L'Epopea classica babilonese
Il titolo comunemente assegnato a questa opera, "Epopea di Gilgameš", è moderno e non riferibile in alcun modo ai suoi estensori. Nei cataloghi antichi, sumeri, assiri e babilonesi, qualsiasi opera era identificata con il suo primo rigo, o più precisamente con parte del suo primo rigo. Questa versione, indicata dai moderni come "classica", è attribuita allo scriba ed esorcista cassita Sîn-leqi-unninni e fu rinvenuta, circa due secoli or sono, in frammenti di argilla tra le rovine della biblioteca reale nel palazzo del re Assurbanipal a Ninive, capitale dell'impero assiro. Tale opera è stata certamente raccolta e canonizzata prima dell'VIII secolo a.C., forse intorno al XII secolo a.C., e successivamente fedelmente riprodotta come era costume degli scribi. Questa versione classica era raccolta in XII tavole, la cui maggior parte è composta da tre colonne, sia nella parte anteriore che in quella posteriore. Ogni colonna si compone di 50 righe, dal che gli studiosi deducono che l'intera opera fosse composta da circa 3000 righe, di cui più di 2000 sono giunte fino a noi. La divisione dell'Epopea classica nelle XII tavole non segue una logica di "contenuto", ma semplicemente di "lunghezza": quando una tavola esauriva lo spazio per il racconto, questo veniva fatto seguire in quella successiva; accade quindi che un singolo racconto dell'Epopea possa occupare lo spazio di più tavole.
Tavola I
Incipit della Tavola in accadico: colui che vide le profondità, [e anche] le fondamenta della terra.
Introduzione poetica alla figura di Gilgameš. Parte della prima riga di questa prima Tavola dà il titolo all'intero poema, com'è consuetudine nella tradizione mesopotamica: Colui che vide le profondità, [e anche] le fondamenta della terra; nei colofoni, alla prima parte del primo rigo (Colui che vide le profondità), viene aggiunta la frase "Serie di Gilgameš". Questo primo rigo è anche l'incipit poetico sulla figura di Gilgameš: colui che ha visto ogni cosa, persino le fondamenta della terra, e in "ogni cosa realizzò la completa saggezza". Gilgameš fece incidere quindi su pietra le sue gesta. Fu lui a erigere le mura di Uruk. Segue la descrizione della vastità di questa città. L'estensore del poema invita quindi il lettore a cercare quella cassetta di rame (cedro) in cui sono celate le tavole con la storia di "Gilgameš colui che patì tutte le sofferenze". Così Gilgameš, figlio della dea Ninsun e del dio-re Lugalbanda, è possente e terribile, pronto ad aiutare i suoi fratelli, pronto a creare nuovi passi tra le montagne e a scavare pozzi nei dirupi. Gilgameš attraversò l'Oceano arrivando "ai confini del mondo per cercare la vita eterna", raggiungendo, infine, Utanapištim; Gilgameš è colui che ristabilì il culto dopo il Diluvio. Gilgameš è per due terzi dio e per un terzo uomo.
La creazione di Enkidu e l'incontro con la prostituta sacra Šam?at. Gilgameš ha le armi sempre pronte e al suono del pukku (tamburo) fa accorrere i suoi guerrieri. Il padre degli dèi ascolta i lamenti delle mogli di questi e dei loro genitori, e convoca Aruru (dea madre) affinché generi una controparte di Gilgameš di modo che il re lasci i guerrieri alle loro famiglie. Aruru preso un grumo di creta lo pianta nella steppa generando così un guerriero primivito: Enkidu. Questi vive selvaggio come un animale insieme agli altri animali. Enkidu difende le bestie dai cacciatori e uno di questi, spaventato dalla forza del guerriero primitivo, si reca da Gilgameš raccontandogli l'accaduto. Il re di Uruk gli consegna la prostituta sacra Šam?at suggerendogli un incontro con Enkidu. Il cacciatore e Šam?at raggiungono i luoghi selvaggi dove vive il guerriero primitivo e incontratolo, il cacciatore invita Šam?at a denudarsi e ad allargare le gambe. Šam?at si offre ad Enkidu per sei giorni e sei notti, ma quest'ultimo, dopo gli amplessi, non viene riconosciuto più dagli animali suoi compagni che ora fuggono da lui. Grazie alla relazione amorosa con Šam?at, a Enkidu la forza bestiale diminuisce e di converso gli sorge l'intelligenza degli uomini. Allora Šam?at invita Enkidu ad abbandonare le bestie e a recarsi con lei a Uruk, presentandosi al suo re, Gilgameš, colui che primeggia nella potenza. Enkidu accetta l'invito della prostituta sacra convinto di poter sfidare e quindi sconfiggere il re di Uruk. Šam?at comunica a Enkidu la forza e la bellezza del re e lo informa che Gilgameš sarà avvertito da un sogno sul suo arrivo.
I sogni di Gilgameš. Il re di Uruk sogna e racconta il suo sogno alla madre, la dea Ninsun: qualcosa di somigliante al Cielo gli crolla addosso e nonostante gli sforzi il re non riesce a smuoverlo. Gli abitanti corrono e baciano i piedi a questa cosa simile al Cielo. Gilgameš quindi lo abbraccia e lo ama come una moglie e lo porta da sua madre, la dea Ninsun che lo adotta come un figlio. Allora la madre dea spiega al re il significato del sogno: la cosa simile al Cielo è un compagno forte che lo proteggerà. Gilgameš racconta un secondo sogno alla madre dea: un'ascia bipenne cade nelle strade di Uruk e una folla accorse a guardarla. La madre dea spiega anche il secondo sogno al re suo figlio: l'ascia bipenne rappresenta un compagno forte come la montagna che lo salverà. Gilgameš prega allora la madre perché faccia giungere a lui questo compagno. Šam?at racconta i sogni del re a Enkidu mentre fanno l'amore.
Tavola II
Incipit della Tavola in accadico: Enkidu era sdraiato vicino a lei.
Il viaggio di Enkidu verso Uruk. Facendo l'amore con Šam?at, Enkidu dimentica il luogo dove era nato: per sette notti fecero l'amore. Quindi la prostituta sacra invita Enkidu a raggiungere Uruk con lei dove potrà conoscere Gilgameš il re simile a un toro e potente più di qualsiasi uomo. Enkidu acconsente e Šam?at avvolge con una sua veste le sue nudità, ricoprendo sé stessa con una seconda veste. Insieme raggiungono una capanna di pastori, che li accolgono offrendo loro pane (in accadico: a-ka-lu; sumerico: aš) e bevande (birra, in accadico: ši-ka-ru; sumerico: kaš). Ma Enkidu non mangia il pane e non beve la birra, egli non ne è capace e si risolve a farlo solo dopo l'invito di Šam?at che gli indica il pane come adatto alla divinità e la birra come adatta alla regalità. A questo punto il testo ha delle lacune, ma sappiamo dalla versione paleobabilonese che durante il tragitto Enkidu e Šam?at incontrano un cittadino di Uruk che rivela a Enkidu le leggi del regno di Gilgameš, nella quale vige lo ius primae noctis, riservandosi il re la prima notte di amore con una sposa. Questo fa infuriare Enkidu.
Il combattimento tra Enkidu e Gilgameš. Giunto a Uruk, Enkidu impedisce a Gilgameš di entrare nella casa di una sposa. I due avviano la lotta, e anche se in questo punto vi è una lacuna di 37 righe si capisce che Enkidu ha la meglio su Gilgameš, ma gli riconosce la superiorità. La dea madre di Gilgameš, Ninsun, rincuora il figlio sconfitto, spiegandogli che è stato battuto da un essere senza padre né madre, che viveva nelle steppe e che nessuno poteva domare. Nasce la forte amicizia tra Enkidu e Gilgameš. Quest'ultimo gli propone di recarsi con lui nella Foresta dei Cedri per uccidere il mostruoso guardiano ?ubaba.
La decisione Gilgameš di recarsi nella Foresta dei Cedri per uccidere il guardiano ?ubaba. Gilgameš avverte Enkidu della grande forza del guardiano della Foresta dei Cedri, ?ubaba, luogo che procura spossatezza a chi lo attraversa e gli spiega che la ragione per cui intende affrontare questa avventura consiste nell'obiettivo di realizzare una fama imperitura che lo renda immortale. Armatisi di un'ascia bipenne del peso di un talento (35 kg.) e di spade dello stesso peso, convocano gli anziani che sconsigliano il loro re, Gilgameš, a intraprendere una simile avventura che certamente lo porterà alla morte. Ma il re non si lascia convincere, qui vi è una lacuna di 33 righe nel testo, ma sappiamo dalla versione paleobabilonese (II, 209-242) che Gilgameš chiede un oracolo al dio Sole (Šamaš, in sumerico: Utu) che pur malvolentieri gli garantisce l'aiuto. Allora gli anziani di Uruk accettano la spedizione del re, benedicendolo.
Tavola III
Incipit della Tavola in accadico: gli anziani della città lo benedissero al momento della partenza da Uruk.
Prima di partire per la Foresta dei Cedri. Gli anziani benedicono Gilgameš e lo consigliano di non confidare solo sulla propria forza, ma solo del suo primo intuito. Lo consigliano anche di mandare avanti Enkidu, combattente avvezzo alla lotta e alle guerre e pronto a difenderlo. Enkidu e Gilgameš si recano quindi dalla dea madre Ninsun, e Gilgameš le comunica l'intenzione di affrontare il guardiano ?ubaba. La dea si purifica e quindi invoca il dio Sole, Šamaš:
« "Perché hai scelto proprio mio figlio Gilgameš dandogli un cuore a cui non è concesso quiete?
E ora, dopo che tu lo ha contaminato, egli vuole intraprendere
il lungo viaggio per il luogo dove abita ?ubaba.
Egli ingaggerà una lotta dall'esito incerto,
camminerà per sentieri sconosciuti,
fino al giorno in cui, dopo aver viaggiato in lungo e in largo,
non raggiungerà finalmente la Foresta dei Cedri,
e ucciderà il feroce ?ubaba,
sterminando nella montagna tutto il male che tu odi. »
Dopodiché la dea Ninsun convoca Enkidu e gli affida il proprio figlio Gilgameš. Anche gli anziani di Uruk invocano Enkidu affinché riporti sano e salvo il loro re. Enkidu si rivolge al proprio amico Gilgameš sconsigliandolo dall'intraprendere il pericoloso viaggio. Segue una lacuna di circa 50 righe e la III tavola termina.
Tavola IV
Incipit della Tavola in accadico: [Dopo venti] leghe di marcia essi spezzarono il pane).
In marcia verso la Foresta dei Cedri e i cinque sogni premonitori di Gilgameš. In marcia verso la Foresta dei Cedri, la colonna guidata dal re di Uruk Gilgameš, con il suo fido compagno Enkidu, si ferma dopo venti leghe per mangiare, dopo trenta per accamparsi per la notte, e così via per tre giorni in cui percorsero un viaggio che in genere si compie in un mese e mezzo, raggiungendo le montagne del Libano. A questo punto Gilgameš sale in cima della montagna e offre delle libagioni (farina) al dio Sole, Šamaš, pregandolo di inviargli un sogno premonitore. Enkidu prepara il giaciglio per il re (all'interno di un tempio di Zaqiqu, ovvero dispone di un luogo per l'incubazione del sogno premonitore) e lo fa sdraiare all'interno di un cerchio. Nel mezzo della notte quest'ultimo si sveglia raccontando all'amico di aver sognato una montagna che li avrebbe schiacciati. Enkidu spiega il significato del sogno al re: la montagna che gli crolla addosso rappresenta il guardiano ?ubaba che verrà presto da loro ucciso. La vicenda si ripete: altri giorni di marcia, offerte al dio e richiesta di un sogno premonitore; il secondo sogno è in questa Tavola assente (lacuna di 17 righe nella versione classica rinvenuta a Ninive), ma è presente nella versione tardo ittita dove si racconta che una montagna atterra Gilgameš afferrandolo per i piedi, divampa una luce abbagliante, un uomo maestoso trae da sotto la montagna Gilgameš offrendogli dell'acqua e calmandolo, l'interpretazione riguarda sempre la sconfitta di ?ubaba (la montagna) con l'aiuto di Enkidu (l'amico). Ancora giorni di marcia e richiesta del sogno premonitore; il terzo sogno di Gilgameš consiste in una tempesta che fa divampare incendi e piovere la morte, ancora Enkidu interpreta favorevolmente il sogno. Ancora giorni di marcia e richiesta di un sogno premonitore che si manifesta con una visione di un essere (anche qui lacune nella tavola) che Enkidu interpreta come ?ubaba che presto uccideranno. La vicenda si ripete per la quinta e ultima volta, ma il racconto è assente per una lacuna di 22 righe ma lo si ricostruisce con la versione paleobabilonese: Gilgameš viene afferrato per la vita da un toro furioso il cui scalpitare oscura il cielo, un altro essere gli offre dell'acqua; l'interpretazione è che il toro sia il dio Sole che protegge il re, mentre l'altro essere è il dio personale del re. A questo punto Gilgameš si rivolge al dio Sole, Šamaš, chiedendo l'aiuto e il soccorso promessi. Šamaš gli risponde spronandolo ad attaccare subito ?ubaba in quanto ora è fuori dalla Foresta dei Cedri e indossa solo uno dei sette vestiti (terrori). Ecco che Gilgameš prosegue per raggiungere il mostro, ma lo teme ed Enkidu lo rincuora ricordandogli i suoi obiettivi e la sua stessa natura di re guerriero.
Tavola V
Incipit della Tavola in accadico: essi stavano ai margini della foresta.
L'arrivo nella foresta, il taglio dei cedri, il combattimento con il divino guardiano ?ubaba e la sua uccisione. Gilgameš ed Enkidu sono ora ai margini della Foresta dei Cedri, turbati dall'assistere ?ubaba che vi entra e vi esce procurando terremoti al suo passaggio. I cedri si alzano maestosi e la montagna ospita il santuario di Irnini. Gli eroi avviano l'abbattimento dei cedri provocando l'intervento del guardiano ?ubaba. A questo punto la Tavola V della versione di Ninive presenta solo poche righe frammentarie risultando poi lacunosa fino alla fine. Nella versione di Uruk, a questo punto del racconto, Gilgameš ha paura ad affrontare ?ubaba ma viene rincuorato da Enkidu. Si arriva allo scontro finale, quando interviene il dio Sole, Šamaš, che aiuta i due guerrieri scagliando contro ?ubaba la tempesta, l'uragano e il demone Asakku, impedendogli in questo modo sia di avanzare che di indietreggiare. Paralizzato dall'intervento del dio Sole, ?ubaba diviene facile preda di Gilgameš. Prima di morire ?ubaba invoca clemenza promettendo doni al re di Uruk, implorando anche la pietà di Enkidu il quale, invece, sprona il re a uccidere presto il guardiano della Foresta dei Cedri, guadagnando così la fama imperitura. Il successivo racconto dell'uccisione di ?ubaba è andato perduto anche nella versione di Uruk, ma è conservato nella "Tavola di Išcali" della versione paleobabilonese, qui i due eroi si scagliano contro il guardiano della foresta, Gilgameš è armato di ascia e di spada e lo colpisce alla nuca, mentre Enkidu lo trafigge al cuore. Al terzo colpo ?ubaba cade morto, procurando un assordante rumore che si ode anche a grande distanza. Dopodiché i due eroi continuano il taglio dei cedri.
Tavola VI
Incipit della Tavola in accadico: egli lavò la sua sporcizia e purificò le sue armi. Con questa Tavola si avvia il racconto che possiede delle corrispondenze con il testo sumerico Gilgameš e il Toro celeste (versione di Me-Turan, in sumerico: Dell'eroe in battaglia, dell'eroe in battaglia, io voglio intonare il canto).
Gilgameš si rifiuta di sposare la dea Ištar e uccide il Toro celeste. Gilgameš si lava e purifica le sue armi, indossando gli abiti regali e la corona. Ištar (la potente dea di Uruk, signora dell'amore, della fertilità e della guerra, che in sumerico viene indicata con il nome di Inanna) nota la bellezza del re e lo invita a essere il suo sposo, promettendogli doni e poteri. Ma Gilgameš si rifiuta adducendo come motivazione il timore di finire come i precedenti amanti della dea che elenca: Dumuzi, l'uccello Alallu, il leone dalla forza perfetta, il cavallo che si impone nella battaglia, il pastore, Išullanu (il giardiniere del padre della dea, Anu, il dio della volta celeste, lo An sumerico), tutti immancabilmente finiti miseramente. Ištar, rifiutata dal re, si infuria e si reca in cielo dal padre, il dio Anu, chiedendogli il Toro celeste da inviare contro Gilgameš. Il dio Anu dapprima rifiuta ma dopo la minaccia di Ištar di aprire le porte degli inferi facendo uscire i morti, l'avverte che il Toro celeste provocherà sette anni di carestia. Allora la dea organizza il raccolto che possa far fronte alle esigenze degli uomini e delle bestie, convincendo il padre a concedergli il Toro. Il Toro celeste si abbatte sulla terra uccidendo alcuni giovani di Uruk, ma Enkidu lo affronta trattenendolo, finché Gilgameš non lo abbatte con la sua spada. Enkidu e Gilgameš estraggono il cuore del Toro celeste e lo offrono al dio Sole, Šamaš. A questo punto Ištar sale sulle mura di Uruk e maledice Gilgameš. Enkidu si decide quindi a strappare una spalla al Toro rimasto esanime, lanciandola all'indirizzo della dea, proferendogli contro veementi minacce. Allora la dea raccoglie intorno a sé le ierodule e le prostitute intonando un lamento all'indirizzo del divino Toro. Gilgameš riunisce gli artigiani della città che ammirano le corna del Toro composte da lapislazzuli, possedendo una capienza di sei kùr di olio. Il re dona le corna del Toro al dio Lugalbanda, lavandosi poi le mani nel fiume Eufrate. Rientrato nel palazzo reale, Gilgameš dà una festa e successivamente va a dormire; anche Enkidu si addormenta ma ha un sogno e al risveglio domanda al re per quale ragione i grandi dèi si erano riuniti in consiglio.
Tavola VII
Incipit della Tavola in accadico: Enkidu [aprì la bocca e parlò]. Le prime 25 righe di questa Tavola sono andate perdute, ma sono ricostruibili a partire dalla III Tavola della versione ittita: i grandi dèi si riuniscono a consulto per valutare la condotta sacrilega di Gilgameš e di Enkidu che hanno ucciso due esseri divini, il guardiano ?ubaba e il Toro celeste, decidendosi per la morte di Enkidu.
Il vaneggiamento di Enkidu che parla alla porta del tempio del dio Sole, Šamaš. Enkidu si risveglia e vaneggiando si rivolge alla porta accusandola di essere stolta nonostante lui l'abbia costruita da uno splendido cedro e posta come porta nel tempio del dio Sole, Šamaš. Accusandola che presto verrà attraversata dal re che si dimenticherà di lui, Enkidu distrugge la porta. Gilgameš osserva la scena e piangendo chiede all'amico perché stia vaneggiando, preoccupato per il sogno che ha fatto, giurando di provvedere a implorare il dio Enlil, re degli dèi, e di costruire una statua d'oro a ricordo di Enkidu.
Le maledizioni di Enkidu e il suo ripensamento. Enkidu si rivolge al dio Sole, Šamaš, maledicendo il cacciatore che si era recato da Gilgameš per denunciarne l'esistenza (vedi tav. I) e maledice anche la prostituta sacra Šam?at che lo aveva strappato dalla sua natura libera e selvaggia. Ma il dio Šamaš gli risponde redarguendolo e ricordandogli come Šam?at, la prostituta sacra a lui dedicata, lo abbia strappato da una vita selvaggia consegnandolo alla civiltà e al ricordo imperituro degli uomini. Il dio Šamaš lo avverte anche che Gilgameš dopo la sua morte trascurerà sé stesso vagando per la steppa vestito solo di una pelle di leone. Allora Enkidu si placa e ritirando tutte le terribili maledizioni indirizzate contro Šam?at, la benedice.
La morte di Enkidu. Enkidu giace ammalato e racconta a Gilgameš un sogno: un essere portentoso simile all'aquila Anzu lo percuote, nel sogno Gilgameš ha paura e non corre in aiuto dell'amico; l'Anzu trasforma Enkidu in una colomba e lo conduce negli Inferi da dove non si può più uscire, dove gli esseri sono vestiti come uccelli e non vedono la luce mangiando polvere e argilla, dove tutte le corone dei re della terra che sono trapassati sono ammucchiate, dove abita Etana, dove regna la regina Ereškigal. Il resto del testo è parzialmente lacunoso Ereškigal domanda chi ha preso Enkidu, Enkidu invoca Gilgameš a non dimenticarlo e poi procede con l'agonia di Enkidu fino a che quest'ultimo invoca, gridando, nome dell'amico.
Tavola VIII
Incipit della Tavola in accadico: quando sorse l'alba.
Lamentazione funebre di Gilgameš per la morte dell'amico Enkidu e il funerale dell'eroe. La Tavola VIII dell'Epopea narra ciò che accade dopo la morte di Enkidu: le lamentazioni di Gilgameš (prime 55 righe) la disperazione per la morte dell'amico (fino al rigo 89) dove Gilgameš si spoglia dei suoi ornamenti e ordina agli artigiani di fabbricare una statua preziosa che rappresenti Enkidu, infine la cerimonia funebre (fino all'ultimo rigo, ma con varie lacune, il n.230).
Tavola IX
Incipit della Tavola in accadico: Gilgameš per l'amico Enkidu.
Gilgameš disperato per la perdita dell'amico Enkidu e sgomento di fronte alla morte, cerca l'eternità. Gilgameš disperato per la scomparsa di Enkidu e angosciato dalla paura della morte vaga per la steppa, decidendo di raggiungere l'unico uomo a cui gli dèi hanno donato l'immortalità: Utanapištim.
Il monte Mašu, l'incontro con gli uomini-scorpione e l'arrivo nel giardino del dio Sole. Gilgameš raggiunge quindi il monte Mašu (monte "gemello", mašu, in quanto, probabilmente, è caratterizzato da due vette una rivolta a ovest e l'altra a est) sopra di cui si colloca la volta celeste (šamû) e sotto il quale scendono gli Inferi (arallú) e al cui ingresso e alla cui uscita si pongono a guardia i temibili uomini-scorpione (girtablilu), guardiani del sorgere e del tramontare del Sole (Šamaš). Gli uomini-scorpione riconoscono in Gilgameš un essere per due terzi divino e per un terzo umano e lo avvertono che nessun uomo è mai riuscito ad attraversare questa montagna il cui percorso è per dodici doppie lunghe ore completamente buio, consigliandolo di seguire la via di Šamaš (il Sole). Dopo una lacuna di 38 righe il testo riprende con gli uomini-scorpione che aprono l'ingresso del monte Mašu a Gilgameš lasciandolo entrare. Gilgameš segue il loro consiglio seguendo nel profondo buio la via del Sole e giungendo infine nel giardino luminoso del dio Sole ricco di alberi di pietre preziose, incontrando Šiduri, la taverniera divina che vive lungo le rive del mare.
Tavola X
Incipit della Tavola in accadico: la divina Šiduri, la taverniera che vive sulla riva del mare.
Gilgameš e la divina taverniera Šiduri . La divina Šiduri è ricca e Gilgameš vestito solo di una pelle le gira attorno. Gilgameš, che sì ha carne divina ma il cuore pieno d'angoscia. Šiduri lo scorge da lontano e si rifugia in casa sbarrando la porta, sospettando che Gilgameš altri non sia che un assassino. Gilgameš si avvicina alla casa della taverniera e le comunica che è il re che ha ucciso ?ubaba, il guardiano della Foresta dei cedri, e il Toro celeste. Šiduri lo interroga su quale sia la ragione per cui è ridotto in condizioni così misere, allora Gilgameš le risponde che non potrebbe essere altrimenti visto che ha perso l'amico Enkidu e che ora è angosciato dal pensiero della morte. Gilgameš chiede alla taverniera quale sia la strada per raggiungere l'unico uomo immortale, Utanapištim, ma Šiduri gli risponde che nessuno ha mai attraversato il mare al di fuori del dio Šamaš comunicandogli che comunque il traghettatore di Utanapištim, Uršanabi, è ora nella vicina foresta attento a tagliare alberi.
L'incontro con il battelliere Uršanabi e l'attraversamento delle Acque della Morte (Me Muti). Gilgameš raggiunge la foresta armato e si scontra con Uršanabi che lo colpisce ma anche gli domanda quale sia la ragione del suo stato pietoso e di rimando Gilgameš gli dà la stessa risposta offerta alla divina taverniera: «L'amico mio che io amo, è diventato argilla/e io non sono come lui? Non dovrò giac[ere pure io e non alzarmi mai più?» (Tav. X vv. 145-6). Uršanabi spiega al re di Uruk che da solo non può raggiungere l'altra sponda e che per prima cosa deve costruire dei pali forniti di pomelli e portarglieli. Gilgameš predisponde quanto richiestogli dal battelliere, e i due si imbarcano per il pericoloso viaggio, raggiungendo le Acque della Morte. Uršanabi avverte Gilgameš che non deve prendere contatto con le acque mortifere e in tre giorni compirono un viaggio che normalmente si percorre in un mese e mezzo. Dall'altra riva Utanapištim osserva il re di Uruk e si rende conto che non è una persona da lui conosciuta.
L'incontro con Utanapištim . Infine Gilgameš raggiunge Utanapištim il quale gli chiede conto delle sue condizioni pietose, anche a lui il re di Uruk spiega che la morte dell'amico Enkidu e la scoperta della morte lo hanno angosciato, la taverniera non lo ha aiutato e ora sta lì di fronte Utanapištim che agognava di incontrare. Utanapištim gli replica che non ha senso che un essere divino destinato ad essere re viva come un mendicante e che la sua agitazione gli ha fatto solo «avvicinare il giorno lontano della verità» (rigo 300, lett. "hai avvicinato a te i tuoi giorni lontani". Utanapištim spiega quindi al re di Uruk che:
« L'umanità è recisa come canne in un canneto.
Sia il giovane nobile, come la giovane nobile
[sono preda] della morte.
Eppure nessuno vede la morte,
nessuno vede la faccia della morte,
nessuno sente la voce della morte.
La morte malefica recide l'umanità.
Noi possiamo costruire una casa,
noi possiamo costruire un nido,
i fratelli possono dividersi l'eredità
vi può essere guerra nel Paese,
possono i fiumi ingrossarsi e portare inondazione:
(il tutto assomiglia al)le libellule (che) sorvolano il fiume-
il loro sguardo si rivolge al sole,
e subito non c'è più nulla. »
(Tav. X vv. 301-315)
Tavola XI
Incipit della Tavola in accadico: Gilgameš gli parlò, parlò al lontano Utanapištim.
Utanapištim racconta il Diluvio. Gilgameš dice a Utanapištim che non nota alcuna differenza con lui, le loro membra sono uguali, quindi gli domanda come abbia ottenuto l'immortalità dagli dèi. Utanapištim gli risponde raccontandogli un segreto: nell'antica città di Šuruppak, che si colloca sulle rive dell'Eufrate, abitavano gli dèi che un giorno decisero di inviare il Diluvio sulla terra, giurando su questo tra loro. Ma il dio Ea (l'Enki sumerico) decise di rivelare il piano alla parete di una capanna, avvertendo così il figlio di Ubartutu, Utanapištim, di abbattere la sua casa costruendo una nave, abbandonando quindi tutti i suoi possedimenti per aver salva la vita. Ea gli intimò anche di far salire sulla nave tutte le specie di esseri viventi. Utanapištim obbedì a Ea, ma gli chiese cosa avrebbe dovuto rispondere alle domande dei suoi concittadini. Ea gli consigliò di raccontare che il re degli dèi, Enlil, era adirato con lui e quindi aveva deciso di sfuggirgli scendendo nell'Apsu (sumerico: Abzu; le acque sotterranee, lì dove vive il dio Ea/Enki) per vivere con Ea; di converso, Enlil, avrebbe recato abbondanza e ricchezze agli altri cittadini di Šuruppak. Utanapištim approntò quindi la nave, divisa in sei comparti e alta sette livelli per centoventi cubiti complessivi, alloggiando la sua famiglia, le varie specie di esseri viventi, le provviste e i tesori che possedeva. Il dio Sole Šamaš avvertì Utanapištim dell'arrivo del Diluvio facendo piovere focacce e grano su Šuruppak: fu il segnale perché Utanapištim si rifugiasse dentro la nave sbarrandone la porta. Il giorno si fece tenebra e una terribile tempesta sconvolse la città e tutta la terra. Anche alcuni dèi ebbero timore del diluvio: Ištar, Beletili e altri Annunaki si lamentarono di ciò che avevano procurato. Per sette giorni e sette notti il terribile Diluvio si abbatté sulla terra.
Utanapištim racconta ciò che accadde dopo il Diluvio. All'alba del settimo giorno il Diluvio cessò. Utanapištim guardò fuori dalla nave dove regnava il silenzio: l'intera umanità era tornata ad essere argilla. Utanapištim pianse con fiumi di lacrime, guardando fuori la nave scorse un'isola e quindi l'imbarcazione si incagliò sulla vetta del monte Nimuš. All'alba del settimo giorno Utanapištim liberò una colomba che tornò indietro perché non trovò un luogo dove fermarsi. Quindi liberò una rondine ma anch'essa tornò. Infine un corvo che invece avendo trovato cosa mangiare e dove posarsi, non tornò. Utanapištim si risolse quindi ad abbandonare la nave, predisponendo un sacrificio di libagioni in sette vasi con canna, cedro e mirto. Allora tutti gli dèi si raccolsero intorno all'offerta di profumi per nutrirsi della loro fragranza, ma Utanapištim intimò al re degli dèi, Enlil, di non accostarvisi, in quanto fu colui che aveva deciso di scatenare il Diluvio distruggendo l'umanità. Enlil giunse nei pressi della nave di Utanapištim e scoperto che alcuni uomini erano scampati al Diluvio, si infuriò, domandandosi quale dio li aveva potuti avvertire, ponendoli in salvo. Ninurta gli rispose che con ogni probabilità a compiere ciò era stato Ea.
Utanapištim racconta il diverbio tra gli dèi. Ea allora intervenne accusando di sconsideratezza Enlil, che avrebbe dovuto punire gli uomini che compivano i delitti piuttosto che ucciderli. Sarebbe stato infatti preferibile diminuirne il numero, ma non sterminarli tutti. Poi Ea precisò che non aveva avvertito nessuno, ma solo inviato un sogno ad Atra-?asis che quest'ultimo aveva correttamente interpretato. Ea concluse invitando Enlil a fare le sue scelte. Il re degli dèi salì sulla nave e, prendendo per mano Utanapištim e facendo inginocchiare sua moglie, li benedisse rendendoli simili agli dèi (quindi immortali) intimandogli però di vivere lontano, nei pressi della foce dei fiumi.
La prova del sonno per Gilgameš. Terminato il racconto, e spiegato a Gilgameš il motivo della sua immortalità, Utanapištim domanda al re di Uruk come possa riuscire a far nuovamente riunire gli dèì affinché questi si decidano a renderlo immortale, invitandolo infine a non dormire per sei notti consecutive (evidente prova per il superamento della morte intesa come "sonno eterno"). Gilgameš si siede, ma appena seduto si addormenta. La moglie di Utanapištim invita il marito a svegliare subito il re di Uruk, ma questi gli risponde che l'umanità è ingannevole e quindi intima alla moglie di cuocere un pane ponendolo poi vicino alla testa del re di Uruk, segnando su un muro i giorni che passano. Giorno dopo giorno i pani si accumulano vicino al capo di Gilgameš risultando secco quello del primo giorno e, via via, fino al più fresco, quello dell'ultimo giorno: sono passate sei notti e Gilgameš ha sempre dormito, la sua prova e fallita. Utanapištim tocca Gilgameš e lo sveglia comunicandogli il suo fallimento.
La triste partenza di Gilgameš e la perdita della pianta della giovinezza. Gilgameš è disperato e invita il battelliere Uršanabi a ripulirlo dalla propria sporcizia e dalle pelli logore, donandogli nuovamente un aspetto regale. Gilgameš si predispone quindi a tornare a Uruk da re. Ma la moglie di Utanapištim invita il marito a fare un dono di commiato a Gilgameš, questi si risolve a comunicargli, per dono, un secondo segreto: esiste una pianta pungente come un rovo, se Gilgameš la raggiunge e la raccoglie... (qui, al rigo 286, il testo è lacunoso ma dal prosieguo si capisce che mangiando questa pianta Gilgameš può riacquistare la giovinezza). Ascoltato ciò, Gilgameš scava un canale e si immerge nelle sottostanti acque dell'Apsu, raccogliendo la pianta miracolosa. Gilgameš si decide tuttavia a non mangiarla subito ma a dividerla con i vecchi di Uruk. Intrapreso il viaggio di ritorno, il re di Uruk si ferma per lavarsi in una pozza d'acqua, nel mentre si purifica, un serpente si avvicina e, annusata la pianta della giovinezza, la mangia, perdendo così la sua vecchia pelle. Gilgameš è nuovamente disperato e piange amaramente la perdita della pianta.
« Ma qui si evidenzia la sua vera vittoria, che è la vittoria del mondo babilonese: egli è il protagonista dell'umanità, ma dell'umanità nuova, l'umanità rappresentata dalla civiltà babilonese dove l'egoismo è bandito e dove ognuno, a cominciare dai sovrani, pensa al benessere di tutti. Gilgameš avrebbe potuto mangiare l'erba, ma non l'ha fatto: nel momento più bello della sua vita, quando crede di aver risolto tutti i problemi, egli non pensa a se stesso, ma a tutto il suo popolo. Lo rivelano le sue stesse parole: "porterò la pianta della vita ad Uruk, nella mia città, perché i vecchi possano mangiarla". »
Non solo, ma anche l'intero mondo divino dei Babilonesi è attento ai bisogni degli uomini:
« Del resto anche il mondo divino è sempre attento ai bisogni dell'uomo, partecipa delle sue ansie, allevia il suo pesante destino: è questa la grande differenza tra il mondo mesopotamico e il tanto declamato mondo civile e razionale dei Greci. Proprio tutte le arti divinatorie e l'astrologia, come loro massima espressione, sono una testimonianza eloquente che i "segni" impressi nelle stelle sono messaggi del mondo divino all'uomo affinché egli possa trarre da ogni manifestazione sia terrestre sia celeste insegnamenti su come vivere meglio. »
(Giovanni Pettinato, Mitologia assiro-babilonese, p. 37)
Il rientro a Uruk. Rientrato a Uruk, Gilgameš invita il traghettatore Uršanabi a visitare e a mirare la città con le sue mura.
Tavola XII
Incipit della Tavola in accadico: oggi, avessi lasciato il pukku nella casa del falegname. Questa Tavola è la traduzione in accadico del racconto sumerico Gilgameš, Enkidu e gli Inferi con modeste varianti, di fatto essa rappresenta un'aggiunta alla serie delle XI tavole precedenti che contengono un racconto di per sé compiuto.
Gilgameš è disperato per la scomparsa del pukku e del mekku, ma Enkidu si offre di andare a recuperarli nell'Oltretomba. Gilgameš ha perso i due strumenti che sono caduti negli Inferi e si dispera per questo. Enkidu, fedele amico del re di Uruk si offre ad andare nell'Oltretomba per recuperarli. Gilgameš avverte Enkidu che recandosi là deve evitare: di indossare un vestito pulito (puro, altrimenti i morti riconosceranno che non è uno di loro); spalmarsi un unguento profumato (altrimenti i morti attirati dal profumo lo circonderanno); di non lanciare un boomeragn (altrimenti coloro che sono stati uccisi da quest'arma lo circonderanno); di non impugnare uno scettro (altrimenti i morti tremeranno di fronte a lui); di non indossare dei sandali (per evitare di fare rumore); non deve né baciare né picchiare le mogli e i figli che dovesse incontrare (altrimenti il lamento degli Inferi lo imprigionerà).
Enkidu non segue in consigli di Gilgameš e viene trattenuto negli Inferi, Gilgameš invoca gli dèi affinché lo liberino. Ma Enkidu viola tutte le consegne del suo sovrano e viene quindi imprigionato negli Inferi. Gilgameš disperato per la perdita dell'amico si reca nel tempio di Enlil, l'E-ku (lett. "Casa-montagna"), ma il re degli dèi non gli presta ascolto; quindi si reca al tempio di Sîn (il dio Luna, il sumerico Nanna), anche questo dio lo ignora; infine si reca da Ea che invece lo ascolta e lo aiuta, invitando Nergal ad aprire una fessura dell'Oltretomba per far uscire lo spirito di Enkidu.
L'amaro ritorno di Enkidu. Enkidu esce dagli Inferi grazie alla fessura procurata dal dio Nergal e incontra Gilgameš. I due cercano di abbracciarsi ma non possono farlo. Gilgameš gli chiede in cosa consistano le leggi dell'Oltretomba, Enkidu si rifiuta per non generare ulteriore disperazione nel re, ma gli dice che il proprio corpo è mangiato dai vermi come un vestito logoro e somiglia a una crepa piena di polvere. Poi Gilgameš domanda a Enkidu quali siano le condizioni dei morti, come nel testo sumerico, anche in quello accadico tali condizioni vengono descritte come non governate da un principio di retribuzione "etico": il destino degli uomini dopo la loro morte è invece piuttosto deciso dal "come" muoiano o da "quanti" figli hanno procreato prima di morire, in quest'ultimo caso più figli si ha generato e più il destino post-mortem appare felice. Con il rigo 153, che descrive le condizioni dello spirito trapassato che non ha nessuno che si occupi di lui dopo la morte ("è costretto a mangiare ciò che avanza nella ciotola, i resti del cibo gettato per strada"), si conclude la XII e ultima Tavola e quindi l'Epopea classica babilonese.
Interpretazioni delle epopee
Numerose sono le interpretazioni degli studiosi sulla natura e sui contenuti di questa prima epopea della storia dell'umanità. Da quelle tardo ottocentesche di Hugo Winckler (1863-1913) e Heinrich Zimmern (1862-1931), che lo hanno interpretato in senso mitologico e astrologico, ovvero un poema sul dio Sole. In analogo modo, per Otto Weber (1902-1966), Gilgameš rappresenterebbe il Sole mentre Enkidu la Luna.
Arthur Ungnad (1879-1945) ha considerato il poema un'opera etica, precorritrice dell'Odissea di Omero. Per Hermann Häfker (1873-1939) è un poema storico e umano, con il suo problema centrale della vita e della morte. Sigmund Mowinckel (1884-1965) lo ha invece riportato sul piano religioso interpretando la natura di divina di Gilgameš come quella di un dio che muore e poi risorge. Benno Landsberger (1890-1968) ha considerato questo poema come un poema nazionale babilonese con il suo "ideale" umano. Franz Marius Theodor Böhl (1872-1976) vi ha letto un conflitto tra i seguaci del culto di Šamaš e quelli di Ištar. Per Geoffrey Stephen Kirk (1921-2003)[40], Gilgameš rappresenterebbe la cultura, la civiltà, opposta alla natura, quest'ultima simboleggiata da Enkidu. Per Thorkild Jacobsen (1904-1993) è un poema della crescita: dalle avventure adolescenziali alla maturità.
L'archeologo e assiriologo italiano Giorgio Buccellati, approfondendo le intuizioni dell'assiriologo francese Jean Nougayrol, lo ha interpretato in chiave "sapienziale", quindi di "cambiamento spirituale":
« Il fatto è che la ricerca della vita non dev'essere più considerata, se la mia lettura è corretta, come il tema centrale del poema. Certo, Gilgamesh è pur sempre presentato come l'eroe che va in cerca di fama e poi, dopo l'esperienza dell'amicizia e della morte di Enkidu, in cerca della vita: ma ne diventa, in effetti, un pretesto narrativo per mostrare ben altra tesi. L'enfasi è spostata dall'oggetto della ricerca, la vita, allo sforzo stesso della ricerca in quanto tale, ai presupposti su cui è basata, e alle conseguenze cui conduce: queste conseguenze non sono esterne, come lo sarebbe il conseguimento di un bene, foss'anche la vita fisica, ma invece sono interne, profondamente psicologiche e si accentrano sul mutamento spirituale del soggetto che la ricerca ha intrapreso. Perciò la conclusione è compiuta e perfetta con la tavoletta undicesima: Gilgamesh non è un campione temporaneamente sconfitto e a cui resta solo da ritentare, ma invece un uomo per cui la sconfitta diventa il punto d'inizio per una nuova comprensione delle vere dimensioni umane della vita.
Una conclusione malinconica e inconcludente da un punto di vista eroico; da un punto di vista sapienziale invece, è una conclusione piena e che non ammette ulteriori sviluppi. »
(Giorgio Buccellati, Gilgamesh in chiave sapienziale, in Tre saggi sulla sapienza mesopotamica, "Oriens Antiquus" XI (1972): 34)
Il filologo e assiriologo francese Raymond-Riec Jestin così chiosa la narrazione della ricerca dell'immortalità da parte dell'eroe di Uruk:
« ... l'idea "essere è rappresentata da Gilgamesh, nella veste più positiva del volere vivere e di "tendenza a preservare nell'essere", come dimostra lo smarrimento dell'eroe di fronte alla morte di En-ki-du; quest'ultima, appunto, provocando un contrasto violento e una brusca interruzione dell'azione, rappresenta il "non essere" di fronte al quale l'"essere" si rivolta e cerca il modo di non venire annullato a propria volta. Tuttavia, la semplice continuità e il consolidamento nell'esistenza non è una soluzione: il riavvicinamento dei contrari non può avvenire a vantaggio di uno solo dei due poli; di qui il fallimento del tentativo dell'eroe di conquistare l'immortalità. È il serpente, uno dei simboli dell'eterno ritorno, ad apparire con la sua muta periodica per esprimere la natura di ciò che compone l'opposizione di Essere e Non-essere, il Divenire, il mutamento continuo dell'eterno ritorno. Si comprende meglio, allora, l'atteggiamento incolore di Gilgamesh di ritorno a Uruk: di lui non si dice quasi più nulla, perché era ormai diventato superfluo dopo quest'episodio d'importanza fondamentale. »
(Raymond-Riec Jestin, in Henri-Charles Puech (a cura di), Le religioni in Egitto, Mesopotamia e Persia, Bari, Laterza, 1988, p. 107)
Gilgameš nella cultura di massa
La figura di Gilgameš ha ispirato molte opere della letteratura, dell'arte, della musica, come ha evidenziato lo studioso statunitense di letteratura comparata Theodore Ziolkowski nel suo libro Gilgamesh Among Us: Modern Encounters With the Ancient Epic. È stato solo dopo la prima guerra mondiale che Gilgameš ha potuto raggiungere un vasto pubblico, ma è soprattutto dopo la seconda guerra mondiale che la sua antica epopea è stata fonte di ispirazione per una varietà di romanzi di genere, fumetti, musiche, videogiochi, ecc.
Eugenio Caruso - 19 novembre 2016
GILGAMESH DIO, EROE, UOMO
La saga di Gilgamesh, di origine sumera ma comune a tutto il mondo mesopotamico, è un poema eroico con forti connotazioni mitico-iniziatiche, di una sorprendente vitalità narrativa. Il nucleo originario della saga precede di oltre un millennio e mezzo i poemi omerici e l' Antico Testamento, e basterebbe già questo per suscitare la nostra curiosità. Ma non direi che siamo obbligati a leggerlo perché è il poema più antico che si conosca. Dobbiamo leggerlo, sebbene sia sforacchiato di lacune e probabilmente incompleto, perché ci offre un'affascinante mistione di arcaicità e raffinatezza di pensiero, episodi di grande bellezza e intensità e, soprattutto, perché ci incanta la sua struttura: la ricerca della saggezza attraverso le peripezie nell'orrendo e nel meraviglioso. Se il futuro non c'è, se in realtà il nostro futuro è il nostro passato, come ragionava il saviniano signor Munster con metafisica ironia, è assai suggestivo poter retrodatare il nostro essere di lettori intorno al 3000 a.C. o giù di lì. Siano lodati gli scribi mesopotamici. La scoperta di Gilgamesh, che va insieme a quella della civiltà sumerica, non manca di tratti bizzarri e anche comici, ed è una scoperta non ancora conclusa. Quando nel secolo scorso si cominciò a scavare sotto la sabbia e i cumuli di macerie della antica Mesopotamia alla ricerca di monumenti assiri e babilonesi, vennero alla luce decine di migliaia di tavolette d'argilla incise con caratteri cuneiformi. Per accaparrarsi le tavolette si compivano nefandezze piratesche. Nel 1853, nel sito di Ninive, dove scavavano francesi e inglesi, la biblioteca di Assurbanipal scoperta dalla missione francese fu sottratta in una notte dagli inglesi, avvertiti da un informatore, e le tavolette finirono al British Museum. Il primo a identificare frammenti dell'epopea di Gilgamesh fu l' inglese George Smith, un sagacissimo e appassionato topo di biblioteca, che decifrò un frammento della storia del Diluvio nel 1872, e l'anno successivo s'improvvisò archeologo e andò a scoprire altre tavolette partendo per Ninive a spese del Daily Telegraph, che contava di far clamore rivelando al mondo inauditi racconti a conferma della Genesi biblica. Ma non sempre le tavolette più importanti per ricostruire la saga provennero dagli scavi. Il primo testo paleobabilonese del poema fu rinvenuto nel 1902 presso un antiquario di Bagdad, il quale aveva spezzato in due la tavoletta vendendone una parte a uno studioso inglese, e l' altra a uno tedesco. Soltanto nel 1964 i due frammenti furono riconosciuti quali componenti dello stesso testo. Nella ricostruzione della saga si sprecano ingegnosità e stranezze. La decifrazione e identificazione delle tavolette con i segni cuneiformi ha permesso la conoscenza di una protostoria mesopotamica nella quale i sumeri spiccano quali primi civilizzatori della regione. Sumer era appunto il nome del territorio occupato da questo popolo ancora alquanto misterioso, né semita né indoeuropeo, al quale si deve l' invenzione della scrittura, dei caratteri cuneiformi incisi con lo stilo su molli tavolette d' argilla. Sebbene non abbiano inventato l' alfabeto, i sumeri stabilirono una grafia fonetica basata sulla sillaba. Il territorio di Sumer, che significa "Terra coltivata", è la bassa Mesopotamia, la zona all'incirca compresa tra il Tigri e l' Eufrate dal Golfo Persico a poco oltre Bagdad. E' più che probabile che all'origine della saga di Gilgamesh racconti indipendenti l'uno dall'altro, leggende orali, si tramandassero nel nome di questo eroe mitico, sovrano della città-stato di Uruk. Il nome Gilgamesh, che secondo un interprete significa "il vecchio diventa giovane", avrebbe, se così fosse, un paradossale rapporto col testo, dato che l'eroe non riesce affatto a recuperare la giovinezza. Allo stato attuale delle cose, gli studiosi dispongono di cinque episodi sumerici, scritti tra il 2500 e il 2000, di una frammentaria composizione paleobabilonese del tempo di Hammurabi (1800-1600 a.C.), di altri frammenti in varie lingue mesopotamiche, e di una tarda versione babilonese, la più ricca e organizzata, rinvenuta nella biblioteca di Assurbanipal, composta presumibilmente nel XII secolo a.C. da uno scriba o poeta-riscrittore dal buffo nome Sinleqiunnini. La saga si è dunque trasmessa per lunghissimo tempo, attraverso diverse redazioni e rifacimenti, in diverse lingue, senza che venisse mai cancellata la sua impronta sumerica; e se n'è stata poi sepolta per millenni sotto la sabbia. Siccome gli archeologi continuano nelle loro ricerche e rinvengono migliaia di tavolette, c' è da sperare che possano ritrovarsi altre redazioni, più complete, dell'epopea. Fino a ieri c' era capitato di leggere il testo del poema ridotto in prosa e "normalizzato" con l'aggiustamento dei passi oscuri, l' occultamento delle lacune, modificazioni intese a rendere scorrevole il racconto. Il risultato, secondo me, era questo: che anche le emozioni del lettore venivano "normalizzate", e l' epica stingeva nella favola. Ora abbiamo finalmente un'edizione integrale del poema, tradotto verso per verso dall' originale cuneiforme: La saga di Gilgamesh di Giovanni Pettinato (Rusconi, pagg. 430, lire 32.000). Il libro presenta tutti i testi attualmente disponibili, in ordine cronologico rovesciato. Si comincia con la tarda redazione babilonese attribuita a Sinleqiunnini, la più completa; seguono i brani e frammenti delle redazioni precedenti (i brani ittiti e accadici sono tradotti da Giuseppe Del Monte); infine troviamo gli episodi sumerici, i più arcaici del ciclo (parzialmente utilizzati da Sinleqiunnini). Per certi aspetti l' ampia introduzione di Pettinato è rivolta agli eruditi, eppure nell'insieme essa suona assai ospitale verso il lettore comune, tanto da includere un discorsivo commento ai singoli episodi della saga; commento peraltro indispensabile, dato che le note in fondo al volume sono puramente filologiche. E' aggiunto un gustoso capitolo di Silvia Maria Chiodi sulla scoperta delle tavolette e la ricostruzione del testo; di lì gli aneddoti riferiti in principio. Di quest'opera eccezionale potrò dare poco più di un' idea. Chi è Gilgamesh? Un re destinato alla gloria dalla nascita, per due terzi un dio e per un terzo uomo. In lui, mi sembra, convivono e si urtano, forse si sciolgono alla fine, le tre "età" della Scienza nuova di Vico, le età degli dèi, degli eroi, degli uomini. Generato da esseri divini, semidio, Gilgamesh è un eroe destinato a soffrire e accettare la condizione umana. Decisivo per la sua gloria è il suo essere uomo, votato a memorabili imprese e al fallimento. Straordinaria concezione di un eroe problematico, sospinto dall' angoscia, che lascia sospesa la propria epopea a una serie incalzante di bramose domande sulla sorte dell'uomo nell'aldilà. Di Gilgamesh che vide ogni cosa voglio io narrare al mondo; / di colui che apprese ogni cosa, rendendosi esperto di tutto. / Egli andò alla ricerca dei Paesi più lontani / e in ogni cosa raggiunse la completa saggezza. / Vide cose segrete, scoprì cose nascoste, / riferì le leggende dei tempi prima del diluvio. / Percorse vie lontane, finché, stanco e abbattuto, non si fermò. / Egli fece incidere tutte le sue fatiche su una stele di pietra. Così comincia il prologo del poema. Se lo paragoniamo con l' avvio dell'Odissea, oltre a qualche somiglianza, notiamo subito una radicale differenza. Il poema sumerico-babilonese annuncia la narrazione di una peripezia iniziatica alla ricerca di una conoscenza totale, delle cose ultime; mentre l'esordio dell'Odissea annuncia una peripezia romanzesca. Se Odisseo è l' uomo "multiforme" (polytropon), ossia versatile, ingegnoso, pronto a misurarsi con le avversità, astutamente adattabile a qualsiasi circostanza, Gilgamesh è presentato come un grande costruttore e civilizzatore (ha edificato le mura di Uruk, ha aperto passi e scavato pozzi nei dirupi delle montagne), un esploratore dei "confini del mondo" che va in cerca della vita eterna, colui che è riuscito a raggiungere Utanapishtim (l' eroe sopravvissuto al Diluvio, l'unico uomo immortale) attraversando le "acque di morte". Gilgamesh diventa esperto di tutto compiendo fatiche, e perché queste siano tramandate ne fa incidere il racconto su una stele; è dunque il fondatore del poema, se non il poeta, è l'ispiratore della poesia epica. Qualcuno ha pensato che le gesta dell' eroe mesopotamico, per alcuni tratti, abbiano ispirato i racconti delle fatiche di Eracle. Robert Graves suppone che parte della leggenda di Eracle (il personaggio più popolare della mitologia classica) sia una variante dell'epopea babilonese giunta in Grecia dalla Fenicia. Certo, i parallelismi sono numerosi. Ma che dire allora del fatto che gli dèi sumeri creano l'essere umano impastando una pugno d' argilla? E che dire del mito del Diluvio che Utanapishtim, il Noè sumero-babilonese, racconta a Gilgamesh? Quando gli dèi decidono di punire gli uomini e di mandare il diluvio, uno di loro, il dio della saggezza, avverte Utanapishtim: abbatti la tua casa, costruisci una nave, / abbandona la ricchezza, cerca la vita / Disdegna i possedimenti, salva la vita / fai salire sulla nave tutte le specie viventi. Si direbbe che il racconto biblico abbia qui le sue origini. Ogni episodio del poema ha una tramatura complessa che lo sostiene, i personaggi hanno uno spessore enigmatico, le affascinanti ambiguità del racconto appaiono irriducibili. Prendiamo, ad esempio, i rapporti tra Gilgamesh e il suo compagno di avventure Enkidu. All'inizio il re di Uruk è "uno scalpitante toro selvaggio", un capo possente, una "solida rete" a protezione dei suoi sudditi; ma non ha limiti, non ha rivali e opprime il popolo chiamandolo continuamente a raccolta col suo tamburo. I lamenti dei cittadini scuotono gli dèi, che incaricano la dea madre Aruru di creare un essere capace di contrastare l'ardore incontenibile di Gilgamesh. "Aruru lavò le sue mani, / prese un grumo di creta e lo piantò nella steppa". Nasce così l' uomo primordiale Enkidu: Tutto il suo corpo era coperto di peli, / la chioma era fluente come quella di una donna, / i ciuffi dei capelli crescevano lussureggianti come grano. / Egli non conosceva né la gente né il Paese; / indossava una pelle d'animale come Sumuqan (dio del bestiame). Con le gazzelle egli bruca l' erba, / con i bovini sazia la sua sete nelle pozze d'acqua. / Con le bestie selvagge, presso le pozze d' acqua, egli si soddisfa. Un cacciatore che lavora nella steppa catturando animali, lo vede e si spaventa. Si consiglia col proprio padre, e questi lo manda in città da Gilgamesh, il quale affida al cacciatore la prostituta sacra Shamkhat, che sedurrà Enkidu e gli donerà "l' arte della donna". L' episodio è delizioso e non ricordo niente di simile nella tradizione della poesia pastorale. Coiti che durano una settimana, discorsi con Shamkhat, e il selvaggio si purificherà, diventerà intelligente, imparerà a mangiare pane, e aiuterà i pastori a difendere il gregge; da parte loro, le bestie selvatiche impareranno a sfuggirlo. Shamkhat, che vuole condurlo da Gilgamesh, gli dice: "lo amerai come te stesso". I pastori, che vedono in lui un essere celeste disceso dalla montagna, trovano che "ha fattezze simili a quelle di Gilgamesh". E mentre Enkidu si avvia verso Eruk, il re sogna questo suo gemello come un "firmamento" che gli cade addosso, come un' ascia bipenne che si posa sulle strade della città, nel sogno sente di amare tali presenze "come una moglie". Enkidu sfiderà Gilgamesh, i due si affronteranno sbuffando come tori. Il testo in questo punto è un po' lacunoso; ma si capisce che la lotta è un rituale; tra i due, di colpo, nasce un'incomparabile amicizia. Nel corso delle imprese che poi i due compiranno - la conquista della Foresta dei Cedri e l'uccisione del suo guardiano, il mostro Khubaba; l' abbattimento del Toro celeste che la dea Ishtar ha aizzato contro di loro - non c' è alcun indizio, nessuna sfumatura che possa far pensare a un amore omosessuale. Tanto più sorprendenti risultano per il lettore moderno le connotazioni "femminili" della gemellarità di Gilgamesh ed Enkidu, che spero di aver suggerito con le citazioni fatte più sopra; ma a ben vedere, oltre a far supporre una squisita sapienza psicologica sul carattere dell' amicizia, sono connotazioni assai pregnanti: ci fanno avvertire che l'uno non è semplicemente il doppio dell'altro, lo specchio dell'altro, ma il componente di una "coppia". La profonda relazione strutturale tra i due amici si rivela pienamente nella seconda parte del poema, quando Enkidu muore e Gilgamesh rimane solo. Il re si dispera e piange; Enkidu non lo ascolta, il suo corpo è rigido. L'amico è entrato, come un sogno aveva predetto, nella Casa della polvere. Allora Gilgamesh è preso dall' angoscia, ha paura della morte, e intraprende il lungo viaggio verso il lontano Utanapishtim. "Enkidu, l'amico mio che amo, è diventato argilla; / ed io non sono come lui? Non dovrò giacere pure io / e non alzarmi mai più per sempre?". Gilgamesh apprende da Utanapishtim di non essere destinato alla vita eterna. Perderà perfino la pianta della giovinezza, o dell'irrequietezza, che Utanapishtim gli permette di cogliere sotto le acque degli Inferi; un flessuoso serpente gliela sottrarrà cambiando subito pelle. Non resta al povero re di Uruk che pregare il dio della saggezza, il padre Ea, di riportargli Enkidu "trattenuto" dagli Inferi, perché almeno lo informi sulla sorte dell'uomo nell'aldilà. Da una fessura, lo spirito di Enkidu esce come una folata di vento. "Allora essi fecero per abbracciarsi, ma non vi riuscirono". Possiamo non ricordarci del mancato abbraccio tra Odisseo e l'ombra della madre, e di Enea col fantasma della moglie Creusa? Ma qui l'incontro ha una sconvolgente e cruda vitalità, non ha una pura valenza affettiva come nell' XI dell' Odissea e nel II dell' Eneide. Gilgamesh sollecita l' amico a dirgli "gli ordinamenti" degli Inferi. Ecco una parte del loro dialogo: "Io non te li posso dire, amico mio, non te li posso dire / Se io infatti ti dicessi gli ordinamenti degli Inferi che ho visto, / allora tu ti butteresti giù e piangeresti". / "Io mi voglio buttare giù e piangere". / "Il mio corpo, che tu potevi toccare e del quale il tuo cuore gioiva, / il mio corpo è mangiato dai vermi come un vecchio vestito. / Il mio corpo che tu potevi toccare e del quale il tuo cuore gioiva, / è come una crepa del terreno, piena di polvere". "Hai visto colui che ebbe un solo figlio, l'hai visto?". "Sì, l' ho visto: egli piange amaramente vicino al chiodo piantato nel muro". "Hai visto colui che ebbe due figli, l'hai visto?". "Sì, l'ho visto: egli siede su due mattoni e mangia pane". "Hai visto colui che non ha eredi, l'hai visto?". "Sì, l'ho visto: come fosse mattone egli mangia pane". "Hai visto il sovrintendente di Palazzo, l'hai visto?". "Sì, l'ho visto: come un incompetente capo operaio egli grida: Al lavoro mentre se ne sta nell'ombra". "Hai visto il giovane uomo che non ha strappato le mutande a sua moglie, l'hai visto?". "Sì,l' ho visto: tu offri a lui una corda di salvataggio ed egli piange sopra di essa". "Hai visto la giovane donna che non ha strappato le mutande a suo marito, l'hai vista?". "Sì, l'ho vista: tu offri a lei una corda di salvataggio e lei piange su di essa". "Hai visto colui che è morto prematuramente, l'hai visto?". "Sì, l'ho visto, egli giace in un letto e beve acqua pura". "Hai visto colui il cui spirito non ha nessuno che si curi di lui, l'hai visto?". "Sì, l'ho visto: è costretto a mangiare i resti della ciotola, i rimasugli del cibo buttati per strada".
La saga di Gilgamesh ha tre conclusioni: l' eroe, dopo tante fatiche, torna a Uruk, si compiange per aver imparato come stanno le cose, ma gli resta la fierezza di governare la sua splendida città; Gilgamesh muore e diventa intermediario tra il mondo dei vivi e gli Inferi; la terza variante è la più spettacolare, è quella che fa terminare il poema col dialogo tra il re e lo spirito di Enkidu. E' difficile non cogliere nel dialogo, teso dalla spasmodica curiosità di Gilgamesh, toni di commedia. Come se l'antico autore sumerico (giacché il dialogo proviene dai testi più arcaici) avesse in mente un uditorio da ammonire, addolorare, divertire. Che cosa ha visto Enkidu nella terra dei morti? Compensi, castighi, rimpianti, o eterna ripetizione della propria sorte; ha visto anche qualcuno, che gli Inferi non trattengono, il cui spirito è volato in cielo. Insomma, nessuna novità, a quanto pare, dai tempi sumero-babilonesi, nessuna notizia, finora, di altri ordinamenti sulla vita e l'aldilà. Pace e fortuna.
Alfredo Giuliani
tratto da www.repubblica.ricerca.it
Tratto da