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Traiano: l'Impero romano raggiunse la massima estensione territoriale





Nel 101 Erode Agrippa II, moriva senza eredi eTraiano reputò opportuno annettersi il suo regno, che coincideva grosso modo con l’attuale Arabia nord-occidentale. In tal modo l’impero acquisiva una sottile striscia di terreno che consentiva il collegamento con l’Egitto. La continuità raggiunta appariva però troppo esile. Per darle profondità e consistenza non restava che acquisire il regno vassallo dei Nabatei, corrispondente all’odierna Giordania, che Traiano fece conquistare nel 106 con relativa facilità.
In quello stesso anno, vi costituì la provincia dell’Arabia Petrea con capitale Petra, ora in Giordania, i cui territori, centro di smistamento delle importanti vie carovaniere che giungevano dall’Oriente potevano servire come piattaforma per l’avvio di considerevoli operazioni commerciali. . Eppure, neanche ora Traiano riuscì ad accontentarsi. Anzi, l’acquisizione dei territori della Nabatea portò immediatamente il pensiero stategico di Traiano contro chi, da tempo, rappresentava l’unica vera forza capace di contrastare i romani: l’impero dei parti.
Interessato dall’idea di rescindere quella che era stata una spina del fianco sin dai tempi di Pompeo e Augusto, l’imperatore inseguì il sogno imperiale di quest’ultimo di lasciare in eredità ai suoi successori uno stato unificato, rispettato e sicuro, vendicando al contempo le brucianti sconfitte subite da Crasso e da Antonio. La sua eliminazione, o quantomeno il suo ridimensionamento, avrebbe permesso di annullare l’endemica condizione di precarietà in cui tra scorrerie, sconfinamenti e incidenti vari quella porzione di confine languiva. Una precarietà che obbligava l’impero all’impiego di ingenti truppe, stornandole dalle restanti province.
Non va dimenticato che traiano fu il primo imperatore di origine non italica e, come tale, portava impressa nei geni una visione globale dell’impero. Secondo questa, le singole province non erano considerate semplicemente come satelliti dipendenti dall’Italia, ma compartecipi della grandezza di un organismo molto più vasto e complesso. Perché tale struttura potesse sopravvivere, doveva continuare a espandersi: questa la cristallina conclusione raggiunta da Traiano. Da lì a individuare il regno dei parti come il prossimo ineludibile obiettivo il passo fu breve. Tanto più che in esso era evidente la suggestione del mito di Alessandro. Raggiungere Babilonia, una città che gli antichi consideravano la prima costruita dall’uomo, e dunque affacciarsi sul golfo Persico, da cui prepararsi a compiere un ulteriore balzo verso la misteriosa India, furono fattori che molto probabilmente agitarono i pensieri di Traiano.
La Partia era una delle vie su cui si muovevano le carovane che raggiungevano l’India e la Cina, le cui mercanzie, soprattutto spezie e seta, erano causa di grande dispendio di capitali per l’impero: Plinio a proposito citava una spesa di 500 milioni di sesterzi annui solo per la seta. Tutto ciò perché Roma, non potendo comprare direttamente dai produttori, subiva l’aumento esponenziale del prezzo determinato degli intermediari, in special modo arabi ed ebrei, e dai dazi imposti dall’impero partico.
Ridurre quest’ultimo a una condizione di vassallaggio avrebbe praticamente portato i confini di Roma a ridosso degli Stati da cui le mercanzie partivano, permettendo così di trattare direttamente con essi e ottenendo dunque un considerevole abbattimento dei costi. Inoltre, la conquista della Mesopotamia avrebbe permesso di spostare il confine oltre il Tigri e l’Eufrate, garantendo così la sicurezza delle ricche province anatoliche e siriane. Infine, una volta ottenuto l’accesso al golfo Persico e al mar Caspio, nulla vietava l’allestimento di un paio di flotte con le quali mettere sotto pressione i popoli lì stanziati in previsione di nuove conquiste.
Traiano, sottostimando che intraprendere una seconda guerra su ampia scala, dopo meno di un decennio dalla precedente, avrebbe rappresentato una spesa assai onerosa per le risorse imperiali, organizzò puntigliosamente la futura campagna. Si preoccupò così di potenziare le sue truppe, che si avvalsero dell’ausilio di cavalieri pesanti batavi, arcieri siriani e contingenti le cui specializzazioni erano legate al territorio. Allo stesso modo furono create due nuove unità: l’Ala I Ulpia Contariorum, formata da un migliaio di lancieri, e l’Ala I Ulpia Dromedariorum, costituita da contingenti a dorso di dromedari, destinate, rispettivamente, a irrobustire l’urto della cavalleria pesante da contrapporre ai cavalieri parti, e a effettuare scorrerie contro i predoni del deserto. Traiano precedette le operazioni militari con una serie di iniziative che ne avrebbero dovuto facilitarne lo svolgimento. Realizzò così un’importante arteria stradale che collegava Damasco ad Akaba, sul mar Rosso. Impiantato così un reticolo che coadiuvasse i trasporti e lo spostamento delle truppe, ebbe cura che queste non patissero la sete, disseminando cisterne e pozzi in tutto il teatro delle future manovre.
Il pretesto che giustificasse un’aggressione di quella portata si presentò tramite il sovrano dei parti, Osroe I, che succeduto nel 110 al fratello Pacoro II manifestò immediatamente sentimenti antiromani. Osroe I detronizzò il re dell’Armenia Axidares insediato con il beneplacito romano a favore del nipote Parthamisiris. Tutta l’operazione, oltre a rappresentare una grave usurpazione, appariva pericolosa per la sicurezza del confine orientale, visto che un’Armenia soggetta ai parti poteva diventare una testa di ponte per un attacco in profondità alle province della Siria e della Cappadocia. Traiano, già nell’ottobre del 112 lasciava Roma, raggiungendo Antiochia nei primi giorni del nuovo anno. Di lì, nel corso della primavera seguente marciò verso l’Armenia, nonostante che il re Parthamisiris gli avesse deposto la corona ai piedi. Ma né Traiano né Osroe erano intenzionati a una risoluzione pacifica della contesa. Ciò apparve evidente quando l’ambasceria partica, raggiunto Traiano ad Atene, fu rispedita al mittente senza risposta e senza che neppure i doni fossero accettati, cosa di cui Osroe non si mostrò particolarmente offeso. A quel punto Traiano giunse ad Arsamosata, una località posta sul Tigri e oggi compresa nell’odierna Turchia, marciando lungo il fiume Murad senza incontrare resistenza. In ciò fu indubbiamente favorito dalle divisioni politiche che laceravano l’Armenia e che iniziarono a dilagare anche nella stessa Partia.
Nella tarda primavera dello stesso anno l’esercito romano raggiunse Satala, dove confluirono truppe di rinforzo provenienti da Cappadocia e Galazia. Ricevute queste unità, Traiano poteva contare sulla forza di 11 legioni, circa 55.000 uomini, a cui si aggiunsero le truppe ausiliare per un totale di circa 80.000 soldati. Lasciata la città, Traiano raggiunse Elegia, nei pressi dell’odierna Erzerum in Turchia e lì depose Parthamasiris, informandolo personalmente che ormai l’Armenia era da considerare una provincia romana. La sottomissione dell’Armenia era stata fin troppo facile: le perdite erano state minime e molti soldati non avevano neppure combattuto. Traiano veniva dunque a trovarsi con truppe fresche il cui morale era altissimo. Così, dopo aver nominato Lucio Catilio Severo governatore della regione, si spostò verso sud, probabilmente attraverso i monti della Tauride, per raggiungere la Mesopotamia settentrionale. L’invasione di quel territorio corrispondente più o meno all’odierno Iraq iniziò a settembre del 114. All’epoca, esso era formato da diversi piccoli stati sotto il controllo dei parti, ma per i romani fu relativamente semplice sottrarli all’influenza del nemico, sempre più sfiancato dal perdurare della crisi dinastica.
Il re di Osroene, Abgar, fece atto di sottomissione a Edessa e divenne vassallo. Gli altri che non si arresero vennero combattuti, sconfitti e spodestati. Il principato assiro dell’Adiabene di cui era re Mebarsapes venne invaso da due colonne imperiali: una al comando di Traiano, che conquistò la Zingara e la capitale Nisibi, l’altra al comando del legato Lusio Quieto, che occupò Singara, Libbana e Thebeta quasi senza colpo ferire. La parte sinora acquisita fu dichiarata provincia romana e dopo avervi insediato le guarnigioni ritenute necessarie per mantenere il controllo dell’area, l’imperatore svernò ad Antiochia, il quartier generale fu tenuto in sua assenza da Adriano. All’inizio del 115 la città fu colpita da un forte terremoto e anche in tale circostanza l’imperatore dimostrò tutte le sue qualità: pur essendo ferito nei crolli del palazzo imperiale, si prodigò nell’assistere la popolazione civile gravemente colpita dalla calamità.
Nella primavera del 116, Traiano decise di sferrare il colpo mortale al cuore dell’impero partico proseguendo la campagna in Gordiene e Adiabene, le regioni situate oltre il Tigri, nella zona di confine tra gli attuali Iraq e Iran: occuparle era indispensabile per preservare i nuovi possedimenti dalla più che probabile controffensiva nemica. L’attraversamento dell’alto Tigri, avvenuto nonostante la tenace opposizione partica, fu indicativo del grado di efficienza operativa ormai raggiunto dall’esercito imperiale. Traiano aveva assemblato una flotta quando si trovava a Nisibi, approfittando dell’abbondanza di alberi nella zona: quindi fece trasportare gli scafi a bordo di carri, i quali attraversando le terre aride e depresse della regione giunsero al punto previsto per il guado. Si compiva così una manovra che già di per sé impressionò gli uomini del sovrano di Adiabene, Mebarsapes, e quelli del re Manisarus di Gordiene, accorsi per impedire ai romani quell’attraversamento che essi consideravano quasi impossibile.
Una parte di legionari come, con Cesare, era stata trasformata in genieri, allo scopo di assemblare rapidamente le imbarcazioni a formare un ponte galleggiante, mentre i loro compagni, a bordo di natanti muniti di armi da lancio, coprivano con un fuoco incessante le operazioni; come se non bastasse, ulteriori truppe d’assalto simulavano continui sbarchi per distrarre il nemico. Al cospetto di un simile spettacolo di potenza, efficienza e coordinazione, gli avversari declinarono ogni velleità di resistenza lasciando libero il campo a quello che a tutti gli effetti poteva essere considerato il miglior esercito dell’epoca. Grazie a quel successo Traiano poté creare la nuova provincia dell’Assiria, riunendo Adiabene, Gordiene e la regione del Kirkuk.
Una volta assicuratosi il controllo delle retrovie, l’esercito romano si diresse verso Babilonia, che venne occupata: cinquecento anni dopo Alessandro, un altro sovrano occidentale entrava così nella mitica città dei giardini pensili. A quel punto, la conquista della capitale partica Ctesifonte, posta nei pressi dell’odierna Baghdad sembrava a portata di mano, pur ponendo un rilevante problema logistico: le truppe romane avrebbero dovuto abbandonare le terre fertili della Mesopotamia per inoltrarsi nel deserto. L’intoppo sarebbe stato aggirato servendosi delle vie fluviali dell’Eufrate e del Tigri. Furono dunque realizzati vascelli di notevole stazza, capaci di navigare lungo il corso del Tigri fin dal confine siriaco, con lo scopo di creare una sufficiente linea di comunicazioni, oltre a fornire basi di rifornimento mobili. O almeno tale era l’intenzione, subito abbandonata dal momento che il fiume, non avendo ancora raggiunto il massimo livello (l’avrebbe fatto solo a luglio) risultava inadatto alla navigazione. Traiano a quel punto avrebbe preferito riaprire il Canale Reale che collegava il Tigri all’Eufrate, con l’intenzione di arrivare a Ctesifonte sempre sfruttando l’appoggio della flottiglia fluviale. Ma neppure tale soluzione fu praticabile, per via del dislivello registrato tra i due fiumi. L’imperatore allora preferì far trasportare via terra la flottiglia, superando il breve tratto che separava i due corsi d’acqua: quindi proseguì lungo l’Eufrate, assolutamente certo che eventuali operazioni di assedio attorno a Ctesifonte sarebbero state grandemente facilitate dalla presenza delle navi. Va sottolineato che, a dispetto delle difficoltà incontrate, Traiano proseguì nella scelta di procedere lungo la via fluviale, approcciando Ctesifonte da sud-ovest, piuttosto che prendere la cosiddetta strada di Alessandro che, passando attraverso Arbela, l’avrebbe condotto alla medesima meta. Non fu un caso: seguendo la via di terra, l’apparato logistico romano, piuttosto “pesante”, avrebbe rallentato la marcia delle truppe al punto da renderle vulnerabili a eventuali attacchi nemici; al contrario, operare con l’appoggio di una flottiglia fluviale avrebbe reso vantaggi irrinunciabili. Innanzitutto questa avrebbe svolto il compito di trasporto dei rifornimenti, compresi i pesanti equipaggiamenti indispensabili per la guerra d’assedio, senza contare le bestie da soma e le suppellettili della cavalleria; inoltre, le navi potevano essere utilizzate per operare il blocco dei luoghi fortificati, supportare le operazioni terrestri fungendo da piattaforma per il tiro degli arcieri e delle macchine da guerra e, all’occorrenza, trasformarsi in ponti mobili per eventuali operazioni di guado. La mossa di Traiano fu dunque indicativa del fatto che, all’epoca, l’esercito romano costituiva uno strumento potente e flessibile, tale da offrire a un ottimo generale un ampio ventaglio di possibili opzioni militari.

impero traiano

L'impero romano all'epoca di Traiano


L’armata imperiale penetrò così nella regione di Babilonia e, giunta all’altezza di Ecbatana, trasportò di nuovo lungo il deserto i grandi vascelli fino al Tigri, dal quale finalmente sferrò l’offensiva contro la capitale del regno partico. Ctesifonte non resistette a lungo: il re fuggì abbandonando il suo tesoro alle armate romane. Tra le altre cose, Traiano si impossessò del favoloso trono d’oro e impreziosì il suo successo con la cattura della figlia del sovrano fuggitivo.
La notizia si sparse velocemente ai quattro angoli dell’impero, anche perché Traiano aveva fatto predisporre una serie di torri di segnalazioni ottiche che permettevano in pochi giorni di far giungere la notizia a Roma, da cui rimbalzò in ogni dove. Gli araldi che recarono la notizia vennero portati in trionfo al cospetto del Senato dalla folla che, uscita per le strade, era impazzita di gioia. Il Senato decretò per l’imperatore il diritto di celebrare non già un trionfo, ma una serie intera di trionfi che sarebbero durati quanto la sua vita. Traiano riattraversato il Tigri sottomise il regno di Emesene umiliando il suo sovrano Attampilo. Quindi, proseguendo in un’avanzata che più che altro sembrò una passeggiata trionfale, l’imperatore raggiunse il golfo Persico scandendo quel traguardo con l’occupazione di Charax, la capitale della Caracene (più o meno la regione dell’odierna Bassora comprendente il Kuwait), il cui porto costituiva un crocevia fondamentale per i traffici con l’Oriente.
Dopo aver ricevuto un’ambasceria dei principi indiani, pronti a intavolare le basi per una futura partnership commerciale, Traiano pensò di ritornare a Babilonia dove era stato spostato il quartier generale. Una volta in città si predispose a organizzare la gestione delle nuove province di Mesopotamia e Assiria e, perché no, prepararsi a un nuovo balzo in avanti con cui inoltrarsi nel cuore dell’Asia. L’impero romano aveva raggiunto la sua massima estensione. Per contro, difficilmente Traiano dovette rendere conto degli effetti collaterali negativi.

La dilatazione inverosimile dei confini mise a nudo ciò che costituì il punto debole, forse l’unico, patito dalla macchina da guerra incarnata dall’esercito romano: la sua esiguità. Appena 300.000 uomini erano preposti a presidiare un confine che si estendeva dalla Scozia ai deserti arabi: l’estroflessione della frontiera armena fino al Caspio, unita a quella tangente l’Eufrate e il Tigri (con la Media Adiabene e la Gordiene ancora ribollenti) non giovava di certo. Tutto ciò era evidentemente troppo per le risorse militari allora immediatamente disponibili, tenuto anche conto della criticità della frange germanica e dacica, per cui era necessaria una supervisione costante e massicci. Nel 116 alcuni mercanti ebrei di Seleucia si rifiutarono di pagare la tassa imposta alla loro comunità, chiamata fiscus iudaicus; scoppiarono rivolte che coinvolsero Cirene, dove si assistette al massacro dei greci a opera delle frange più esagitate della popolazione orientale. A quel punto il contagio si diffuse rapidamente: le strade che portavano il grano egiziano fino alle truppe imperiali furono interrotte da una banda di Zeloti di Gerusalemme; a Cipro, i residenti greci e romani furono catturati dalla plebaglia ebrea che li costrinse a trucidarsi a vicenda combattendo da gladiatori. Solo in Siria l’inflessibilità di Adriano riuscì a mantenere l’ordine.
Quale fu la causa di questa catastrofe? Le sue motivazioni affondavano lontano, ai tempi in cui Tito aveva distrutto il Tempio di Gerusalemme e la stessa città, giudicando intollerabili i suoi furori religiosi. Da quel momento gli ebrei avevano vissuto nella disperazione e nel risentimento verso il popolo romano, aspettando il momento propizio per vendicarsi. Quando la guerra di Traiano minacciò di rovinare i traffici degli arabi, i giudei si coalizzarono a questi, scatenando una rivolta, presto alimentata da esaltazioni messianiche che contribuirono a renderla ancora più feroce. Allo stesso modo fu orrenda la repressione ordinata da Traiano: i generali inviati in Egitto e nelle altre regioni coinvolte perpetrarono un vero e proprio sterminio. Eppure ciò non impedì che le propaggini meridionali della Mesopotamia, non ancora totalmente incorporate ai domini romani, si sollevassero a loro volta in una sommossa generale.
Della situazione approfittarono ovviamente i parti superstiti: veloci bande di cavalieri armati d’arco svilupparono un’intensa azione di guerriglia che vessò le basi romane nella Mesopotamia settentrionale, in Assiria e in Armenia, minacciando e attaccando in più punti le linee di comunicazione costruite da Traiano. L’imperatore, che ormai aveva superato la sessantina, fiaccato dalla stanchezza e da una salute minata dalle privazioni e da una cronica idropisia, dovette constatare, suo malgrado, che esercitare il controllo su territori così sterminati, equivaleva a trovarsi bruscamente al centro di un immenso campo di battaglia nel quale bisognava far fronte a un nemico che poteva colpire da ogni lato.
Decise quindi di giocare il tutto per tutto con un’audace azione politica: intromettendosi senza troppi complimenti nell’ennesima disputa sorta intorno al trono dei parti, optò per l’appoggio al candidato che aveva più volte espresso sentimenti filoromani, ovvero l’arsacide Partamaspate. Nel frattempo, riuscì a organizzare nuovamente le proprie armate, con le quali tentò di riprendere il controllo della situazione producendosi nell’assalto della città di Hatra, importante caposaldo di frontiera: al costo migliaia di morti l’assedio si trascinò per tutto l’inverno senza nessun risultato. Constatata l’inespugnabilità della roccaforte, Traiano riattraversò l’Eufrate, oltre il quale aveva intenzione di rivitalizzare le armate e prepararle a una più proficua campagna. Fu una ritirata molto difficile, effettuata sotto un caldo torrido e flagellata dalle continue scorrerie degli arcieri parti. Finalmente giunse ad Antiochia, dove trovò ad accoglierlo Adriano: pur sostenendosi appena, Traiano volle dar prova della sua fierezza e, abbandonata la lettiga, percorse a cavallo il tragitto dalle porte della città al palazzo.

Nei giorni seguenti la salute di Traiano sembrò migliorare, inducendo l’imperatore a pianificare le future operazioni. Di diverso avviso il suo medico personale, Crito, che avendo probabilmente compreso la gravità della diagnosi riuscì a persuaderlo a imbarcarsi per Roma. Prima che il fallimento dell’impresa divenisse evidente, nonché per il timore di restare isolato in territorio nemico, l’imperatore acconsentì a ripiegare, mettendo fine, almeno per allora, a ogni serio tentativo romano di controllare militarmente la zona.
La sera che precedette la sua partenza, Traiano fece chiamare Adriano a bordo della nave che doveva riportarlo in Italia, dove lo nominò comandante in capo in sua vece, attribuendogli il titolo di legatus di Siria. Quindi salpò, ma non essendo in grado di sopportare il mare, fu sbarcato a Selinunte, in Cilicia, dove si acquartierò ormai in condizioni gravissime presso la casa di un mercante. Nel testamento che precedette di poco la morte, designava come figlio e successore suo cugino Publio Elio Adriano. Che sia stata la sua volontà, oppure, come dicono alcuni, la volontà di sua moglie Plotina, sicuramente in quel momento apparve la scelta migliore. Gli altri candidati, pur essendo valorosi soldati che sicuramente non avrebbero abbandonato le nuove province ai parti, non avevano la visione globale di Adriano e la sue capacità amministrative e organizzative. Finalmente, consapevole di aver fatto il proprio dovere fino all’ultimo, Traiano spirò: era l’8 agosto 117. Le sue ceneri furono ospitate nel cuore di Roma, in un’urna d’oro all’interno del basamento della colonna eretta nel foro a lui dedicato: un evento, questo, straordinario, in quanto per i romani era assolutamente vietato seppellire i defunti all’interno del pomerio, il limite sacro della città. Tale privilegio fu però giustificato dal fatto che Traiano sembrò davvero essere riuscito in un’impresa davvero impossibile per un sovrano: essere apprezzato da tutti. Innanzitutto dal Senato, con cui collaborò senza evidenti contrasti o problemi; poi dal popolo, in virtù delle sue benefiche disposizioni; infine dai legionari, che ne riconobbero l’altissimo valore militare.
La fama del suo sentimento di giustizia, unita alla capacità di attuare una conciliazione fra principato e libertas, rimbalzò lungo tutto il Medioevo, tramutando l’imperatore in un’icona leggendaria riconosciuta in Occidente come in Oriente. Tale evoluzione, propiziata dalla stessa propaganda imperiale romana che assimilò Traiano a giganti del calibro di Ercole o Alessandro il Grande, lo trasformò in una sorta di eroe civilizzatore, capace di condensare in sé i tratti del monarca ellenistico e romano la cui funzione principale era dispiegata dall’attributo conditor, ovvero “costruttore”. L’imponente smania edilizia che caratterizzò le sue campagne, soprattutto nel Sud-Est europeo, contribuì ad alimentare questo modello.
In molti infatti ravvisano i tratti di Traiano dietro il dio Trajan presente nei testi paleorussi quali la Cronaca degli anni passati e Il canto della schiera di Igor. Sebbene redatti da un monaco cristiano con l’evidente intento di schernire l’antico pantheon pagano di quelle genti, appare innegabile che il dio in questione riluca per le sue qualità positive, quale distruttore di mostri e apportatore di prosperità. D’altronde il Traiano storico riuscì a essere apprezzato anche dalla Chiesa che, pur non disconoscendo il fatto che non fosse cristiano, non riuscì a trovare in lui dei difetti. Lo stesso Dante lo celebrò nel canto X del Purgatorio in cui, richiamando l’aneddoto della vedova, ne ammirava le doti di giustizia; quindi lo collocava definitivamente tra gli spiriti giusti, a formare con essi l’occhio della mistica aquila nel cielo di Giove.
Eppure, a discapito di un riconoscimento del genere, occorre analizzare gli aspetti negativi. Profondamente assorbito dalle sue campagne militari, Traiano non percepì che le sue spedizioni, comportando un immenso sforzo per tutto l’impero, stavano distruggendo le forze vitali che tanto aveva contribuito a risollevare. Le guerre dissanguarono le casse statali, sicché fu necessaria l’imposizione di nuove e più pesanti tasse avvertite, naturalmente, in maniera maggiore dai poveri e da tutti coloro appena sfiorati dalla magnanimità del sovrano. La plebe romana sprofondava così in un baratro sempre più profondo, dal quale risaliva ogni tanto attraverso gli stessi espedienti già adoperati da imperatori vituperati quali Nerone e Domiziano, sebbene maggiormente articolati, come la formula degli alimenta testimoniava. In tal senso, la famosa espressione coniata da Giovenale, panem et circenses, basterebbe da sola a fotografare l’età tutt’altro che sfavillante di Traiano. A dispetto di una pletora di storici che ammirarono entusiasti l’allargarsi delle frontiere dell’impero pregustando la consolidazione del potere di Roma su tutto il mondo, il poeta fu il solo a rendersi conto dell’effettiva natura di quel periodo. Ciò fu possibile solo adottando il punto di vista dell’uomo qualunque, al quale non sfuggì l’estinzione degli antichi privilegi del semplice cittadino, costretto ora a concorrere con la massa di stranieri che ormai erano diventati tutti romani, o la concentrazione del potere nelle mani di pochi, all’interno di uno scenario offerto da una città ingrandita a un punto tale che tutti i valori tradizionali si erano ormai per sempre rovesciati.
In ogni caso giova notare che Traiano, e i suoi successori, Adriano, Antonino Pio, Lucio Vero e Marco Aurelio (i cosiddetti imperatori adottati) furono tra i migliori imperatori di Roma.

 

Eugenio Caruso - 30 novembre 2017

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