GRANDI PERSONAGGI STORICI - Ritengo che ripercorrere le vite dei maggiori personaggi della storia del pianeta, analizzando le loro virtù e i loro difetti, le loro vittorie e le loro sconfitte, i loro obiettivi, il rapporto con i più stretti collaboratori, la loro autorevolezza o empatia, possa essere un buon viatico per un imprenditore come per una qualsiasi persona.
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Traiano
Dinastia degli antonini
Traiano era figlio di un senatore che portava il suo stesso nome. Apparteneva a una famiglia di Todi, quella degli Ulpii, che, sebbene provinciale, era eminente e di rango senatorio. Gli Ulpii erano una famiglia italica stabilitasi nella provincia iberica di Baetica (odierna Andalusia - Spagna), la quale mantenne però sempre contatti con la terra d'origine al punto che Nicomaco Flaviano il Vecchio ipotizzava che l'imperatore fosse nato nella città umbra, la famiglia infatti aveva nella città interessi economici. Traiano nacque il quattordicesimo giorno prima delle calende di ottobre (18 settembre) e, sebbene la maggior parte degli storici indichi l'anno 53, una corrente minoritaria sostiene il 56 come anno di nascita, basandosi sulla sua carriera senatoriale. È possibile che, essendo nato all'inizio del consolato del padre, abbia avuto i natali a Roma, ma nessuno fino allo scrittore del IV secolo Eutropio indica un luogo preciso. Quest'ultimo sostiene che Traiano sia nato ad Italica (fondata da Scipione l'Africano), odierna Santiponce, questa idea è oggi la più ricorrente. La madre, Marcia, era iberica, mentre il padre non fu solo senatore, ma ricoprì altre cariche importanti, tra cui il proconsolato d'Asia, il consolato e nel 76-77 il governatorato della Siria (Legatus pro praetore Syriae).
Passando dalla carica di tribunus militum a quella di quaestor, praetor, e legatus Traiano si fece le ossa sui campi di battaglia, assaggiando l’identico sapore delle gallette dei legionari, annaspando nello stesso fango, stillando lo stesso sudore. Ciò gli permise non solo di guadagnarsi la stima di coloro che volta per volta diventeranno i suoi sottoposti, ma anche di ottenere conoscenze specifiche delle frontiere di cui progressivamente era chiamato a difendere la sicurezza.
La sua fama decollò definitivamente quando nell’89, posto finalmente a capo di una legione (la I Adiutrix) sotto Domiziano, si distinse contro Lucio Antonio Saturnino, il legato della Germania superiore che aveva fomentato una pericolosa ribellione. I vantaggi che seguirono quell’impresa costituirono il trampolino per il conseguimento della carica di console ottenuta nel 91.
A dispetto di molta scarsità documentaria si staglieranno chiare e immutabili le testimonianze monumentali e architettoniche, prima fra tutte la celeberrima colonna che ancora abbellisce il Foro voluto proprio dall’imperatore nell’area che collegava il Campidoglio con il Quirinale.
Al momento, Traiano era ancora lontano dal compiere le imprese che sarebbero state immortalate sulla stele, ma aveva già raggiunto un prestigio che gli permise di essere investito della carica di governatore della Germania superiore, nel cui ruolo si confermò come uno dei più valenti generali di cui l’impero potesse disporre; qui lo colse la notizia della morte di Domiziano e la conseguente ascesa del successore Nerva.
Questo anziano senatore inviso negli ambienti militari, aveva bisogno di un interlocutore valido che gli apprestasse un ponte con il mondo dei militari. La scelta ricadde su Traiano, che nel 97 si ritrovò addirittura designato come successore al soglio imperiale e adottato, da Nerva come figlio.
La scelta di Nerva confermava quanto ormai fossero lontani i tempi di Augusto: la via della successione non si incardinava più sui principi familiari, ma seguiva la strada della ricerca del “migliore”, inaugurando una stagione che avrebbe finito per costituire uno dei momenti più floridi della storia di Roma. Nerva era in difficoltà a causa di una rivolta di pretoriani e quindi considerò opportuna l’ascesa di un buon generale, di nobiltà recente eppure solida, per di più baciato dal favore popolare. A queste doti Traiano sommava il fatto di essere a capo delle legioni più prossime all’Italia, di cui vantava l’assoluta fedeltà; infine, egli rispondeva al profilo di cui Nerva necessitava, ovvero di qualcuno in grado di seguire le sue orme politiche.
Di certo quell’opzione dimostrò chiaramente che le origini provinciali di Traiano non costituivano più un fattore discriminante, sancendo di contro quanto la penisola italica stesse perdendo il suo ruolo centrale nella politica romana. L’elezione di Traiano al principato rappresentò dunque una chiara riscossa delle forze fino ad allora tenute ai margini del potere.
Traiano si preoccupò di mandare alla capitale uomini sufficienti a sedare la rivolta che stava rovesciando Nerva, il quale non ebbe il tempo di godere degli effetti di quell’aiuto: morì infatti pochi mesi dopo, il 27 gennaio del 98.
Traiano, che nel frattempo aveva incassato la nomina a proconsole e la potestas tribunicia, si ritrovò così a essere imperatore di Roma all’età di quarantacinque anni, grazie alla lungimiranza del suo predecessore e alla forza del proprio esercito. Tutti elementi che contribuirono a rendere la traslazione dei poteri la più indolore possibile.
La volontà di assolvere i propri doveri lungo le rive del Reno e del Danubio non impedì a Traiano di prepararsi adeguatamente il terreno per il suo rientro nella capitale, preoccupandosi di adottare quelle misure preliminari atte a proteggere il governo e la propria persona. In particolare, conferì incarichi di “spionaggio” al corpo dei frumentarii oltre a creare una guardia del corpo costituita da soldati a cavallo, gli equites singulares, estraendoli dalle fila dei germani e dei pannoni: attraverso la formazione di questa nuova istituzione, Traiano dimostrava di fidarsi degli ausiliari e degli stranieri e non più della guardia pretoriana, composta soprattutto da elementi italici.
Sistemate le cose in terra teutonica, si trasferì finalmente a Roma.
Ben lontano dal riproporre i riti di stampo orientale dei sui predecessori, come l’abbraccio del piede, il baciamano o il palanchino, il nuovo imperatore faceva il suo ingresso passeggiando sulle sue gambe, da vero cittadino romano. Certo, sapeva di contare su una figura imponente, ma soprattutto era conscio di potersi affidare a un carisma incorruttibile.
L’ascendente che aveva saputo conquistarsi sui campi di battaglia sarebbe in effetti risultato talmente forte da azzerare, nella stima e nella memoria dei suoi sudditi, anche le inevitabili macchie del suo carattere, comprese le indulgenze al vino e ai piaceri della carne cui si abbandonava senza curarsi se a stringerlo fossero le tenere braccia di una fanciulla o quelle vigorose di ragazzo.
D’altronde, se andava bene a sua moglie Plotina, con cui era felicemente sposato sin dal 90, nessuno ritenne opportuno sollevare il velo su situazioni potenzialmente imbarazzanti: neppure un autore corrosivo come Giovenale ebbe il coraggio di biasimare Traiano per i suoi vizi.
Traiano accolse di buon grado il suggerimento che prevedeva un maggior coinvolgimento del Senato nella conduzione degli affari pubblici, ma esercitò su questi un controllo molto serrato. Ciò gli permise di arginare gli abusi di potere di cui svariati senatori si erano macchiati durante il governo lassista del suo predecessore Nerva, quando approfittando di una politica indulgente si erano appropriati illegalmente di svariate ricchezze. In tal modo Traiano otteneva un risultato rimarchevole: pur presentandosi come il continuatore dell’istituzione senatoria di fatto si pose al centro di un processo mirato al potenziamento dell’ordine imperiale, del quale si propose come fulcro.
Accelerando la realizzazione del dirigismo e del centralismo dello Stato, in pratica spinse alle estreme conseguenze quanto già iniziato da Augusto. Pur mantenendo salve le apparenze di un programma conciliatorio tra il vecchio e il nuovo ordine, Traiano seppe cavalcare una politica che annullava gli antichi poteri e le strutture d’origine arcaica. Ciò gli permise di colpire inesorabilmente la corrotta cricca dei liberti che ormai da tempo si ingozzava nelle alte sfere, sostituendola con una cerchia di equites di specchiata dirittura morale. Allo stesso modo, l’istituzione di un Consilium Principis, ovvero un organo giudicante collegiale composto da celebri giuristi, di fatto sottrasse autorevolezza a un ormai asfittico Senato.
Le trasformazioni politiche di cui si fece promotore, lo rivelarono attento interprete dei tempi che stava vivendo, contrassegnati da significativi rivolgimenti sociali. Un’alacre schiatta di “borghesi”, tutti provenienti dalle municipalità italiche, stava progressivamente ricoprendo mansioni burocratiche e amministrative sempre più prestigiose; al contempo una controparte commerciale di identiche origini si occupava di attività affaristiche ed economiche sempre più sostanziose, finendo per trasformare definitivamente il tessuto connettivo dell’intera società romana.
Nonostante già da tempo si stesse realizzando una sorta di parificazione tra i cittadini dell’impero, con l’inevitabile smantellamento dei privilegi goduti dalla componente romano italica, Traiano optò per un’inversione di tendenza che prediligesse piuttosto la vitalità dimostrata dalle popolazioni della penisola. In pratica, determinò un cambiamento di rotta che prevedeva una forte correlazione tra il centro del potere, ovvero egli stesso, e le nuove classi emergenti italiche, realizzando una sorta di circolo virtuoso in cui il reciproco sostegno finiva per costituire uno degli elementi di solidità dell’impero.
In tale ottica vanno lette le disposizioni che l’imperatore ebbe cura di promulgare. Per mantenere la prosperità in Italia e permettere a questa di conservare il suo primato all’interno dell’impero erano necessari provvedimenti ben più drastici del puro e semplice miglioramento delle vie di comunicazione, cui pure si dedicò con solerzia. Così, individuando nelle nuove generazioni lo strumento attraverso il quale quel primato si sarebbe di nuovo espresso, Traiano promosse a partire dal 103 l’institutio alimentaria, un dispositivo statale a carattere assistenziale che sebbene introdotto dal predecessore Nerva trovò sotto di lui la sua piena realizzazione. Attraverso di esso l’imperatore intese istituire collegi per ragazze e ragazzi poveri e per gli orfani dei suoi legionari, cui furono elargiti sussidi mensili. In tal modo, oltre a garantire cibo e istruzione, Traiano assicurava all’impero una classe di tecnici e militari che costituirà l’ossatura dell’organizzazione amministrativa futura.
A ciò, nel 108 si affiancò un provvedimento che costringeva i nobili senatori (in gran parte ormai latifondisti provenienti dalle province) a investire almeno un terzo dei propri patrimoni in terre italiche. Come se non bastasse, Traiano sfrutterà i proventi che gli deriveranno dalle campagne daciche per ripopolare l’Italia con una messe di contadini liberi, ai quali si preoccuperà di fornire terra, sementi, attrezzi e casa, chiedendo in cambio un modesto interesse annuo. Infine, avrà cura di alleggerire il peso contributivo cui erano sottoposti i suoi sudditi, irrobustendo di contro il fisco con la vendita di beni che i precedenti imperatori avevano largamente accumulato mediante acquisti, confische, doni e legati testamentari e immobilizzato nel proprio patrimonio.
Da qui l’immagine restituitaci dai plutei che ora sono conservati nella Curia, in cui si ammira un Traiano intento a bruciare i registri delle tasse: al di là della mera propaganda, le sue iniziative furono una vera e propria scossa con cui si innervò la ripresa dell’economia italiana. Con il rilancio di questa, Traiano evitava pericolose derive centrifughe e anzi, attraverso il potenziamento di un efficiente apparato statale, creava le condizioni per l’attuazione di una vasta rete di traffici interni, sia attraverso l’assicurazione della sicurezza delle rotte terrestri e marittime, sia attraverso la riorganizzazione amministrativa dei territori. Ciò contribuirà al definitivo decollo dell’economia di scambio, che spazzerà le antiche resistenze del capitalismo fondiario, nonché la visione politica ancorata a queste, trascinatasi sin dai tempi della monarchia in una netta contrapposizione tra i patrizi latifondisti e i plebei loro clienti.
Tutto ciò si tradusse in quella che agli studiosi è apparsa una mirabolante età dell’oro, riflessa nella miriade di opere pubbliche patrocinate dall' imperatore. Le grandiose terme di cui restano tracce sul Colle Oppio, il monumentale Foro che ancora porta il suo nome, con il sontuoso apparecchio di edifici per la pubblica amministrazione, colonnati, porticati, biblioteche, templi e statue, uniti alle svariate opere di manutenzione realizzate in ogni angolo dell’impero (non ultimo il porto esagonale eretto nella zona dell’attuale Fiumicino o la bonifica dell’Agro Pontino) testimoniano la floridezza che Traiano seppe imprimere alla stagione del suo governo.
Mentre Traiano sovrintendeva alla realizzazione di apparati e infrastrutture su cui far poggiare l’impero, non perdeva di vista l’essenza di cui la sua stessa natura era forgiata, vale a dire la guerra. Egli abbandonò la politica di contenimento perseguita dai suoi predecessori e abbracciò la causa di una rinnovata espansione, che finì per rappresentare l’ultima stagione imperialista di Roma.
Traiano individuò nel confine danubiano lo scenario su cui ricercare non solo la gloria personale, ma anche la risposta a valutazioni di ordine strategico ed economico. L’anello debole del confine era già stato individuato da tempo nella porzione di territorio adiacente al regno dei daci, l’unico Stato organizzato presente nell’area corrispondente grosso modo alla moderna Romania. La strategia difensiva impostata da Augusto e perseguita dai Flavi prevedeva una scelta a favore di frontiere regionali ottimali, sostanzialmente identificate da conformazioni specifiche del territorio quali il corso dei fiumi o la linea di archi montani.
Impossessarsi del regno dei daci avrebbe dunque significato non solo portare il confine oltre il Danubio, raggiungendo così una barriera naturale che avrebbe rappresentato una valida linea di difesa rispetto all’infiltrazione dei barbari verso occidente, ma avrebbe messo in sicurezza le regioni della Mesia (odierna Bulgaria) e della Tracia (Grecia orientale), garantendone uno sviluppo organico e tranquillo. Senza contare che, a proposito della Dacia, si favoleggiava che fosse una regione molto ricca.
Traiano dovette dedurre che quella terra abbondava di risorse naturali e minerali, cosa che peraltro risulterà vera. Così, considerando il fatto che in quelle terre sfociava la grande via fluviale del Danubio, ovvero l’accesso sicuro al mar Nero per il commercio col regno vassallo del Bosforo, l’imperatore si accinse più che volentieri a effettuare il viaggio verso le radici ancestrali del popolo latino, ripercorrendo a ritroso il cammino che, nel corso della grande migrazione indoeuropea avvenuta intorno al II millennio a.C., aveva portato quelle popolazioni dalle montagne e dalle foreste dei Carpazi fino all’Italia centrale.
Non a caso, nell’Eneide Virgilio faceva dire alla sibilla interrogata dai troiani fuggiaschi a Cartagine: «Perché non andate dai vostri fratelli?» intendendo con fratres proprio i latini che, al pari dei troiani, provenivano dal lontano oriente, identificato nelle selvagge quanto mitiche terre della Dacia. E sempre non a caso, anche dopo che gli effetti della conquista romana perpetrata da Traiano si affievoliranno, quella terra, destinata a trasformarsi nella moderna Romania, rimarrà un’isola latina in un mare di slavi.
I daci erano una compagine compatta, conscia della propria nazionalità e ben organizzata, agli ordini di un principe geniale, Decebalo, che nutriva un odio indomabile verso Roma e che tentava di coinvolgere sia le tribù vicine sia i lontani parti in una guerra congiunta contro i romani.
Traiano comprese che per averne ragione, avrebbe dovuto contare innanzitutto su un esercito affidabile. Creò così nuove legioni, ma soprattutto impose un nuovo senso della disciplina con un serrato programma d’addestramento, mirato a rinsaldare il rapporto già esistente tra soldati, comandanti e imperatore. Credendo fortemente nel valore dell’esempio, aveva già condiviso fatiche e ansie delle sue truppe, con cui familiarizzava chiamando i soldati per nome e alle quali non lesinava rampogne o punizioni drastiche quando necessario.
Sebbene come detto il periodo di Traiano fu in assoluto il meno documentato della storia di Roma, possiamo però contare su una valutazione abbastanza accurata della consistenza dell’esercito imperiale. Le armate contavano probabilmente sui 400.000 uomini, fra cui 180.000 ripartiti in trenta legioni (di consistenza numerica superiore a quella dei tempi precedenti) composte principalmente di provinciali, ma con i quadri quasi integralmente arruolati in Italia. A queste si sommavano gli ausiliari offerti dagli Stati alleati, il cui numero superava di poco le 200.000 unità.
Le truppe romane effettuarono il loro ingresso all’altezza di Lederata e Dobreta, dove si divisero in due colonne secondo una tipica tattica che prevedeva l’ingresso separato delle unità in territorio ostile, in modo da confondere e dividere il nemico.
Riunitasi a Tibiscum, l’armata proseguì fino a Tapae, puntando al passo delle cosiddette Porte di ferro che immettevano nella Dacia vera e propria, allora comprensiva di Transilvania, Moldavia, Valacchia e parte della Galizia meridionale e della Bucovina. Decebalo reagì ritirandosi, attuando una strategia che intendeva trascinare i romani in zone impervie, allungare le loro linee di comunicazione e isolarli nelle montagne della Transilvania.
Traiano, da comandante esperto qual era, man mano che avanzava rispose costruendo campi base e fortezze: così consolidava le retrovie e rendeva possibile l’afflusso di rinforzi e di rifornimenti. Nel 102 si giunse a una prima battaglia campale a Tapae, nello stesso luogo dove quattordici anni prima il governatore della Mesia, Tettio Giuliano, aveva ottenuto una schiacciante vittoria che aveva costretto Decebalo sulla difensiva.
Nell’occasione, i romani avevano assaggiato la temibile falx brandita dai daci, una lunga spada ricurva che riusciva ad aggirare il pesante scutum e a ferire gravemente i legionari all’altezza delle braccia e delle gambe: per neutralizzarla fu necessario ricorrere all’impiego delle protezioni segmentate utilizzate durante i giochi dei gladiatori, in aggiunta alla lorica.
Stavolta l’esito dello scontro non fu altrettanto confortante: la mediocre vittoria ottenuta dai romani servì solo a instillare nell’animo di Traiano la consapevolezza della forza di resistenza dei daci.
Fu così che nella primavera successiva, Traiano giudicò più saggio cambiare accesso, tentando la penetrazione attraverso il passo della Torre Rossa. Il cambio di linea di gravitazione scontava un allungamento delle sue forze e un inevitabile indebolimento sia dei presidi che dei sistemi di approvvigionamento, eppure risultò vincente, grazie soprattutto allo sfruttamento dell’elemento sorpresa.
Traiano ormai si trovava al centro dell’anello dei Carpazi e gli sarebbe bastato allungare le mani per occupare la capitale dacica Sarmizegetusa, obiettivo principale della sua avanzata. Un’azione diretta contro la città avrebbe però esposto il fianco sinistro romano all’attacco scaturito dalla linea di Muhlbach, una serie di fortezze situate sui contrafforti dei monti limitrofi. L’imperatore dunque, dimostrando ancora una volta una pregevole duttilità tattica, modificò il baricentro dell’azione dirigendosi contro i capisaldi montani, che furono distrutti uno a uno secondo il principio del frazionamento dell’avversario.
Decebalo impiegò tutte le sue forze per soccorrere le fortezze e, quando l’ultimo caposaldo fu espugnato, la strada per la capitale era ormai da considerarsi spianata: la guerra a quel punto era vinta. Decebalo, pur di risparmiarsi gli orrori di un inutile assedio, capitolò, presentandosi nel campo di Traiano presso Aquae, sullo Strell, dove fu concordata una pace che l’imperatore concesse presentando termini abbastanza miti: al re infatti rimanevano i monti della Tracia con le loro miniere d’oro. Di contro gli veniva imposto di smantellare le fortificazioni, restituire i prigionieri e i disertori, e consegnare una certa quantità d’oro che si tradusse in 2.250 milioni di sesterzi (circa 12 miliardi 250 milioni di euro), a cui si aggiunsero 430 milioni di sesterzi in argento.
Ciò che apparve evidente fu che entrambi i condottieri conservarono le loro riserve mentali, che si tradussero nell’identica intenzione di prepararsi al meglio a un’imminente ripresa del conflitto. Traiano, infatti, non spostò dall’area nessuna delle legioni che avevano preso parte alla campagna; quanto a Decebalo, passò i mesi successivi ricompattando le tribù e coinvolgendo nuove e più agguerrite schiere.
Chi accusa di leggerezza Traiano, per aver concesso quell’insolito vantaggio, ignora che l’imperatore, guardando già lontano, immaginava la Dacia come stato vassallo da frapporre come cuscinetto contro i popoli decisamente più barbari delle pianure sconfinate della Scizia e della Sarmazia: in caso di invasione, i daci avrebbero costituito la prima linea di difesa in attesa di radunare le armate imperiali per il contrattacco; meglio dunque che le loro fortificazioni fossero le più robuste possibili. Ciò che Traiano sottovalutò fu piuttosto la capacità di ripresa di Decebalo e la sua intraprendenza, che già nell’autunno del 105 si tradusse in un’offensiva a sorpresa contro le guarnigioni romane lasciate di stanza nel territorio annesso.
Quell’attacco di fatto diede l’avvio alla Seconda guerra dacica. Nonostante la prospettiva dell’imminente inverno e le avverse condizioni del mare, Traiano salpò da Ancona nel giugno del 105 con una cospicua flotta che condusse fino a Zara. Stavolta era mosso dal fermo proposito di cancellare la Dacia dalle mappe geografiche. A ciò servivano le 13 legioni che si portò dietro, senza contare il novero degli ausiliari.
Deciso a colpire prima che la rivolta si propagasse ad altre tribù, l’imperatore attraversò velocemente la Dalmazia, quindi superò il Danubio marciando sul meraviglioso ponte che l’architetto Apollodoro di Damasco aveva eretto all’altezza di Drobetae approfittando del breve periodo di pace. Dovette trattarsi davvero di un’opera imponente: 1070 metri di pietra che, sorretti da 20 pilastri giganteschi, scavalcavano le acque non solo per fornire una via di accesso sicura alle armate romane, ma al pari di quello costruito da Cesare sul Reno, a testimonianza della potenza di Roma e per gettare lo scoramento nei nemici.
Una volta penetrato nella Dacia in compagnia del cugino Adriano, Traiano condusse l’attacco su due direttrici, una tangente le Porte di ferro, l’altra attraverso la Torre Rossa. Stavolta, la superiorità romana si rivelò schiacciante sia nel numero che nell’organizzazione logistica, al punto che nei primi mesi del 106 la campagna si poteva considerare conclusa. Una rapida azione portò le armate a ridosso di Sarmizegetusa, che fu occupata. Una delle carte vincenti fu l’utilizzo della temibile cavalleria mauretana comandata da Lusio Quieto, che terrorizzò letteralmente i daci annientandone la capacità combattiva.
Nonostante ciò Traiano sapeva che per opporre il suggello finale occorreva la morte del re Decebalo. Questi, infatti, aveva tentato di ritirarsi verso il nord per riordinare le proprie forze e per chiamare alla rivolta nuove tribù. La caccia romana divenne allora spietata. Incalzato e raggiunto dalla cavalleria nemica, il re si tolse la vita pur di non cadere prigioniero. Ciò non impedì al vincitore di infierire sul suo corpo, mozzarne la testa e inviarla a Roma come trofeo.
Attenendosi al motto secondo il quale «sugli altopiani daci il presupposto per la pace era la desolazione», Traiano operò una vera e propria campagna di “pulizia”, al termine della quale Sarmizegetusa fu rasa al suolo e sostituita da una nuova capitale chiamata Ulpia Traiana: la Dacia veniva ridotta allo stato di provincia mentre i suoi abitanti, non meno di 500.000, prendevano la via di Roma dove avrebbero finito i loro giorni come schiavi o come gladiatori. Al loro posto, si riversò una folla di coloni che contribuì alla rapidissima latinizzazione dell’area, con i risultati che sono ancora visibili al giorno d’oggi.
Traiano, con un bottino di 5 milioni di libbre di oro, 10 milioni di libbre di argento, e una straordinaria quantità di ricchezze di vario genere, poteva finalmente dare il via a quella straordinaria stagione edilizia per cui è ancora ricordato. Non prima, però, di abbandonarsi a un trionfo cui seguirono ben centoventitré giorni di festa ininterrotta.
L’eliminazione della Dacia come stato indipendente costituiva la premessa necessaria per ricostituire il controllo diplomatico di Roma sui germani, in particolare, quadi e marcomanni, e sui sarmati, nella fattispecie iazigi e roxolani, tutti gravitanti nell’area danubiana. Finché Decebalo restava libero di sfidare l’autorità di Roma, il potenziale deterrente della politica imperiale avrebbe subito un fatale indebolimento. La sua scomparsa, al contrario, garantì la sicurezza a tutte le zone danubiane fino a Vindobona, come all’epoca era chiamata Vienna.
In pratica dunque, dopo la conquista di Traiano, la valle del Danubio poteva finalmente cominciare a offrire all’impero il suo contributo umano e materiale, accrescendone così la potenza. La bontà del disegno strategico dell’imperatore per non dire il suo genio, fu rivelato dal fatto che il controllo dell’intera provincia venne assicurato da una sola legione: la XIII Gemina di stanza ad Apulum.
Il meccanismo poté diventare operativo solo dopo che l’intera provincia fu completamente pacificata, e soprattutto dopo che il nuovo confine fu posto in sicurezza. L’eliminazione dello Stato dacico aveva infatti estroflesso le frontiere dell’impero fino a lambire le sterminate pianure scitiche, dove di conseguenza esse furono soggette alla continua pressione delle popolazioni sarmatiche. Abili combattenti e splendidi cavalieri, i sarmati si dimostrarono da subito un osso duro per i romani. Traiano giudicò che quell'impegno poteva essere assolto dal cugino Adriano. Questi fu costretto a ripristinare una disciplina durissima per rinvigorire le truppe, ammorbidite dall’ozio nelle guarnigioni o troppo spavalde nell’assumersi inutili rischi. Quindi, combinando una costante azione militare a una non meno asfissiante iniziativa politica, riuscì a seminare zizzania fra i capi barbari inducendone alcuni a tradire. Solo al culmine di una spietata repressione i sarmati furono finalmente indotti a capitolare, e solo dopo che i loro comandanti, seguendo l’esempio di Decebalo e dei nobili daci, si suicidarono in massa con tutti i loro clan.
A quel punto, e solo a quel punto, l’annessione della Dacia poteva dirsi completata.
A somiglianza di Cesare, Traiano decise di lasciare il ricordo delle sue imprese scrivendo i Commentarii de bello dacico. Quest’opera, che sarebbe stata fondamentale per la comprensione dell’intera guerra è però andata perduta. Fortunatamente, le operazioni militari della spedizione furono riprodotte con meticolosa precisione nei bassorilievi che ancora oggi si avvolgono a spirale intorno alla celebre colonna eretta nel Foro di Traiano nel 113. Più di 2000 figure, in origine probabilmente colorate, si succedono nel fregio lungo 200 metri e largo 1, fino a creare, avviluppandosi lungo i 30 metri di altezza della colonna, una vera e propria pellicola impressa su pietra, che rimarrà forse l’orma più suggestiva impressa da questo imperatore.
Se si fosse accontentato dei suoi allori danubiani, Traiano si sarebbe potuto vantare di aver reso a Roma un servigio incomparabile. Aveva infatti individuato con estrema acutezza la chiave della prosperità e della sicurezza dell’impero nelle province del Danubio: a esse occorreva rivolgere particolare attenzione perché formavano la spina dorsale dell’intera frontiera. In effetti la Storia in seguito gli avrebbe dato ragione, considerato che Roma cadrà proprio sotto i colpi delle invasioni barbariche provenienti esattamente da quell’area.
Sfortunatamente, una valutazione erronea dei suoi successi gli fece volgere l’attenzione a Oriente, innescando una serie di eventi che avrebbe messo a repentaglio quella stabilità così duramente conquistata.
Giova ricordare che Dante lo include fra i beati del VI Cielo di Giove, dando credito a una leggenda assai diffusa nel Medioevo e in base alla quale papa Gregorio Magno, venuto a conoscenza di un atto di umiltà e giustizia compiuto dall'imperatore, pregò intensamente per la sua salvezza fino a ottenerla (del fatto i teologi offrivano una compiuta spiegazione dottrinale). La leggenda è richiamata in Purg., X, 73-93, fra gli esempi di umiltà scolpiti all'ingresso della I Cornice: Traiano è raffigurato a cavallo, in procinto di partire per una spedizione, quando una vedova gli si avvicina chiedendogli giustizia per il figlio ucciso. Inizialmente l'imperatore si schermisce, poi, di fronte alle insistenze della donna, accetta di rimandare la partenza e di fare il suo dovere (la virtù dimostrata dal principe mosse Gregorio a la sua gran vittoria). Traiano compare poi nel Canto XX del Paradiso, allorché l'aquila si rivolge a Dante e indica i beati che formano il suo occhio, ovvero gli spiriti che operarono per la giustizia e che sono più degni: tra essi, oltre a David, Ezechia, Costantino e Guglielmo il Buono, ci sono anche i pagani Traiano e Rifeo, compagno di Enea. Dante è sorpreso di sentire che due pagani siano fra i beati del Paradiso e l'aquila, che legge nella sua mente, scioglie subito i suoi dubbi: spiega che Traiano dopo la morte andò fra le anime del Limbo, poi il suo spirito fu richiamato in vita grazie alle preghiere di papa Gregorio; in questa breve resurrezione della carne, Traiano credette in Cristo e ottenne così la salvezza. Attraverso l'esempio suo e di Rifeo, Dante sottolinea l'imperscrutabilità della giustizia divina, che può concedere la salvezza in modo del tutto imprevedibile a personaggi che nessuno si aspetterebbe di vedere tra le anime salve (in modo analogo, per certi versi, a Catone l'Uticense e Manfredi di Svevia).
Eugenio Caruso
- 30 novembre 2017