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Gilgames, divinità o eroe realmente esistito?


Platone afferma non esserci alcun re che non sia discendente da schiavi e nessuno schiavo che non sia discendente da re.
Seneca Lettere morali a Lucilio


GRANDI PERSONAGGI STORICI

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In questo portale, abbiamo illustrato vita e doti di grandi personaggi della storia, quali figure emblematiche da tenere come modelli per imprenditori, manager, leader politici. Ugualmente ritengo doveroso prendere in considerazione l'epopea di Gilgameš, personaggio che si ritrova nei primissimi documenti sumeromesopotamici. La sua eredità srorica mescola mito e realtà.
Gilgameš (dall'accadico) è un essere divinizzato, del Vicino Oriente antico che si presenta su tre piani documentali: 1) come divino sovrano di Uruk nella Lista Reale Sumerica, composta in lingua sumerica; 2) come divinità delle religioni mesopotamiche in diversi inni e iscrizioni, composti sia in lingua sumerica che in lingua accadica; 3) come personaggio principale di alcune epopee religiose mesopotamiche composte sia in lingua sumerica che in lingua accadica, e anche in altre lingue del Vicino Oriente antico.
Le sue vicende sono in particolar modo narrate nel primo poema epico della storia dell'umanità giunto a noi, denominato successivamente Epopea di Gilgameš (Epopea classica babilonese). Si tratta di un'epopea Babilonese il cui nucleo principale risale ad antichi racconti mitologici sumeri che vennero rielaborati e trascritti successivamente in ambiente semitico. La prima struttura dell'Epopea, pervenutaci in frammenti, appartiene quindi alla letteratura sumerica, mentre la versione più completa sinora nota venne incisa in lingua accadica su dodici tavole di argilla che furono rinvenute tra i resti della biblioteca reale nel palazzo del re Assurbanipal a Ninive, capitale dell'impero assiro; questa redazione tarda del mito, attribuita allo scriba cassita Sîn-leqi-unninni, risale quindi presumibilmente al XII secolo a.C. e comunque anteriormente all'VIII secolo a.C..
Per quanto attiene alla storicità o meno della figura di Gilgameš, diversi studiosi hanno concluso che Gilgameš fosse un personaggio storico, ovvero un re, divinizzato in epoca successiva.
I nomi di Gilgameš
Il più antico testimone giunto a noi che riporta il nome di Gilgameš è la Lista degli dèi, rinvenuta a Fara (Šurrupak), redatta in lingua sumerica e risalente al 2500 a.C.. Il nome Gilgameš proviene dall'accadico (in medio e neo accadico: dgi-il-ga-?meš?; cuneiforme: Gilgamesh. In altre lingue Gilgameš viene reso: in elamitico, giš-ga-meš; in ittita, gis-gím-maš; nel ?urrita, gal-ga-mi-šu-ul. Gilgameš: re "divinizzato" o dio "umanizzato". Nella più antica attestazione del nome di Gilgameš/Bilgames, l'elenco della Lista degli dèi rinvenuta a Fara risalente al periodo Proto-dinastico IIIa quindi al 2600/2450 a.C., questi viene caratterizza come essere "divino". In diverse iscrizioni, come nelle epopee, Gilgameš è indicato come figlio della dea Ninsun. Nell'inno di lamentazione per la morte del re Ur-Nammu (fondatore della terza dinastia di Ur) esso viene indicato come divinità infera. Nella letteratura religiosa in lingua accadica, e quindi assira e babilonese, Gilgameš è sempre considerato una divinità degli Inferi. Nelle epopee Gilgameš è indicato come figlio della dea Ninsun e del dio Lugalbanda; se è considerato per due terzi un dio e per un terzo un uomo lo si deve al fatto che per gli antichi abitanti della Mesopotamia Lugalbanda era un re divenuto dio.
La Lista Reale Sumerica è un testo in cuneiforme sumerico composto tra il 2100 e il 1800 a.C. con la finalità di gettare le basi tradizionali e politiche dell'unificazione del territorio di Sumer (Mesopotamia meridionale). Questo testo si avvia con il principio di "regalità" che discende dal cielo per essere assegnata per la prima volta alla città sumera di Eridu in cui resta per complessivi 64.800 anni, successivamente tale principio si trasferisce alla città di Bad-Tibira per altri 108.000 anni, per poi discendere sulla città di Larak per ulteriori 28.800 anni, poi a Sippar per 21.000 anni e infine a Šuruppak per 18.600 anni: 5 città, 8 re elencati nella Lista, per complessivi 241.200 anni di regno, quando il dio Enlil scatena il diluvio universale distruggendo l'umanità. Il dio Enki, lo sappiamo da altre epopee mesopotamiche, salva tuttavia un uomo, il Noè sumerico: Ziusudra, figlio dell'ultimo re di Šuruppak Ubara-Tutu. La Lista Reale Sumerica riprende così la sua elencazione:
« Il diluvio cancellò ogni cosa; dopo che il diluvio ebbe cancellato ogni cosa, quando la regalità scese dal cielo, la regalità fu a Kiš. »
Nel prosieguo della Lista viene citato "il divino Gilgameš" quinto re (dopo Meskiangašer, Enmenkar, il divino Lugalbanda e il divino Dumuzi) della I dinastia di Uruk. Così il testo:
« Il divino Gilgameš -suo padre è uno sconosciuto- signore di Kullab, regnò 126 anni; Urlugal, figlio di Gilgameš regnò 30 anni »
Interessante è un testo in sumerico, ma risalente al II secolo a.C. (quindi al tempo di Antioco), rinvenuto a Uruk. Questo testo elenca i re antidiluviani con i rispettivi saggi, gli apkallu (accadico; sumerico: abgal), introducendo anche quelli post-diluviani:
« Dopo il diluvio, durante il regno di Enmekar, era apkallu Nungalpiriggal, il quale fece scendere dal cielo nell'Eanna la dea Ištar. Egli fece costruire la lira di bronzo, le cui [...] erano di lapislazzuli, lavorate con ferro battuto secondo l'arte di Ninagal. Egli introdusse nel[...], l'abitazione di [...] e depose la lira davanti ad An. Durante il regno di Gilgameš era ummanu Sinleqiunnini »
La figura degli apkallu qui presente, riguarda dei "saggi" non umani e ittioformi che provengono dalle acque dell'abisso (sumerico: abzu), luogo dove regna il dio della "saggezza" Enki (accadico: Ea), per insegnare agli uomini la civiltà. Significativo è che il primo "saggio" pienamente umano, quindi non apkallu ma ummanu, Sinleqiunnini (Sîn-leqi-unninni), si manifesti con il re-divino Gilgameš.
Precedentemente un altro testo, sempre in sumerico ma rinvenuto a Ninive e risalente al periodo neoassiro, aveva già trattato il tema degli apkallu.
Il re e dio Gilgameš in altre fonti mesopotamiche
Il nome di Gilgameš è stato rinvenuto anche in una iscrizione in lingua sumerica nel tempio di Tummal risalente alla III Dinastia di Ur. Qui Gilgameš è indicato come il costruttore del santuario di Enlil a Nippur (sumerico: Nibru):
« Il divino Gilgamesh, colui che andò alla ricerca della pianta della vita, ha costruito il santuario di Enlil »
Un tardo principe di Uruk, Anangišdubba (Anam), figlio di Belšemea ai tempi del re Singamil, afferma in una iscrizione in lingua sumerica, di aver ricostruito le mura della città già opera del dio Giš-bíl-ga-meš.
Un'altra iscrizione, sempre sumerica, opera di Utu?egal, re di Uruk dal 2041 al 2034 a.C., così riferisce di un discorso agli sconfitti Gutei.
« Enlil me lo ha consegnato, la mia signora Inanna è il mio sostengo, Dumuzi, l'ama-ušumgal del cielo ha pronunciato il mio destino, il dio Giš-bíl-ga-meš, figlio di Ninsun, quale protettore maškim mi è stato dato ».
In un inno, sempre in lingua sumerica, Gilgameš è indicato come "fratello maggiore" del re Ur-nammu (2028-2011 ca a.C.) di Ur (sumero: Urim, Uri) sempre indicato come "dio". Quindi Gilgameš, fin dalle fonti più antiche, è sempre presentato come un dio e come un dio viene invocato nelle preghiere.
Numerose sono le invocazioni che lo riguardano:
« Gilgameš, re perfetto, giudice degli Annunaki; principe avveduto, fre[no degli uomini]; ispettore delle regioni, sovrintendente della "Terra", signore delle creature infere. Tu sei giudice e hai la vista di un dio; ti tieni nella "Terra" e dai il giudizio definitivo. Il tuo giudizio non cambia, né si dimentica la tua parola; interroghi sorvegli, giudichi, scruti e dirigi. Šamaš ti ha affidato giudizio e decisione; re, governatori, principi si prostrano davanti a te; tu vigili sui loro auspici, e ne decidi le cause. Io N.N., figlio di N.N., il cui dio è N.N., la cui dea è N.N., cui malattia incolse, per ottenere sentenza giudiziaria, e decisione di causa mi prostro al tuo cospetto. Conduci il giudizio, [decidi la causa]; scaccia la mal[attia che è nel mio] corpo. Renditi padrone di ogni male [che mi stringe], in questo giorno [presentati, ascolta la mia parola]. Ti ho glorificato, ti ho venerato, fior di farina pura [ti ho offerto acqua] ti ho sacrificato una pecora [pura ....] ti ho offerto un vestito rosso [...] una barchetta di cedro [...] una tiara d'oro [...] »
Le epopee di Gilgameš
L'epopea di Gilgameš appartiene all'intera cultura mesopotamica, ovvero della Mezzaluna Fertile, non solo quindi alle sue originarie culture sumerica e assiro-babilonese (questa in lingua accadica). Testimonianza di questo fatto è il rinvenimento in più lingue, oltre il sumerico e l'accadico, di questa epopea: dall'ittita, al ?urrita, all'elamita. Rinvenimenti che hanno inoltre riguardato non solo l'antico territorio della Mesopotamia ma si sono spinti anche in Anatolia e nell'area della Siria-Palestina.
Le epopee sumeriche
Sono cinque le epopee in lingua sumerica che narrano le imprese del re di Uruk, Gilgameš. Generalmente questi poemi sono attribuiti alle corti della III dinastia di Ur (XX secolo a.C.) i cui sovrani rivendicano l'antica regalità della città di Uruk e il legame con Gilgameš.
Gilgameš e Agga
Questo testo ricostruito in 115 righe proviene dalla Biblioteca di Nippur. Probabilmente è l'epopea più storica trattando della guerra tra la città di Uruk e la città di Kiš, governata quest'ultima da Agga, il figlio di Enmebaragesi così come vuole la Lista Reale Sumerica. Il poema inizia con l'arrivo a Uruk di un'ambasceria da parte della città di Kiš con l'obiettivo di imporre alla città governata da Gilgameš il compito di irrigare l'area meridionale della Mesopotamia. Gilgameš convoca quindi l'assemblea degli anziani e, successivamente, quella dei giovani guerrieri, per decidere se sottomettersi al diktat di Agga oppure provocare la guerra. Gli anziani si risolvono per la pace, mentre i giovani guerrieri reclamano la guerra e l'indipendenza della città di Uruk. Gilgameš segue quindi il consiglio dei giovani e rigetta la proposta degli ambasciatori. L'esito dell'ambasceria costringe Agga a riunire il suo esercito assediando Uruk. La popolazione di quest'ultima città è spaventata a tal punto da costringere Gilgameš a inviare un ambasciatore, nella figura del suo servo Bir?urte, per trattare con Agga. Ma il servo di Gilgameš appena catturato viene picchiato; a questo punto dalle mura di Uruk si sporge Zabardab, il generale a capo delle difese di Uruk che Agga ritiene possa essere Gilgameš in persona. Ma Bir?urte gli spiega che qualora fosse stato il re di Uruk il suo esercito alla sola vista ne sarebbe rimasto sconvolto. Subito dopo compare sulle mura di Uruk, Gilgameš nel suo splendore divino, allora Enkidu, l'altro servitore del re di Uruk, esce dalla città assediata proclamando la presenza del suo re. Lo splendore e il nome divino di Gilgameš atterrisce le armate nemiche che cadono sconfitte alla sua sola vista, e Gilgameš, magnanimo rimanda alla sua città Kiš il re Agga.
Nelle righe 85-89 viene così riportata l'apparizione splendente del dio Gilgameš.
« gli Anziani e i giovani di Kullab furono avviluppati dal suo terribile splendore i giovani uomini di Uruk, i guerrieri impugnarono le mazze della battaglia; si disposero per strada all'entrata della porta della città. Enkidu da solo fuori dalla porta e Gilgameš si sporse dalle mura. »
Gilgameš e ?ubaba
Di questa epopea disponiamo due versioni: una lunga 202 righe risalente alla città di Nippur, l'altra più breve, di circa 157 righe, rinvenuta a Me Turan. Le copie rinvenute sono numerose (più di ottanta) a dimostrazione di quanto questo racconto fosse diffuso tra i sumeri, fatto dimostrato anche dal rinvenimento in più città, oltre Nippur e Me Turan, anche Isin, Kiš, Sippar ed Ur ne hanno infatti restituito dei frammenti (rinvenuti persino nella città, oggi iraniana, di Susa). A differenza dell'epopea precedentemente descritta, Gilgameš e Agga, questa epopea è stata raccolta, segnatamente dalla Tavola II alla Tavola V, nella successiva "versione classica babilonese", opera dello scriba ed esorcista cassita Sîn-leqi-unninni. Tale racconto è presente anche nei frammenti delle epopee paleobabilonesi e in quella ittita.
L'opera di apre con l'intenzione manifestata dal re Gilgameš di recarsi presso la "montagna che dà la vita all'uomo", questo per rendere immortale il proprio nome. Enkidu, servitore fedele di Gilgameš, lo consiglia di conferire con il dio Sole, Utu. Gilgameš offre quindi un capretto bianco e uno striato a Utu, chiedendo al dio di accompagnarlo nel suo cammino, il dio Sole gli domanda le motivazioni del suo viaggio, allora il re di Uruk gli risponde:
« "O Utu, io ti voglio parlare, presta ascolto alle mie parole; Io mi voglio rivolgere a te, prestami attenzione. Nella mia città si muore, il cuore è oppresso; i miei cittadini muoiono, il cuore è prostrato. Io sono salito sulle mura della mia città e ho visto i cadaveri trasportati dalle acque del fiume; e io, pure io sarò così? Certo pure io! L'uomo, per quanto alto egli sia, non può raggiungere il cielo, l'uomo, per quanto grasso egli sia, non può coprire il Paese; nessun uomo l'ha (finora) avuta vinta sull'eccelso "mattone della vita". Io voglio entrare nella Montagna, voglio porre colà il mio nome; nel luogo dove ci sono già gli steli, voglio porre il mio nome; nel luogo dove non ci sono gli steli, voglio porre il nome degli dèi. »
È evidente nel testo di questa epopea sumerica che ciò che spinge Gilgameš ad affrontare questo viaggio pericoloso sia il tema della "morte", del "morire" evento superabile solo attraverso il rendere imperituro il proprio nome. Il dio Sole Utu accoglie la richiesta di Gilgameš e gli invia sette esseri divini che, unitamente a cinquanta giovani guerrieri di Uruk e al fedele Enkidu, lo accompagneranno nel pericolose sentiero della "Montagna che dà la vita". Il terribile guardiano della Montagna, ?ubaba (anche, e indifferentemente, ?umbaba o ?uwawa) li vede arrivare e invia loro un raggio potente che li fa addormentare. Ma il fedele Enkidu si sveglia, e visto il re addormentato, cerca di destarlo senza però riuscirvi, finché, dopo averlo massaggiato con dell'olio, questi si alza. Gilgameš è sempre deciso a raggiungere ?ubaba e, nonostante il servo Enkidu lo sconsigliasse, incede insieme a Enkidu, dopo averlo convinto a seguirlo, verso il guardiano. L'incontro tra il re di Uruk e il guardiano della "Montagna che dà la vita" non è breve: ?ubaba vuole uccidere Gilgameš ma, convinto da quest'ultimo, gli cede i propri terribili poteri in cambio delle due sorelle del re, come moglie, la prima (Enmebaragesi), e concubina, la seconda (Peštur), oltre che per dei sandali, grandi e piccoli. Gilgameš riesce ad ottenere in questo modo i sette terrori di ?ubaba. Spogliato dai suoi poteri, ?ubaba diviene alla mercé del re di Uruk che prima lo percuote e poi lo lega. Il guardiano, fatto prigioniero, invoca il dio Utu e chiede clemenza a Gilgameš che sta per concedergliela quando Enkidu, duramente apostrofato da ?ubaba, gli taglia la testa. A questo punto i due eroi si recano alla presenza del re degli dèi Enlil. Messo a conoscenza della vicenda, Enlil li redarguisce duramente per il destino inflitto al guardiano della Montagna, decidendo di distribuire i terrori di ?ubaba per tutta la terra.
Gilgameš e il Toro celeste
Di questa epopea conserviamo due versioni, una lunga 140 righe, rinvenuta a Me-Turan, è un'altra più lunga da Nippur. Tale epopea è stata ripresa nella successiva "versione classica babilonese", opera dello scriba ed esorcista cassita Sîn-leqi-unninni, segnatamente alla Tavola VI, anche se, e questo va subito evidenziato, con una decisa differenza nelle motivazioni che spingono la dea Innana a recarsi da suo padre, il dio della volta celeste, An, per chiedergli di inviare sulla terra il "Toro celeste".
Dopo un avvio poetico sulla figura di Gilgameš, l'epopea introduce la dea Inanna che dal parapetto del suo tempio, l'E-anna, indirizza queste parole al re di Uruk:
«Mio toro, mio uomo, non ti consentirò di agire a piacimento Gilgameš non ti consentirò di agire a piacimento io non ti permetterò di esercitare giustizia nel mio Eanna »
Si ritiene che questa intimazione della dea faccia riferimento al fatto che il re Gilgameš intende porre sotto la sua giurisdizione il tempio e il personale dedicato alla dea Inanna mentre la dea non intende accettare questo sconfinamento. E dopo le insistenze di Gilgameš, la dea si reca al cospetto di An, padre degli dèi e dio Cielo, per chiedere che invii sulla terra il temibile "Toro celeste" affinché uccida Gilgameš. Dapprima An si rifiuta di assecondare le richieste di Inanna ma dopo che ella incomincia ad emettere un grido che potrebbe far riavvicinare il Cielo alla Terra si decide a concedergli il "Toro celeste" il quale, giunto sulla terra, procura devastazioni nel regno di Gilgameš. Il re di Uruk quindi lo affronta e lo uccide. Nella versione di Me-Turan la vicenda epica si conclude con Gilgameš che lancia all'indirizzo di Inanna, che fugge, una coscia del Toro divino appena ucciso.
Gilgameš, Enkidu e gli Inferi
Questa epopea sumerica è stata ricostruita grazie alla disponibilità di trentasette documenti. Parte di questa è stata tradotta in accadico nella XII Tavola della "versione classica babilonese", opera dello scriba ed esorcista cassita Sîn-leqi-unninni. L'avvio del poema è di tipo "cosmogonico" quando il Cielo (an) si separa dalla terra (ki), l'umanità viene creata, An diviene il dio Cielo, Enlil diviene il re degli dèi e governatore della terra, la dea Ereškigal soprintende agli inferi. Enki, il dio dell'abisso delle acque dolci intraprende un viaggio su una nave verso la Montagna che dà la vita, il Kur.
« In quei giorni, in quei giorni lontani, in quelle notti, in quelle notti lontane, in quegli anni, in quegli anni lontani, nei tempi antichi, quando ogni cosa venne alla luce; nei tempi antichi, quando ogni cosa "utile" fu procurata; quando nel tempio del Paese, pane fu gustato; quando il forno del Paese venne acceso; quando il cielo fu separato dalla terra; quando la terra fu separata dal cielo; quando l’umanità fu creata. quando An prese per sé il cielo quando Enlil prese per sé la Terra e a Ereškigal, in dono, furono dati gli Inferi; quando egli salpò, quando egli salpò con la nave; quando il padre salpò per il Kur, quando Enki salpò per il Kur allora contro il re le piccole pietre si abbattono contro Enki le grandi pietre si abbattono, - le piccole pietre sono le pietre della mano, le grandi pietre sono le pietre che fanno danzare le canne- »
La nave di Enki fa tuttavia naufragio durante una tempesta che sradica l'albero ?alub, che viveva isolato sulle rive del fiume Eufrate, trascinandolo via. La dea Inanna raccoglie l'albero con l'intenzione di farlo crescere nel giardino del suo tempio, l'E-anna a Uruk, per poi trarne, dal suo legno, un trono e un letto.
Ma l'albero ?alub, piantato nel giardino dell'E-anna, viene infestato da tre esseri demoniaci: tra le radici un serpente, che non teme incantesimi; tra i rami l'uccello, l'Anzu, che vi alleva i suoi piccoli; nel tronco si cela la vergine-spettro.
« Nelle sue radici un serpente che non teme magia, vi aveva fatto il nido, nei suoi rami l'uccello Anzu vi aveva deposto i suoi piccoli; nel suo tronco la vergine-fantasma vi aveva costruito la sua casa »
Inanna chiede quindi aiuto al fratello, il dio Sole (Utu) che però non le presta ascolto. Allora la dea si rivolge a Gilgameš, il quale armatosi affronta i tre esseri demoniaci cacciandoli. Consegnato l'albero ?alub alla dea, trattiene per se le sue radici che trasforma in pukku (tamburo), e i suoi rami traendone il mekku (le bacchette del tamburo). Impadronitosi di questo strumento musicale, costringe i giovani di Uruk a danzare al suo ritmo, sfinendoli. Giunta la sera, posa lo strumento, ma il pukku e il mekku precipitano negli Inferi.
Il fedele servitore Enkidu si offre di scendere nell'oltretomba per recuperare gli strumenti del suo re. Gilgameš accetta l'offerta del servitore, ma lo avverte di non indossare un vestito pulito (altrimenti i morti riconosceranno che egli è un vivo); di non spalmarsi unguenti profumati (altrimenti i morti lo circonderanno); di non gettare il "bastone che torna indietro (il boomerang, altrimenti coloro che sono stati uccisi da quel genere di arma lo raggiungeranno); e non deve indossare dei sandali, né impugnare uno scettro, non deve baciare o picchiare i suoi parenti. Enkidu scende negli Inferi ma viola tutte le consegne di Gilgameš, venendo così trattenuto nell'oltretomba. Gilgameš disperato si reca del re degli dèi Enlil che però non gli presta ascolto, quindi il re di Uruk fa visita al dio dell'Abisso delle acque dolci e della Saggezza, Enki, il quale intima al dio Sole (Utu) di aprire uno spiraglio nell'oltretomba di modo che Gilgameš possa incontrarsi con il fedele Enkidu. La conversazione tra i due verte sul destino degli uomini dopo la morte, che, in questo testo sumerico, non è governato da un principio di retribuzione "etico". Il destino degli uomini dopo la loro morte è invece piuttosto deciso dal "come" muoiano o da "quanti" figli hanno procreato prima di morire: in quest'ultimo caso più figli si ha generato e più il destino post-mortem appare felice.
« "Hai visto i miei bambini che non hanno visto la luce del sole, li hai visti?." "Sì li ho visti." "Come stanno?" "Essi giocano a una tavola d'oro e d'argento piena di dolci e miele." »
La morte di Gilgameš
Di questa epopea conserviamo due versioni, una di Nippur con due fonti che consentono di ricostruire 100 righe del testo sulle 450 originali, e una di Me-Turan, scoperta più recentemente.
L'Epopea apre con un lamento su Gilgameš morto, per poi tornare nuovamente al re di Uruk che sogna di essere ricevuto al consesso degli dèi dove gli viene comunicato che, seppure Gilgameš ha compiuto imprese eccezionali, resta la decisione ancestrale degli dèi di consegnare gli uomini alla morte, fatto salvo Ziusudra, l'uomo sopravvissuto al Diluvio universale grazie all'intervento di Enki, a cui gli dèi hanno concesso l'immortalità. Ciononostante l'assemblea divina comunica che, una volta trapassato negli Inferi, Gilgameš acquisirà il titolo e il compito di re e giudice dei morti. Risvegliatosi e raccontato il sogno, suo figlio Urulgal ne spiega alcuni aspetti per cui il sovrano di Uruk decide di farsi costruire una tomba monumentale in mezzo al letto del fiume Eufrate, facendone deviare momentaneamente il percorso, per esservi lì seppellito insieme alla sua corte. Tale narrazione documenta la "sepoltura collettiva" praticata dai sumeri, già individuata grazie alle scoperte archeologiche. Questa epopea non è ripresa nella versione babilonese.
« Il grande toro giace; mai più potrà alzarsi; il signore Gilgameš giace; mai più potrà alzarsi. »
« La catena di Namtar lo tiene stretto; non riesce più a liberarsi; come un pesce spaventato nello stagno che era ... è malato; egli è abbarbicato al ... »
Sono undici le tavole, rinvenute in differenti città della Mesopotamia (Sippar, Nerebtum,Šaduppum, Nippur), risalenti complessivamente al XVIII secolo a.C., che raccolgono quei frammenti in lingua accadica che gli studiosi ritengono costituenti un'unica opera che corrisponde al primo nucleo dell'Epopea di Gilgameš.
Tavola della Pennsylvania,
Grazie al colofone inserito al termine della Tavola della Pennsylvania, oggi conservata all'Museo di archeologia e antropologia dell'Università della Pennsylvania, la quale corrisponde alla II Tavola dell'opera, sappiamo che la prima versione della Saga del re di Uruk iniziava con il rigo 27 della I Tavola della versione "classica" ovvero con la frase: (lett. Egli è superiore agli altri [re]) quindi, come per tutta la letteratura mesopotamica per cui il primo rigo corrispondeva al "titolo" dell'opera, l'Epopea paleobabilonese aveva questo come titolo identificativo. Questa Tavola riporta le vicende narrate nella I e nella II Tavola dell'Epopea classica.
Tavola di Yale
Composta di 288 righe, la Tavola di Yale, oggi conservata presso la Yale Babylonian Collection a New Haven, è la continuazione della Tavola della Pennsylvania e corrisponde come contenuti alle II e III tavole dell'Epopea classica. Qui Gilgameš cerca di far adottare dalla propria madre, la dea Ninsun, l'amico Enkidu. Ma la dea rifiuta ed Enkidu scoppia in lacrime, per consolarlo, Gilgameš lo invita all'avventura nella Foresta dei Cedri, là dove vive il terribile guardiano ?ubaba. Ma Enkidu lo sconsiglia inutilmente: Gilgameš è determinato a realizzare una fama imperitura.
Tavole di Nippur
Sono due tavole risalenti alla città di Nippur, oggi conservate una a Philadelphia (presso l'University Museum di Philadelphia) l'altra a Baghdad presso il Museo nazionale iracheno. Contengono frammenti, nella prima corrispondono ai contenuti della II Tavola dell'Epopea classica, nella seconda alla IV Tavola, segnatamente al quarto sogno di Gilgameš.
Tavole di Tell ?armal
Sono due tavole conservate presso l'Iraq Museum di Baghdad, che risalgono alla città di Šaddupûm e corrispondono alla IV Tavola dell'Epopea classica. Elemento interessante è che nella seconda di queste tavole viene riportato che la Foresta dei Cedri è la residenza degli dèi. Quindi se nell'Epopea classica è evidente che il re di Uruk non conosca il luogo dove si sta recando, in quella paleobabilonese egli conosce il luogo dove intende recarsi.
Tavola di Išcali
Conosciuta anche come "Tavola di Bauer" (dal nome del suo primo curatore, l'assiriologo tedesco Theo Bauer, 1896–1957) o anche "Tavola di Chicago" (in quanto conservata presso l'Istituto orientale dell'Università di Chicago), ma più diffusamente come "Tavola di Išcali" dal luogo del suo rinvenimento (probabilmente corrisponde all'antica città di Nerebutum), in questa Tavola ambedue gli eroi, Gilgameš ed Enkidu, uccidono il guardiano ?ubaba; anche qui, la Foresta dei Cedri risulta essere la residenza degli dèi, dove i due eroi entrano dopo l'uccisione del guardiano. Significativo anche che il taglio dei cedri qui occorra come necessità in quanto questi alberi partecipavano della vita del mostro.
Tavola di Baghdad
La Tavola di Baghdad, che prende il suo nome dal fatto di essere conservata presso l'Iraq Museum di Baghdad, è un frammento correlato alla Tavola V dell'Epopea classica. Essa presente i due eroi dell'epopea, Gilgameš ed Enkidu, intenti, mentre avanzavano verso la "dimora segreta degli dèi", a una discussione di tipo "religioso" in quanto sono in procinto di tagliare un cedro con il legno del quale intendono costruire una porta nel tempio di Enlil a Nippur.
Tavole della Collezione Schøyen
Queste due tavole dell'Epepoea paleobabilonese sono conservate presso la Collezione Schøyen a Oslo in Norvegia. La loro provenienza è sconosciuta. La prima pubblicazione di queste due tavole la si deve all'assiriologo britannico Andrew R. George in The Babylonian Gilgamesh Epic - Introduction, critical edition and cuneiform texts, 1° vol., Oxford, Oxford University Press, 2003, pp. 219-240. Questi frammenti corrispondono alle Tavole II e IV della versione "classica".
Tavola di Meissner-Millard
Questa Tavola, così indicata dai nomi dell'assiriologo tedesco Bruno Meissner (1868–1947) e dell'assiriologo britannico Alan Ralph Millard (1937), conosciuta anche come "Tavola di Sippar" dal luogo della sua provenienza o anche "Tavola di Berlino e di Londra" (oggi una parte è conservata presso il British Museum di Londra mentre l'altra è conservata presso il Museo di Berlino), contiene alcuni avvenimenti correlati alla tavola X dell'Epopea classica. Una sostanziale differenza con quest'ultima è la risposta che la divina taverniera Šiduri dà al re di Uruk (nell'Epopea classica Šiduri non risponde alle angosce di Gilgameš) che si lamenta della scomparsa dell'amico Enkidu e della presenza della morte:
« Gilgameš dove stai andando? La vita che tu cerchi, tu non la troverai. Quando gli dèi crearono l'umanità, essi assegnarono la morte per l'umanità, tennero la vita nelle loro mani. Così Gilgameš, riempi il tuo stomaco, giorno e notte datti alla gioia, fai festa ogni giorno. Giorno e notte canta e danza, che i tuoi vestiti siano puliti, che la tua testa sia lavata, lavati con acqua, giosci del bambino che tiene (stretta) la tua mano, possa tua moglie godere al tuo petto: questo è il retaggio (dell'umanità). »
Dal che, a differenza del testo dell'epopea classica che motiverà la mortalità dell'umanità come conseguenza del Diluvio Universale, qui, invece, gli uomini sono da sempre in quanto creati tali, mortali.
Le epopee mediobabilonese e medioassira
Del periodo mediobabilonese, quindi del periodo in cui è vissuto lo scriba Sîn-leqi-unninni, conserviamo diversi frammenti: uno da Ur, uno da Nippur, due da Emar (Siria), uno da Megiddo (Palestina), uno da Assur, uno da Kalkhu.
I frammenti ittiti, accadici e ?urriti
I diversi frammenti in cuneiforme ittita del così indicato Canto di Gilgameš provengono dall'antica città di ?attuša (oggi Bogazkale in Turchia), segnatamente dall'area del Tempio I della Città Bassa e dall'edificio K della Città Alta. Da evidenziare il fatto che il Canto di Gilgameš in lingua ittita è, a differenza di tutte le altre edizioni dell'epopea, in prosa anziché in versi. Questa redazione ittita sembrerebbe raggiungere una certa unitarietà, senza tuttavia consentire di parlare di un unico "canto" ittita di Gilgameš: dalle origini di Gilgameš fino al suo incontro con Utanapištim, passando per le vicende che ineriscono alla Foresta dei Cedri e all'incontro con il guardiano, qui indicato in antico sumerico come ?uwawa. Alcuni frammenti dell'epopea ittita risentono comunque dell'influenza di una versione ?urrita in quanto ne conservano i nomi propri.
« Levo un inno al divino Gilgameš, il valente! Creatala, [fece perfetta] il forte dio la figura del divino Gilgameš. [I grandi dèi] crearono la figura del divino Gilgameš: il Sole del cielo [gli] dette [la forza virile], il dio della tempesta gli dette animo di eroe. I grandi dèi crearono il divino Gilgameš: la sua figura era alta undici braccia, il suo petto largo nove spanne, il suo membro lungo tre [palmi]. Tutte le terre egli percorre. Arrivò ad Uruk e [...]: ogni giorno andava vincendo i giovani di Uruk ». Sempre ad ?attuša sono stati rinvenuti frammenti di una redazione accadica e di una ?urrita, quest'ultima pressoché indecifrabile.

gilgames 1


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