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Come organizzare l'impresa
7. La logistica integrata
La distribuzione fisica dei prodotti è passata, in meno di dieci anni, da essere la cenerentola aziendale a essere un'attività primaria; è bastato chiamarla logistica integrata e ci si è accorti che.
- Rappresenta un costo complessivo spesso maggiore di quello della produzione in senso stretto; in quanto nella logistica devono essere compresi i costi di trasporto e stoccaggio, di svalorizzazione dei prodotti obsoleti o costruiti in eccesso rispetto alla domanda del mercato, di amministrazione e gestione degli ordini, di flessibilizzazione della produzione.
- Può consentire enormi risparmi rispetto alle modalità di gestione tradizionale, purché venga trattata scientificamente e con investimenti specifici; l'investimento più importante è nelle risorse specialistiche, che devono essere di prim'ordine e non residuali, come, tradizionalmente, è stato nella maggior parte delle imprese.
- Può essere un business, purché sistemi di gestione e impianti vengano condivisi fra più operatori. La logistica integrata parte dal presupposto che, in mercati a rapida evoluzione, sia illusorio cercare di prevedere la domanda e sia invece molto più utile organizzarsi per rispondere tempestivamente a qualunque esigenza del cliente; ciò comporta una serie di cambiamenti nel sistema logistico aziendale.
- Spostare il punto di personalizzazione degli ordini il più a valle possibile e nel momento più vicino possibile alla scelta del consumatore finale.
- Progettare prodotti e cicli di produzione per una costruzione modulare.
- Annullare i tempi morti lungo tutte le fasi del ciclo per mezzo di un utilizzo esteso dell'informatica, delle telecomunicazioni e della conoscenza istantanea di tutte le variabili da parte degli stakeholder. La compressione dei tempi interessa sia i flussi fisici (dai produttori di componenti fino al consumatore finale) sia i flussi informativi (tutti gli operatori hanno istantaneamente le informazioni su vendite, ordini, giacenze, impegni di capacità e programmi di produzione e di approvvigionamento).
- Impostare tutto il rapporto con i clienti su ordini piccoli e frequenti.
- Utilizzare in modo esteso Internet anche per evitare che le manipolazioni dei dati, fatte da ciascun elemento della catena, abbiano un effetto di amplificazione delle variazioni del mercato.
- Utilizzare una parte della capacità produttiva per prodotti standard e una parte per prodotti personalizzati secondo richieste specifiche del mercato.
- Dare al cliente la possibilità di scegliere fra prodotti disponibili subito, prodotti approvvigionabili, con tempi certi, senza extra costi e prodotti disponibili a brevissimo tempo con extra costi.
- Spostare la responsabilità della gestione delle scorte là ove è più efficace, indipendentemente dal rapporto storico fornitore-cliente.
I campioni mondiali della logistica sono le aziende distributive statunitensi con un sistema di fornitura mondiale.
La chiave di volta delle loro performance è pensare in ore invece che in giorni, essere in grado di rispondere rapidamente agli attacchi della concorrenza, considerare la notte come un tempo utile per processare gli ordini, impegnare i fornitori in termini di capacità disponibile da "riempire" in base alle specifiche domande della clientela, influenzare i clienti a ordinare prodotti fatti con le materie prime approvvigionate in anticipo, e infine utilizzare un potente sistema informatico che operi in real time.
Un sistema di logistica integrata non ha bisogno di essere gestito da un'unica organizzazione; tutti gli operatori che vi partecipano devono essere legati da rapporti di partnership, in quanto la performance di ciascuno influenza quella di tutti gli altri.
Anche nella logistica, come in tutti gli altri processi aziendali, occorre tentare di raggiungere i limiti teorici; se il tempo teorico per produrre e trasportare un prodotto fino al cliente finale è di poche ore, tale tempo deve essere l'obiettivo, tutto il resto è spreco.
8. Brand equity
Un aspetto che sembrerebbe di secondaria importanza nella gestione d'impresa è il "brand management"; a volte inconsapevolmente, un'impresa raggiunge l'eccellenza e diventa una brand company. L'entusiasmo di un nuovo business, le capacità della leadership, l'energizzazione diffusa, l'identità e l'immagine aziendale, la sensibilità nel trattare i clienti, la creatività, la qualità dei prodotti o dei servizi possono fare di un'impresa, anche se piccola o media, un'impresa di marca in un particolare settore, anche piccolo.
È noto che talvolta un'impresa vale più del patrimonio netto. Questo può accadere se, nell'azienda, vi sono asset che hanno un valore, ma che non generano flussi di cassa. Un asset in grado di provocare questo accadimento favorevole è proprio il marchio: se i prezzi riconosciuti dai clienti o le quantità vendute sono superiori a quanto sarebbe "normale", vuol dire che il marchio ha un effettivo valore (brand equity). A volte l'imprenditore si chiede a quanto potrebbe vendere il marchio, per scoprire che l'impresa è interamente giustificata dal brand equity, e che la gestione corrente non aggiunge valore, anzi, eventualmente, tende a distruggerlo.
Il valore del marchio è particolarmente elevato nei prodotti di consumo e di moda, oppure in tutti quei casi in cui l'ombrello di un marchio noto e affidabile rassicura il consumatore. Per mantenere e far crescere questo valore intangibile ci vogliono, sia investimenti di immagine e comunicazione, sia una continua coerenza tra la qualità e le performance promesse implicitamente (dal marchio) e quelle realizzate effettivamente.
L'investimento per mantenere o far crescere il valore del marchio non può essere capitalizzato, come ogni altro investimento, perché i criteri contabili lo considerano una spesa corrente, ma, esso è altrettanto reale; ne consegue che riduzioni di queste spese corrispondono a disinvestimenti.
Aumentare i profitti riducendo le spese relative al brand equity corrisponde a una diminuzione del valore dell'impresa e crea, nell'imprenditore, la pericolosa illusione di far bene.
Il valore del marchio non è facilmente misurabile, quindi, occorre fare ogni sforzo per analizzarne l'effetto sulla competitività dell'impresa, così come vanno analizzati tutti i costi di asset immateriali che, apparentemente, non sono finalizzati a un risultato immediato.
Bisogna stare attenti a quelle azioni di breve termine che, impercettibilmente, distruggono il valore del marchio: svendite, inserimento nella gamma di prodotti poco distintivi e a basso prezzo, comportamento dell'impresa appiattito sulla concorrenza, a esempio. Il valore del brand dipende anche dalle azioni della concorrenza: un premium price non è mai sostenibile infinitamente, e cullarsi nell'illusione che gli investimenti fatti in passato possano avere rendimenti prolungati nel tempo è un grave errore.
Poiché il valore del brand è normalmente immisurabile anche se reale, e gli investimenti per aumentarlo hanno rendimenti a lungo termine (se sono fatti bene), è meglio che gli imprenditori siano lungimiranti e familiari con questo tipo di impresa; se così non è, vi saranno forti pressioni a realizzare investimenti che abbiano rendimenti sul breve, e che porteranno, gradatamente a erodere il valore del brand.
Nel caso in cui un'impresa, che, per ragioni storiche e culturali, abbia raggiunto il livello di impresa di marca, si renda, poi, conto di una mancanza di cultura nella difesa del brand è preferibile vendere il marchio a chi saprà trattarlo e difenderlo per quello che vale, prima che comportamenti gestionali poco accorti portino alla liquefazione del suo valore.
9. La globalizzazione
Quasi tutti i settori industriali hanno concorrenti situati ovunque nel mondo, almeno per una fase del business system (principalmente la produzione o l'acquisto di componenti).
Considerando che le condizioni operative sono disomogenee nei vari paesi, l'unica certezza che l'imprenditore di un particolare settore ha è che, probabilmente, restare ancorati al proprio mercato di origine ha buone probabilità di non essere più, nel tempo, la scelta vincente.
Ciò nonostante, la maggior parte degli imprenditori preferisce investire e competere in Italia o, al più, sul mercato europeo, in paesi, dei quali conosce le situazioni, nei quali può controllare l'operatività senza lunghi viaggi e con i quali esiste una lunga storia di eventi positivi.
Manager e imprenditori italiani cercano di convincersi che, dopo tutto, l'Italia e l'Europa sono ancora un buon posto per investire, perché la produttività è elevata, i mercati di sbocco sono vicini, il made in Italy è molto apprezzato, in Italia sono localizzate le basi operative di fornitori di macchine e impianti; tutti questi ragionamenti sono fatti per auto convincersi e per non dover affrontare le difficoltà dell'operare in un contesto globalizzato.
La globalizzazione imporrebbe infatti una serie di azioni di non facile attuazione; bisognerebbe infatti:
- disaccoppiare le fasi "a monte" del business system (acquisti, progettazione esecutiva, produzione), da quelle "a valle",
- trasferirsi, per un certo periodo di tempo, in qualche paese di nuova industrializzazione,
- deindustrializzarsi, almeno parzialmente, in Europa,
- operare in joint venture con qualche operatore locale,
- pensare di servire consumatori diversi da quelli europei (e cioè milioni di consumatori caratterizzati da un reddito molto basso).
Quando poi il manager o l'imprenditore fossero riusciti a omologare un valido management locale potrebbero "tornare a casa" con la convinzione che l'impresa continuerà a competere parlando, magari, un'altra lingua, eventualmente, anche con altri soci, ma almeno con un futuro più sicuro.
Il vertice di un'impresa, generalmente, non ha nessuna voglia di delocalizzarsi, e, quindi, affronta il problema della globalizzazione terziarizzando una parte delle produzioni a fornitori localizzati in paesi in via di sviluppo, meglio se privi di una capacità autonoma di sviluppo. Per un po' va bene, ma si rinuncia al contributo creativo di partner di valore, che invece esistono in paesi di nuova industrializzazione, e che, prima o poi, "vestiranno" i propri componenti in modo da competere anche con prodotti finiti; in questi paesi, peraltro la domanda è già più robusta che nei paesi in via di sviluppo.
Se si presenta la possibilità di acquisire un operatore localizzato in qualche paese in via di sviluppo, si valutano in modo esagerato le opportunità derivanti dall'acquisto o dal controllo dell'impresa, pur di non dover affrontare il problema della delocalizzazione.
Questi comportamenti non sono, evidentemente, logici, ma per valutare le opportunità e i rischi conseguenti alla globalizzazione bisogna, prima di tutto, ricondizionare i propri schemi mentali; ciò può essere fatto andando a conoscere i paesi nei quali probabilmente emergeranno i competitors del futuro.
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