I GRANDI PERSONAGGI STORICI
Ritengo che ripercorrere le vite dei maggiori personaggi della storia del pianeta, analizzando le loro virtù e i loro difetti, le loro vittorie e le loro sconfitte, i loro obiettivi, il rapporto con i più stretti collaboratori, la loro autorevolezza o empatia, possa essere un buon viatico per un imprenditore come per una qualsiasi persona.
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Giuliano
Flavio Claudio Giuliano (Costantinopoli, 6 novembre 331 – Maranga, 26 giugno 363) è stato l'ultimo imperatore, che tentò, senza successo, di restaurare la religione romana dopo che essa era caduta in decadenza di fronte alla diffusione del cristianesimo.
Nel corso dei miei studi la figura di Giuliano mi è stata sempre proposta come Giuliano l'apostata, il nemico della cristianità e del rinnovamento: i miei successivi approfondimenti storici mi hanno porttao a scoprire che in una chiesa cristiana, già allora corrotta, Giuliano si elevava per la nobiltà e l'umiltà del suo credo, sia pure pagano.
Membro della dinastia costantiniana (che si riteneva discendente di Claudio il Gotico e dei Flavi), fu Cesare in Gallia dal 355; un pronunciamento militare nel 361 e la contemporanea morte del cugino Costanzo II lo resero imperatore fino alla morte, avvenuta nel 363 durante la campagna militare in Persia.
Quando Costantino I prese il potere nel 306, prima cura di sua madre Elena, l'ex-locandiera e concubina di Costanzo Cloro che questi aveva abbandonato per Teodora, fu di far allontanare dalla corte i fratellastri del figlio Costantino, (Dalmazio, Annibaliano e Giulio Costanzo) a Tolosa, nella Gallia Narbonense. Questi erano i figli di Costanzo Cloro e della seconda moglie Flavia Massimiana Teodora, figliastra dell'imperatore Massimiano (bisnonno acquisito di Giuliano), e quindi sorellastra dell'imperatore Massenzio, il rivale sconfitto da Costantino al Ponte Milvio, del quale Giuliano era pronipote.
Venti anni dopo, quando Elena fu insignita dal figlio del titolo di Augusta, Giulio Costanzo era in Italia, sposo della nobile romana Galla, che gli diede tre figli, il minore dei quali, Gallo, era nato in Etruria verso il 325. Giulio Costanzo, dopo aver soggiornato a Corinto ed esser rimasto vedovo, si ritrovò a Nicomedia presso la propria sorella Costanza, vedova dell'imperatore Licinio, dove un posto influente era occupato dal patrizio Giulio Giuliano, già governatore d'Egitto e prefetto del pretorio dal 316 al 324. Amante delle lettere e parente del vescovo Eusebio di Nicomedia, Giulio Giuliano aveva fatto impartire al suo schiavo Mardonio un'educazione di prim'ordine e a lui aveva affidato l'istruzione della propria figlia Basilina.
Giulio Costanzo ottenne il consenso della famiglia alle nozze con Basilina, che furono benedette dal vescovo Eusebio, e dalla loro unione a Costantinopoli, alla fine del 331 nacque Flavio Claudio Giuliano: chiamato Giuliano come il nonno materno, Flavio come tutti i membri della famiglia di Costantino, e Claudio come il preteso fondatore della dinastia costantiniana, Claudio II il Gotico, secondo quanto propagandava l'attuale dominatore del mondo occidentale allo scopo di nobilitare le oscure origini dei propri genitori.
Dopo la morte della madre, negli ultimi anni del suo regno, Costantino adottò una politica di conciliazione verso l'altro ramo della famiglia imperiale, concedendole funzioni di responsabilità nella gestione del potere.
La morte improvvisa di Costantino nel maggio del 337 aprì una tragica successione. Secondo Filostorgio, Costantino fu avvelenato dai suoi fratelli mentre si trovava nei pressi di Nicomedia. Scoperta la congiura l'imperatore redasse un testamento e lo consegnò ad Eusebio di Nicomedia ordinando di consegnarlo solo nelle mani di uno dei suoi eredi diretti. Nel testamento Costantino chiedeva giustizia per la sua morte e divideva l'impero tra i suoi figli (Costante I, Costantino II e Costanzo). Altre fonti non parlano dell'avvelenamento di Costantino ma citano esplicitamente che il testamento fu consegnato nelle mani del figlio Costanzo, che si trovava in Oriente e fu il primo a raggiungere Nicomedia. Costui, o, con il suo avallo, i suoi generali, fece sterminare tutti i discendenti maschi di Costanzo Cloro e di Teodora: il padre, il fratellastro maggiore, uno zio e sei cugini di Giuliano furono soppressi.
Furono risparmiati Giuliano, allora di soli sei anni, e l'altro suo fratellastro Gallo, forse perché, malato, lo si ritenne in fin di vita. Naturalmente il ricordo della strage non abbandonerà mai Giuliano: «Tutto quel giorno fu una carneficina e per l'intervento divino la maledizione tragica si avverò. Si divisero il patrimonio dei miei avi a fil di spada e tutto fu messo a soqquadro», dicendosi convinto che fosse stato il dio Helios a condurlo lontano «dal sangue, dal tumulto, dalle grida e dai morti».
Divenuto adulto, Giuliano rintraccerà nella bramosia di potere di Costantino l'origine di tutti i mali dei suoi discendenti: «ignorante com'era», Costantino credeva «che bastasse avere un gran numero di figli per conservare la sostanza» che aveva accumulato «senza intelligenza», non preoccupandosi «di fare in modo che i figli fossero educati da persone sagge», così che ciascuno dei suoi figli continuò a comportarsi come il padre, col desiderio di «possedere tutto da solo a danno degli altri».
I tre figli di Costantino e di Teodorasi divisero il regno, assumendo il titolo di Augusto: il secondogenito Costanzo II, che aveva posto un'ipoteca sul regno avendo presenziato, unico dei fratelli, ai funerali del padre, ottenne le ricche province orientali; il primogenito Costantino II quelle occidentali, esclusa l'Italia, che con l'Africa e i Balcani furono assegnate al terzogenito Costante I, subordinato al fratello maggiore e privato del diritto di emanare leggi. Costanzo II allontanò dalla corte i cugini superstiti: Gallo fu mandato a Efeso, mentre Giuliano, privato dei beni paterni, fu trasferito a Nicomedia, nei cui dintorni la nonna materna possedeva una villa ove il bambino trascorreva le estati. Fu uno dei periodi più felici della sua esistenza: affidato per poco tempo alle cure del vescovo Eusebio, che già nell'autunno del 337 fu promosso alla cattedra di Costantinopoli, a Nicomedia avvenne un incontro che avrà grande importanza per la sua formazione, quello con l'eunuco Mardonio, già precettore della madre, il quale fu incaricato di provvedere alla sua istruzione.
Mardonio era un vecchio scita – così in Oriente erano chiamati i goti – da molti anni perfettamente integrato nella società tardo-antica, il quale provava per la cultura greca un'autentica venerazione: da lui Giuliano apprese la letteratura classica e soprattutto Omero, che gli aprì la fantasia sul mondo favoloso dell'epica. Secondo l'uso pedagogico del tempo, ritenuto il più adatto alla formazione di una vera persona colta, Giuliano doveva imparare a memoria lunghi passi di Omero e di Esiodo, in modo che quell'universo poetico, morale, civile e religioso si imprimesse intimamente nel suo spirito e, con l'ausilio poi della conoscenza della prosa oratoria dei Demostene e degli Isocrate, egli finisse con il pensare e l'esprimersi secondo la mentalità e il linguaggio della tradizione classica.
Giuliano stesso ricorderà quegli anni di apprendistato: «il mio pedagogo m'insegnò a tenere gli occhi a terra, quando andavo a scuola [...] egli elaborava e quasi scolpiva nel mio animo ciò che allora non era affatto di mio gusto ma che, a forza d'insistere, finì per farmi parer gradito, abituandomi a chiamare serietà l'essere rozzo, saggezza l'essere insensibile, e forza d'animo il resistere alle passioni [...] mi ammoniva dicendomi: – Non lasciarti trascinare dai tuoi coetanei che frequentano i teatri. Ami le corse dei cavalli? Ce n'è una bellissima in Omero. Prendi il libro e leggi. Ti parlano di mimi e danzatori? Lascia dire. Danzano assai meglio i giovinetti Feaci. E là troverai il citaredo Femio e il cantore Demodoco. E leggere, in Omero, certe descrizioni di alberi è più piacevole che vederli dal vero: Io vidi a Delo, presso l'ara di Apollo, un giovane virgulto di palma ergersi al cielo. E leggerai della selvosa isola di Calipso, dell'antro di Circe e del giardino di Alcinoo».
Morti ormai, nel 341, sia il vescovo Eusebio che Costantino II, il quale era venuto a conflitto armato col fratello Costante I, l'imperatore Costanzo, forse sospettando che il fratello superstite potesse utilizzare i due cugini ai suoi danni, inviò Gallo e Giuliano nell'estremità della Cappadocia, nella tenuta imperiale di Macellum: privato dell'amato precettore Mardonio, con un fratellastro diversissimo da lui per carattere e interessi, Giuliano fu mantenuto per sei anni in un lussuoso ma opprimente isolamento: «che cosa dovrei dire dei sei anni passati in quel podere altrui, come coloro che i persiani tengono sotto guardia nelle fortezze, senza che nessun estraneo si avvicinasse, né fosse concesso a nessuno degli antichi conoscenti di farci visita? Vivevamo esclusi da ogni serio insegnamento, da ogni libera conversazione, allevati in mezzo a uno splendido servitorame, esercitandoci con i nostri schiavi come con dei colleghi». I loro sorveglianti avevano anche il compito di dare, dei tragici avvenimenti che avevano segnato la loro infanzia, la versione "ufficiale", che naturalmente escludeva ogni responsabilità di Costanzo.
Il «poco serio insegnamento» fu probabilmente lo studio dell'Antico e del Nuovo Testamento, al quale peraltro egli dovette interessarsi e fare rapidi progressi, se è vero che presto non ci fu più niente da insegnargli. Uno dei suoi insegnanti fu il vescovo Giorgio di Cappadocia, un ariano presentato dalle fonti antiche come un arrivista intrigante. Non però un ignorante, come sosteneva il suo rivale ortodosso Atanasio, dal momento che Giorgio possedeva un'eccellente biblioteca non solo di autori cristiani, della quale Giuliano approfittò volentieri e, dopo la morte di Giorgio, nel 362, cercò di farsi mandare da Alessandria ad Antiochia. Se non si dubita che allora Giuliano fosse sinceramente cristiano, non è dato sapere con quanta intima convinzione Giuliano avesse aderito alla religione cristiana che professò, come dice, fino ai venti anni, e si ignora se egli abbia mai ricevuto il battesimo.
Nel 347 i due giovani fratellastri ricevettero una breve visita di Costanzo: probabilmente l'imperatore rimase favorevolmente impressionato dal loro comportamento, perché alla fine dell'anno richiamò Gallo a corte e, poco dopo, anche Giuliano. A Costantinopoli fu riaffidato a Mardonio e iniziò gli studi superiori sotto il grammatico pagano Nicocle di Sparta, colto ellenista che interpretava allegoricamente i poemi omerici, il quale gli impartì, oltre a lezioni di metrica, di semantica e di critica letteraria, anche insegnamenti di storia, di geografia e di mitologia.
Nicocle sarà con Giuliano alla corte di Antiochia e, sempre fedele a sé stesso e all'imperatore, porterà a suo rischio il lutto per la sua morte, diversamente dall'altro maestro di retorica Ecebolio, un cristiano che si fece pagano per compiacerlo, salvo tornare al cristianesimo dopo la scomparsa di Giuliano. Forse Giuliano pensava a lui scrivendo che certi retori, «quando non hanno nulla da dire e nulla potendo ricavare dalla propria materia, continuano a tirare in ballo Delo e Latona con i suoi figli e poi i cigni dallo stridulo canto echeggiante tra gli alberi e i prati rugiadosi folti d'alte erbe [...] Quando mai Isocrate se ne servì nei suoi panegirici? Quando mai lo fecero gli altri autori dell'antichità i quali, a differenza di quelli di oggi, erano sinceramente votati alle Muse?».
Giuliano, a vent'anni, era «di media statura, con i capelli lisci, un'ispida barba a punta, con begli occhi lampeggianti, segno di viva intelligenza, le sopracciglia ben marcate, il naso diritto e la bocca piuttosto grande, con il labbro inferiore pendulo, il collo grosso e curvo, le spalle larghe, ben fatto dalla testa ai piedi, così da essere eccellente nella corsa». Era di carattere estroverso, di modi semplici e si faceva avvicinare volentieri, senza mostrare l'alterigia e il distacco comuni ai personaggi d'alto rango.
Fu forse per timore che Giuliano divenisse troppo popolare a Costantinopoli che Costanzo, nel 351, lo allontanò dalla corte mandandolo a studiare a Nicomedia, con la proibizione, espressa dal maestro Ecebolio, di assistere alle lezioni del rivale Libanio, il famoso retore pagano, del quale Giuliano si procurò comunque gli appunti delle lezioni e diventandone, come mostrano le sue orazioni giovanili, un aperto imitatore, e mantenendo una chiara traccia del suo stile anche negli scritti più maturi. I retori rivali Proeresio, Acacio di Cesarea e Tusciano di Frigia non esitarono a rimproverare a Giuliano la sua predilezione per l'arcaicizzante atticismo di un maestro che ostentava di ignorare le ricerche della moderna retorica.
Al completamento della sua formazione culturale mancava ancora lo studio della filosofia: tra le scuole filosofiche in auge al tempo vi era la filosofia neoplatonica, inaugurata da Plotino e proseguita con esiti diversi dai suoi diretti allievi Porfirio e Giamblico. Tutta la realtà è concepita come emanazione dell'entità divina assoluta, l'Uno: compito supremo dell'uomo è cercare di risalire a quell'unità, giungendo all'assimilazione mistica con il divino.
Giuliano fu indirizzato a Pergamo, dove esisteva la scuola neoplatonica tenuta dal successore di Giamblico, il vecchio Edesio di Cappadocia che, a sua volta, gli consigliò di frequentare le lezioni di due suoi allievi, Eusebio di Mindo e Crisanzio di Sardi. Dalle lezioni di Eusebio apprese l'esistenza di un teurgo di nome Massimo, apparentemente capace di strabilianti prodigi.
Convinto di aver finalmente trovato l'uomo che cercava, nel 351 Giuliano si recò a Efeso per incontrarlo e da lui fu prima istruito, insieme con Crisanzio, alla teurgia giamblica. Come scrive Libanio, da essi Giuliano «sentì parlare degli dei e dei dèmoni, degli esseri che, in verità, hanno creato questo universo e lo mantengono in vita, apprese che cos'è l'anima, da dove viene, dove va, ciò che la fa cadere e ciò che la risolleva, ciò che la deprime e ciò che la esalta, che cosa sono per essa la prigionia e la libertà, come può evitare l'una e raggiungere l'altra. Allora egli respinse le sciocchezze alle quali aveva creduto fino ad allora per insediare nel suo animo lo splendore della verità» e fu infine iniziato ai misteri di Mitra.
Il rito d'iniziazione costituiva un'esperienza emotivamente molto intensa, del quale è possibile solo immaginare la scenografia: «l'oscurità attraversata da improvvisi lampi di luce, lunghi silenzi rotti da mormorii, voci, grida, e poi il frastuono di musiche cadenzate da un ritmo ripetitivo, profumi d'incenso e di altre fragranze, oggetti animati da formule magiche, porte che si spalancano e si chiudono da sole, statue che si animano e tanto fuoco di torce».
Fu questo il primo dei sette gradi del percorso iniziatico ai misteri, il cui scopo era la ricerca della perfezione spirituale e morale, da svolgere secondo un'ascesa planetaria che doveva condurre l'anima purificata dell'iniziato fino alla sfera delle stelle fisse, il «regno divino posto al di là del tempo e dello spazio che condizionano con le loro leggi la sfera cosmica e umana. Giunto nello stadio finale dell'apogenesis, libero ormai dal ciclo di morte e rinascita – o, in termini mitraici, compiutamente salvato – il pater era al sicuro per l'eternità».
Giuliano vorrà un giorno con sé Massimo eleggendolo a sua guida spirituale. Con l'iniziazione ai misteri del Sole invitto, egli realizzò un'aspirazione cui tendeva fin da bambino: «fin da fanciullo fu insito in me un immenso amore per i raggi del dio, e alla luce eterea indirizzavo il pensiero tanto che, non stanco di guardare sempre al Sole, se uscivo di notte con un cielo puro e senza nubi, subito, dimentico di tutto, mi volgevo alle bellezze celesti [...]», e insieme credette di cogliere, della propria esistenza, la necessità che la rendeva parte essenziale del tutto: «chi non sa trasformare, ispirato da divina frenesia, la pluralità di questa vita nell'essenza unitaria di Dioniso [...] corre il rischio di vedere la propria vita scorrere via in molteplici direzioni, e con ciò sfrangiarsi e svanire [...] verrà per sempre privato della conoscenza degli dèi che io giudico più preziosa del dominio del mondo intero».
Intanto, nel 350, nuovi scenari politici e militari erano apparsi in Occidente: il comandante della guardia imperiale Magnenzio aveva spodestato e ucciso l'imperatore Costante. Per reagire a questa inattesa minaccia, Costanzo ritenne necessario fare appello ai parenti più prossimi: il 15 marzo 351 nominò cesare Gallo facendolo sposare, a suggello di una pur precaria alleanza, con la sorella Costanza e affidandogli il controllo dei territori orientali dell'Impero, partendo poi ad affrontare in una guerra, difficile ma infine vittoriosa, l'usurpatore Magnenzio.
Gallo, in viaggio per Antiochia, si fermò a Nicomedia, dove nel frattempo Giuliano aveva fatto ritorno, ed ebbe il sospetto delle nuove suggestioni filosofiche e religiose del fratellastro: per avere più chiari ragguagli su questa circostanza, inviò subito dopo a Giuliano l'ariano Aezio, fondatore della setta degli Anomei, e pertanto sostenitore della natura soltanto umana di Cristo, perché gli riferisse del suo comportamento. Giuliano, pur intenzionato a nascondere la sua svolta spirituale facendosi passare per cristiano praticante – tanto da farsi nominare lettore della chiesa di Nicomedia – s'intese amabilmente con questo intelligente teologo il quale, pur avendo probabilmente compreso i segreti convincimenti del giovane principe, inviò a Gallo rapporti rassicuranti sul conto di Giuliano, il quale, una volta imperatore, lo ospiterà più volte a corte.
Del resto, era ben difficile, al di là di ogni precauzione, non venire a conoscenza delle opinioni di Giuliano che in quel periodo intratteneva nella casa di Nicomedia e nelle vicina villa ereditata dalla nonna una numerosa compagnia di «amici delle Muse e degli altri dei» in lunghe conversazioni rallegrate dal vino della sua vigna. Dalle lettere di Giuliano si conoscono alcuni nomi dei suoi convitati: Libanio, il retore Evagrio, amico di Massimo, Seleuco, che diventerà sommo sacerdote e scrisse due libri sulla sua campagna partica, lo scrittore Alipio e «la meravigliosa Arete», discepola di Giamblico, che forse iniziò Giuliano ai misteri frigi. In quei conviti non si mancava di formulare progetti nel caso non impossibile che un giorno Giuliano salisse al soglio dell'Impero: «egli ambiva a dare ai popoli la loro prospettiva perduta e soprattutto il culto degli dei. Ciò che più commuoveva il suo cuore erano i templi rovinati, le cerimonie proibite, gli altari rovesciati, i sacrifici soppressi, i sacerdoti esiliati, le ricchezze dei santuari distribuite a persone miserabili».
Queste speranze sembrarono avere una brusca e definitiva fine. Costanzo II, informato degli eccessi criminali ai quali Gallo e la moglie Costantina si abbandonavano ad Antiochia, nell'autunno del 354 invitò la coppia a Mediolanum (Milano): mentre Costantina, colta da febbri, moriva in Bitinia durante il viaggio, Gallo, quando arrivò nel Norico, a Petovio – l'attuale Ptuj – fu trascinato fino a Fianona, presso Pola, e decapitato nel carcere dove già Crispo era stato fatto uccidere dal padre Costantino. Quanto a Costantina, era attesa da un curioso destino postumo: questa «singolare eroina, che fece scorrere, lei sola, più sangue umano di quanto ne avrebbero versato molte bestie feroci», fu santificata in quanto «vergine» e i suoi resti depositati in un celebre mausoleo romano a lei intitolato, dove sarà inumata anche la sorella Elena, moglie di Giuliano.
Giuliano, scrivendo successivamente su quei fatti, attenuò le responsabilità di Gallo nelle vicende di cui sarebbe stato responsabile, considerando che il fratello fosse stato provocato e non ritenendolo meritevole della condanna a morte; egli rileva anche come non gli fosse stato nemmeno consentito di difendersi in un regolare processo e sottolinea la nefasta influenza dei funzionari della corte di Costanzo, il praepositus sacri cubiculi Eusebio, innanzi tutto, il tribunus scutariorum Scudilone, il comes domesticorum Barbazione, l'agens in rebus Apodemio e il notarius Pentadio.
Subito dopo l'esecuzione di Gallo, Giuliano fu convocato a Mediolanum. Si può immaginare con quale animo intraprendesse il viaggio, durante il quale volle visitare un luogo caro alla sua fantasia, la Ilio cantata da Omero, dove Pegasio, un vescovo che si definiva cristiano ma che segretamente «adorava il Sole», favoriva il culto di Ettore, la cui statua di bronzo «brillava, tutta lucida d'olio» e accompagnò Giuliano a visitare il tempio di Atena e la presunta tomba di Achille.
Dall'Anatolia s'imbarcò per l'Italia: giunto a Mediolanum, fu incarcerato e, senza poter ottenere udienza dall'imperatore, gli furono rivolte le accuse di aver tramato con Gallo ai danni di Costanzo e persino di avere, adolescente, lasciato Macellum senza autorizzazione. L'inconsistenza delle accuse, l'intercessione dell'influente retore Temistio e l'intervento della generosa e colta imperatrice Eusebia posero fine dopo sei mesi alla prigionia di Giuliano, al quale fu imposto di risiedere ad Atene, dove giunse nell'estate del 355. Nessuna «imposizione» lo avrebbe potuto gratificare di più: era «come se Alcinoo, dovendo punire un Feace colpevole, l'avesse messo in prigione nei propri giardini».
La grande città, pur spogliata durante i secoli di buona parte dei suoi capolavori d'arte e priva degli straordinari personaggi che l'avevano resa la capitale intellettuale del mondo occidentale, manteneva tuttavia intatta la suggestione che derivava dalle sue memorie e rimaneva un centro di cultura favorito dai numerosi studenti che frequentavano le sue scuole. Molto successo aveva l'insegnamento della retorica, già tenuto da Giuliano il Sofista, e ora dal suo vecchio allievo, il cristiano armeno Proeresio, prodigioso oratore che aveva per rivale il pagano Imerio, stabilitosi ad Atene dall'originaria Prusia, e iniziatosi insieme con il figlio ai misteri eleusini.
Come già a Efeso gli aveva consigliato Massimo, Giuliano in settembre si recò a Eleusi, ove nel tempio di Demetra e Persefone, compiute le purificazioni di rito e incoronato di mirto, partecipò al pasto simbolico, bevve il ciceone e conobbe il famoso ierofante che gli spiegò il complicato simbolismo della cerimonia e lo introdusse ai misteri. Visitò poi il Peloponneso, dicendosi convinto che la filosofia non avesse abbandonato «né Atene, né Sparta, né Corinto e le sue sorgenti bagnano l'assetata Argo».
Ad Atene frequentò soprattutto il filosofo neoplatonico Prisco, l'allievo di Edesio, che lo invitò nella sua casa e gli fece conoscere la propria famiglia: da imperatore, Giuliano lo volle con sé e Prisco, che sarà presente con Massimo al suo letto di morte, consolandone l'ora estrema, «giunto all'estrema vecchiezza, scomparve insieme ai templi greci».
Nell'autunno di quel 355 gli giunse inaspettato l'ordine di presentarsi ancora a Mediolanum. È comprensibile che il comando di un capriccioso e sospettoso tiranno come Costanzo dovesse turbarlo profondamente: «Che torrenti di lacrime ho versato» – scriverà agli Ateniesi – «che gemiti, le mani levate verso l'Acropoli della vostra città, invocando Athena [...] La dea stessa sa meglio di chiunque che ad Atene le ho chiesto di morire piuttosto che tornare a corte. Ma lei non ha tradito il suo supplice e non lo ha abbandonato [...] Mi ha guidato ovunque e ovunque mi ha inviato gli angeli custodi di Helios e di Selene».
Mentre in ottobre Giuliano veleggiava alla volta dell'Italia, Costanzo II si sbarazzava con l'inganno e l'assassinio del generale Claudio Silvano, comandante delle legioni stanziate in Gallia, il sesto usurpatore del suo regno. Ma i problemi, in quella regione di confine con le temibili tribù germaniche, si erano aggravati: franchi e alemanni superavano le frontiere conquistando le piazzeforti romane, mentre a est i quadi entravano in Pannonia e in Oriente i sasanidi premevano sull'Armenia: ancora una volta Giuliano fu fatto aspettare alle porte di Mediolanum, quasi che la corte stesse decidendo in quei giorni del suo destino.
In una notte passata nell'angosciosa incertezza di una sorte che temette segnata, si appellò agli dèi, che nel suo pensiero gli parlarono, rimproverandolo: «Tu che ti consideri un uomo stimabile, un saggio e un giusto, ti vuoi sottrarre alla volontà degli dei, non permetti che dispongano di te a loro piacimento? Dov'è il tuo coraggio? Che te ne fai? C'è da ridere: eccoti pronto a strisciare e adulare per paura della morte, mentre è tua facoltà gettarti tutto alle spalle e lasciare che gli dèi facciano come vogliono, affidando loro la cura di occuparsi di te, proprio come suggerisce Socrate Scolastico: fare, nella misura del possibile, ciò che dipende da te, e tutto il resto rimetterla a loro; non cercare di ottenere nulla ma ricevere con semplicità quello che loro ti danno».
E Giuliano attribuì a questo suo abbandono alla volontà divina la decisione che la corte prese nei suoi riguardi. Su consiglio di Eusebia, a Giuliano fu concessa la porpora di cesare che Costanzo gli vestì il 6 novembre 355 a Mediolanum dinanzi alle truppe schierate: «Una giusta ammirazione accolse il giovane Cesare, raggiante di splendore nella porpora imperiale. Non si cessava di contemplare quegli occhi terribili e affascinanti al tempo stesso e quella fisionomia alla quale l'emozione dava grazia». Poi prese posto sul carro di Costanzo per tornare a palazzo, mormorando, nel ricordo del destino di Gallo, il verso di Omero: «Preda della morte purpurea e del destino inflessibile».
Finché rimase a corte, benché cesare, la sua condizione di sorvegliato non mutò: «chiavistelli e guardiani alle porte, esaminate le mani dei servi perché nessuno mi consegnasse biglietti di amici, servitori stranieri!». Ebbe però a disposizione anche quattro servitori di sua fiducia, tra i quali il medico Oribasio e il segretario Evemero, «l'unico che era al corrente della mia fede per gli dèi e segretamente la praticava con me», il quale si occupò anche della biblioteca regalata a Giuliano dall'imperatrice Eusebia. Quasi nulla si sa dell'africano Evemero, mentre Oribasio fu sempre al suo fianco e tenne un diario utilizzato poi dallo storico Eunapio. Altrettanto poco è noto di Elena, la sorella di Costanzo che questi diede in sposa in quei giorni a Giuliano: ella passò come un'ombra nella vita del marito, che di lei non parla praticamente mai. Ebbe un bambino nato morto e almeno un aborto spontaneo: cristiana, morì a Vienne nel 360 e fu tumulata a Roma, accanto alla sorella Costantina.
Il 1º dicembre 355, Giuliano, con una scorta di 360 soldati, partiva alla volta della Gallia. Non aveva avuto una specifica preparazione militare: cercò di acquisire almeno un'esperienza teorica attraverso la lettura dei Commentari di Cesare – anche un modo di raffinare la sua non elevata conoscenza del latino – e delle Vite parallele di Plutarco. I suoi poteri erano stranamente limitati: il comando militare sarebbe stato esercitato da Marcello, mentre alla prefettura andava Florenzio e la questura era esercitata da Salustio, i quali avrebbero dovuto rispondere del loro operato unicamente a Costanzo. È evidente che l'imperatore continuava a diffidare del cugino e gli aveva tolto quanti più poteri possibili nel timore di una sua usurpazione. Il corteo passò per Torino, superò le Alpi attraverso il passo del Monginevro, sboccò a Briançon e infine raggiunse Vienne, dove Giuliano stabilì la sua residenza.
Superato l'inverno, nel giugno del 356 si mise in marcia verso Autun, poi a Auxerre e a Troyes, dove disperse un gruppo di barbari e da qui si congiunse a Reims con l'esercito di Marcello. Subìta una sconfitta dagli alamanni, si riprese inseguendoli fino a Colonia, che fu abbandonata dal nemico. Essendo sopraggiunto l'inverno, si ritirò nel campo trincerato di Sens, dove dovette sopportare un assedio senza che Marcello gli portasse aiuto. Denunciato il comportamento di quel magister militum all'imperatore, Costanzo II rimosse Marcello dall'incarico, sostituendolo con Severo e affidando finalmente il comando di tutto l'esercito di Gallia a Giuliano.
L'estate successiva decise un attacco oltre la frontiera del Reno, predisponendo un piano di aggiramento del nemico da realizzare con l'ausilio dei 30.000 uomini giunti dall'Italia al comando del generale Barbazione, ma il piano fallì per la dura sconfitta subita da questi, a seguito della quale il generale lasciò l'esercito tornando a Mediolanum. Gli alemanni, comandati da Cnodomario, cercarono di sfruttare il momento favorevole attaccando Giuliano nei pressi di Strasburgo: dopo che Giuliano in persona riorganizzò e riportò in battaglia la cavalleria pesante in rotta, gli alemanni, superiori in numero, cercarono di sfondare il centro dello schieramento romano, che resistette con difficoltà: poi, la disciplinata fanteria romana si riprese e vinse la battaglia, mettendo in fuga gli alemanni oltre il Reno. Il comandante Cnodomario, fatto prigioniero, fu inviato alla corte milanese come trofeo di guerra: morirà pochi anni dopo, prigioniero a Roma, in una casa imperiale sul colle Celio.
Giuliano sfruttò la vittoria di Strasburgo, superando il Reno e devastando il territorio nemico, fino a rioccupare gli antichi presidi romani che erano caduti da anni in mano al nemico. Poi concluse una tregua, ottenne la restituzione dei prigionieri e si volse contro le tribù franche che nel frattempo razziavano i territori del nord della Gallia, costringendole alla resa dopo un lungo assedio in due fortificazioni nei pressi della Mosa. Finalmente, i romani potevano ritirarsi, a inverno inoltrato, negli accampamenti stabiliti a Lutetia Parisiorum, l'attuale Parigi.
Così la descrive Giuliano: « [...] la mia cara Lutezia. I Celti chiamano così la cittadina dei Parisii. È un'isola non grande, posta sul fiume, e un muro la cinge tutta intorno, ponti di legno permettono il passaggio da entrambi i lati, e raramente il fiume cala o s'ingrossa, in generale rimane uguale d'estate e d'inverno, offrendo un'acqua dolcissima e purissima a chi vuole vederla o berla. Proprio perché è un'isola, di lì soprattutto gli abitanti devono attingere l'acqua [...] presso di loro cresce una buona vite, vi sono inoltre alcuni fichi che hanno disposto proteggendoli d'inverno [...]». Mentre sulla riva destra si estendeva una foresta, oltre all'isolotto sulla Senna, anche la riva sinistra del fiume era abitata e vi sorgevano case, un anfiteatro e l'accampamento delle truppe.
Nella successiva primavera del 358 Giuliano riprese le ostilità contro i franchi salii, nella Toxandria – le attuali Fiandre – ai quali impose lo stato di ausiliari e, superata la Mosa, respinse i franchi camavi oltre il Reno. Quando si trattò di marciare nuovamente contro gli alemanni, l'esercito si rifiutò di obbedire, protestando per il mancato pagamento del salario. In realtà, Giuliano disponeva di poche risorse: riuscì a sedare le proteste e a superare il Reno, recuperando prigionieri romani e requisendo il materiale – ferro e legname – per ricostruire i vecchi presidi distrutti. Una flotta, in parte ricostruita e in parte proveniente dalla Britannia, consentiva i rifornimenti risalendo dal mare del Nord i due maggiori fiumi della Mosa e del Reno.
L'anno successivo proseguì l'opera di difesa dei confini e oltrepassò per la terza volta il Reno per ottenere la sottomissione delle ultime tribù alemanne: il suo storico scrive che Giuliano «dopo che ebbe lasciato le provincie occidentali e per tutto il tempo che rimase in vita, tutti i popoli si mantennero quieti, quasi fossero stati pacificati dal caduceo di Mercurio».
Nel 358 il prefetto Florenzio, di fronte ai minori incassi percepiti rispetto al gettito previsto, impose una tassa supplementare alla quale Giuliano s'oppose, dichiarando che sarebbe «morto piuttosto di dare il proprio consenso a tale misura». Rifatti i conti delle entrate necessarie, Giuliano dimostrò che le tasse riscosse erano sufficienti per le necessità della provincia e si oppose, da una parte, a che nella Gallia Belgica, particolarmente colpita dalle invasioni, si perseguissero i contribuenti inadempienti e dall'altra, alla concessione di condoni ai ricchi evasori delle altre province.
Secondo Ammiano, Giuliano finì col ridurre di due terzi la capitatio: quando Giuliano giunse in Gallia «il testatico e l'imposta fondiaria gravavano su ognuno in misura di venticinque pezzi d'oro; quando se ne andò, sette pezzi erano più che sufficienti a soddisfare l'esigenza dell'erario. Per questo, quasi che il sole avesse ripreso a splendere, dopo un uggioso periodo di oscurità, vi furono danze e grande letizia».
L'allontanamento di Salustio per volere di Costanzo fu un duro colpo per Giuliano: «Quale amico devoto mi resta per il futuro? Dove troverò tanta schietta semplicità? Chi mi inviterà alla prudenza con buoni consigli e affettuosi rimproveri, o mi inciterà a compiere il bene senza arroganza, o saprà parlarmi con franchezza dopo aver messo da parte ogni rancore?».
I panegirici di Giuliano
Quello per l'amico Salustio è il quarto dei panegirici composti da Giuliano. Gli altri tre furono composti, sempre in Gallia, uno per l'imperatrice Eusebia e due per Costanzo. A Eusebia aveva espresso nel 356 la propria riconoscenza per la protezione che ella gli aveva accordato e per l'interessamento mostrato per quanto egli amava: la possibilità di stabilirsi ad Atene, gli studi filosofici, i libri ricevuti in dono.
Se l'orazione per Eusebia è sincera, non tali possono certamente considerarsi le due orazioni dedicate a Costanzo, che tuttavia mantengono egualmente interesse. Nella prima, composta contemporaneamente a quella per Eusebia, dipinge Costanzo come «un cittadino sottoposto alla legge, non un monarca al di sopra di essa»: un'affermazione di coperta ironia che non solo non corrisponde alla realtà, ma esprime una concezione opposta a quella esposta dallo stesso Costanzo, il quale nella sua Lettera al Senato aveva teorizzato una società senza leggi – da lui considerate espressioni della perversione della natura umana – bastando la figura dell'imperatore, incarnazione della legge divina, a regolare secondo giustizia il civile consesso umano.
Il secondo panegirico per Costanzo fu composto poco dopo la vittoria di Strasburgo, che Costanzo si era attribuita a proprio merito: infatti, l'orazione si apre accennando all'episodio omerico dello scontro tra Achille e il capo supremo Agamennone che, «invece di trattare i propri generali con tatto e moderazione, era ricorso alle minacce e all'insolenza, quando aveva sottratto ad Achille la ricompensa del suo valore». D'altra parte, Giuliano ammonisce se stesso e insieme garantisce a Costanzo la sua lealtà quando ricorda che «Omero ammonisce i generali a non reagire alle insolenze dei re e li invita a sopportare le loro critiche con autocontrollo e serenità».
Nel panegirico viene affrontata anche la questione della legittimità del sovrano, che Giuliano esprime in modo apparentemente contraddittorio. Da una parte, infatti, la legittimità del potere regale deriva dalla discendenza dinastica: se infatti Zeus ed Hermes avevano legittimato i Pelopidi che avevano regnato su una parte della piccola Grecia per sole tre generazioni, a maggior motivo i discendenti di Claudio il Gotico – fra i quali Giuliano inserisce se stesso – che regnano ormai da quattro generazioni sul mondo intero, devono essere considerati sovrani legittimi.
D'altra parte, però, la legge nasce da Dike (dea della giustizia) ed è perciò «frutto sacro e compiutamente divino della più potente delle divinità», mentre il re non è l'«incarnazione della legge», ma solo il custode della parola divina. Pertanto, non essendo il regnante incarnazione della legge, ossia della virtù, la legittimità della sovranità non ha la propria fonte dalla nascita, che non può di per sé garantire la virtù del sovrano: questi «dovrebbe tenere lo sguardo fisso al re degli dei del quale è servo e profeta». Il buon sovrano ha tre compiti fondamentali da svolgere: amministrare la giustizia, garantire il benessere del popolo e difenderlo dalle aggressioni esterne.
Il panegirico contiene anche un'aperta professione di fede, che sembra anche una minaccia: «Spesso gli uomini hanno rubato le offerte votive di Helios e distrutto i suoi templi: alcuni sono stati puniti, altri sono stati abbandonati a se stessi perché ritenuti immeritevoli della punizione che porta al pentimento». Ha ragione, secondo Giuliano, la religione popolare a sostenere l'esistenza reale delle divinità, ma il saggio fa meglio, neoplatonicamente, a considerare le divinità espressioni simboliche di realtà e verità spirituali. Giuliano conclude invitando Costanzo a non cedere alla tracotanza e a non dar credito alle calunnie dei consiglieri: «Cosa terribile è la calunnia! Divora il cuore e ferisce l'anima, più di quanto il ferro non possa ferire la carne!».
Nel gennaio del 360 Costanzo II, per far fronte alla pressione dei persiani nelle frontiere orientali, inviò in Gallia il tribuno e notarius Decenzio a richiedere non direttamente a Giuliano, ma al generale Lupicino le truppe ausiliarie combattenti sotto le insegne romane composte da celti, eruli, petulanti e batavi, e al tribunus stabuli Sintula parte della guardia personale di Giuliano, per impiegarle contro la costante minaccia persiana. Più della metà dell'esercito di Gallia sarebbe stato così messo a disposizione di Costanzo.
Causa l'assenza di Lupicino, impegnato in Britannia, fu Giuliano a dover trattare con Decenzio. Pur facendo presente che a quelle truppe egli aveva promesso che non sarebbero state impiegate in altre regioni dell'Impero, apparentemente Giuliano collaborò con Decenzio: le truppe scelte si sarebbero concentrate a Lutezia prima di partire per l'Oriente. La reazione dei soldati e dei loro famigliari non si fece attendere: «la popolazione credeva di essere alla vigilia di una nuova invasione e della rinascita dei mali che erano stati estirpati con grande fatica. Le madri che avevano dato dei figli ai soldati mostravano loro i nuovi nati che allattavano ancora e supplicavano che non li abbandonassero».
Salutato l'esercito riunito in Campo di Marte, Giuliano si intrattenne poi con i comandanti per il banchetto dell'addio. Quella notte, grandi clamori si alzarono fino alle finestre del palazzo in cui Giuliano viveva ancora con la moglie Elena: «mentre le grida si facevano sempre più forti e tutto il palazzo era in subbuglio, chiesi al dio di mostrarmi un segno, ed egli subito mi accontentò e mi ordinò di cedere e di non oppormi alla volontà dell'esercito». Il segno inviatogli da Zeus gli sarebbe apparso quella stessa notte, durante il sonno, nella forma del Genius Publicus, il Genio dell'Impero: «Da molto tempo osservo la soglia della tua casa, impaziente di accrescerti in dignità. Molte volte mi sono sentito respinto e mi sono allontanato. Se mi scacci ancora, me ne andrò per sempre». Dal racconto di Ammiano Marcellino sembra che la ribellione sia stata imposta a Giuliano dai soldati, ma secondo Eunapio le cose andarono diversamente: «Mandato in Gallia con il titolo di cesare non tanto per regnarvi quanto per trovarvi la morte sotto la porpora, tramandosi contro di lui mille intrighi e mille complotti, Giuliano fece venire dalla Grecia lo ierofante di Eleusi e, dopo aver celebrato con lui certi riti, si sentì incoraggiato a rovesciare la tirannia di Costanzo. Ebbe per confidenti in questa impresa Oribasio di Pergamo e un certo Evemero», e si servì di altri sei cospiratori per sobillare la rivolta dei soldati.
La mattina dopo, issato sugli scudi – un rituale barbarico – e con il torc (collare decorativo) di un porta-insegne sul capo a fungere da diadema imperiale, venne portato in trionfo dai soldati, a ciascuno dei quali promise la consueta elargizione di cinque solidi e di una libbra d'argento. Mentre Florenzio, Decenzio e gli uomini rimasti fedeli a Costanzo lasciavano la Gallia, Giuliano iniziò a trattare con l'imperatore. In una lettera inviata a Costanzo, firmandosi cesare, fece una relazione degli avvenimenti, rimarcando che egli non aveva avuto alcuna parte nella sollevazione, che era stata provocata dalla richiesta di trasferimento delle truppe: promise egualmente collaborazione per la guerra partica, offrendo un contingente militare limitato e chiese che gli venisse riconosciuta piena autonomia nel governo della Gallia; gli avrebbe anche scritto una seconda lettera, accusandolo apertamente di essere il responsabile della strage dei suoi parenti.
Costanzo respinse ogni accordo, ordinandogli di non oltrepassare le sue prerogative e, nello stesso tempo, incitò Vadomario, re degli alemanni, a invadere la Gallia: secondo Giuliano, Costanzo «ci solleva contro i barbari; mi proclama presso di loro suo aperto nemico; sborsa denari perché la nazione gallica sia distrutta; scrivendo ai suoi in Italia ordina di guardarsi contro chi viene dalla Gallia; alle frontiere, in varie città, fa raccogliere tre milioni di medimmi di frumento [...] mi manda un certo Epitteto, un vescovo gallo, a darmi assicurazioni sulla mia personale incolumità».
Giuliano, dopo aver condotto un attacco a sorpresa contro i franchi attuari allo scopo di rendere più sicura le frontiera renana, risalì il fiume fino a Basilea e si stabilì a Vienne, dove il 6 novembre celebrò il quinto anniversario della sua elezione a cesare. Nello stesso tempo fece coniare dalla zecca di Arles una moneta d'oro con la sua effigie e l'aquila imperiale: sul retro era l'omaggio alla «virtù dell'esercito di Gallia». In quei giorni moriva intanto la moglie Elena – seguendo di pochi mesi la scomparsa dell'imperatrice Eusebia – così che ora i due rivali non avevano più nulla in comune. Emesso un editto di tolleranza per tutti i culti, Giuliano mantenne ancora una finta devozione per la confessione cristiana, pregando pubblicamente in chiesa in occasione della festa dell'Epifania.
Nella primavera del 361 Giuliano fece arrestare e deportare in Spagna Vidomario: ritenendo di aver messo al sicuro la Gallia, trasse gli auspici per la decisiva avventura contro Costanzo, che gli furono favorevoli, così che a luglio iniziò l'avanzata verso la Pannonia. Divise le truppe in tre tronconi, ponendosi a capo di una forza, esigua ma estremamente mobile, di circa 3.000 uomini, che attraversò la Foresta Nera, mentre il generale Gioviano percorreva l'Italia settentrionale e Nevitta attraversava la Rezia e il Norico. Senza incontrare resistenza, Giuliano e le sue truppe s'imbarcarono sul Danubio e il 10 ottobre sbarcarono a Bononia, da dove giunsero a Sirmio, una delle residenze della corte, che si arrese senza combattere.
La guarnigione di Sirmio fu inviata in Gallia ma si ribellò, fermandosi ad Aquileia, che fu assediata dalle forze di Gioviano. Giuliano proseguì, insieme con l'esercito di Nevitta, per Naisso, in Illiria, la città di nascita di Costantino, e di qui in Tracia: lasciato al generale Nevitta il compito di presidiare il passo strategico di Succi, tornò a Naisso, stabilendovi i quartieri invernali. Da qui inviò messaggi ad Atene, a Sparta, a Corinto, a Roma, spiegando, dal suo punto di vista, gli avvenimenti che avevano provocato il conflitto. Il messaggio a Roma, allora afflitta da una carestia contro la quale Giuliano prese provvedimenti, non fu accolto con favore dal senato, scandalizzato dall'irriverenza mostrata da Giuliano nei confronti di Costanzo. Il messaggio agli Ateniesi, l'unico conservatoci integralmente, si conclude augurandosi un accordo con il quale Giuliano si riterrebbe «pago di ciò che attualmente posseggo»; se invece Costanzo vorrà decidersi, come sembra, per la guerra, «saprò anche operare e soffrire».
Non ve ne fu bisogno: a Naisso fu raggiunto, verso la metà di novembre, da una delegazione dell'armata d'Oriente che gli annunciò la morte di Costanzo, avvenuta il 3 novembre a Mopsucrene, in Cilicia, e la sottomissione delle province orientali. Si dice, senza certezza, che in extremis Costanzo avesse designato Giuliano suo successore; Giuliano indirizzò lettere a Massimo, al segretario Euterio e allo zio Giulio Giuliano, al quale scrisse che «Helios, a cui mi sono rivolto in cerca di aiuto prima che a ogni altro dio, e il supremo Zeus mi sono testimoni: non ho mai desiderato uccidere Costanzo, anzi, ho desiderato il contrario. Perché allora sono venuto? Perché gli dei me l'hanno ordinato, promettendomi la salvezza se avessi obbedito, la peggiore sventura in caso contrario».
Con la convinzione di essere portatore della missione di restauratore dell'Impero assegnatagli da Helios-Mitra, partì immediatamente per Costantinopoli: appena giunto nella capitale, l'11 dicembre, ordinò di erigere un mitreo nell'interno del palazzo imperiale, rendendo grazie al dio che sarà da questo momento l'ispiratore di ogni sua azione. Alla fine dell'anno proclamava la tolleranza generale nei confronti di tutte le religioni e di tutti i culti: si poterono così riaprire i templi pagani e celebrare i sacrifici, mentre tornarono dall'esilio quei vescovi cristiani che le reciproche dispute tra ortodossi e ariani avevano allontanato dalle loro città. Seppure la tolleranza religiosa era conforme alle esigenze del suo spirito, è probabile che nei confronti del cristianesimo Giuliano avesse calcolato che «la tolleranza favorisse le dispute tra i cristiani [...] L'esperienza gli aveva insegnato che non ci sono belve più pericolose per gli uomini di quanto non siano spesso i cristiani nei confronti dei loro correligionari».
Accolto con calore dalla capitale dell'Impero, Giuliano rese omaggio alla salma di Costanzo accompagnandola all'estremo riposo nella basilica dei Santi Apostoli. Compiva così l'atto formale di una successione apparentemente legittima tanto da permettersi ora di definire «fratello» il suo predecessore, elevato dal Senato all'apoteosi, augurandosi che «la terra fosse leggera» al «beatissimo Costanzo».
Usò deferenza verso il Senato di Costantinopoli, facendogli ratificare la propria elezione, concedendo esenzioni fiscali ai suoi membri, presentandosi alle loro assemblee e rifiutando il titolo di Dominus, mentre con i propri amici manteneva il tradizionale cameratismo.
Pietoso verso il defunto imperatore, Giuliano fu però inflessibile verso le «anime nere» dei suoi consiglieri. Dopo l'istruttoria condotta dal magister equitum Arbizione, un tribunale riunito a Calcedonia e presieduto da Salustio condannò alla pena capitale il ciambellano Eusebio, i delatori Paolo Catena e Apodemio – questi ultimi due furono bruciati vivi – il comes largitionum Ursulo, l'ex-prefetto della Gallia Florenzio, che tuttavia riuscì a fuggire, e i funzionari Gaudenzio e Artemio, mentre Tauro se la cavò con l'esilio a Vercelli e Pentadio fu assolto.
Nello stesso tempo stabilì allo stretto necessario il personale di corte: ridotti drasticamente i notarii, il personale della burocrazia, allontanati eunuchi, confidenti e spie – gli agentes in rebus e i cosiddetti curiosi – alla cancelleria chiamò il fratello di Massimo, Ninfidiano, e suoi collaboratori furono Salustio, Euterio, Oribasio, Anatolio, Mamertino e Memorio. Oltre alle sue guide spirituali Massimo e Prisco, intrattenne o invitò a corte i suoi vecchi maestri Mardonio, Nicocle ed Ecebolio, lo zio Giulio Giuliano, i cristiani Cesario, medico e fratello di Gregorio di Nazianzo, Aezio e Proeresio. I suoi luogotenenti militari furono i magistri equitum Gioviano, Nevitta e Arbizione, e il magister peditum Agilone, un alemanno.
Lo sfoltimento della burocrazia centrale andava nella direzione di un decentramento della macchina amministrativa e di una rivitalizzazione delle funzioni municipali. Già massima espressione della civiltà greca classica, le polis avevano continuato a godere, ancora nei regni ellenistici e poi nell'Impero romano, di autonomia amministrativa attraverso le curiae, i propri consigli municipali, i quali avevano garantito anche lo sviluppo delle attività sociali e culturali delle popolazioni locali. A partire dal III secolo, tuttavia, la crisi economica, l'inflazione, l'aggravio fiscale e la tendenza all'accentramento del potere centrale, con la crescita progressiva del personale burocratico dello Stato e l'avocazione a questo di prerogative locali, avevano provocato un lento declino dei centri urbani.
I consigli amministrativi dei municipi erano formati dai cittadini nobili, i curiales o decurioni, che dovevano occuparsi delle finanze, ripartendo l'imposta fondiaria e garantendone la riscossione con i loro beni personali, dell'edilizia, con la manutenzione delle strade, del reclutamento dei soldati e della fornitura delle derrate e degli alloggiamenti militari, delle stazioni di posta, del culto, dello stato civile e della giurisdizione penale della città, con l'incombenza di provvedere all'arresto e alla detenzione dei rei.
I decurioni preferirono sfuggire a tali obblighi, i più agiati procurandosi un impiego nell'alta burocrazia statale, nel senato e nella corte, i meno favoriti nella bassa amministrazione e nell'esercito ed entrambi, a partire dal IV secolo, nelle file della Chiesa nella quale si vedevano garantiti esenzioni e privilegi – tanto che lo stesso Costantino dovette prendere provvedimenti per porre un argine all'esodo dei curiales nelle file ecclesiastiche – altri ancora vendendo i propri beni e rendendosi clienti di latifondisti, o persino emigrando fra i «barbari».
Di fronte allo spopolamento delle curie, Giuliano inserì negli albi curiali i cittadini nobili anche per discendenza materna e i plebei arricchiti, abbassando nel contempo gli oneri gravanti sulle curie. Il 13 marzo 362 furono pubblicate sei leggi con le quali si stabilivano la restituzione delle terre confiscate alle municipalità a favore dello Stato e dalla Chiesa unitamente a un indennizzo per il danno subito, furono esentati i curiales non commercianti dal tributo in metallo pregiato – la collatio lustralis – venivano invitati i preti cristiani e gli altri cittadini che si fossero iscritti a corporazioni per evitare gli adempimenti civici a rientrare nelle curiae, pena una forte multa, e furono affidate ai decurioni, togliendole ai senatori, le esazioni delle imposte. In aprile Giuliano rese facoltativa l'aurum coronarium, un'imposta che gravava sui decurioni, stabilendone il massimo in 70 stateri d'oro, cancellò le tasse arretrate, a eccezione della collatio lustralis, e trasferì la cura delle stazioni di posta e il costo della manutenzione delle strade – il de itinere muniendo – dalle municipalità ai possessores.
Cercò di combattere la corruzione dei numerarii (i contabili delle amministrazioni municipali), e il sistema del suffragium, la pratica clientelare consistente nell'acquistare cariche pubbliche da personaggi influenti, i cosiddetti suffragatores: ma che tale pratica fosse così radicata e diffusa da essere pressoché impossibile da sradicare è dimostrato dal fatto che Giuliano dovette limitarsi a decretare che chi avesse versato denaro senza ottenere il favore richiesto, non potesse reclamare la restituzione del denaro o dei doni erogati. Cercò anche di abbreviare l'iter giudiziario dei processi, la cui lunghezza era spesso condizione di compromessi illeciti, abrogando la possibilità di ottenere frequenti rinvii e decentrando lo stesso apparato giudiziario.
Nel complesso, Giuliano condusse una politica economica deflazionistica, volta a risollevare le condizioni degli humiliores, attraverso la riduzione dei prezzi delle merci di prima necessità, cercando nel contempo di non scontentare gli interessi delle classi privilegiate – commercianti e proprietari terrieri – distribuendo gli oneri delle amministrazioni cittadine fra un maggior numero di possessores e riducendo loro le tasse.
La lettera a Temistio
Non appena ebbe notizia che Giuliano era il nuovo imperatore Temistio, il retore e filosofo della corte di Costanzo che già benevolmente aveva interceduto a suo favore negli anni difficili del rapporto tra i due cugini, gli inviò una lettera nella quale, non mancando di offrirgli i suoi servigi ricordava a Giuliano che i sudditi si attendevano da lui opere legislative persino superiori a quelle compiute da Solone, Pittaco e Licurgo.
Naturalmente Giuliano, nella sua risposta, dichiara di «essere consapevole di non avere affatto, né di possedere per natura né di aver acquisito in seguito, alcuna qualità eminente, fuorché l'amore per la filosofia», dalla quale ha però appreso che sono la fortuna, la týche, e il caso, l'autómaton, a dominare la vita individuale e le vicende politiche. Citando Platone, Giuliano ritiene che un sovrano dovrà pertanto evitare la superbia cercando di acquisire l'arte di cogliere l'opportunità offerta dalla fortuna. Un'arte che è tale da essere propria di un demone piuttosto che di un uomo, e pertanto dobbiamo ubbidire a «quella parte di divino che è in noi» quando amministriamo «le cose pubbliche e le private, le nostre case e le città, considerando la legge un'applicazione dell'Intelligenza».
Di Aristotele Giuliano cita la condanna del governo fondato sul diritto ereditario e del dispotismo, nel quale un solo cittadino è «padrone di tutti gli altri. Poiché, se tutti sono eguali per natura, a tutti spettano necessariamente pari diritti». Mettere al governo un uomo significa farsi governare da un uomo e da una bestia feroce insieme: occorre piuttosto che al governo sia messa la ragione, che è quanto dire Dio e le leggi, perché la legge è la ragione esente da passioni.
Nella pratica deriva, come afferma Platone, che il governante deve essere migliore dei governati, a loro superiore per studio e per natura, il quale con ogni mezzo e quanto più possa dovrà porre attenzione alle leggi, non quelle create per far fronte a contingenze momentanee, ma quelle predisposte da chi, purificato l'intelletto e il cuore, acquisita un'approfondita conoscenza della natura del governo, contemplata l'idea di giustizia e compresa l'essenza dell'ingiustizia, trasponga l'assoluto nel relativo, legiferando per tutti i cittadini, senza distinzioni e riguardi per amici e parenti. Meglio sarebbe legiferare per i posteri e gli stranieri, in modo da evitare ogni interesse privato.
Giuliano confuta l'affermazione di Temistio che sosteneva di preferire l'uomo d'azione al filosofo politico, fondandosi erroneamente su un passo di Aristotele: tra vita attiva e vita contemplativa, quest'ultima è certamente superiore, poiché «col formare non molti, ma anche solo tre o quattro filosofi, tu puoi arrecare al genere umano maggiori benefici di quanto non possano fare parecchi imperatori messi insieme». Così Giuliano, non senza ironia, poteva anche declinare l'offerta di collaborazione rivoltagli dal filosofo Temistio. Quanto a sé, «consapevole di non possedere nessuna speciale virtù, tranne quella di non credere di avere le più belle virtù», Giuliano rimetteva tutto nelle mani di Dio, così da essere scusato delle proprie mancanze e da poter apparire discreto e onesto per gli eventuali successi della sua opera di governo. In questo ricalca il pensiero di Socrate quiando afferma "so di non sapere".
In realtà, la sua concezione è diversa da quanto può apparire nella sua lettera a Temistio o, almeno, sarà espressa diversamente nei suoi scritti di poco successivi: il buon governante non è semplicemente il filosofo che conoscendo l'idea di bene è in grado di fare buone leggi, ma è colui che è investito di una missione che solo gli dei possono avergli conferito. Perché egli abbia qui espresso l'idea classica del potere, anziché quella contemporanea della monarchia assoluta ed ereditaria, è stato interpretato come il risultato del timore provocatogli dall'immenso potere che la fortuna gli aveva posto nelle mani: «la solitudine del potere non mancò di spaventarlo. Per recuperare il senso della propria identità fece ricorso a quello che aveva di più suo: l'educazione e il retroterra culturale. Per quanto solo e confuso, poteva infatti percepire un forte vincolo di solidarietà con le innumerevoli generazioni che, come lui, si erano servite di Omero e di Platone per dare piena consapevolezza alle proprie emozioni e acquisire una più approfondita consapevolezza». Timoroso della cieca potenza di Tyche (della fortuna), tentò di esorcizzarla, lasciò da parte la dottrina politica contemporanea e «si volse ai grandi maestri della sua gioventù».
«Contro il cinico Eraclio»: la concezione teocratica del governo
L'occasione per presentare la sua dottrina gli fu data dal discorso pubblico tenuto a Costantinopoli nel marzo del 362 da Eraclio, un filosofo itinerante della "chiesa" dei cinici, al quale lo stesso Giuliano aveva assistito. Eraclio, irriverente come tutti i cinici, espose un mito, presentando se stesso come Zeus e Giuliano – che notoriamente si faceva crescere sul mento una barba dal sembiante caprino – come Pan, alluse a Fetonte, il figlio di Febo che, inesperto della guida del carro del Sole, era precipitato miseramente, e coinvolse nelle sue allegorie Eracle e Dioniso, due figure molto care a Giuliano.
In un mito, risponde Giuliano, è detto che Eracle avesse sfidato Helios a duello e il Sole, riconoscendo il suo coraggio, gli donò una coppa d'oro sopra la quale l'eroe aveva attraversato l'Oceano: Giuliano scrive a questo proposito di credere che Eracle avesse piuttosto «camminato sull'acqua come se fosse stato sulla terraferma», e sottolineando che «Zeus con l'aiuto di Athena Pronoia l'aveva creato salvatore del mondo e gli aveva posto al fianco questa dea come custode [...] in seguito lo sollevò a sé, ordinando così al figlio di venire a lui», denunciando esplicitamente i cristiani di copiare a favore di Cristo i miti ellenici. Un altro esempio di imitazione cristiana è tratto dalla rappresentazione di Dioniso, la cui nascita «non fu in realtà una nascita, ma una manifestazione divina», il quale comparve in India come dio visibile «quando Zeus decise di concedere a tutta l'umanità i principi di un nuovo stato di cose».
Giuliano sa bene che i miti non sono racconti reali, bensì un travestimento della dottrina della sostanza degli dei, la quale «non sopporta di essere gettata con nude parole nelle orecchie impure dei profani. Proprio la natura segreta dei misteri, anche se non compresa, è utile, perché cura le anime e i corpi e provoca l'apparizione degli dei». In questo modo, «le divine verità vengono insinuate per mezzo di enigmi con il travestimento dei miti». Non solo, ma «ciò che nei miti si presenta inverosimile, è proprio quello che ci apre la via alla verità: infatti, quanto più paradossale e portentoso è l'enigma, tanto più pare ammonirci a non affidarci alla nuda parola, ma ad affaticarci intorno alla verità riposta, senza stancarci prima che questo mistero, rischiarato sotto la guida degli dei», non ci rischiari l'intelletto fino a portare a perfezione la nostra anima.
Eguali concetti sono espressi dall'amico. Secondo Salustio nel suo Sugli dei e il mondo: i miti «ci incitano alla ricerca [...] imitano l'insieme delle cose inesprimibili e ineffabili, invisibili e manifeste, evidenti e oscure, presente nell'essenza degli dei. Velando il vero senso delle espressioni figurate, le si protegge dal disprezzo degli sciocchi [...] l'apparente assurdità di tali favole fa comprendere all'anima che si tratta solo di simboli, perché la verità pura è inesprimibile».
Il mito raccontato da Eraclio era invece, a dire di Giuliano, non solo sconveniente ed empio, ma anche privo di originalità, e Giuliano intende presentargli un esempio di come si possa costruire un mito che sia insieme nuovo, istruttivo e attinente a fatti storici. È una vicenda che prende le mosse da Costantino, i cui antenati adoravano Helios, ma quell'imperatore e i suoi figli credettero di garantirsi l'eternità del potere tradendo la tradizione e affidandosi al dio cristiano: «i templi degli avi furono demoliti dai figli, già disprezzati dal padre e spogliati dei doni [...] e insieme alle divine furono profanate le cose umane». Zeus fu mosso a pietà per le tristi condizioni degli uomini caduti nell'empietà: promise alle sue figlie Hosiótes e Díke, la Religione e la Giustizia, di restaurarle in terra e indicando Giuliano a Helios, glielo affidò dicendogli: «quel fanciullo è tuo figlio».
Helios, il dio protettore dei Flavi e Athena Pronoia, la Provvidenza, lo allevarono ed Hermes, dio dell'eloquenza e psicopompo (il conduttore delle anime che introduce l'iniziato ai misteri di Mitra), fece da guida al giovane che visse in solitudine e «avanzò per una strada piana, solida e tutta pulita e colma di frutta e fiori abbondanti e buoni, quali amano gli dei, e di piante di edera, alloro e mirto». Giunti su una montagna, Hermes gli disse: «Sulla vetta di questa montagna ha il trono il padre di tutti gli dei. Sta' attento: vi è grande pericolo. Se lo saprai adorare con la più grande pietà, otterrai da lui quello che vuoi». Un giorno Helios gli disse di tornare tra i mortali per vincere e «purgare tutte le empietà della terra e chiamare in soccorso me, Athena e tutti gli altri dei», e indicandogli dall'alto la terra dov'erano mandrie e pastori, gli rivelò che la maggior parte dei pastori – i governanti – erano malvagi «perché divorano e vendono il bestiame» riportando pochi guadagni del molto che è stato a loro affidato.
Finalmente il giovane accettò di sciogliersi da una vita fino ad allora rivolta solo allo studio e alla contemplazione mostrandosi pronto a impegnarsi nella missione affidatagli. Helios, dopo averlo munito di una fiaccola, simbolo della luce eterna, dell'elmo e dell'egida di Athena e del caduceo d'oro di Hermes, gli garantì l'assistenza di tutti gli dei finché fosse rimasto «devoto verso di noi, fedele verso gli amici, umano verso i sudditi, comandandoli e guidandoli per il meglio. Ma non cedere mai fino a renderti schiavo delle tue e loro passioni [...] e nessuno mai [...] ti persuada a dimenticare i nostri precetti. Finché ti atterrai a essi, sarai degno e gradito a noi, oggetto di rispetto per i buoni che ci servono e di terrore per i malvagi e gli empi. Sappi che il corpo mortale ti fu dato perché tu possa compiere questa missione. Per riguardo ai tuoi antenati, noi desideriamo purificare la casa dei tuoi padri. Ricordati dunque che hai un'anima immortale che da noi discende e se tu ci seguirai, sarai un dio e con noi contemplerai tuo padre».
Lo scritto di Giuliano esprime dunque, attraverso il mito, una concezione teocratica del governo e rivela anche come Giuliano non concepisca il ruolo dell'imperatore come émpsychos nomos, legge personificata che, in quanto tale, è al di sopra delle leggi che sono imperfette perché umane: per Giuliano le leggi hanno origine divina e, attraverso Platone, sottolinea che «se c'è uno che si distingue per la fedeltà alle leggi vigenti e in questa virtù vince su tutti gli altri, a costui deve essere affidata anche la funzione di servitore degli dei».
Contro i cinici ignoranti
In Eraclio Giuliano aveva attaccato la figura di certi filosofi moderni, «bastone, mantello, zazzera e poi ignoranza, boria, sfrontatezza», per colpa dei quali «la filosofia era diventata spregevole» ed essi si erano appropriati, \ illegittimamente, del nome di una dottrina, quella di Diogene di Sinope e di Cratete di Tebe, di ben altra e nobile natura.
Pochi mesi dopo, un altro di quei filosofi itineranti attaccò la figura di Diogene, dipingendolo come uno sciocco vanaglorioso e mettendo in burla certi aneddoti circolanti su quel filosofo. La risposta di Giuliano intende rivalutare la dignità della filosofia cinica, «che non è la più vile né la più spregevole, ma anzi paragonabile alle più illustri», inserendola nella tradizione culturale greca e mostrando come essa possa stare alla pari delle più rinomate scuole elleniche.
Infatti Helios, mandando per mezzo di Prometeo il dono divino del fuoco, intese rendere partecipi tutti gli esseri della «ragione incorporea» e perciò della divinità stessa, se pure in misura diversa: alle cose concedendo la sola esistenza, ai vegetali la vita, agli animali l'anima sensitiva e agli uomini l'anima razionale. Questa spinge l'uomo alla filosofia che, seppure definita in modo diverso – arte delle arti o scienza delle scienze – consiste nel «conoscere se stesso», che equivale a dire nel conoscere quella parte di divino presente in ogni uomo. E come si può giungere ad Atene percorrendo le strade più diverse, così si può ottenere la conoscenza di sé attraverso differenti speculazioni filosofiche: «pertanto nessuno deve separare la filosofia in molte parti né dividerla in molte specie o meglio, di un'unica filosofia non deve farne molte. Come vi è una sola verità, così vi è una sola filosofia».
Dunque la filosofia cinica appartiene di diritto a quest'unico movimento di ricerca della verità, che è «il bene maggiore per gli dèi e per gli uomini», la conoscenza della «realtà intima delle cose esistenti»: a dispetto della rozza semplicità del suo aspetto, il Cinismo è come quelle statuette di Sileno che, banali in apparenza, nascondono nel loro interno l'immagine di un dio. E infine, il creatore della filosofia cinica non fu Antistene o Diogene, ma fu colui che creò tutte le scuole filosofiche, «colui che per i Greci è l'autore di tutte le cose belle, la guida comune, il legislatore e il re, il dio di Delfi».
Per quanto riguarda Diogene poi, secondo Giuliano «egli ubbidiva al dio di Pytho e della sua obbedienza non ebbe a pentirsi, e si sbaglierebbe a prendere per indizio di empietà il fatto che egli non frequentasse i templi e non venerasse le immagini e gli altari: Diogene non aveva niente da offrire, né incenso, né libagioni, né denaro, ma possedeva una giusta nozione degli dei e questo solo bastava. Perché egli li adorava con l'anima, offrendo il bene più prezioso, la consacrazione della sua anima attraverso il suo pensiero».
Può sembrare singolare che un imperatore si sentisse in dovere di intervenire su una polemica, apparentemente banale, innescata da un oscuro sofista: in realtà, il problema che stava a cuore a Giuliano era la riaffermazione dell'unità della cultura ellenica – letteratura, filosofia, mitologia, religione – inserita nell'apparato giuridico-istituzionale dell'Impero romano. La difesa dell'unità della cultura ellenica è la condizione del mantenimento dell'istituzione politica e un attacco ai valori unitari espressi da quella cultura è percepita da Giuliano come una minaccia ai fondamenti dello stesso Impero.
L'inno alla madre degli dei
Che l'unità dell'Impero fosse favorita dall'unità ideologica e culturale dei sudditi era stato compreso già da Costantino il quale, convocando nel 325 il Concilio di Nicea, aveva inteso che il cristianesimo si fondasse su dogmi condivisi da tutti i fedeli costruiti con gli strumenti messi a disposizione dalla filosofia greca. Allo stesso modo Giuliano intese stabilire i principi dell'ellenismo, visto come sintesi delle tradizioni ereditate dall'antica religione romana e della cultura greca, elaborata alla luce della filosofia neoplatonica. Sotto questo aspetto il programma di Giuliano intese questo inno, assieme a quello dedicato ad Helios, come due momenti fondanti sui quali incardinare la rifondazione della tradizione religiosa e culturale dell'impero. All'Inno alla Madre degli dei venne affidato, pertanto, il ruolo di una rivisitazione esegetica dei miti greci sulla base delle dottrine misteriche che Giuliano aveva approfondito nei suoi studi ateniesi.
L'Inno alla Madre degli dei, Cibele, chiamata anche Rea o Demetra, la Magna Mater dei Romani, è rivolto a chi deve occuparsi di educare i fedeli: è lo scritto che un pontefice massimo rivolge ai sacerdoti dei culti ellenici. L'inno si apre con la descrizione dell'arrivo a Roma dalla Frigia della statua della dea, dopo che il suo culto era già stato accolto in Grecia, «e non da una stirpe qualunque di Greci, ma dagli Ateniesi», scrive Giuliano, come a sottolineare l'estrema credibilità del culto della dea. E credibile appare a Giuliano anche il miracolo che si verificò quando la sacerdotessa Clodia fece nuovamente navigare sul Tevere la nave rimasta immobile malgrado ogni sforzo dei marinai.
Alla figura di Cibele è associata, in un noto mito, quella di Attis. Ogni cosa, come aveva insegnato Aristotele, è unione di forma e materia: affinché le cose non siano generate dal caso, opinione che porterebbe al materialismo epicureo, occorre riconoscere l'esistenza di un principio superiore, ossia la causa della forma e della materia. Tale causa è la quinta essenza, discussa già dal filosofo Senarco, che dà ragione del divenire, della moltiplicazione delle specie degli esseri e dell'eternità del mondo, la «catena dell'eterna generazione». Ebbene, Attis rappresenta tale principio, secondo la personale concezione di Giuliano: egli è «la sostanza dell'Intelletto generatore e creatore che produce tutte le cose fino ai limiti estremi della materia e contiene in sé tutti i principi e le cause delle forme congiunte alla materia».
Cibele è «la Vergine senza madre, che ha il suo trono accanto a Zeus, ed è realmente la Madre di tutti gli dei». Il mito della sua unione con Attis, giudicato osceno dai cristiani, sta in realtà a significare che ella, in quanto Provvidenza «che conserva tutte le cose soggette a nascita e distruzione, ama la causa creatrice e produttrice di esse e le impone di procreare preferibilmente nel mondo intelligibile ed esige che a lei sia rivolta e con lei coabiti, pretende che Attis non si mescoli con nessun altro essere, in modo da perseguire la conservazione di ciò che è uniforme e di evitare di inclinare nel mondo materiale».
Ma Attis si abbassò fino ai limiti estremi della materia, accoppiandosi in un antro con una ninfa, figura nella quale il mito adombra «l'umidità della materia», più precisamente «l'ultima causa incorporea sussistente prima della materia». Allora Helios, «che condivide il trono con la Madre e crea tutto con lei e a tutto provvede», comandò al Leone, il principio del fuoco, di denunziare la degradazione di Attis: l'evirazione di Attis va intesa come il «freno posto alla spinta illimitata» alla generazione, in modo che essa sia «trattenuta nei limiti delle forme definite». L'autoevirazione di Attis è il simbolo della purificazione dalla degradazione, la condizione della risalita verso l'alto, «a ciò che è definito e uniforme, possibilmente all'Uno stesso».
Come il mito delinea il ciclo della degradazione e della purificazione dell'anima, così a esso corrisponde il ciclo della natura e i rituali religiosi che a esso sono associati e celebrati nell'equinozio di primavera. Il 22 marzo viene tagliato il pino sacro, il giorno dopo il suono delle trombe ricorda la necessità di purificarci ed elevarci al cielo, il terzo giorno «si taglia la sacra messe del dio» e finalmente possono seguire le Ilarie, le feste che celebrano l'avvenuta purificazione e il ritorno di Attis a fianco della Madre. Giuliano lega il culto di Cibele ai misteri eleusini, che vengono celebrati in occasione degli equinozi di primavera e di autunno, e spiega ai sacerdoti il significato dei precetti che l'iniziato deve osservare per accostarsi al rito con animo puro.
Riaffermata l'unità intrinseca dei culti ellenici accostando Eracle e Dioniso ad Attis, riconosciuto in Attis il Logos, «uscito di senno, perché ha sposato la materia e presieduto alla creazione, ma anche saggio, perché ha saputo ordinare e mutare questa sozzura in qualcosa di così bello che nessun'arte e capacità umana potrebbe mai eguagliare», Giuliano conclude lo scritto elevando un inno a Cibele:
« O Madre degli dei e degli uomini che siedi sul trono del grande Zeus, origine degli dei, tu che partecipi alla pura essenza delle Idee e, accogliendo da queste la causa del tutto, le infondi agli esseri ideali; dea della vita, rivelatrice, provvidenza e creatrice delle anime nostre, tu che hai salvato Attis e lo hai richiamato dall'antro dov'era sprofondato, tu che elergisci ogni bene e ne colmi il mondo visibile: dona a tutti la felicità, al cui sommo è la conoscenza degli dèi, fa che il popolo romano cancelli la macchia dell'empietà e che la sorte favorevole gli conservi l'impero per molte migliaia di anni, fa che io raccolga, come frutto della mia devozione, la verità della scienza divina, la perfezione nelle pratiche teurgiche, la virtù e il successo in tutte le imprese politiche e militari a cui ci accingiamo, e un termine della vita senza dolore e glorioso, insieme alla speranza di salire, o dèi, fino a voi.»
L'editto sull'insegnamento e la riforma religiosa
Nei suoi scritti Giuliano aveva implicitamente mostrato come fosse necessario mantenere uno stretto legame tra ellenismo e romanitas come condizione della salute dell'Impero, quale sembrava essere stata realizzata pienamente nell'età degli antonini (gli imperatori adottivi). Da allora era però seguito un lungo periodo di lento declino durante il quale nuove istanze religiose, originarie di un mondo in gran parte estraneo ai tradizionali valori ellenici, si erano affermate fino a ottenere piena legittimazione con Costantino. Lo stesso vescovo cristiano Eusebio aveva esaltato il nuovo ordine costituito dalle istituzioni politiche dell'Impero e dalla dottrina evangelica, la cui fusione era stata disposta da Dio per il bene di tutta l'umanità.
Questa concezione presupponeva una frattura nell'evoluzione storica del mondo greco-romano e, insieme con l'abbandono dei culti antichi e dei templi dove quelli venivano celebrati, metteva in discussione tutta la cultura ellenica, della quale si poteva temere la distruzione. La concezione di Giuliano è esattamente opposta a quella di Eusebio: tutta la cultura greco-romana è «il frutto della rivelazione divina e la sua evoluzione storica era avvenuta sotto lo sguardo vigile di Dio. Grazie alla rivelazione di Apollo-Helios, i Greci avevano elaborato un mirabile sistema religioso, filosofico e artistico, perfezionato in seguito dal popolo affine dei Romani, i quali lo arricchirono delle migliori istituzioni politiche che il mondo avesse conosciuto».
Alla salute dell'Impero corrisponde quella dei cittadini, la quale si sostanzia, sul piano spirituale e intellettuale, con l'epistéme, la conoscenza autentica, che si raggiunge con la corretta istruzione. La conoscenza della cultura greco-romana eleva l'essere umano alla conoscenza di sé, la quale è la condizione per la conoscenza superiore, quella della divinità, che corrisponde alla salvezza individuale. In questo percorso, la cultura ellenica è concepita da Giuliano nella sua totalità, senza distinzione tra cultura sacra e cultura profana: «lo studio dei testi sacri rende migliore qualunque uomo, anche il più inetto. Se poi un uomo dotato di talento viene avviato allo studio della letteratura, egli diventa un dono degli dei all'umanità, perché ravviverà la fiamma della conoscenza, o fonderà istituzioni pubbliche, o metterà in fuga i nemici del suo popolo, o viaggerà per terra e per mare, dando così prova di avere la tempra dell'eroe».
In applicazione di tali principi il 17 giugno 362 Giuliano emise un editto con il quale stabiliva l'incompatibilità tra la professione di fede cristiana e l'insegnamento nelle scuole pubbliche. L'idea di Giuliano era che gli insegnanti pubblici dovessero distinguersi innanzi tutto per moralità e poi per capacità professionale. Il meccanismo che avrebbe dovuto garantire la suddetta moralità passava attraverso i consigli municipali che avrebbero dovuto produrre un attestato dei requisiti dei candidati. Tale attestato avrebbe dovuto, eventualmente, poi essere ratificato dall'imperatore.
Alla legge Giuliano fece seguire una lettera circolare che spiegava più approfonditamente il contenuto e il significato della norma:
« È necessario che tutti gli insegnanti abbiano una buona condotta e non professino in pubblico opinioni diverse da quelle intimamente osservate. In particolare, tali dovranno essere coloro che istruiscono i giovani e hanno il compito di interpretare le opere degli antichi, siano essi retori, grammatici e ancor più sofisti, poiché questi ultimi, più degli altri, intendono essere maestri non di sola eloquenza ma anche di morale, e sostengono che a loro spetta l'insegnamento della filosofia civile. [...] Io li lodo perché aspirano a elevati insegnamenti, ma li loderei di più se non si contraddicessero e non si condannassero da soli, pensando una cosa e insegnandone un'altra. Ma come? Per Omero, Esiodo, Demostene, Erodono, Tucidide, Isocrate e Lisia, gli dèi sono guida e norma dell'educazione: forse che costoro non si reputavano devoti, chi a Hermes, chi alle Muse? Trovo assurdo che coloro che spiegano i loro scritti disprezzino gli dèi che quelli onoravano. Ma, anche se a me pare assurdo, non dico con questo che essi debbano dissimulare le loro opinioni di fronte ai giovani. Io li lascio liberi di non insegnare ciò che non credono buono ma, se invece vogliono insegnare, insegnino prima con l'esempio [...] Finora, si avevano molte ragioni per non frequentare i templi e la paura, ovunque avvertita, giustificava la dissimulazione delle vere opinioni sugli dèi. Ora, poiché questi dei ci hanno reso la libertà, mi sembra assurdo che si insegni ciò che non si crede giusto. Se i maestri cristiani considerano saggi coloro di cui sono interpreti e di cui si dicono, per così dire, profeti, cerchino prima di rivolgere la loro pietà verso gli dèi. Se invece credono che questi autori si siano sbagliati circa le entità da venerare, vadano allora nelle chiese dei Galilei a spiegare Matteo e Luca. Voi affermate che bisogna rifiutare le offerte dei sacrifici? Bene, anch'io voglio che le vostre orecchie e la vostra parola, come dite voi, si purifichino astenendosi da tutto ciò a cui io ho sempre desiderato partecipare insieme con coloro che pensano e fanno quello che io amo.»
La legge era stata predisposta per difendere le ragioni dell'ellenismo dalla polemica cristiana ed era particolarmente insidiosa, perché, senza essere un'aperta persecuzione, presentava persuasivamente le ragioni dell'incompatibilità tra la cultura greco-romana e il cristianesimo che erano effettivamente condivise da una consistente rappresentanza dell'intellettualità cristiana.
Nello stesso tempo Giuliano si preoccupò di costituire una «chiesa» pagana, organizzata secondo criteri gerarchici che richiamavano quelli cristiani: al vertice era l'imperatore, nella sua qualità di pontefice massimo, seguito da sommi sacerdoti, responsabili ciascuno per ogni provincia i quali, a loro volta, sceglievano i sacerdoti delle diverse città. Conosciamo dalle sue lettere alcuni nomi dei responsabili provinciali nominati da Giuliano: Arsacio fu il capo religioso della Galazia, Crisanzio di Sardi, con la moglie Melita, della Lidia, Seleuco della Cilicia e Teodoro dell'Asia, così come si ha notizia dei nomi di alcuni sacerdoti locali, una Teodora, un Esichio, un Ierarca ad Alessandria in Troade, una Calligena di Pessinunte in Frigia.
Il primo requisito di ogni sacerdote doveva essere la moralità, senza alcuna preclusione di origine e di censo: una delle cause dell'arretramento della religione ellenica nella considerazione delle popolazioni era proprio la scarsa moralità di molti sacerdoti, che in tal modo facevano perdere credibilità agli antichi rituali. Se quei sacerdoti venivano così disprezzati, rimanevano però temuti in virtù della fama acquisita di dispensatori di anatemi di terribile efficacia: una virtù dubbia questa, dal momento che essa contribuiva però al loro isolamento, che lo stesso Giuliano cercò di contestare argomentando che un sacerdote, in quanto tale, non poteva essere rappresentante di un demone, ma di dio, e perciò era dispensatore di benefici ottenuti per mezzo della preghiera, e non di maledizioni lanciate attraverso un oscuro potere demoniaco.
I sacerdoti vanno dunque onorati «in quanto ministri e servitori degli dei, perché compiono, in nostra vece, i doveri verso gli dei ed è a loro che dobbiamo gran parte dei doni che riceviamo dagli dèi. Essi infatti pregano e sacrificano in nome e per conto dell'intera umanità. Perciò è giusto onorarli ancor più dei magistrati dello Stato e anche se vi è chi ritiene che si debbano tributare onori eguali a sacerdoti e a magistrati, essendo questi i custodi delle leggi e perciò in qualche modo servitori degli dèi, tuttavia al sacerdote spetta maggior considerazione [...] poiché celebra sacrifici per conto nostro, reca offerte e si trova di fronte agli dèi, noi dobbiamo rispettare e temere il sacerdote come la cosa più preziosa appartenente agli dèi».
Il secondo requisito di un sacerdote consiste nel possedere la virtù dell'epistéme (la conoscenza), e la capacità dell'ascesi, poiché sapienza e santità fanno dell'uomo un sacerdote-filosofo, come sosteneva l'allievo di Plotino, il neoplatonico Porfirio: «L'ignorante contamina la divinità, pur offrendo preghiere e sacrifici. Solo il sacerdote è saggio, egli solo è amato da dio, egli solo sa pregare. Chi pratica la saggezza pratica l'epistéme di dio, non dilungandosi in litanie e sacrifici interminabili, ma esercitandosi nella pietas divina nella vita di tutti i giorni». Viceversa, anche coloro che credono negli dèi e intendono onorarli, «se trascurano di essere saggi e virtuosi, negano e disonorano gli dèi». A questi precetti Giamblico aveva aggiunto la necessità della pratica teurgica, mediante la quale il sacerdote stabilisce un contatto diretto con il mondo divino, rendendosi così intermediario tra il fedele e il dio.
Sapienza, pratica teurgica, virtù e devozione sono qualità necessarie a un sacerdote, eppure non sono ancora sufficienti. Per Giuliano è indispensabile anche la pratica della carità: «gli dei non ci hanno donato una così immensa ricchezza per rinnegarli, trascurando i poveri che sono tra noi [...] dobbiamo dividere i nostri averi con tutti, ma più generosamente con i buoni, i poveri, i derelitti, in modo che possano soddisfare le loro esigenze. E posso aggiungere, senza timore di apparire paradossale, che dovremmo dividere cibo e vestiti anche con i malvagi. Poiché è all'umanità che è in ognuno che noi dobbiamo dare, non al singolo individuo». E infatti, diversamente dal suo predecessore Licinio, che aveva proibito l'assistenza ai detenuti, Giuliano osserva che, poiché «tutti gli uomini hanno lo stesso sangue, la nostra sollecitudine deve estendersi anche a coloro che sono in carcere; i nostri sacerdoti dimostrino dunque il loro amore per il prossimo mettendo il poco che hanno a disposizione di tutti gli indigenti». E Giuliano mise in pratica le intenzioni caritatevoli, istituendo ricoveri per mendicanti, ostelli per stranieri, asili per donne e orfanotrofi.
Nella lettera al sacerdote Teodoro Giuliano chiarisce anche la sua opinione sulla funzione delle immagini votive: «gli avi hanno voluto erigere statue e altari e hanno disposto il mantenimento della fiamma perenne e, in generale, ci hanno trasmesso ogni sorta di simboli della presenza degli dèi, non perché li adorassimo come tali, ma perché adorassimo gli dèi attraverso le immagini». E come le icone delle divinità, anche «le raffigurazioni degli imperatori non sono semplici pezzi di legno, di pietra o di rame, e ancor meno s'identificano con gli imperatori stessi».
Con quelle parole Giuliano attestava l'importanza annessa alle immagini quali veicoli di devozione verso la divinità e di rispetto per l'autorità imperiale nella quale intendeva riassumere l'unità politica, culturale e religiosa dello Stato. Si sa che si fece rappresentare in veste di Apollo, con accanto la figura della moglie defunta come Artemide, in due statue dorate erette a Nicomedia, in modo che i cittadini onorassero, in quelle, gli dei e l'Impero, e generalmente «volle sempre essere raffigurato con accanto Zeus, disceso appositamente dal cielo per offrirgli le insegne imperiali, la corona e la veste di porpora, mentre Ares ed Hermes tenevano lo sguardo fisso su di lui, a indicare la sua eloquenza e perizia nelle armi».
L'inno a Helios re
Durante la permanenza ad Antiochia Giuliano scrisse in tre notti, appena prima del solstizio d'inverno, l'Inno a Helios Re, dedicandolo all'amico Salustio, prefetto di Gallia, a sua volta già autore di un breve trattato sugli dèi; l'intenzione di Giuliano è volta a munire di un chiaro e solido apparato dottrinale la religione ellenica, a dettare una sorta di catechismo per quella chiesa di cui egli, come imperatore e pontefice massimo, era in quel momento il capo. Questo scritto seguiva l'Inno alla Madre degli dèi in cui Giuliano formulava un'esegesi dei miti greci sulla base delle dottrine misteriche a cui si era dedicato durante il periodo trascorso ad Atene. In questo caso il monoteismo solare, usando gli stessi strumenti filosofici di cui si stava impadronendo il cristianesimo, avrebbe dovuto contrapporsi al monoteismo dei Galilei che secondo Giuliano aveva il grave difetto di essere del tutto estraneo alla cultura e alla tradizione romane e perciò di sconvolgere la struttura dell'Impero sin dalle fondamenta.
Ogni uomo nasce da un uomo e dal Sole, come afferma Aristotele, ma il sole è solo il dio visibile: ben altra difficoltà è «farsi un'idea della grandezza del dio invisibile», ma con l'aiuto di Hermes, delle Muse e di Apollo Musagete «tratteremo della sostanza di Helios, la sua origine, i suoi poteri, le sue forze, tanto visibili che invisibili, dei benefici che dispensa attraverso tutti i mondi».
La provvidenza di Helios – scrive Giuliano – mantiene, dalla sommità degli astri fino alla terra, tutto l'universo, che esiste da sempre e sempre esisterà. Superiore a Helios è l'Uno ovvero, platonicamente, il Bene, la causa di tutte le cose, che «ha suscitato da sé Helios, potentissimo dio, come essere mediatore, in tutto simile alla sostanza creatrice originaria». Giuliano cita qui Platone, per il quale ciò che il Bene è per l'intelletto, Helios è per la vista. Helios, che domina e regna sugli altri dei come il sole domina sugli altri astri, si mostra nella forma del Sole, che infatti appare a tutti essere la causa della conservazione del mondo sensibile e il dispensatore di ogni beneficio.
Ancora Platone aveva affermato che l'universo è un unico organismo vivente, «tutto ripieno d'anima e di spirito, un tutto perfetto costituito da parti perfette»: l'unificazione tra il mondo intelligibile e quello sensibile è compiuta da Helios, che sta «tra la purezza immateriale degli dèi intelligibili e l'integrità immacolata degli dèi del mondo sensibile», così come la luce si spande dal cielo sulla terra mantenendosi pura anche venendo a contatto con le cose materiali.
La sostanza di Helios viene così riassunta: «Helios Re procedette come unico dio da un dio unico, cioè dal mondo intelligibile che è uno [...] unifica l'infimo con il supremo, contiene in sé il mezzo della perfezione, dell'unione, del principio vitale e dell'uniformità della sostanza. Nel mondo sensibile è la sorgente di tutti i benefici [...] racchiude in sé la causa eterna delle cose generate [...]».
Non si può non vedere la consonanza di queste affermazioni con il dogma cristiano del Cristo-Logos, mediatore tra Dio e l'uomo e apportatore di salvezza, e qui Helios appare il mediatore della crescita spirituale dell'uomo: «Come a lui dobbiamo la vita, così da lui siamo anche nutriti. I suoi doni più divini e i benefici che dà alle anime sciogliendole dal corpo e sollevandole alle sostanze affini al dio, la sottigliezza e l'elasticità della luce divina, concessa come sicuro veicolo alle anime per la loro discesa nel mondo del divenire [...] per noi è meglio averne la fede che la dimostrazione».
Dioniso, celebrato come figlio di Helios, insieme con le Muse allevia le fatiche umane; Apollo, «che non differisce affatto da Helios», diffonde gli oracoli, dà agli uomini l'ispirazione, ordina e rende civili le città; Helios ha generato Asclepio, il salvatore universale, e ha mandato sulla Terra Afrodite per rinnovare le generazioni; e da Afrodite discende Enea e da lui tutte le successioni dei governatori del mondo. L'Inno si conclude con la preghiera a Helios:
« Prego Helios re universale di donarmi la sua grazia, una vita buona, una sapienza più perfetta, una mente ispirata e nel modo più lieve e al momento opportuno il distacco dalla vita stabilito dal destino. Possa io salire a lui e stargli accanto per l'eternità, ma se ciò fosse troppo per i miei meriti, almeno per molti e lunghi periodi di anni! »
Contro i Galilei
Ad Antiochia Giuliano scrisse anche la satira I Cesari e tre libri di polemica anticristiana; il Contro i Galilei è andata perduta e si è potuto ricostruirne solo una parte del primo libro in base alle citazioni contenute nel Contra Iulianum, la replica composta da Cirillo di Alessandria dopo la morte dell'imperatore, e pochi altri frammenti in Teodoro di Mopsuestia e in Areta. Giuliano, scrivendo il Contro i Galilei, dovette avere presente l'opera di Celso – poi ricostruita in parte dal Contro Celso di Origene – e i quindici libri Contro i Cristiani del filosofo Porfirio, dei quali restano pochi frammenti.
Si sa che Giuliano aveva promosso la ricostruzione del Tempio di Gerusalemme, che tuttavia non si realizzò, perché un terremoto interruppe i lavori appena iniziati che non vennero più ripresi dopo la morte dell'imperatore. Certamente l'iniziativa di Giuliano procedeva da un calcolo politico – contrapporre una rinnovata forza ebraica all'espansione della propaganda cristiana poteva tornare utile – ma derivava altresì dalla sua convinzione che ogni popolo godesse della protezione di un dio, assegnato dalla superiore volontà divina, che era espressione e garante della specifica identità culturale e religiosa di quell'etnia.
Scrive infatti Giuliano che il dio comune a tutti «ha distribuito le nazioni a dèi nazionali e cittadini, ciascuno dei quali governa la propria parte conformemente alla sua natura». Alle particolari facoltà di ciascun dio corrispondono le tendenze essenziali delle diverse etnie e così, «Ares governa i popoli bellicosi, Athena quelli che sono bellicosi e sapienti, Hermes quelli astuti» e analogamente si deve spiegare il coraggio dei germani, la civiltà dei greci e dei romani, l'industriosità degli egizi, la mollezza dei siri: chi volesse giustificare tali differenze con il caso, negherebbe allora l'esistenza nel mondo della Provvidenza.
Il Dio dell'universo, come ha preposto a ogni popolo un dio nazionale, «con un angelo sotto di sé o un demone o una specie di anime pronte ad aiutare gli spiriti superiori», così «ordinò la confusione delle lingue e la loro dissonanza e volle anche che ci fosse una differenza nella costituzione politica delle nazioni, non per mezzo di un puro ordine, ma creandoci appositamente con questa differenza. Bisognava, cioè, che fin dall'origine fossero insite diverse nature nei diversi popoli».
Dopo la morte, Giuliano divenne archetipo dell'imperatore anti-cristiano e fiorirono leggende su sue presunte persecuzioni e malefatte. Una di queste tramanda l'ordine di Giuliano di bruciare le ossa di san Giovanni Battista, come raffigurato nell'opera Ossa del Battista del pittore olandese Geertgen tot Sint Jans (1485 circa), in cui Giuliano è rappresentato con vesti orientali mentre presiede alla riesumazione e al rogo dei resti del Battista.
Altri presunti martiri di Giuliano sono indicati in Apollonia, in Giovanni e Paolo, in Donato d'Arezzo, in Ciriaco di Gerusalemme, in Artemio e in Andrea Guasconi.
Ora, qual è il dio preposto ai cristiani? Essi, osserva Giuliano, dopo aver ammesso che vi fosse un dio che si prendeva unicamente cura degli ebrei, per bocca di Paolo sostengono che quello è «dio non solo degli ebrei ma di tutte le genti», e hanno così fatto di un dio etnico il Dio dell'universo per indurre i greci ad aggregarsi a loro.
Invece i cristiani non rappresentano nessuna etnia: essi «non sono né ebrei né greci, ma appartengono all'eresia galilea». Infatti, in un primo tempo seguirono la dottrina di Mosè poi, «apostatando, presero una loro via propria», mettendo insieme dagli ebrei e dai greci «i vizi che a questi popoli furono legati dalla maledizione di un demone; presero la negazione degli dei dall'intolleranza ebrea, la vita leggera e corrotta dalla nostra indolenza e volgarità, e osarono chiamare tutto questo religione perfetta». Ne venne fuori «un'invenzione messa insieme dalla malizia umana. Nulla avendo essa di divino, e sfruttando la parte irragionevole dell'anima nostra che è incline al favoloso e al puerile, riuscì a far tenere per veritiera una costruzione di mostruose finzioni».
Che questo dio dei Galilei non possa essere confuso col Dio universale pare a Giuliano provato dal suo operare, descritto nel Genesi: decide di dare ad Adamo un aiuto creando Eva, che si rivela fonte di male; vieta loro la conoscenza del bene e del male, che è «la sola norma e ragione della vita umana», e li scaccia dal Paradiso temendo che diventino immortali: «questo è segno di uno spirito anche troppo invidioso e maligno».
Diversamente spiega Platone la generazione degli esseri mortali: il Dio creatore degli dèi intelligibili affidò a loro la creazione degli uomini, degli animali e dei vegetali perché, se li avesse creati lui stesso, sarebbero stati immortali: «perché dunque siano mortali e questo universo sia veramente completo, occupatevi voi, secondo natura, della costituzione dei viventi, imitando la mia potenza che io misi in atto generandovi». Quanto all'anima, che è «comune agli immortali, è divina e governa in coloro che vogliono seguire voi e la giustizia, io fornirò il seme e il principio. Per il resto voi, intessendo il mortale all'immortale, producete gli animali e generateli, allevateli fornendo loro il nutrimento e quando periscono, riceveteli nuovamente in voi».
A questi dèi intelligibili appartiene anche Asclepio che, «disceso dal cielo in terra, comparve ad Epidauro sotto specie unica e in forma umana; di là, passando in ogni luogo, distese la sua mano salutare [...] egli è ovunque, per terra e per mare; senza visitare nessuno di noi, egli tuttavia guarisce le anime malate e i corpi malfermi».
Asclepio è riferito da Giuliano in opposizione a Gesù, il quale invece è «nominato da poco più di trecento anni, senza che nella sua vita abbia fatto alcunché di memorabile, a meno che non si considerino grandi imprese aver guarito zoppi e ciechi e aver esorcizzato indemoniati nei paesucoli di Betsaida e di Betania».
È però vero che anche Gesù è considerato dai cristiani un dio, ma si tratta di una deviazione dalla stessa tradizione apostolica: «che Gesù fosse dio non osò dirlo né Paolo, né Matteo, né Luca, né Marco, ma solo l'ineffabile Giovanni, quando vide che già molta gente, in molte città di Grecia e d'Italia, era presa da questo contagio».
La cultura ellenica è incomparabilmente superiore a quella giudea, sottolinea Giuliano, e i cristiani a quella solo intendono rifarsi, dal momento che ritengono sufficiente lo studio delle Scritture: invece, superiore nelle arti, nella sapienza, nell'intelletto, nell'economia, nella medicina, «Asclepio guarisce i nostri corpi; ancora Asclepio, con le Muse, Apollo ed Hermes, protettore dell'eloquenza, ha cura delle anime; Ares ed Enio ci assistono in guerra; Efesto si prende cura delle arti e su tutto presiede, insieme con Zeus, Athena vergine Pronoia».
Che i cristiani fossero già dissoluti in origine lo dimostra lo stesso Paolo, quando rivolgendosi ai suoi discepoli, scriveva che «né idolatri, né adulteri, né effeminati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né maldicenti, né rapinatori erediteranno il Regno di Dio. E voi non ignorate queste cose, fratelli, perché anche voi eravate così. Ma siete stati lavati, siete stati santificati nel nome di Gesù Cristo», ammissione, nota Giuliano, dimostrata dal fatto che l'acqua del battesimo, che pure essi avevano ricevuto, come non può guarire da nessuna malattia del corpo, tanto meno può sanare i vizi dell'anima.
I Cesari
I Cesari o I Saturnali sono un dialogo satirico nel quale Giuliano racconta a un amico la favola di una festa data da Romolo nella casa degli dèi, alla quale vengono invitati gli imperatori romani: è un pretesto per delineare di ciascuno i molti vizi e le poche virtù. Il corteo degli invitati è aperto dall'«ambizioso» Giulio Cesare, al quale segue il «camaleontico» Ottaviano, poi Tiberio, grave all'apparenza ma crudele e vizioso, che viene rispedito dagli dèi a Capri; Caligola, «mostro crudele», è gettato nel Tartaro, Claudio è un «corpo senz'anima», mentre Nerone, che pretenderebbe di imitare con la cetra Apollo, è buttato nel Cocito. Seguono lo «spilorcio» Vespasiano, il «lascivo» Tito e Domiziano, legato con un collare; poi Nerva, «bel vecchio», accolto con rispetto, precede l'«omosessuale» Traiano, carico di trofei, e il severo e «ingolfato nei Misteri» Adriano. Entrano anche Antonino Pio, Lucio Vero e Marco Aurelio, accolto con grande onore, ma non Commodo, che viene respinto. Pertinace piange la propria morte, ma neanche lui è proprio innocente; l'«intrattabile» Settimio Severo è ammesso con Geta, mentre Caracalla è scacciato con Macrino ed Eliogabalo. Al convito è ammesso lo «sciocco» Alessandro Severo ma non sono accettati l'«effeminato» Gallieno e suo padre Valeriano; Claudio il Gotico, «anima alta e generosa», è accolto con calore e Aureliano può sedere al banchetto solo per essersi reso benemerito istituendo il culto di Mitra. Accolti Probo, Diocleziano, Galerio e Costanzo Cloro, sono cacciati via Caro, Massimiano, «turbolento e sleale», Licinio e Magnenzio. Entrano, infine, Costantino e i suoi tre figli.
Hermes propone un concorso per giudicare il migliore fra tutti gli imperatori e, dopo che Eracle ha preteso e ottenuto che vi partecipi anche Alessandro Magno, la proposta è accolta. Al concorso d'eloquenza sono ammessi Alessandro, Cesare, Ottaviano, Traiano, Marco Aurelio e Costantino che tuttavia, per il momento, viene tenuto sul limitare della soglia della sala. Prima Cesare e Alessandro cercano di superarsi vantando agli occhi degli dèi le proprie imprese, poi Ottaviano e Traiano esaltano il loro buon governo, mentre Marco Aurelio, alzati gli occhi agli dèi, si limita a dire: «Non ho bisogno di discorsi o competizioni. Se voi non conosceste le cose mie, dovrei istruirvi, ma poiché voi le conoscete perché nulla può esservi nascosto, datemi pure il posto che ritenete che io meriti». Venuto il suo turno, Costantino, che se ne era stato tutto il tempo occhieggiando la Lussuria, pur rendendosi conto della meschinità delle sue imprese, cerca di argomentare i motivi della sua superiorità sugli altri imperatori.
In attesa del verdetto, ognuno è invitato a scegliersi un dio protettore: Costantino «corre incontro alla Lussuria che, accoltolo teneramente e gettatagli le braccia collo, lo adorna di vesti femminili tutte colorate, lo liscia tutto e lo porta dall'Empietà dove si trovava anche Gesù che si aggirava da quelle parti e predicava: – Chi è corruttore, assassino, maledetto, rifiutato da tutti, venga con fiducia: lavandolo con quest'acqua lo renderò puro in un attimo [...]». Marco Aurelio viene dichiarato vincitore e Giuliano, concludendo la satira, si fa dire da Hermes: «Ti ho fatto conoscere il padre Mitra. Tieniti ai suoi comandamenti e avrai nella tua vita un'ancora sicura di salvezza e quando partirai di qui troverai, con buona speranza, un dio benevolo che ti guidi».
Si è cercato di trovare in questo testo le ragioni che avevano già determinato in Giuliano la decisione di muovere guerra alla Persia. Questa sfilata di imperatori è una sorta di riassunto di storia romana e la fortuna ha un ruolo fondamentale nell'assegnare il successo delle iniziative: «solo quando Pompeo fu abbandonato dalla buona sorte, che tanto a lungo l'aveva favorito, e rimase privo di ogni aiuto, tu avesti la meglio su di lui», esclama Alessandro rivolto a Cesare. Ma Roma non ha posto i propri confini fino ai limiti della Terra unicamente con l'aiuto di Tyche, della buona sorte: era stata necessaria la pietas e la scelta a favore di Marco Aurelio conferma che quella è la virtù favorita da Giuliano e dagli dèi.
Concependo la sovranità secondo un principio teocratico, Giuliano doveva affidare soprattutto alla sua pietas i felici risultati delle sue iniziative politiche: nulla poteva contrastarlo finché egli – il protetto di Helios – fosse rimasto fermo nella sua devozione verso gli dei. Ma il grave conflitto con la cittadinanza di Antiochia sembrava aver scosso questa sua convinzione. Nel Misopogon, aveva ironizzato sulla libertà di cui godevano gli Antiocheni parafrasando un lungo passo della Repubblica di Platone, saltando però una frase del filosofo ateniese che lo riguardava direttamente: «uno Stato democratico assetato di libertà, quando trova cattivi coppieri e si spinge troppo oltre inebriandosi di libertà pura, punisce i propri governanti». Probabilmente Giuliano sentì, più o meno oscuramente, di essere stato un «cattivo coppiere».
La scelta di portare guerra alla Persia era stata già stabilita a Costantinopoli: non si trattò perciò di un'iniziativa decisa sul momento per compensare con un successo la cattiva esperienza antiochena. Ma in quell'impresa – un'impresa quasi impossibile, riuscita solo a un Alessandro Magno – egli mise in gioco tutto se stesso allo scopo di riacquistare la fiducia in sé: egli doveva riuscire, e per riuscire doveva essere Alessandro. Con l'alienazione della propria identità, Giuliano perdeva anche il contatto con la realtà «fino ad estraniarsi completamente dal proprio ambiente e dal proprio tempo. All'iniziale perdita di sicurezza fece seguito un'estrema sopravvalutazione delle proprie capacità, che distrusse il suo senso critico e lo portò a ignorare i consigli altrui. Pochi passi lo separavano ormai dalla hýbris (tracotanza)».
Nella classicità le figure storiche che avevano compiuto grandi imprese erano assimilate di volta in volta a dèi (theòi), eroi (héroes) o semidei (hemìtheoi), un prodotto della discesa della divinità sulla terra, o epifania, che Giuliano, riprendendo Plotino e Giamblico, indica come «pròodos», la processione dal cielo alla terra compiuta da Asclepio, generato da Zeus e manifestato tra gli uomini per mezzo dell'energia vivificatrice di Helios.
Dioniso, Eracle e Achille, quali figure paradimatiche ed esempi da imitatare, avevano esercitato una grande richiamo su Alessandro Magno e Cesare, ispirandoli a grandi imprese. Il primo riuscì a portare a compimento la conquista del Medio Oriente, il secondo morì mentre stava preparando la guerra contro i Parti. In entrambi i casi le imprese furono anche il prodotto della volontà di realizzare un mito, di dare concretezza all'epifania e nel progetto alessandrino Alessandro-Achille-Eracle-Dioniso sono le diverse persone di un'unica natura: quella divina.
A Dioniso e ad Eracle Giuliano viene equiparato da Temistio di Costantinopoli, e Giuliano gli scrive che «tu hai reso più grande il mio timore e mi hai mostrato che l'impresa è in tutto più ardua, dicendo che dal dio sono stato assegnato al medesimo posto in cui precedentemente si trovarono Eracle e Dioniso, i quali erano filosofi e al contempo regnarono e ripulirono quasi tutta la terra ed il mare dal male che li infestava». Anche Libanio paragonò Giuliano ad Eracle, e per Ammiano Giuliano era «vir profecto heroicis connumerandus ingeniis».
Lo stesso Giuliano nell'orazione Contro il cinico Eraclio associa Mitra ad Eracle, guidato nelle sue imprese da Athena Pronoia, il salvatore del mondo e quindi interpreta la propria missione, a imitazione di quel modello, in chiave esoterica come mediatore e «salvatore del mondo abitato». Eracle e Attis, partendo da una condizione semidivina, giungono a realizzare la perfetta unione con il divino e l'anima di Eracle, una volta liberata dall'involucro carnale, ritorna integra nella totalità del Padre. La guerra assume l'aspetto di una missione purificatrice della terra e del mare affidata dagli dei a Eracle e Dioniso. In tale contesto matura il progetto di conquista della Persia in quanto adeguamento a una volontà divina già stata rivelata e di cui si trova traccia nell'Eneide di Virgilio, che così interpretava l'espansionismo di Roma.
Ad Antiochia: il «Misopogon»
All'avvicinarsi del solstizio d'estate Giuliano, respinti i consigli di chi avrebbe voluto che egli si occupasse dei goti, lasciò Costantinopoli muovendosi lentamente in direzione della Siria. Era da queste frontiere che ormai da secoli si profilava la maggiore minaccia per l'Impero, quella dei persiani, i nemici mai vinti dai Romani, che due anni prima, al comando di Sapore II avevano messo in fuga le legioni di Costanzo II e conquistato Singara e Bezabde. Solo la notizia dell'arrivo di un nuovo imperatore sulle rive del Bosforo, preceduto dalla fama delle vittorie ottenute sui germani, aveva potuto arrestare l'ambizioso Re dei Re sulle rive dell'Eufrate, in attesa forse di comprendere l'effettivo valore di quel nuovo avversario e di auspici favorevoli che lo spingessero a riprendere l'avanzata.
Da parte sua, Giuliano era convinto che gli auspici non potessero essergli più favorevoli: il teurgo Massimo aveva interpretato oracoli che lo designavano redivivo Alessandro, destinato a ripeterne le gesta di distruttore dell'antico Impero persiano, a raggiungere da dominatore quelle terre da cui proveniva il culto di Mitra, il suo nume tutelare, a eliminare una volta per tutte quella storica minaccia, e a fregiarsi del titolo di «vincitore dei persiani».
Giuliano attraversò la Calcedonia e si fermò a Larissa, dove ancora si poteva vedere la tomba di Annibale. Giunto a Nicomedia, si rese conto delle distruzioni provocate dal terremoto dell'anno prima, cercò di alleviare con elargizioni le difficili condizioni dei suoi abitanti e rivide alcuni amici. Andò poi a Nicea e ad Ancyra, dove una colonna ricorda ancora il suo passaggio, e raggiunse Pessinunte per pregare Cibele nel suo famoso santuario. Qui due cristiani vilipesero gli altari della dea e Giuliano abbandonò la città, sdegnato da tanto affronto. Ritornò ad Ancyra e di qui a Tiana, in Cappadocia, dove volle incontrare il filosofo Aristossene, dopo averlo espressamente invitato in modo da poter finalmente vedere, come scrisse, «un greco puro. Finora ho visto soltanto gente che si rifiuta di fare sacrifici o persone che avrebbero voluto offrirli, ma che non sapevano nemmeno da che parte cominciare». Incontrò anche Celso, il governatore della Cilicia, con il quale proseguì per Tarso e di qui raggiunse Antiochia.
Antiochia accolse festosamente Giuliano, che rivide e volle con sé Libanio, vi celebrò le feste Adoniae e, per fare un piacere agli antiochesi, amanti delle feste e degli divertimenti, ordinò contro le sue abitudini uno spettacolo all'ippodromo, diminuì le tasse di un quinto, condonò quelle arretrate non pagate, aggiunse 200 curiales, scelti tra i più abbienti, nel Consiglio cittadino, in modo che le spese pubbliche fossero meglio ripartite e concesse terreni demaniali alla coltivazione dei privati.
Ma l'armonia tra l'austero imperatore e gli abitanti della frivola città era destinata a spezzarsi. La sua ostilità agli spettacoli licenziosi, la sua devozione agli dei e i frequenti sacrifici non potevano essere graditi in una città a maggioranza cristiana. Anche il calmiere imposto ai prezzi degli alimentari non ottenne i risultati sperati, perché il ribasso dei prezzi irritò i commercianti e fece diradare i prodotti nei mercati, danneggiando tutti; allo scarseggiare del grano, al cui prezzo impose la diminuzione di un terzo, Giuliano provvide a sue spese con grandi importazioni dall'Egitto, ma gli speculatori ne fecero incetta, rivendendolo fuori città a costo maggiorato o lasciandolo nei propri depositi, in attesa di un rialzo del suo prezzo.
Presto cominciarono a circolare epigrammi che deridevano il suo aspetto, che appariva bizzarramente trascurato per essere quello dell'uomo più potente e temuto, la sua barba fuori moda, i capelli arruffati, il comportamento per nulla ieratico anzi, stranamente alla mano, «democratico», le abitudini austere, la mancanza di senso dell'umorismo, una serietà che appariva eccessiva ai loro occhi, la sua fede pagana.
Del resto, lo stesso Giuliano sembrò mutare nel corso della sua permanenza ad Antiochia. Secondo Ammiano Marcellino, abitualmente egli lasciava moderare dagli amici e dai consiglieri il suo carattere emotivo che lo trascinava all'impulsività; con l'inizio dei preparativi della campagna militare persiana e all'approssimarsi della spedizione, per garantirsi il successo aumentò i riti propiziatori: «Inondò gli altari con il sangue di innumerevoli vittime, giungendo a sacrificare fino a cento buoi per volta, insieme a greggi e a candidi uccelli provenienti da ogni parte dell'Impero [...] provocando un esborso di denaro inusitato e onerosissimo [...] chiunque si dichiarasse, a torto o a ragione, esperto nelle pratiche divinatorie, era ammesso, senza alcun rispetto per le regole prescritte, a consultare gli oracoli [...] si badava al canto e al volo degli uccelli e a ogni altro presagio, e si cercava con ogni mezzo di prevedere gli eventi».
Nei pressi della città si stendeva, in una valle ricca di boschi e di acque, il sobborgo di Dafne, dove sorgeva un santuario dedicato ad Apollo, rappresentato da una statua d'avorio scolpita da Briasside, e lambito dalla fonte Castalia, che la leggenda sosteneva essere parlante. Fatto chiudere da Costanzo e andato in rovina, vi era stata costruita una cappella dove erano stati sepolti i resti del vescovo Babila. Giuliano, che prima ancora di arrivare ad Antiochia aveva chiesto allo zio Giulio Giuliano di restaurare il tempio, quando in agosto cadde la ricorrenza della festa del dio, si recò a Dafne ed ebbe l'amara sorpresa di vedere che il Consiglio municipale, formato in gran parte di cristiani, non aveva preparato alcun festeggiamento. Neanche le interrogazioni votive di Giuliano ottenevano risposta dalla statua del dio o dalla fonte Castalia, finché il teurgo Eusebio credette di comprenderne la ragione: la presenza del sepolcro del vescovo era responsabile del silenzio degli dei. I resti di Babila furono così riesumati, con grande scandalo dei cristiani, e fatti seppellire ad Antiochia.
Poco tempo dopo, nella notte del 22 ottobre il tempio di Dafne andò completamente distrutto da un violento incendio. Le indagini volte a scoprire i responsabili non approdarono a nulla ma Giuliano si convinse che fossero stati i cristiani a distruggere il santuario e per reazione fece chiudere al culto la cattedrale di Antiochia.
Le vicende che opposero Giuliano ai cittadini di Antiochia, o almeno ai notabili cristiani della città, sono da lui esposte nello scritto Misopogon (Il nemico della barba), composto nel gennaio o febbraio del 363. È uno scritto che sfugge a una precisa classificazione secondo i tradizionali canoni letterari. Gli accenni autobiografici, nei quali ricorda l'educazione rigorosa ricevuta da bambino e la vita di rude semplicità che lo fecero apprezzare dalle popolazioni barbariche nel periodo trascorso in Gallia, intendono sottolineare la incompatibilità della sua persona con una città come Antiochia nella quale invece «si fa baldoria fin dal mattino e si gozzoviglia la notte».
Questo comportamento è l'espressione e il risultato della libertà, una libertà che Giuliano non intende reprimere, perché ciò verrebbe a contrasto con i propri principi democratici: a contrastare con i principi di Giuliano è l'utilizzo che gli Antiocheni fanno della libertà, che ignora i canoni dell'equilibrio classico e della saggezza ellenica, una libertà che rinnega «ogni servitù, prima quella degli dei, poi quella delle leggi, e terza, quella dei custodi delle leggi».
Gli Antiocheni videro in lui un personaggio bizzarro, portatore di valori desueti e perciò un sovrano anacronistico, reagendo così alle sue iniziative, anche quelle che intendevano favorirli, ora con indifferenza, ora con ironia, ora con disprezzo: «mi ha in odio la maggioranza, per non dire la totalità del popolo, che professa l'incredulità negli dèi e mi vede attaccato ai dettami della religione patria; mi hanno in odio i ricchi, a cui impedisco di vendere ogni cosa ad alto prezzo; tutti poi, mi odiano a motivo dei ballerini e dei teatri, non perché io li privi di queste delizie, ma perché a me di queste delizie importa meno dei ranocchi delle paludi».
Ma Giuliano sembra credere che il comportamento degli Antiocheni sia dettato unicamente dalla ingratitudine e dalla malvagità: i suoi provvedimenti presi per alleviare la situazione economica della città sembravano voler «capovolgere il mondo, perché con tale genìa l'indulgenza non fa che favorire e accrescere l'innata malvagità». E allora, «di tutti i mali sono io l'autore, perché ho posto benefici e favori in animi ingrati. La colpa è della mia stupidità, non della vostra libertà».
Eugenio Caruso
- 19 febbraio 2018