All’indomani di Azio, quando Ottaviano rientrò nell’Urbe con intelligenza, ripose nelle mani del Senato il mandato di imperator, conferitogli per fronteggiare l’emergenza antoniana che molto abilmente aveva provveduto ad alimentare.
Il condottiero sapeva in effetti che per attuare la propria rivoluzione aveva bisogno di tempo, e soprattutto era conscio di non dover incorrere nell’errore in cui prima di lui erano incappati Silla e Cesare: accaparrarsi quella carica che attribuiva loro un potere pressoché assoluto, l’unica che nell’impianto repubblicano conservava caratteristiche vicine a quelle attribuite ai re, ovvero la dittatura. Lo strappo compiuto da Silla e molto più da Cesare, che pretese di farsi eleggere come dictator perpetuus,, era stato quello di estendere a tempo indeterminato una formula che invece era concepita per la sua eccezionalità, alla quale si ricorreva in situazioni di estrema emergenza.
E proprio questo era stato l'errore dell’azione dei due, e nel caso di Cesare aveva decretato la sua condanna a morte: assumere una dittatura negando ciò che ne era il suo unico limite, ossia il termine di tempo, significava lanciare un’aperta sfida al potere del Senato. Il Senato non avrebbe mai potuto sottomettersi a una così esplicita prevaricazione nei suoi confronti, non avrebbe mai potuto ammettere di doversi ridurre a organo di potere secondario.
Ottaviano capì che la strada da percorrere doveva essere un’altra, e che questa dovesse tener conto di alcuni principi imprescindibili: forte conservatorismo che garantisse, attraverso il diritto, l’ordine romano costituito; avversione e rifiuto della monarchia; manifesta impossibilità di creare una carica istituzionale che si mettesse esplicitamente al di sopra degli altri poteri.
Ottaviano realizzò un progetto diverso da quelli di Silla e di Cesare: 13 gennaio del 27 a.C., nella seduta del Senato, depose tutti i suoi poteri e li “restituì” alla repubblica.
Sino ad allora si era “accontentato” di figurare come princeps, ovvero come “primo tra individui di pari dignità”, sanzionando contemporaneamente la sua posizione di privilegio rispetto agli altri senatori, ma anche la sua condizione d’eguaglianza rispetto a essi dal punto di vista costituzionale. Cosa che gli permetteva di vantarsi di non aver rivestito mai alcuna magistratura contraria al costume degli avi.
Nel frattempo però, per dirla con Svetonio, dava una buona “sfoltita al suo patrimonio”, elargendo quel fiume di denaro che gli permise di accattivarsi la simpatia dei senatori. Tre giorni dopo, costoro, a dimostrazione di gratitudine gli conferirono il titolo di Augustus. Storici moderni sostengono che la strategia di Ottaviano fu favorita dall'immensa ricchezza che egli possedeva, come mai nessun romano, ricchezza che gli permise di superare ogni ostacolo.
Ottaviano accettò questo onore ostentando più la rassegnazione di chi, per eccessiva umiltà, non lo avrebbe voluto, che la sicurezza e l’orgoglio di un condottiero reduce da molte e importanti battaglie. In realtà, quello che stava avvenendo era un passaggio epocale, per capire la portata del quale, è bene soffermarsi sul significato celato dietro l’attributo per cui Ottaviano divenne celebre, ovvero Augustus. La parola possiede chiaramente la stessa radice di augur, ossia augure, il sacerdote che presiedeva all’interpretazione dei segni divini tramite l’osservazione del cielo. Ma anche quella di inauguratus, ossia colui che ha subito la cerimonia di inaugurazione, appannaggio del rex, che solo in virtù di essa era autorizzato a governare ottenendo l’auctoritas, altro termine con la stessa radice. Il significato di questa, aug-, è ben esplicata dal verbo a cui ha dato vita, ossia augere, che significa accrescere. La funzione di “accrescimento” è un concetto centrale fra quelli che hanno strutturato la religione romana. Eloquente è il fatto che il rito religioso romano per eccellenza, ossia il sacrificio, prevedesse una formula come macte esto, che, rivolta al dio a cui si sacrificava, assumeva proprio il significato di “sii accresciuto”. La funzione del sacrificio era, infatti, quella di “accrescere” il potere e l’essenza delle divinità, quasi come se gli alimenti a loro sacrificati, fossero del semplice latte o il sangue di un bue, fornissero nutrimento alla loro forza. Così come gli dèi “erano accresciuti” da questi riti, chi era particolarmente “toccato” dalla loro influenza ne “era accresciuto” nella propria sostanza di essere umano. Ciò non significava certo diventare degli esseri semi-divini, ma semplicemente ricevere un “accrescimento” rispetto alla normale condizione di uomo.
Fu sotto tale ottica che la parola Augustus assunse la pienezza del suo significato: Ottaviano diveniva “l’inaugurato senza inaugurazione”, ottenendo quella particolare superiorità senza la necessità di dover essere protagonista di una cerimonia a cui non aveva il diritto, la cui attuazione sarebbe stata vista come un atto di forza e che avrebbe fatto ritornare, soprattutto fra i senatori, per l’ennesima volta nel giro di pochi anni, lo spauracchio della monarchia.
Sebbene ideologicamente fondamentale, l’assunzione di quel titolo fu solo una piccola porzione del capolavoro diplomatico compiuto da Ottaviano nel 27. Nella stessa circostanza infatti, colui che d’ora in avanti verrà additato come Augustus riuscì a farsi attribuire ben tre province, la scelta delle quali non fu fatta certo a caso.
Spagna, Gallia e Siria, infatti, erano i territori in cui era di stanza la maggioranza delle truppe, che in tal modo passavano sotto il controllo diretto di un solo uomo, prevenendo così l’insorgenza di future guerre civili. D’altro canto era esattamente ciò che gli chiedeva il popolo al quale, poco interessato alle sfumature antropologiche sottolineate prima, dopo vent’anni di sfracelli e di conflitti premeva solamente per la pace e la prosperità, per raggiungere le quali era più che disposto a correre il rischio di conferire poteri assoluti a uno solo. E infatti fu proprio agitando lo “spettro” della pace che Ottaviano ottenne quelle province che si sommarono all’Egitto, alla cui diretta podestà aveva già provveduto all’indomani della vittoria di Azio, preoccupandosi di togliere di mezzo Cesarione, lo sfortunato figlio dell’amore tra Cleopatra e Cesare che, in virtù del suo retaggio, avrebbe potuto accampare ingombranti diritti.
Un principio che Ottaviano aveva assimilato bene consisteva nel controllo pressoché totale dell’esercito. Non a caso, il termine con il quale a partire da Ottaviano in poi verranno designati coloro che siederanno sullo scranno più alto di Roma, sarà proprio imperator, a indicare appunto la persona che esercitava il potere illimitato sulle forze militari. Fu tale potere, l’imperium, che Ottaviano riuscirà a convogliare nelle sue mani senza turbare l’apparenza delle istituzioni repubblicane. Per far ciò si preoccupò di ottenere il riconoscimento di quelle province elencate prima: queste, gravitando tutte su confini non pacificati, manifestavano proprio a causa della loro turbolenza una condizione di eccezionalità che poteva garantire ad Augusto il mantenimento di una carica parimenti straordinaria. Ciò consentiva all’erede di Cesare di perpetuare una posizione di potere del tutto anomala, senza una giustificazione istituzionale nell’ordinamento che, formalmente, restava quello repubblicano. Insomma, senza darlo a vedere Augusto comandava nel senso più pieno del termine, appoggiandosi saldamente sull’essenza stessa della forza di Roma: l’esercito, che oltre a incarnare lo strumento per la conservazione del potere personale, garantiva la sicurezza interna di ogni regione, stabilendo una pace, a volte solo apparente, nei territori di confine. Ma era anche un formidabile elemento propulsivo per l’economia e per la società, proponendosi come fattore di mobilità sociale in cui le reclute potevano ambire a diventare ufficiali con tutti i vantaggi del caso.
Senza contare che solo grazie a esso era possibile lo sfruttamento dei popoli sottomessi, su cui si innestava la distribuzione di grano e anche di denaro, coi quali neutralizzare le rivendicazioni popolari. Per chiudere il cerchio, dunque, si può affermare che pace e stabilità dipendessero paradossalmente da quello strumento altrimenti adibito alla guerra. Da qui l’attenzione che Augusto pose alla sua lealtà e naturalmente alla sua efficienza.
La “spina dorsale” dell’esercito era costituita da tempo immemore dalle legioni, ognuna formata da 5000 uomini. Rigorosamente addestrate, queste rappresentarono la chiave di volta dei successi militari romani nella conquista del mondo antico, grazie alla loro organizzazione in unità tattiche fortemente articolate, che permetteva una facilità di movimento e di penetrazione nel territorio nemico senza pari.
Appare evidente quanto, in ambito militare, esercizio e addestramento giochino un ruolo fondamentale. Attraverso di essi, il soldato romano acquisiva non solo quell’abilità e resistenza che gli permisero di contrastare il nemico, ma anche il senso tattico e la disciplina che gli consentirono di primeggiare soprattutto psicologicamente.
Assodato ciò, Augusto comprese che la sopravvivenza di un esercito efficiente era determinata dalle strutture economiche, sociali e politiche di uno Stato. Fu per questo che, all’indomani di Azio, ridusse considerevolmente il numero delle legioni di cui disponeva, per raggiungere un numero di truppe che oltre a svolgere sufficientemente il proprio compito fosse altresì possibile approvvigionare. Si giunse così al tradizionale numero di 28 legioni mantenute in ferma permanente, anche se Tacito informa che nel 23 a.C. esse erano state diminuite a 25 e che nel 9 d.C., tre erano andate perdute nella disfatta di Teutoburgo, senza mai più essere rimpiazzate.
A queste legioni, reclutate fra i circa quattro milioni di cittadini romani, in prevalenza italiani, si aggiungevano truppe ausiliarie (coorti di fanteria e altre di cavalleria raccolte tra i popoli soggetti all’impero e comandate da ufficiali romani). In più, sempre fedele all’idea che una manifestazione di forza avrebbe distolto eventuali oppositori, soprattutto in casa, Augusto si preoccupò di rafforzare la sua immagine con la creazione di una guardia pretoria permanente, una vera e propria guardia personale formata da nove coorti e rimpinguata dalla crème delle legioni, cui furono concessi paga e privilegi speciali.
Predisposto in tal modo il suo apparato, Augusto ebbe cura che questo gli rimanesse indissolubilmente fedele. Così, se da un lato si dimostrò spietato contro chiunque potesse destabilizzare l'equilibrio instaurato con le sue truppe, dall’altro si sincerò che l’esercito avvertisse i benefici del suo comando, in modo da non sfilacciare quel legame.
Quanto fosse fragile, verrà rivelato dagli eventi futuri, nei quali più di un imperatore non ritenuto meritevole della lealtà del suo esercito, finirà nella polvere. Augusto non corse questo rischio e anzi, in virtù di ciò che era stato in grado di realizzare, divenne per molti un dio in terra, come ebbe a sottolineare lo storico inglese David Shotter nel suo Cesare Augusto, secondo cui «solamente un essere sovrumano avrebbe potuto trasformare il caos in serenità».
A completare l'opera di "divinazione" di Ottaviano ci pensò la propaganda che, sin dalle prime mosse, costituì la solida colonna su cui far poggiare l’intero impianto della politica. Tutto grazie all’“inquadramento” dei principali intellettuali del tempo, ottenuto per mezzo dell’abilità di Mecenate, che promettendo sostentamento e protezione a tutti quelli che vi avrebbero aderito, fondò un circolo culturale difficilmente eguagliabile. Così, uomini del calibro di Virgilio, Livio, Properzio e Orazio si consumarono in un’inesausta opera in cui Augusto era presentato come il nuovo Romolo, il novello fondatore di Roma, da sempre atteso per porre fine alla tragedia delle guerre civili e instradare l’Urbe su uno sfavillante cammino che l’avrebbe condotta a una nuova età dell’oro.
Quando, oltre all'esaltazione dei poeti, si manifestarono anche edifici, templi e un gran numero di statue di eccezionale fattura a esaltare magnificamente questo Stato quasi paradisiaco, i romani finirono quasi per crederci. Ciò permise ad Augusto di compiere l’ulteriore svolta del 23 a.C., quando giudicò che la sua posizione già particolare assunta all’interno della politica romana andasse definita ancora meglio. Rinunciò alla carica di console che aveva continuato a mantenere, consentendo così il ritorno a un normale e “repubblicanissimo” ricambio annuale di entrambi i massimi magistrati.
Ovviamente, in cambio di quella concessione, il Senato era prontissimo a elargire nuove e importanti qualifiche. L’imperium proconsolare già posseduto fu ridefinito e potenziato con l’autorizzazione a comprendere anche all’interno del pomerium di Roma, come in generale accadeva e continuerà ad accadere per i proconsoli “normali”. Ma oltre a ciò Augusto ricevette un altro attributo, talmente caratterizzante che egli stesso comincerà a contare gli anni di “regno” proprio da quel momento: da quando, cioè, assunse la tribunicia potestas. Attraverso questa, egli si attribuì le prerogative dei tribuni della plebe, che oltre al diritto di veto e a quello di presentare proposte di legge, vantavano la precedenza assoluta in merito alle convocazioni del Senato.
In tal modo Augusto acquistava l’autorità per poter sopravanzare chiunque, incarnando una figura del tutto nuova, per non dire unica, nell’ambito delle cariche istituzionali romane. Sebbene il Senato continuasse a funzionare come sempre aveva fatto, con la regolare elezione dei consoli e degli altri magistrati anno per anno, l’imperator ormai si stagliava al di sopra di questo meccanismo: apparentemente senza invaderne la normalità ma, in effetti, mantenendone uno stretto controllo grazie all’autorità conferitagli dall’acquisizione dei nuovi titoli.
Se a ciò si aggiunge che Augusto otteneva di poter trasmettere a un successore tali prerogative, appare chiaro come da quel momento in poi si possa dire completato il processo di rivoluzione mascherato da restaurazione, messo in piedi almeno sette anni prima e mantenuto con l’illusione della resurrezione del mito senatus populusque e del riscatto della dignità del corpo civile romano. In sostanza, senza modificare la lex romana aveva trasformato la posizione di imperator, da quella di comandante dell'esercito per situazioni eccezionali in quella di capo di un impero.
Definita la forma e soprattutto la sostanza del suo potere, Augusto poteva perseguire liberamente nella realizzazione del suo progetto, che a conti fatti non si distingueva troppo da quello di Cesare: prosecuzione del riassetto istituzionale volto al consolidamento della posizione raggiunta e rafforzamento dell’impero sia rispetto ai suoi nemici interni sia rispetto a quelli esterni.
L’infaticabile azione militare che lo stesso Augusto vantò nelle Res Gestae parlando con orgoglio delle sue vittorie personali e degli onori militari che gli furono accreditati, rispondeva all’istanza che abilmente si era cucito addosso di una vera e propria missione, dal carattere fondamentalmente civilizzatore, attraverso il quale si era posto l'obbligo di “romanizzare” i popoli finora sottomessi e quelli di là da sottomettere.
È chiaro come tanto fervore fosse determinato da contingenze strategiche oltre che politiche ed economiche, eppure Augusto riuscì a mascherare gli intenti di un’aggressività imperialista con il mito delle aspirazioni universalistiche di Alessandro Magno. Così, il suo progetto di espansione territoriale trovò notevoli consensi nell’opinione pubblica, che da secoli considerava quasi come un obbligo l’espansione di Roma ai danni di altri popoli: l’imperium sine fine, preconizzato da Virgilio, secondo cui gli dèi avevano concesso a Roma un dominio senza limiti, era un intimo convincimento non solo del poeta, ma di tutto il ceto dirigente di Roma.
Fu così che nei suoi quarant’anni di principato, Augusto conquistò una somma di territori che portarono l’impero romano a un robusto incremento della sua estensione. Autentico successore dei grandi generali dell’età repubblicana, egli conquistò il Nord della Spagna, l’arco alpino con la Resia e il Norico, l’Illirico e la Pannonia e anche l’intera regione a nord dell’Acaia e della Macedonia, fino al Danubio; in Asia Minore vennero acquisite una parte del Ponto, la Paflagonia, la Galazia, la Cilicia e la Giudea.
L’imperatore si preoccuperà di rinsaldare la sicurezza dei territori imperiali con campagne nelle aree di confine, come quella condotta da Druso e Tiberio nella zona alpina, che nel 15 a.C. frutterà anche l’annessione di Rezia e Norico; o l’altra incentrata nell’area strategica compresa fra il Reno, l’Elba e il Danubio, dove attraverso la conquista della Pannonia Augusto potrà avanzare le frontiere fino al raggiungimento di tale limite, considerato il confine naturale contro i barbari del settentrione e dell’Europa orientale.
Oltre a queste, però, Augusto si lanciò in avventure dal sapore più propagandistico, come le guerre contro i parti o contro le tribù germaniche. La lotta contro i primi era quasi fisiologica, considerato che l’impero dei parti era la sola realtà antagonistica che Roma conoscesse. Fino ad allora, il maggiore successo raggiunto era stato segnato da Marco Antonio, che nelle sue campagne era arrivato a formare uno stato cuscinetto, l’Armenia, ma non ad attaccare direttamente la potenza nemica.
La conquista della Germania era un vecchio pallino di Giulio Cesare, che già nei suoi Commentarii aveva rivelato il suo interesse verso il mondo al di là del Reno. Per la verità, Augusto si sarebbe accontentato di mantenere il confine sul fiume, ma nel 12 a.C. ordinò al figliastro Nerone Druso di avanzare verso oriente in direzione dell’Elba, volendo rafforzare l’instabile regione posta in prossimità del corso superiore dei fiumi Reno e Danubio, probabilmente spinto dalla volontà di assumere su di sé l’eredità cesariana, compiendo l’impresa che il predecessore aveva solo ipotizzato.
Nonostante gli intenti, amplificati dalla propaganda che si sforzò di far apparire le campagne germaniche come un atto di conquista, essa si limitò a una guerra di contenimento, naufragata nel 9 d.C. nel disastro di Teutoburgo. Là, le truppe confederate germaniche riunite sotto il volitivo capo dei cherusci Arminio (uno che si era fatto le ossa combattendo proprio sotto i romani) annientarono letteralmente tre legioni affidate al proconsole Publio Quintilio Varo. Lo shock per la disfatta fu tale che il povero Varo si diede la morte per la vergogna, mentre Augusto, secondo quanto raccontato da Svetonio, per molti mesi successivi fu vittima di eccessi di collera durante i quali gridava: «Varo, Varo, rendimi le mie legioni!».
Tanto più che una questione ormai improcrastinabile richiedeva tutta la sua attenzione, assorbendone le energie in cerca di una soluzione: come trasmettere un potere costituito da tante sfaccettature? Come garantirne la continuità in un ambiente in cui le cariche erano rigorosamente elettive e chi ne veniva investito cambiava di anno in anno?
Non era un problema da poco, considerato che la dignità imperiale era e rimarrà per sempre “qualcosa” di estraneo rispetto alla sfera del diritto romano, alimentando il paradosso secondo cui la principale istituzione di Roma era formalmente illegale. Come se non bastasse, a partire dal 13 a.C., Augusto aveva assunto anche la carica di pontifex maximus lasciata vacante dall’imbelle Lepido, e incamerata con l’obiettivo di rilanciare il patrimonio religioso romano ridotto al lumicino. Augusto finiva così per acquisire inevitabilmente quell’aura di religiosità che, sulla scorta della moda orientale, contribuì ad alimentare il culto della personalità dell’imperator.
Ora, istituzionalizzare la figura imperiale significava stravolgere l’ordinamento repubblicano, con conseguente perdita della sovranità del Senato e del corpo civico romano e rottura degli equilibri stabiliti dalla lex. L’impero era la negazione del senatus populusque, l’annullamento di quella che veniva percepita come la più grande conquista dei romani, ossia la loro organizzazione in una repubblica. Proprio basandosi su ciò, il genio di Augusto poté fingere di inserire la forma assunta dal suo potere all’interno del solco stabilito dal diritto.
La nascita della sua “anomalia” era stata determinata proprio dalla necessità di scongiurare il ritorno della monarchia e impedire così che la natura intima di Roma, definita dal diritto nato appunto per salvaguardarla, fosse stravolta. È chiaro che una soluzione del genere era, nella migliore delle interpretazioni, un serpente che si mordeva la coda: per salvare l’istituzione repubblicana si accettava un potere che di fatto l’annullava. Eppure, la capacità “persuasiva” di Ottaviano, espressa secondo modalità che al giorno d’oggi non esiteremmo a definire “mafiose”, permise che quel pasticcio fosse universalmente accettato, dando il via a ciò che molto probabilmente fu l’aspetto più vulnerabile dell’istituzione imperiale: la sua sostanziale incapacità di essere definita da regole, contorni e specificità. Il che si tradusse in un’evidente banalità: imperatori “forti” manterranno il potere; gli altri lo perderanno, scatenando quelle crisi che saranno il costante contrappunto della storia centenaria dell’impero.
Augusto appartenne certamente ai primi e poté con disinvoltura trasmettere il potere, o meglio la forma istituzionalizzata di quello che si concretizzava nell’imperium proconsolare e, soprattutto, nella tribunicia potestas, a chiunque avesse scelto. Peccato che, se l’inganno abbindolò gli uomini, molto meno persuase gli dèi che, di fatto, ebbero premura di togliere di mezzo tutti i successori che di volta in volta Ottaviano designava: prima Marcello, il figlio della sorella Ottavia, poi i suoi due nipoti Gaio Cesare e Lucio Cesare, figli della ribelle Giulia. Allora la scelta ricadde ineluttabilmente su Tiberio, l’unico al quale Ottaviano non aveva mai pensato e che, invece, fu proprio colui che la spuntò, lasciando adito al lecito sospetto già anticipato che forse, a compiere la strage che eliminò i rivali non fossero gli dèi ma le “premure” della madre Livia.
Comunque sia andata, Augusto compì il grande passo e, come aveva fatto Cesare con lui, adottò Tiberio, superando così l’empasse della non consanguineità con il successore. Mantenere la carica imperiale all’interno della ristretta cerchia familiare dell’imperatore fu infatti la più immediata modalità di successione, instaurando un principio che risulterà essere quello maggiormente seguito sia attraverso la pratica dell’adozione, sia attraverso la trasmissione per consanguineità, che si concretizzerà con il succedersi di varie dinastie.
Nonostante ciò, la scelta operata da Augusto non creò una prassi che fosse chiara e stabile. Già il fatto stesso che siano esistite più dinastie indica che presto o tardi l’una dovesse cedere il passo a un’altra: fu esattamente ciò che accadde a quella cui Ottaviano apparteneva, la giulio-claudia, che nel 68 d.C. segnò tragicamente il passo con il suicidio obbligato di Nerone, portando alla confusione successiva che si risolse solo con l’avvento di Vespasiano, capace di inaugurare il potere dei Flavi. La giulio-claudia vide: TIBERIO, CALIGOLA, CLAUDIO, e NERONE; la flavia vide VESPASIANO, TITO, DOMIZIANO, NERVA, TRAIANO, ADRIANO, ANTONINO PIO, MARCO AURELIO e COMMODO.
Fu dunque chiaro che la conclamata impossibilità di “regolarizzare” la figura imperiale, piuttosto che lasciare larghissimo spazio di manovra al capo dello Stato romano, come si potrebbe pensare, costringeva il regnante di turno a doversi appoggiare sulla forza bruta e sulla repressione e a essere continuamente preoccupato per la stabilità della propria supremazia, non protetta né regolata da alcuna legge: elemento che spiega i veri e propri stati paranoici in cui caddero alcuni imperatori, fra cui già il primo successore di Augusto. Senza contare che la colpa dell’illegalità finirà per costituire uno degli aspetti più negativi se non aberranti dell’istituzione imperiale: esso consentirà l’avvento di personalità incapaci di reggere il fardello del governo di Roma e dei suoi territori.
Nell’agosto del 14, dopo aver disposto che il suo successore Tiberio partisse per l’Illiricum a risistemare l’amministrazione della provincia, Augusto decise di accompagnarlo fino a Benevento; salvo essere colto da un improvviso malore all’addome che lo costrinse a riparare nella sua villa di Capri, dove riposò per quattro giorni. Quindi partì alla volta di Napoli, dove seppur tormentato dai dolori intestinali assistette ai ludi istituiti in suo onore, al termine dei quali riuscì a spingersi sino al luogo convenuto per l’imbarco del figlio adottivo, che vide partire per la missione affidatagli.
Durante il viaggio di ritorno si aggravò, tanto da essere costretto a fermarsi a Nola. Fu lì che il 19 agosto lo colse la morte. In quel fatale giorno, poco prima che la fine giungesse, chiese uno specchio, si fece sistemare i capelli e, chiamati familiari e amici, si accommiatò da loro con le seguenti parole: «La commedia è finita, applaudite».
Eugenio Caruso
- 25 novembre 2017