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Carlo Magno


Espansione carolingia
Carlo cercò di riconquistare agli arabi di al-Andalus (da questo toponimo arabo prenderà poi il nome la regione dell'Andalusia) almeno una parte della Spagna, al fine di realizzare un disegno già carezzato da suo nonno Carlo Martello dopo la sua vittoria di Poitiers, e da suo padre Pipino.
L'intervento di Carlo Magno nella Penisola iberica fu tutt'altro che trionfale, e non privo di momenti dolorosi e gravi rovesci. Innanzi tutto Carlo cercò di inserirsi quale mediatore tra i vari emiri aragonesi in lotta tra loro nel 778. Carlo non ebbe alcun aiuto dai cristiani del luogo vista la maggior convenienza di costoro di rimanere sotto la sovranità islamica, anziché cadere sotto il dominio del sovrano franco, la cui obbedienza al Papa romano avrebbe messo a rischio l'autonomia della Chiesa mozaraba, imponendo anche obblighi di non piccolo conto.
Celeberrimo è, poi, l'episodio della rotta di Roncisvalle, dove la retroguardia franca subì un'imboscata da parte di popolazioni locali (forse basche), da tempo cristianizzate ma spesso ribelli ai Franchi e gelose della loro autonomia, in seguito alla quale morì il conte Rolando (conosciuto anche con il nome di Orlando), conte palatino e duca della Marca di Bretagna e forse parente. L'episodio ebbe sicuramente una maggior valenza letteraria che storico-militare, ispirando uno dei passi più noti della successiva Chanson de Roland, uno dei testi epici fondamentale della letteratura medievale europea.
La sconfitta di Roncisvalle non fece diminuire l'impegno di Carlo nella difesa del confine iberico, di fondamentale importanza per impedire che le armate arabe dilagassero in Francia. Pertanto, per pacificare l'Aquitania, la trasformò nel 781 in un regno autonomo, al cui vertice pose il figlio Ludovico, di appena tre anni. Dopo la morte dell'emiro di Cordova (797) fu proprio Ludovico, su ordine del padre, ad adoperarsi per estendere il dominio franco oltre confine e rendere sicuro il confine iberico, che successivamente raggiunse il fiume Ebro. Fu creata allora la Marca Hispanica, riconoscibile nell'odierna Catalogna, con capitale Barcellona: uno stato-cuscinetto, dotato di una relativa autonomia, posto a difesa dei confini meridionali della Francia da eventuali attacchi musulmani. All'inizio del IX secolo dunque, i franchi controllavano un regno compreso tra Barcellona (a occidente), la Bretagna e la Danimarca (a nord), l'Italia centrale (a sud), la Germania (a est): il domino europeo più ampio dai tempi dell'antico impero romano d'Occidente.

Campagne orientali
Carlo conduceva, ogni anno, i suoi soldati nell'avventura della guerra, per torridi giorni e umide notti, trascionandoli attraverso intemperie e pericoli lungo tutte le strade d'Europa. Non più le spedizioni di breve raggio degli avi, condotte per sedare rivolte all'interno delle provincie, Carlo portava la guerra oltre i confini per dare potenza e sicurezza al suo popolo. Nelle sue guerre vi era anche la fede; Carlo si sentiva portatore di giustizia e di riscatto. I popoli pagani vivevano nelle tenebre del male, meritavano castigo e redenzione e dovevano essere strappati al demonio con la forza della spada. Questo principio valeva soprattutto per i sassoni, che furono il nemico permanente, per quasi tutta la durata del suo regno. Una guerra giusta e santa. Lo spirito feroce delle crociate, che avrebbe avuto nei secoli successivi tanta parte nelle sorti del mondo, trovava sul Reno la sua spettacolare anticipazionre.
I sassoni erano una popolazione di origine germanica abitante nella zona a nord-est dell'Austrasia, oltre il Reno, nei bassi bacini del Weser e dell'Elba. Erano rimasti di credo pagano ed erano guerrieri arditi ed irrequieti; gli stessi imperatori romani avevano cercato inutilmente di assoggettarli come federati. Pipino il Breve era riuscito a contenerne la sete di saccheggio e a imporre loro un tributo annuo di alcune centinaia di cavalli. Nel 772 però rifiutarono il pagamento e ciò consentì a Carlo Magno di procedere all'invasione della Sassonia. La campagna di Sassonia venne sospesa durante l'invasione dell'Italia per essere ripresa con maggior vigore dopo il 774. L'esercito carolingio oltrepassò il Reno e, puntando verso nord, riuscì a sconfiggerli a più riprese e a distruggere l'irminsul, l'idolo pagano di questo popolo.
Nel 780 una nuova ribellione scoppiò nella regione e Carlo Magno, impegnato in Spagna nell'assedio di Saragozza, dovette accorrere in Sassonia per poter aver ragione dei rivoltosi. L'area venne smembrata in contee e ducati, che precedettero l'evangelizzazione della popolazione. I Sassoni, riuscirono in seguito a riunificare le varie tribù sotto la reggenza di Vitikindo, che fu la vera e propria anima della resistenza. Con il trascorrere degli anni la guerra in Sassonia divenne sempre più spietata, come possono esserlo solo le guerre di religione; per i sassoni l'avanzata del cristianesimo si accompagnava alla perdita della libertà, per i franchi la vittoria significava imporre la luce della verità nelle tenebre del paganesimo, e, avendo in odio le proprie radici pagane, raramente vi fu guerra più spietata. Nel corso del 785, la conquista procedette in modi sempre più repressivi, con la conversione forzata e la dispersione del popolo (soppressione di intere tribù e migrazione forzata). Lo stesso Carlo promulgò uno statuto d'occupazione chiamato Capitolare Sassone riassunto nella formula: "Cristianesimo o morte". Dopo l'ultima grande battaglia a Verden ben 4.500 sassoni prigionieri furono decapitati non avendo voluto accettare il battesimo. Creando fedeli in Cristo, Carlo Magno otteneva lo scopo di creare sudditi sottoposti al governatorato carolingio, che aveva come centri amministrativi diocesi e abbazie. La mazzata di Verden fu il punto risolutivo della guerra; il furore cristiano, una volta scatenato, disseminò il terrore dovunque. I franchi imperversavano in tutto il paese fino alla Danimarca e alla Frisia (il nord dell'Olanda), finchè la fiamma della rivolta non si spense, definitivamente. Lo stesso Vitichindo si arrese "pentito e pronto alla conversione". Giova notare che l'amico e confidente di Carlo, Alcuino, disapprovò il bagno di sangue messo in atto per la conversione della Sassonia. Quando l'Imperatore ordinò l'ultima deportazione, nell'804, oramai la Sassonia costituiva uno Stato nell'ambito del dominio franco, preconizzando il cuore della futura Germania.

Nel 780 la Baviera, una delle regioni più civili d'Europa, assunse al rango di ducato. A capo di questo dipartimento c'era il cugino di Carlo Magno, Tassilone.
Nello stesso anno della spedizione franca in Spagna, per sostenere la rivolta del governatore della Marca Superiore, Abd al-Raman, contro l'emiro di Cordova, Tassilone si associò il figlio con il medesimo titolo di duca. Carlo Magno, momentaneamente impegnato, fece finta di nulla ma nel 781 pretese dal cugino il rinnovo del giuramento di fedeltà a Worms. Vedendosi sempre più pressato dalle ingerenze di Carlo, il duca di Baviera chiese nel 787 la protezione di Papa Adriano I. Costui, non solo rifiutò un accordo, ma ribadì le pretese di Carlo. Nel 788 Carlo Magno gli mosse guerra scoprendo, tra l'altro, un'alleanza stipulata tra il cugino e l'ex re longobardo Adelchi che era frattanto riparato a Bisanzio. La Baviera venne annessa all'impero carolingio e Tassilone fu esautorato e rinchiuso in un monastero.

Campagna contro gli Avari
Dopo la liquidazione di Tassilone, l'Impero Carolingio si vedeva confinante, sia a nord che al confine con il Friuli, con una bellicosa popolazione, gli avari. Appartenenti alla grande famiglia delle popolazioni turco-mongoliche, come gli Unni, si erano organizzati attorno a un capo militare, il Khan e si erano stanziati nella pianura pannonica, più o meno l'odierna Ungheria. Essi assoggettarono i vari popoli slavi che stanziavano sul territorio, insieme agli appartenenti a un'etnia affine alla loro, i bulgari. Pur riconvertendosi all'allevamento e alla pastorizia, non rinunciavano ad effettuare ripetute sanguinose scorrerie ai confini del regno carolingio e dell'Impero Bizantino. La loro minaccia, con il tempo, andava riducendosi, ma la loro tesoreria di stato era colma di ricchezze accumulate dai sussidi che gli imperatori bizantini versavano nelle loro casse e perciò Carlo Magno cominciò a studiare a tavolino un'invasione della regione. Carlo aveva bisogno di una grande vittoria militare nella quale coinvolgere la nobiltà franca in modo che essa si rinsaldasse, sempre più, attorno a lui e, anche, per dare una dimostrazione di potenza all'impero bizantino, che, oramai, a fatica, riusciva a difendere i propri confini.
Vennero istituiti dei comandi militari alla frontiera come l'Ostmark (costituente la futura Austria), per meglio coordinare le manovre dell'esercito. Le truppe imperiali procedettero nel 791 all'invasione, percorrendo il Danubio da entrambe le sponde. L'esercito a nord, guidato personalmente dall'Imperatore poteva effettuare collegamenti, ricevere e dare rifornimenti ed eventualmente dare assistenza ai feriti a quello stanziatosi a sud e comandato dal figlio Pipino che muoveva dal Friuli, mediante la costruzione di un ponte di barche ed al trasporto merci mediante chiatte e barconi.
Sino all'autunno dello stesso anno, i Franchi penetrarono sin nelle vicinanze della capitale avara, il "Ring" ma dovettero riparare in Sassonia a causa della stagione avanzata che causava problemi di collegamento tra i reparti, rendendo difficili le comunicazioni ed inoltre impedendo nel periodo invernale di poter mantenere le cavalcature.
Le devastazioni compiute dai franchi, comunque, provocarono il malcontento tra i generali avari che uno dietro l'altro abbandonarono il loro Khan convertendosi al Cristianesimo. Nel 795, in seguito a massacri ancora più duri di quelli perpetrati contro i Sassoni, il regno avaro cadde come un castello di carte e i pochi superstiti degli avari si fusero con gli slavi. Carlo Magno, nonostante le ripetute rivolte protrattesi negli anni, non tornò mai personalmente nell'area, delegando il figlio Pipino a svolgere le operazioni militari. Giova ricordare che quando i franchi entrarono nel Ring degli avari vi trovarono un tesoro favoloso, tesoro che venne utilizzato da Carlo per la coctruzione di Aquisgrana.

Rapporti con il Papato
I re franchi si presentavano come naturali difensori della Chiesa cattolica, avendo restituito al pontefice ai tempi di Pipino quei territori dell'Esarcato di Ravenna e della Pentapoli che per concezione comune erano creduti appartenenti alla Chiesa. Carlo sapeva bene che al Papa importava soprattutto ritagliare un sicuro territorio di sua pertinenza in Italia Centrale, libero da altri poteri temporali, compreso quello bizantino.
La morte di Papa Stefano III, diede mano libera a Carlo Magno per invadere l'Italia e liberarla, definitivamente, dai Longobardi, appoggiando nei fatti, la politica del nuovo pontefice Adriano I. I rapporti tra l'Imperatore e il nuovo Papa, sono stati ricostruiti dalla letteratura delle missive epistolari che i due si scambiarono per oltre un ventennio. Molte volte, Adriano cercava di ottenere l'appoggio di Carlo riguardo alle frequenti beghe territoriali che minavano lo Stato Pontificio. Una lettera datata 790, contiene le lamentele del pontefice nei riguardi dell'arcivescovo ravennate, Leone, reo di avere sottratto alcune diocesi dell'Esarcato. Durante la sua terza visita a Roma nel 787, Carlo Magno venne raggiunto da un'ambasceria del Duca di Benevento, capeggiata dal figlio Grimoaldo. Lo stesso duca, Arichi, implorava l'Imperatore franco di non invadere il ducato minato dalle mire espansionistiche di Adriano I che intendeva così annettersi i territori a sud del Lazio. Carlo Magno in un primo momento mosse guerra al ducato di Benevento ma in seguito alla morte dello stesso Duca e del figlio, l'Imperatore si decise di liberare il secondogenito Romualdo e di reinsediarlo nel regno. Probabilmente Carlo, non voleva compromettere i precari equilibri nell'Italia meridionale. Papa Adriano I ne fu risentito che i rapporti tra i due si raffreddarono.
Alla morte del pontefice, nel 795, assunse la tiara papa Leone III che dovette immediatamente vedersela con la famiglia del defunto Adriano, che ne contestava l'elezione. La guerra sotterranea tra i Palatini e i nipoti dell'ex-pontefice scoppiò nel 799. Carlo Magno allora lo invitò a stretto giro di posta a Paderborn, sua residenza estiva in Vestfalia. Secondo alcuni storici è durante questi colloqui riservati che il re franco propose al papa di coronarlo imperatore essendo già, di fatto, padrone di gran parte dell'Europa. In cambio si prodigò per far cadere le accuse mosse al pontefice dalla nobiltà romana.
Immediatamente prima dell'incoronazione, nella settimana dei preparativi (nel dicembre dell'800) il re franco costituì un'assemblea composta da nobili franchi e vescovi per far conoscere le conclusioni della commissione d'inchiesta riguardo ai due ribelli romani, Pascale e Campolo. Ufficialmente la sua venuta a Roma aveva lo scopo di dipanare la questione tra il Papa e gli eredi di Adriano I, che accusavano il pontefice di essere assolutamente inadatto alla tiara pontificia, in quanto "uomo dissoluto". A questo proposito, Carlo convocò un concilio di vescovi che sentenziarono che il Papa era la massima autorità in materia di morale cristiana, così come di fede, e che nessuno poteva giudicarlo se non Dio: così gli fu richiesto di giurare la propria innocenza su di un Vangelo, cosa che Leone III fece. Al termine della seduta della commissione d'inchiesta, Pascale e Campolo vennero condannati a morte - pena in seguito commutata nell'esilio - e Leone III fu riconosciuto legittimo rappresentante del soglio pontificio.

Carlo Magno incoronato imperatore da papa Leone III
Nella messa di Natale del 25 dicembre 800 a Roma, nella basilica di San Pietro Carlo Magno fu da papa Leone III incoronato imperatore, titolo mai più usato in Occidente dopo la destituzione di Romolo Augustolo nel 476. Durante la cerimonia, papa Leone III unse il capo a Carlo Magno, richiamando la tradizione dei re biblici.
La Vita Karoli racconta di come Carlo non intendesse assumere il titolo di Imperatore dei Romani per non entrare in contrasto con l'Impero Romano d'Oriente, il cui sovrano deteneva il legittimo titolo di Imperatore dei Romani: per nessun motivo i bizantini avrebbero riconosciuto a un sovrano franco il titolo di imperatore. Sulla questione autorevoli studiosi, in primis Federico Chabod, hanno ricostruito magistralmente la vicenda, dimostrando come la versione di Eginardo rispondesse a precise esigenze di ordine politico, ben successive all'accaduto, e come essa fosse stata artatamente costruita per le esigenze che s'erano venute affermando. L'opera del biografo di Carlo fu infatti redatta fra l'814 e l'830, notevolmente in ritardo rispetto alle contestate modalità dell'incoronazione.
Inizialmente le cronache coeve concordavano sul fatto che Carlo fosse tutt'altro che sorpreso e contrario alla cerimonia. Sia gli Annales regni Francorum (o Annales Laurissenses maiores), sia il Liber Pontificalis riportano la cerimonia, parlando apertamente di festa, massimo consenso popolare ed evidente cordialità fra Carlo e Leone III, con ricchi doni portati dal sovrano franco alla chiesa romana (tra cui una "mensa d'argento").
Solo più tardi, verso l'811, nel tentativo di attenuare l'irritazione bizantina per il titolo imperiale concesso (che Costantinopoli giudicava usurpazione inaccettabile), i testi franchi (gli Annales Maximiani) introdussero quell'elemento di "rivisitazione del passato" che fece parlare della sorpresa e dell'irritazione di Carlo per una cerimonia d'incoronazione cui egli non aveva dato alcun'autorizzazione preventiva al Papa che a ciò l'aveva indirettamente forzato.
Il giorno della sua incoronazione, Carlo Magno si presentò in San Pietro tra due ali di folla, abbigliato alla romana (abbandonando il consueto costume franco che prevedeva di norma braghe di lino, mantello di pelliccia e stivali annodati a stringhe), con tanto di tunica bianca, e i calzari ai piedi.
Secondo il suo biografo Eginardo, papa Leone III, si sarebbe prostrato a terra - secondo l'uso bizantino della proskynesis - quasi in segno di adorazione (riferita ovviamente alla carica che l'imperatore rappresentava).
Per altri testimoni che si proclamarono oculari (ma sui quali sono stati avanzati parecchi logici dubbi), il pontefice, lo avrebbe denudato e unto con olio santo dalla testa ai piedi. L'acclamazione popolare (elemento non presente in tutte le fonti e forse spurio) sottolineò comunque l'antico diritto formale del popolo romano di eleggere l'imperatore. La cosa irritò non poco la nobiltà franca, che vide il "popolus Romanus" prevaricare le proprie prerogative, acclamando Carlo come "Carlo Augusto, grande e pacifico Imperatore dei Romani".
Occorre tuttavia ricordare come l'incoronazione a imperatore fosse per più d'un verso riconducibile alla volontà franca (già espressa all'epoca di Pipino) di riconoscere reale la falsa donazione di Costantino. In tale ottica, l'incoronazione del re franco a Imperatore sarebbe stato il corrispettivo per la legittimazione del potere temporale della Chiesa. Secondo alcuni storici, in effetti Carlo voleva il titolo imperiale, ma avrebbe preferito auto-incoronarsi, perché l'incoronazione da parte del papa rappresentava simbolicamente la subordinazione del potere imperiale a quello spirituale.

carlo

Carlo Magno incoronato imperatore da Leone III

 



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