Affronterò per prima cosa quello che il tuo amore per me è ansioso di sentir dire: non patisco nessun male
Seneca, Consolatio ad Helviam matrem
Matteo Renzi forse non l’aveva messo in conto ma, con alla testa il sindaco di Torino Fassino e il presidente del Piemonte Chiamparino cioè non proprio due esponenti di terza fila del Pd, Comuni e Regioni questa volta hanno preso a sparare sui tagli del governo prima ancora che il DEF venga varato. Renzi ha incontrato l’ANCI, ma il fastidio con cui ha replicato da palazzo Chigi alla minaccia di tagliare i servizi ai cittadini era evidente. Tagliate gli sprechi, ha replicato il premier. Tanto per cambiare, non c’è molto accordo sui numeri dei tagli sin qui realizzati tra Stato centrale e Autonomie, e dunque forse è il caso di mettere un po’ di chiarezza su alcuni punti. Chi ha tagliato quanto, in questi anni? Sembrerebbe facile a dirsi, e in realtà non lo è.
Un conto è parlare dei tagli a parole realizzati dalle manovre susseguitesi dall’ultimo governo Berlusconi a oggi: ricordarsi sempre sono tagli sulla spesa tendenziale, cioè comprensiva degli aumenti inerziali a legislazione vigente per l’anno successivo, dunque non tagli sulla spesa reale precedente. E questo spiega perché poi, dopo anni di manovre sommate per decine e decine di miliardi di tagli deliberati, in realtà la spesa pubblica reale complessiva abbia continuato a crescere: molto meno velocemente di prima, ma fino al 51,1% del PIL.
Altro conto è se si prende in considerazione la spesa primaria compresa nel patto di stabilità interno. Altro conto ancora è se si considera quella che negli ultimi anni è diventata la “spesa aggredibile”, che è un aggregato ancora più ristretto, quella che fa da base all’esercizio sui costi standard regionali decisi nel 2012 sulla base di un campione che comprende anche le regioni meno efficienti, mettendo cioè da parte quelli che dovevano essere i costi standard veri.
Ecco spiegato perché i numeri non tornano mai. Un conto è poi se nella spesa regionale comprendiamo anche la sanità, che costituisce la stragrande maggioranza della spesa regionale. Altro conto è se la escludiamo, visto che il fondo sanitario nazionale vive per così dire di vita propria, quanto a cifra stanziata anno per anno (il ministro Lorenzin sottoscrisse il patto per la salute con le Regioni nel luglio scorso, poi rimesso in discussione dalla finanziaria). Fatte queste premesse, qualche conticino per raccapezzarsi.
Se guardiamo alle manovre sul tendenziale di entrate e spese (con l’accortezza richiamata prima), il totale di quelle varate tra 2008 e 2014 (esclusa l’ultima legge di stabilità) ammonta alla bellezza di 122 miliardi di euro, per il 55% a parole (vedremo alla fine, perché a parole) sulla spesa per 67 miliardi, e il 45% con maggiori entrate, per 55 miliardi di euro. La minor spesa rispetto all’aumento tendenziale è stata ripartita per il 36% (per 23,8 miliardi, ma di questi il 58% sono stati meno spesa in conto capitale cioè meno investimenti, quelli si tagliano senza che nessuno protesi) sull’amministrazione centrale, e per il 48% sulle Autonomie Locali, Regioni, Comuni e Province. Il restante 16% è stato a carico degli Enti pubblici sottoposti al MEF. Dei 32,7 miliardi di tagli di spesa tendenziale alle Autonomie, il 41% è stato a carico delle Regioni, nelle poste di spesa sottoposte a patto di stabilità (fondo sanitario nazionale con trattativa a parte, dunque).
Considerando i numeri precedenti, le Autonomie hanno delle ragioni da far valere. Sul totale complessivo della spesa pubblica, lo Stato centrale pesa infatti il 29,9%, i Comuni il 7,6%, le province l’1,3%, le Regioni il 18% ma se si esclude la sanità la proporzione scende a meno della metà. Il 40% della spesa avviene attraverso gli enti previdenziali. Dai numeri, i tagli sono stati più a Comuni e Regioni che allo Stato centrale. Da Berlusconi fino all’ultima legge di stabilità esclusa, se dai tagli sulla spesa tendenziale andiamo a quelli “nettizzati”, le Regioni a statuto ordinario hanno subìto tagli per 9,7 miliardi, quelle a statuto speciale per 3,3 miliardi, le Province per 3,7 miliardi, e i Comuni per la bellezza di 8,3 miliardi: il che spiega perché i Comuni abbiano in qualche misura ancora più ragioni a protestare delle Regioni.
Hanno ragione o torto le Autonomie, dicendo a Renzi che ora i costi vivi sono all’osso e dunque con nuovi tagli saranno i servizi ai cittadini a ridursi inevitabilmente? O ha ragione Renzi a dire il contrario? Le ricerche accumulate dicono che ha ragione il premier. Se avete la voglia e la pazienza di scaricarvi dal sito revisionedellaspesa.gov.it il pdf del documento consegnato a Cottarelli relativo alla spesa dei Comuni, (con l’avvertenza solita che troverete all’inizio una stima doppia dei tagli di spesa 20018-2014 rispetto alla netta che vi abbiamo dato, appunto perché basata sul “tendenziale” che avrebbe inglobato gli AUMENTI di spesa previsti a legislazione invariata..) troverete la spesa comunale esaminata per classe dimensionale e per molti voci standard, dai costi in consulenze a quelle per hardware e software per dipendente, dai costi di assicurazione dei mezzi a quelli per affitti e riscaldamento. Riscontrerete tra Nord e Sud e per classi dimensionali dei Comuni coefficienti di variazione nell’ambito del 100, 200 e anche 400%: i dati dicono dunque che c’è ancora molto da fare, nell’ottimizzazione e riduzione della spesa corrente. Soprattutto nei Comuni capoluogo grandi e grandissimi. Mentre i Comuni piccoli hanno costi sempre meno in linea da sopportare, rispetto alla dimensione non ottimale dei servizi che devono offire e eispetto alle risorse disponibili. Non troverete dati altrettanto interessanti nel pdf del documento consegnato dal gruppo di studio che ha preso in esame la spesa delle Regioni. Forti del fatto che hanno vinto nel 2012 la battaglia sui “finti” costi standard, hanno di fatto rifiutato anche a Cottarelli un’esame dettagliato dei coefficienti di variazione – che restano altissimi – nelle maggiori voci di spesa corrente standard.
Un’ultima considerazione merita il fatto che, in realtà, la ripartizione delle manovre per il 55% fatta sul versante della spesa è un dato virtuoso SOLO IN APPARENZA. Quasi un terzo dei tagli sul tendenziale di spesa operati alle Autonomie è stato infatti recuperato da aumenti della tassazione locale, nelle più diverse forme a cominciare dal mattone. Di conseguenza le manovre correttive sono avvenute più sul versante di un fisco più pesante, che limitando la spesa. Ma ora la capacità di recupero fiscale locale è arrivata al limite, i Comuni e le Regioni lo sanno. Sperano ancora in una local tax per il 2016 che aumenti ulteriormente il gettito rispetto a Tasi. Ed è su questo, altri aumenti fiscali locali a compensazione, la vera partita tra Renzi, Regioni e Comuni. Purtroppo per noi. Ci sarebbe da dire molto poi sul perché lo Stato centrale ritenga di non aver più da tagliare se non per centinaia di milioni invece che per miliardi, come si è visto nell’ultima legge di stabilità che ha chiesto alle Autonomie 3 volte tanto rispetto ai tagli ministeriali. Ma per questo occorre un altro articolo.
Ha detto Chiamparino che parlare di risparmi dai tagli alle partecipate è un errore, c’è da riaccorpare e ottimizzare ma non da tagliare. E’ il motivo per cui il governo Renzi sinora sulle partecipate locali non ha fatto nulla, tranne una norma manifesto senza effetti inserita in legge di stabilità. Chiamparino e il governo hanno torto. A smentirli è l’analisi e la previsione di risparmio di “almeno 2-3 miliardi” possibile con le 33 proposte dettagliate avanzate un anno fa da Cottarelli dopo aver esaminato l’intera complessa geografia delle 7760 partecipate locali di cui aveva notizia, rispetto alle oltre 10mila esistenti in Italia (non c’è una banca dati affidabile centralizzata, come sempre…), che trovate a pag 39-40 delle slides “programma di razionalizzazione delle partecipate locali” qui. E’ un report dettagliatissimo, con interventi diversi sulle migliaia di piccole partecipate da chiudere, su quelle da cedere, su quelle in perdita strutturale, sui nuovi criteri da adottare per il TPL, su come tagliare le attuali 37mila posizioni a nomina pubblica censite. Ricordate sempre che ad aver dichiarato “obiettivo del governo è sfoltire da circa 8mila a non più di mille le municipalizzate in Italia” è stato Matteo Renzi, il 18 aprile 2014, come beffardamente Cottarelli ricorda nella prima pagina delle sue stesse slides che vi raccomando di leggere… E il numero non è un caso: in Francia – paese non esattamente poco statalista – sono mille, appunto…
Oscar Giannino da www.leoniblog.it - 14-04-2015
Tratto da