con una “logica di sistema” e un'azione strutturale di medio-lungo periodo fondata su quattro drivers di sviluppo tra loro strettamente connessi in un piano di "primo intervento": rigenerazione urbana, rilancio delle aree interne, creazione di una rete logistica in un'ottica mediterranea, valorizzazione del patrimonio culturale.
Nel corso degli ultimi anni, si legge nell’Introduzione e sintesi del Rapporto, si è privilegiato un approccio di politica economica attento solo al risanamento dei conti pubblici. Ma le condizioni e le sfida per la ripartenza del Paese possono trovare risposta solo nel campo dello sviluppo, presupposto di qualsiasi ipotesi di crescita. Ciò che serve, dopo diversi decenni, è tornare a riproporre con forza una “logica di sistema” sia dal punto di vista dei soggetti che dei territori, che richiede investimenti strategici anche a redditività differita e una progettazione a lungo termine. Un primo passo in questa direzione sarebbe l’effettivo, rapido sblocco dei 300 miliardi promessi dal nuovo Presidente della Commissione europea, che siano davvero aggiuntivi rispetto all’attuale esiguo budget Ue a favore di grandi investimenti pubblici. In ambito europeo l’Italia e il Sud, stanno subendo uno svantaggio concorrenziale, conseguenza delle “asimmetrie sistematiche” derivanti dalla non ottimalità dell’area euro, acuitesi con l’ingresso nell’Ue nel 2004 dei Paesi dell’Est, che godono di regimi fiscali molto più vantaggiosi. Lo sviluppo del Sud non può essere interamente delegato alle politiche di coesione, che peraltro necessitano di un maggiore sforzo strategico. E le risorse ordinarie devono smettere di essere un vero e proprio “buco nero” nello sviluppo del Mezzogiorno. È cruciale dare un’impronta meridionalistica alle politiche generali nazionali, con interventi che vanno dal funzionamento della PA a servizi essenziali come la scuola, la sanità e la giustizia, fino ad arrivare a una nuova politica attiva del lavoro e politiche di welfare non solo redistributive”.
Secondo la SVIMEZ va aperto un confronto in sede europea sulla base di tre proposte:
1) predisporre strumenti di fiscalità di compensazione da attuare in attesa di politiche fiscali più armoniche;
2) rilanciare gli investimenti pubblici e privati, guardando con attenzione ai nuovi stanziamenti previsti in sede europea;
3) escludere dal computo del rapporto deficit/PIL il cofinanziamento nazionale per le spese di investimenti.
Secondo la SVIMEZ occorre una politica industriale nazionale adeguatamente articolata a livello territoriale e regionale, che torni ad essere componente centrale della politica di sviluppo e coesione, in cui siano privilegiate misure attive e fortemente selettive; sostegno alle grandi imprese attive nei comparti produttivi con importanti vantaggi competitivi; sostegno alle piccole e medie imprese, destinando a quelle meridionali una quota prefissata degli interventi del Fondo Italiano di Investimenti per le Pmi, specifici fondi di private equity, specifici canali di finanziamento per il credito all'export e inserendo nei Contratti di rete misure aggiuntive a favore delle reti di imprese nei POR delle regioni del Sud per il prossimo ciclo 2014/2020; prolungamento temporale del Piano per il Sud del triennio 2013-2015 ed estensione delle misure a favore dell'export a tutte le Regioni del Mezzogiorno, non solo quelle della Convergenza; introduzione di misure di fiscalità di vantaggio per gli investimenti soprattutto esteri.
La priorità per il lavoro resta una politica economica complessiva che favorisca l'aumento della domanda e il miglioramento del modello di specializzazione del nostro sistema produttivo con un impegno specifico per le regioni del Sud, unita a una rinnovata strategia di politiche attive del lavoro e della formazione, anche continua e per adulti: agevolare la transizione scuola-lavoro; rilanciare l'istruzione tecnico-professionale e i contratti di tirocinio formativo e di apprendistato; rendere effettiva la riforma dei servizi pubblici per l'impiego. Per proteggere dalla povertà persone e famiglie a rischio secondo una valutazione SVIMEZ lo strumento universale di contrasto alla povertà (SIA) allo studio del Ministero del Lavoro dovrebbe costare circa 5,6 miliardi l'anno, interessare 1,3 milioni di famiglie, di cui il 52% residenti nel Mezzogiorno.
Per agevolare l'accesso al credito nel Mezzogiorno occorre agire sia dal lato delle imprese che delle banche. Riguardo alle prime andrebbe sostenuto il processo di ricapitalizzazione, da avviarsi con il concorso sia di capitali pubblici che privati, soprattutto in quelle aziende attive nei settori a maggiore potenziale; quanto alle banche, andrebbero smobilizzati i crediti in sofferenza, attraverso l'adozione di un organismo simile alla Bad Bank in grado di rilevare le partite in sofferenza convertendole in liquidità per gli istituti di credito.
Secondo la SVIMEZ occorre mettere in campo una strategia di sviluppo nazionale centrata sul Mezzogiorno, un’azione strutturale di medio-lungo periodo fondata su quattro drivers di sviluppo tra loro strettamente connessi in un piano di “primo intervento”:
- rigenerazione urbana,
- rilancio delle aree interne,
- creazione di una rete logistica in un’ottica mediterranea,
- valorizzazione del patrimonio culturale.

1. Il settore della rigenerazione e infrastrutturazione urbana è uno dei drivers decisivi per riprendere il cammino della crescita. Nelle città meridionali infatti si presentano in forma acuta tre aspetti critici della condizione urbana europea: tassi di disoccupazione più elevati, espansione urbana incontrollata, dissesto idrogeologico. Pur essendo città costiere e portuali con ampi retroterra da valorizzare per migliorare l'attrattivita turistica, le città metropolitane del Mezzogiorno (Napoli, Bari, Palermo, Catania, Messina, Reggio Calabria, Cagliari) continuano a perdere popolazione e a non attrarre, a causa della mancanza di lavoro, popolazione. Diventano luoghi dove aumentano le diseguaglianze di reddito e viene sempre di più meno la capacità di inclusione sociale. Secondo la SVIMEZ occorre rafforzare le strutture nazionali preposte all'attuazione delle politiche per le città, istituendo un soggetto strutturato che abbia capacità di spesa dei fondi europei e di selezione di progetti e attuazione strategica. Serve inoltre un "Programma nazionale per le città" che unisca investimenti infrastrutturali, recupero e bonifica di aree dismesse o sottoutilizzate, interventi di natura fiscale e amministrativa (zone franche, zone economiche speciali, ecc) che attraggano imprese e capitali, con specifico riferimento al Mezzogiorno, capaci di far tornare l'area urbana luogo di opportunità, con attenzione specifica alle caratteristiche del contesto produttivo e sociale, anche con leggi e interventi straordinari, come nel caso di Napoli. Un grande progetto per Napoli dovrebbe basarsi sulla valorizzazione del giacimento di energia geotermica presente nel sottosuolo per attivare il miglioramento energetico degli edifici pubblici e privati, avvantaggiando intere filiere industriali (allevamento, serri coltura, acquacoltura, florovivaismo) oltre a quella di produzione, installazione e gestione degli impianti, così da contrastare l'immagine degradata di cui si è macchiata negli ultimi anni. Serve un "Piano di primo intervento" incentrato sulla rigenerazione urbana promosso dal centro d'intesa con le Regioni capace di riattivare il ciclo economico della riqualificazione edilizia, con la ripresa dell'occupazione; promuovere innovazione tecnologica nello sviluppare tecniche di intervento su edifici da riqualificare; generare innovazione sociale con la partecipazione attiva delle giovani generazioni; stimolare la nascita di nuove imprese per la gestione di aree verdi e urbane riqualificate.
2. Le aree interne costituiscono un patrimonio territoriale di grandissima rilevanza dal punto di vista ambientale e culturale, come serbatoio di aree agricole, forestali e di risorse idriche. Sono particolarmente diffuse nel Mezzogiorno: dei 13,5 milioni di italiani residenti nelle aree interne il 52% vive nel Mezzogiorno. Secondo il DPS oltre il 74% della popolazione lucana abita nelle aree interne, oltre il 52% della popolazione sarda e siciliana. Secondo la SVIMEZ occorre puntare sulla rigenerazione dei borghi con idonei investimenti e agevolazioni fiscali e contributive, promuovere la creazione di filiere energetiche locali strettamente integrate con il processo di riqualificazione, attraverso anche il coinvolgimento di capitali privati, sostenere una strategia di sviluppo della green economy che unisca il mantenimento degli ecosistemi fluviali, la valorizzazione turistica dei territori, la produzione di servizi agricoli ambientali, affiancando alle indicazioni strategiche una solida visione economica, a iniziare da un programma sovraregionale specifico per l'Appennino.
3. L 'area euro mediterranea si va configurando come una zona di libero scambio e spazio unico di produzione. Per posizione geografica, porti e tradizione armatoriale, l'Italia può svolgere un ruolo determinante nelle attività logistiche legate agli scambi internazionali. A differenza del Centro-Nord, le aree meridionali negli ultimi anni e' mancato un disegno di policy dei trasporti e della logistica orientato all'incentivazione degli investimenti di poli logistici retro portuali aderenti ai porti. Occorre quindi secondo la SVIMEZ una vera e propria rivoluzione logistica del sistema produttivo basata sull'incentivazione delle FTL, filiere territoriali logistiche: una rete di imprese, soggetti ed attività economiche appartenenti a una determinata area vasta legate verticalmente e connesse da funzioni logistiche avente per obiettivo l'esportazione, soprattutto su mare, di produzione di eccellenze e i,pirata zio e elaborazione di beni intermedi per la riesportazione di prodotti finiti. La SVIMEZ ha inoltre individuato delle Aree Vaste specifiche nel Mezzogiorno: la Torrese-stabiese-nocerina, la catanese, l'Abruzzo meridionale, il basso Lazio, l'alto casertano, la pugliese, la piana di Sibari e del Metapontino, la Sardegna settentrionale e meridionale. Serve inoltre una riforma di legge strategica delle leggi per i porti e gli interporti così da mettere a sistema le due componenti del sistema logistico nazionale.
4. Negli ultimi Rapporti la SVIMEZ ha evidenziato come il patrimonio territoriale e culturale del Mezzogiorno possa diventare componente chiave dello sviluppo del territorio, attraverso la creazione di un’adeguata offerta di strutture, servizi per l’accoglienza a sostegno dei già presenti musei e beni culturali e altre attività che possano spaziare dall’enogastronomia al folclore. Continua però a essere molto diffusa in alcune regioni meridionali la considerazione secondo cui la cultura sia un “lusso” che non produce reddito. Non a caso, secondo un’indagine SVIMEZ svolta sulla base dei Conti Pubblici Territoriali, la spesa in conto capitale nel settore tra il 2000 e il 2011 è crollata al Sud del 47,5%; negli anni di crisi 2007-2011 è discesa ancora fino al -54,7%, con punte di circa il -55% in Campania e Puglia e addirittura -73% in Sicilia.
I numeri del Rapporto
Un Sud a rischio desertificazione umana e industriale, dove si continua a emigrare (116mila abitanti nel solo 2013), non fare figli (continuano nel 2013 a esserci più morti che nati), impoverirsi (+40% di famiglie povere nell'ultimo anno) perché manca il lavoro (al Sud perso l'80% dei posti di lavoro nazionali tra il primo trimestre del 2013 e del 2014); l'industria continua a soffrire di più (-53% gli investimenti in cinque anni di crisi, -20% gli addetti); i consumi delle famiglie crollano di quasi il 13% in cinque anni; gli occupati arrivano a 5,8 milioni, il valore più basso dal 1977 e la disoccupazione corretta sarebbe del 31,5% invece che il 19,7%. È quanto emerge dal Rapporto SVIMEZ sull’economia del Mezzogiorno 2014. Secondo stime SVIMEZ aggiornate a settembre 2014, nel 2013 il Pil italiano dovrebbe calare dell'1,9%, quale risultato del -1,4% del Centro-Nord e del -3,5% del Sud. A causare la contrazione dell’attività produttiva il calo dei consumi (stimato in -2% al Centro-Nord, che diventa –2,4% al Sud) e il crollo degli investimenti, -5,2%, a fronte di un calo nazionale del -4,6% al Centro-Nord. Da segnalare, a testimonianza della gravità della crisi, l'ulteriore perdita di posti di lavoro, nel 2013 -3,8% al Sud, -1,2% al Centro-Nord. In un panorama fortemente negativo, le esportazioni l’anno corso hanno segnato -0,6% al Sud e +0,4% al Centro-Nord. Se confermate, queste previsioni portano a otto gli anni consecutivi nei quali il Pil meridionale è stato negativo, con un crollo dei redditi al Sud del 15% tra il 2008 e il 2013 e una perdita di posti di lavoro dal 2008 al 2015 di circa 800mila persone. Nel 2014 secondo stime SVIMEZ il Pil nazionale è previsto a -0,4%, quale risultato tra la stazionarietà del Centro-Nord (0%) e la flessione del Sud (-1,5%). Per il 2014 i consumi si prevedono ancora negativi al Sud (-0,6%) e in debole risalita al Centro-Nord (+0,1%). Continuano a flettere gli investimenti, sempre molto di più al Sud che al Centro-Nord (rispettivamente -4,2% a fronte di -1,5%). Forbice ancora divaricata nel 2015: il Pil nazionale secondo le stime SVIMEZ è previsto a +0,8%, quale risultato tra il positivo +1,3% del Centro-Nord e il negativo -0,7% del Sud. In risalita nel 2015 i consumi nel Centro-Nord (+0,4%), mentre flettono ancora al Sud (-0,2%). Stessa dinamica per gli investimenti: +0,5% nel Centro-Nord, a fronte del -1,6% al Sud.
In base a valutazioni SVIMEZ nel 2013 il Pil è crollato nel Mezzogiorno del 3,5%, approfondendo la flessione dell’anno precedente (-3,2%), con un calo superiore di quasi due percentuali rispetto al Centro-Nord (-1,4%). Da rilevare che per il sesto anno consecutivo il Pil del Mezzogiorno registra segno negativo, a testimonianza della criticità dell’area. Il peggior andamento del Pil meridionale nel 2013 è dovuto soprattutto a una più sfavorevole dinamica della domanda interna, sia per i consumi che per gli investimenti. Anche gli andamenti di lungo periodo confermano un Paese spaccato e diseguale: negli anni di crisi 2007- 2013 il Sud ha perso -13,3% contro il 7% del Centro-Nord. Il divario di Pil pro capite tra Centro-Nord e Sud nel 2013 è sceso al 56,6%, tornando ai livelli del 2003, oltre dieci anni fa. A livello regionale nel 2013 segno negativo per tutte le regioni italiane, a eccezione del Trentino alto Adige (+1,3%) e della stazionaria Toscana (0%). Anche le regioni del Centro-Nord, sono tornate a segnare cali significativi, come l’Emilia Romagna (-1,5%), il Piemonte (-2,6%), il Veneto (-3,6%), fino alla Valle d’Aosta (-4,4%). Nel Mezzogiorno la forbice resta compresa tra il -1,8% dell’Abruzzo e il - 6,1% della Basilicata, fanalino di coda nazionale, che ha registrato un segno così negativo per la crisi dell’industria meccanica e dei mezzi di trasporto. In posizione intermedia la Campania (-2,1%), la Sicilia (- 2,7%), il Molise (-3,2%). Giù anche Sardegna (-4,4%), Calabria (-5%) e Puglia (-5,6%).
Guardando agli anni della crisi, dal 2007 al 2013, profonde difficoltà restano soprattutto in Basilicata e Molise, che segnano cali cumulati superiori al 16%, accanto alla Puglia (-14,3%), la Sicilia (-14,6%) e la Calabria (-13,3%). Negli anni di crisi ha perso oltre il 13% di prodotto anche la Sardegna. Cali superiori al 12% in Campania, Marche e Umbria. Tra le regioni del Mezzogiorno è l’Abruzzo a registrare nel periodo in questione un calo del prodotto relativamente più contenuto (oltre il -8%), in linea con l’Emilia Romagna, dato comunque significativamente più positivo delle performances del Veneto e del Piemonte, che accusano una perdita superiore ai 10 punti percentuali.
In termini di Pil pro capite, il Mezzogiorno nel 2013 è sceso al 56,6% del valore del Centro Nord, tornando ai livelli del 2003, con un Pil pro capite pari a 16.888 euro. In valori assoluti, a livello nazionale, il Pil è stato di 25.457 euro, risultante dalla media tra i 29.837 euro del Centro-Nord e i 16.888 del Mezzogiorno. Nel 2013 la regione più ricca è stata la Valle d’Aosta, con 34.442 euro, seguita dal Trentino Alto Adige (34.170), dalla Lombardia (33.055), l’Emilia Romagna (31.239 euro) e Lazio (29.379 euro). Nel Mezzogiorno la regione con il Pil pro capite più elevato è stata l’Abruzzo (21.845 euro). Seguono il Molise (19.374), la Sardegna (18.620), la Basilicata (17.006 euro), la Puglia (16.512), la Campania (16.291), la Sicilia (16.152). La regione più povera è la Calabria, con 15.989 euro. Il divario tra la regione più ricca e la più povera è stato nel 2013 pari a 18.453 euro: in altri termini, un valdostano ha prodotto nel 2013 oltre 18mila euro in più di un calabrese.
I consumi delle famiglie meridionali sono ancora scesi, arrivando a ridursi nel 2013 del 2,4%, a fronte del -2% delle regioni del Centro-Nord. Dal 2008 al 2013 la caduta cumulata dei consumi delle famiglie ha sfiorato nel Sud i 13 punti percentuali (- 12,7%), risultando di oltre due volte maggiore di quella registrata nel resto del Paese (-5,7%). In particolare, negli anni di crisi 2008-2013, sono crollati anche i consumi di beni alimentari, al Sud del -14,6%, a fronte del -10,7% del Centro-Nord; in caduta libera anche il vestiario e le calzature, -23,7%, quasi doppio che nel resto del Paese (-13,8%). Significativo e preoccupante anche il crollo della spesa delle famiglie relativo agli altri “beni e servizi”, che racchiudono i servizi per la cura della persona e le spese per l’istruzione: -16,2% al Sud, tre volte in più rispetto al Centro-Nord (- 5,4%).
Anche nel 2013 gli investimenti fissi lordi hanno segnato una caduta maggiore al Sud rispetto al Centro-Nord: -5,2% rispetto a -4,6%. Dal 2008 al 2013 in più sono crollati del 33% nel Mezzogiorno e del 24,5% nel Centro-Nord. A livello settoriale, crollo epocale al Sud degli investimenti dell’industria in senso stretto, ridottisi dal 2008 al 2013 addirittura del 53,4%, più del doppio rispetto al già pesante calo del Centro- Nord (-24,6%). Giù anche gli investimenti nelle costruzioni, con un calo cumulato del -26,7% al Sud e del -38,4% al Centro-Nord, in agricoltura, (-44,6% al Sud, quasi tre volte più del Centro- Nord, -14,5%) e nei servizi collegati all’industria: -35% al Sud contro il -23% al Centro-Nord.
Riguardo all’industria in senso stretto, a livello nazionale il valore aggiunto nel 2013 è sceso del 3,2%, una flessione risultante dal -2,7% del Centro-Nord e dal -6,5% del Sud, per effetto del calo sia della domanda interna che estera. Non va meglio per il comparto manifatturiero, con il dato nazionale in calo del 3,1% (-2,6% nel Centro- Nord e addirittura -6,7% nel Mezzogiorno). Sul totale della ricchezza prodotta in Italia il valore aggiunto dell’industria in senso stretto nel 2013 è stato pari al 20,7% nel Centro-Nord e all’11,8% al Sud. Nel 2013 la quota del valore aggiunto manifatturiero sul Pil è stata pari al Sud al 9,3%, un dato ben lontano dal 18,6% del Centro - Nord e dal 20% auspicato dal presidente di Confindustria Giorgio Squinzi. Dal 2008 al 2013 il settore manifatturiero al Sud ha perso il 27% del proprio prodotto, e ha più che dimezzato gli investimenti (-53%). La crisi non è stata altrettanto profonda nel Centro-Nord, dove la diminuzione di prodotto e occupazione è stata di circa 16 punti inferiore, quella degli investimenti di oltre il 24%. Quanto all’occupazione, dal 2009 al 2013 il comparto manifatturiero meridionale si è avviato verso una vera e propria débacle, perdendo poco più del 20% degli occupati, pari a circa 166mila posti di lavoro in meno, una percentuale superiore a quella del Centro-Nord (-15%, cui corrisponde una perdita di ben 582mila posti di lavoro).
Anche nel 2013 si conferma il fenomeno già emerso nel Rapporto SVIMEZ dello scorso anno, secondo cui al Sud i morti hanno superato i nati: un risultato negativo che si era verificato solo nel 1867 e nel 1918. Anzi: nel 2013 il numero dei nati ha toccato il suo minimo storico, 177mila, il valore più basso mai registrato dal 1861. Pericolo da cui il Centro-Nord finora appare immune: con i suoi 388mila nuovi nati nel 2013 pare lontano dal suo minimo storico di 288mila unità toccato nel 1987. Il Sud sarà quindi interessato nei prossimi anni da un stravolgimento demografico, uno tsunami dalle conseguenze imprevedibili, destinato a perdere 4,2 milioni di abitanti nei prossimi 50 anni, arrivando così a pesare per il 27% sul totale nazionale a fronte dell’attuale 34,3%.
Tra il 2008 ed il 2013 delle 985mila persone che in Italia hanno perso il posto di lavoro, ben 583mila sono residenti nel Mezzogiorno. Nel Sud, pur essendo presente appena il 26% degli occupati italiani si concentra il 60% delle perdite determinate dalla crisi. Nel solo 2013 sono andati persi 478mila posti di lavoro in Italia, di cui 282mila al Sud. La nuova flessione riporta il numero degli occupati del Sud per la prima volta nella storia a 5,8 milioni, sotto la soglia psicologica dei 6 milioni; il livello più basso almeno dal 1977, anno da cui sono disponibili le serie storiche basi di dati. Il mercato del lavoro italiano continua comunque a deteriorarsi: ancora nel primo trimestre 2014 il Sud ha perso 170mila posti di lavoro rispetto all’anno precedente, contro -41mila nel Centro-Nord. A fronte di una quota di occupati pari a circa un quarto dell’occupazione complessiva, tra il primo trimestre del 2013 e il primo trimestre del 2014 l’80% delle perdite di posti di lavoro in Italia si è concentrata al Sud.
Nel 2013 a livello nazionale i disoccupati espliciti crescono di 369mila unità e il tasso di disoccupazione registrato ufficialmente è stato del 19,7 %. In aumento anche la durata della disoccupazione: nel 2013 al Sud il 63% dei disoccupati si trova in questa situazione da più di un anno. Nel Centro-Nord la perdita di posti di lavoro tende a trasformarsi quasi interamente in ricerca di nuovi posti di lavoro; nel Mezzogiorno solo in minima parte diventa effettivamente ricerca di nuova occupazione.
Il tasso di disoccupazione ufficiale rileva però una realtà in parte alterata. La zona grigia del mercato del lavoro continua ad ampliarsi per effetto in particolare dei disoccupati impliciti, di coloro cioè che non hanno effettuato azioni di ricerca nei sei mesi precedenti l’indagine. Considerando questa componente, il tasso di disoccupazione effettivo nel Centro-Nord sfonderebbe la soglia del 13% (ufficiale: 9,1%) e al Sud passerebbe dal 19,7% al 31,5 %.
Per le nuove generazioni del Mezzogiorno continuano a essere sbarrate le porte d’accesso al lavoro, la durata della disoccupazione si è allungata, così come la transizione scuola-lavoro. Al dualismo territoriale si unisce insomma anche quello generazionale: dal 2008 al 2013 sono andati persi in Italia 1 milione e 800mila posti di lavoro fra gli under 34, mentre per gli over 35 nello stesso periodo l’aumento è stato di oltre 800mila unità. Il tasso di disoccupazione degli under 35 è salito nel Mezzogiorno nel 2013 al 35,7%. Peggiora poi il processo di transizione scuola-lavoro: i giovani residenti al Sud lasciano la scuola nello stesso anno dei loro coetanei del Centro-Nord, ma entrano nel mercato del lavoro sette anni dopo di loro. In relazione ai tipi di contratto, la flessibilità sembra funzionare più per trovare posti di lavoro precari e poco formativi piuttosto che favorire il recupero del gap esperienziale. Si inizia a credere che studiare non paghi più, alimentando così una spirale di impoverimento del capitale umano, determinata da emigrazione, lunga permanenza in uno stato di disoccupazione e scoraggiamento a investire nella formazione avanzata. Non ci si iscrive quindi più all’Università: i tassi di passaggio dalla scuola superiore all’istruzione terziaria nell’anno scolastico 2012-2013 sono scesi al 51,7% al Sud e al 58,8% al Centro-Nord, riportando il Paese ben al di sotto dei livelli di dieci anni fa.
Se gli uomini perdono il posto di lavoro perché concentrati in quei settori più colpiti dalla crisi negli ultimi anni, quali il bancario/finanziario, il manifatturiero e quello delle costruzioni, le donne rientrano, o entrano per la prima volta, nel mercato del lavoro, ma andando a ricoprire posizioni poco qualificate. Non a caso dal 2008 al 2013 le professioni qualificate femminili sono scese dell’11,7%, mentre sono aumentati del 15% i posti di lavoro nelle professioni poco qualificate; e le giovani donne italiane con livelli medio-alti di istruzione fanno fatica a trovare un’occupazione non precaria. Resta quindi nei fatti una segregazione di genere e di settore. Le donne che scelgono il part time, circa il 30% del totale nelle due ripartizioni, non lo fa per scelta: al Sud addirittura il 75% dei part time femminili è involontario.
Negli ultimi venti anni sono emigrati dal Sud al Centro-Nord circa 2,3 milioni di persone. Nel 2013 secondo stime SVIMEZ si sono trasferiti dal Mezzogiorno al Centro-Nord circa 116 mila abitanti. Non emigrano solo giovanissimi, anzi: se nel 2000 solo il 32% degli emigrati aveva tra i 30 e i 49 anni, nel 2012 la quota è arrivata al 42%, per effetto soprattutto della maggiore scolarizzazione. I laureati non costituiscono la maggioranza dei migranti, ma sono la sezione che cresce di più, da 17mila del 2007 a 26mila del 2012, +50% in cinque anni, un numero impressionante, se si pensa che l’area sforna tutto sommato meno laureati del Centro-Nord. A livello regionale, è il Molise a perdere più laureati, essendo tali 1 migrante su 3 in regione. Se anche nelle atre regioni meridionali la percentuale di laureati sul totale dei migranti supera il 20%, tolto il Molise, si segnala quote importanti in Basilicata (29%), Abruzzo (28,7%), Puglia (27,6%). Dei 132mila abitanti che nel 2012 si sono trasferiti dal Mezzogiorno al Centro-Nord, 43mila sono campani, 27mila 500 siciliani, 23mila pugliesi e 17mila calabresi. In senso opposto, dal Centro-Nord al Mezzogiorno, nel 2012, si sono registrati quasi 61mila trasferimenti, concentrati quasi esclusivamente in Campania (19mila), Sicilia (17mila) e Puglia (12mila). La regione più attrattiva per il Mezzogiorno resta la Lombardia, che ha accolto nel 2012 in media quasi un migrante su quattro, seguita dal Lazio. Riguardo al titolo di studio, le regioni che attraggono più laureati sono la Lombardia, un primato che continua ininterrotto dagli anni 60, Lazio ed Emilia Romagna (25% del totale) seguiti dal Friuli Venezia Giulia (18%).
Caso unico in Europa, l’Italia continua a presentarsi come un Paese spaccato in due sul fronte migratorio: a un Centro-Nord che attira e smista flussi al suo interno corrisponde un Sud che espelle giovani e manodopera senza rimpiazzarla. Le migrazioni dal Sud al Centro-Nord hanno perso la connotazione di massa come negli anni ’50 e ’60 e hanno assunto caratteri più selettivi. Oltre a questa mobilità unidirezionale, altrettanto tipicamente italiana è la presenza, accanto a trasferimenti permanenti di residenza anagrafica, di trasferimenti “temporanei”, i cosiddetti pendolari di lungo raggio, che fisicamente lavorano e vivono per buona parte della settimana al Centro-Nord, ma che mantengono casa e famiglia al Sud. Nel 2013 i pendolari di lungo raggio da Sud a Nord sono stati 142mila, in flessione del 9% rispetto al 2012 per effetto della crisi, che riduce le possibilità di impiego anche nelle zone più ricche del Paese. I pendolari di lunga distanza sono prevalentemente maschi (73%), giovani (il 70% ha meno di 45 anni), single o figli che vivono ancora in famiglia (il 49% è celibe), dipendenti (circa il 90%). Curioso rilevare che il 30% ha un contratto a termine, segno della difficoltà economica esistente ma anche della capacità di adattamento dei giovani. Anche se il pendolarismo di lungo raggio è considerato come una condizione transitoria della vita, in vista di un maggiore assestamento nel mercato del lavoro, per effetto del peggioramento delle condizioni economiche sono in crescita i pendolari coniugati, i meno giovani, i laureati, che nel 2013 hanno raggiunto il 31% del totale dei pendolari, e i pendolari che accettano un contratto di lavoro a termine (+12% rispetto all’anno precedente) . Quanto ai settori, trovano lavoro soprattutto nelle costruzioni, nell’industria in senso stretto e nei servizi. Come per i trasferimenti di residenza, le regioni che attraggono maggiormente i pendolari di lungo raggio sono la Lombardia, il Lazio e l’Emilia Romagna.
A livello europeo il rischio di povertà relativa ha interessato un numero crescente di famiglie, ma solo in Italia, dal 2008 al 2012, sono aumentate del 7% le famiglie in stato di “deprivazione materiale severa”, cioè che non riescono, ad esempio, a pagare l’affitto o il mutuo, fare una vacanza di una settimana una volta l’anno fuori casa, pagare il riscaldamento, fronteggiare spese inaspettate, e che magari non hanno l’automobile, la lavatrice, il telefono, la TV, e fanno fatica a fare un pasto di carne o pesce ogni due giorni. Per avere un’idea della situazione europea, famiglie in queste situazioni sono aumentate dello 0,6% in Lussemburgo, dello 0,8% in Olanda, del 2,2% in Spagna, del 4,3% in Irlanda., fino a scendere dello 0,6% in Germania o del 2,4% in Austria. In Italia oltre due milioni di famiglie si trovavano nel 2013 al di sotto della soglia di povertà assoluta, equamente divise tra Centro-Nord e Sud (1 milione e 14mila famiglie per ripartizione), con un aumento di 1 milione 150mila famiglie rispetto al 2007. Nel periodo 2007-2013 al Sud le famiglie assolutamente povere sono cresciute oltre due volte e mezzo, da 443mila (il 5,8% del totale) a 1 milione 14mila (il 12,5% del totale), cioè il 40% in più solo nell’ultimo anno. Nel 2012 il 9,5% delle famiglie meridionali guadagna meno di mille euro al mese, più del doppio del Centro-Nord (3,8%); in particolare il 9,2% delle famiglie lucane, il 9,3% delle calabresi, il 10,9% delle molisane, il 14,1% delle siciliane. Adottando invece la divisione in quintili, dividendo cioè 100 famiglie in cinque classi da 20 l’una dalle più ricche alle più povere, emerge che il 57,3% delle famiglie meridionali, cioè la stragrande maggioranza, appartengono alle classi più povere. Poverissimo il 28% delle famiglie abruzzesi e pugliesi, il 29% delle molisane, il 31% delle calabresi, il 34% delle lucane, il 35,7% delle campane e addirittura il 41,7% delle siciliane. A esporre alla povertà individui e famiglie concorrono sia la disoccupazione che i familiari a carico. Nel 2012 il 57% delle famiglie meridionali è monoreddito, con punte del 59% in Campania e del 63,3% in Sicilia. Il 16,4% delle famiglie (con punte del 19,8% in Basilicata) ha un disoccupato in casa, il doppio del Centro-Nord (8,6%). Il 14,7% delle famiglie meridionali ha inoltre tre o più familiari a carico, più del doppio del Centro-Nord (5,9%), che arrivano in Campania al 19,8%.

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07 aprile 2015

da Rapporto SVIMEZ


Tratto da

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www.impresaoggi.com