I maggiori benefici e costi del dinamismo
Vi sono benefici particolarmente tipici del dinamismo? Le questioni che gravitano attorno al capitalismo oggi riguardano l’ampio spettro delle conseguenze del suo alto dinamismo. Il maggior beneficio di un’economia innovativa è comunemente considerato essere un più alto livello di produttività, e quindi, in generale, più ore lavorate e una migliore qualità della vita.
C’è una grande verità, in questa considerazione, a dispetto di tutti i distinguo che si possano fare. Una gran parte dell’impressionante crescita della produttività cui il mondo ha assistito dagli anni venti ad oggi può essere ricondotta ai nuovi prodotti e alle nuove strategie d’impresa sviluppate e lanciate in economie che, tanto o poco, potevano essere considerate relativamente capitalistiche. Lungo la strada c’è stato da fare anche per gli ingegneri, ma il processo è stato guidato da imprenditori.
C’è tuttavia almeno una domanda alla quale bisogna dare risposta. Non è che la produttività, dopo un secolo e mezzo di rapida crescita sia arrivata ad un punto di crescita molto lenta o addirittura di flessione?
D.H. Lawrence, scrivendo di Benjamin Franklin, parlava della “missione dell’America che non finisce mai”. Quale sia la risposta, tuttavia, è importante notare che gli avanzamenti in produttività, che generalmente fanno crescere i salari, danno la possibilità a persone a basso salario di evitare lavori tediosi, usuranti o pericolosi, per svolgere un lavoro più interessante e formativo.
Certamente, i livelli di produttività in Paesi relativamente piccoli dipenderanno sempre di più dalle innovazioni sviluppate altrove. Si potrebbe persino arrivare a sospettare che il mercato domestico è talmente piccolo in un paese tanto miniscolo come l’Islanda che, persino in termini pro capite, c’è solo un numero modestissimo d’innovazioni sviluppate all’interno di quell’economia in grado di produrre un guadagno di produttività soddisfacente, e quindi un ritorno adeguato. Di fatto, la maggior parte delle economie continentali, incluse le più grandi, si è accontentata di veleggiare sottovento ad altre economie che invece fanno la parte del leone, nelle innovazioni del mondo. Il rimpianto economista di Harvard, Zvi Griliches, ha commentato con approvazione che, così facendo, gli europei dimostrano di essere “davvero svegli”.
Io ho una prospettiva differente. Da una parte, è un buon affare essere una forza innovativa nella “economia globale”. La globalizzazione ha diminuito l’importanza della scala così come della distanza. Nella minuscola Danimarca il mondo è subito a portata di mano: essa può aprire gli occhi sui mercati degli Stati Uniti, dell’UE e ovunque.
L’Islanda è entrata nel settore bancario e biogenetico europeo. La Francia fa tutto questo da lungo tempo e potrebbe farlo ancora di più. Ma ciò potrebbe accadere se essa non isolasse così nettamente le sue decisioni sul fronte dell’innovazione dalle valutazioni dei mercati finanziari, compreso il mercato azionario, come ha fatto per esempio nel caso dell’Airbus. Gli Stati Uniti sono evidentemente di già nel business dell’innovazione globale. A oggi, vi è un adeguato tasso di ritorno che ci si può aspettare dall’“investire” nell’ideazione, nello sviluppo e nel marketing d’innovazione a vantaggio dell’economia globale e tale ritorno fa il paio con il ritorno dell’investire in impianti ed equipaggiamenti, software ed altro capitale d’impresa.
Voglio anche enfatizzare però quello che i tra benefici del dinamismo mi sembra però essere il più importante. Istituzionalizzare un alto livello di dinamismo, così che l’economia sia infiammata dalle nuove idee degli imprenditori, serve anche a trasformare il posto di lavoro, nelle imprese che sviluppano innovazione e anche nelle imprese che, per esteso, hanno a che fare con le innovazioni. Le sfide che sorgono dallo sviluppare una nuova idea e nel garantire la sua buona ricezione da parte del mercato danno alla forza lavoro elevati livelli di stimolazione mentale, la capacità di risolvere problemi e dunque conferiscono al singolo lavoratore un senso d’impegno e crescita personale. Ricordate che un individuo che lavori da solo non può facilmente creare il continuo flusso di nuove sfide. Serve un villaggio!, o preferibilmente un’intera società. L’idea che la gente abbia bisogno di sviluppo intellettuale e capacità di risolvere problemi ebbe origine in Europa: torna alla mente Aristotele, che scrive dello “sviluppo dei talenti”, quindi il rinascimentale Benvenuto Cellini che si illumina per i traguardi raggiunti, e il grande Cervantes, che evoca vitalità e cambiamento.
Alfred Marshall ha osservato che il lavoro è nei pensieri del lavoratore per la maggior parte del giorno. E Gunnar Myrdal nel 1933 scrisse che sarebbe presto venuto il tempo in cui più soddisfazione sarebbe arrivata dal lavoro che dal consumo. Questa visione, talvolta chiamata vitalismo, è ora fortemente associata con la scuola del pragmatismo filosofico fondata dall’americano William James, alla quale appartenevano Henri Bergson in Francia e John Dewey negli Stati Uniti. Lo psicologo americano Abraham Ma Slow ha parlato di realizzazione di sé, così come John Rawls utilizza il termine autorealizzazione, per riferirsi all’emergente capacità di dominare un mestiere da parte di una persona, svelando pian piano il proprio obiettivo.
L’applicazione americana di questa prospettiva aristotelica è la tesi secondo cui la maggior parte dell’autorealizzazione nelle nostre società, se non tutta, può venire soltanto dalla carriera. Oggi non possiamo partire alla volta dei mulini a vento, ma possiamo intraprendere le sfide di una carriera. Se una carriera ricca di sfide non è la migliore speranza per l’autorealizzazione, che cosa può esserlo? Persino per essere una buona madre, aiuta il fatto di avere esperienza di un lavoro fuori casa.
Devo menzionare un beneficio “derivato” del dinamismo, che viene dai suoi effetti sulla produttività e l’autorealizzazione. Un’economia più innovativa tende a dedicare più risorse agli investimenti di tutti i tipi, in nuovi dipendenti e nuovi consumatori, così come pure in nuovi uffici e spazi di lavoro. E nonostante questo possa apparire come uno spostamento di risorse dal settore dei beni di consumo, esso si realizza attraverso il reclutamento di nuovi partecipanti alla forza lavoro. Inoltre, il risultante aumento d’impegno dei lavoratori serve anche per diminuire il tasso di abbandoni e quindi a rendere possibile una riduzione del tasso “naturale” di disoccupazione. Quindi, un alto dinamismo tende a portare una prosperità economica pervasiva all’economia, costruendo su aumenti della produttività e su tutto questo processo di autorealizzazione.
È vero, si tratta di un processo che può non raggiungere il suo picco ogni mese o anno.
Esattamente come l’artista non crea tutto il tempo, ma semmai in alcuni determinati episodi e “stacchi”, così l’economia dinamica ha una volatilità ad alta frequenza e può attraversare ampie turbolenza. Forse però questa volatilità non è solamente normale, ma anche produttiva dal punto di vista della creatività e dunque, in ultima analisi, della realizzazione. D'altronde Shumpeter ci ha lasciato l'insegnamento della "distruzione creatrice", alludendo al drastico processo selettivo, nel quale, dopo una recessione, molte aziende spariscono, altre ne nascono, e altre si rafforzano.
So bene di aver fatto un ritratto idealizzato del capitalismo: la realtà negli Stati Uniti e altrove è assai meno entusiasmante. Ma nondimeno possiamo chiederci se vi siano delle prove a vantaggio di quest’opinione favorevole del dinamismo. Noi troviamo prove di maggiori benefici del dinamismo (o di benefici che possiamo eventualmente imputare al dinamismo) in economie che sono relativamente capitalistiche, oppure nelle economie continentali per come sono attualmente strutturate? Nei tre maggiori paesi d’Europa, com’è ben noto, la produttività del lavoro per ora è inferiore che negli Stati Uniti. La partecipazione della forza lavoro è inoltre generalmente inferiore. E vi è ora una nuova evidenza empirica: il World Values Survey indica che i lavoratori del Continente trovano minore soddisfazione nel lavoro e traggono meno orgoglio da quello che fanno nella loro occupazione.
Il dinamismo ha il suo rovescio. Esso crea uno stato di imprevedibilità che è lontano dagli schemi di crescita del bucolico equilibrio della teoria neoclassica, nel quale il futuro è essenzialmente cosa nota e ogni cosa è ben compresa, tranne uno o due termini di disturbo.
Lo stesso dinamismo capitalista che contribuisce alla desiderabilità dei lavori contribuisce alla loro precarietà. La forte possibilità di una caduta generale può causare ansietà.
Ma bisogna mettere le cose in prospettiva. Persino un’economia di socialismo di mercato può essere vibrante: in verità, le economie continentali sono anch’esse vittime di ampi alti e bassi. Anzi, sono le economie corporative che hanno sofferto le peggiori oscillazioni negli ultimi anni. Negli Stati Uniti e nel Regno Unito, i tassi di disoccupazione sono stati regolari in modo impressionante per quindici o vent’anni. Potrebbe essere il caso invece che quando le economie continentali sono giù, la povertà del loro dinamismo rende loro più difficile trovare qualcosa di nuovo attraverso il quale tornare a galla.
Le economie relativamente più capitalistiche soffrono dall’incompleta inclusione dei più svantaggiati. Ma questo è un difetto della politica, non del capitalismo. Inoltre, non è vero che le economie relativamente più capitalistiche siano chiaramente peggiori di quelle continentali sotto questo aspetto. Nelle prime, i lavoratori a basso salario hanno un migliore accesso al mercato del lavoro, il che è di grande valore per essi rispetto ai loro sforzi di essere “modelli di ruolo” nelle loro famiglie e nella comunità. In ogni caso, noi possiamo sperare di risolvere il problema.
Come mai, quindi, se le sue difficoltà sono così esagerate, il capitalismo è tanto biasimato nell’Europa occidentale? In parte, potrebbe essere che alcune sue caratteristiche sono viste da taluni europei come moralmente errate, nello stesso modo in cui il controllo delle nascite, il nucleare o gli sweatshop sono considerati semplicemente “sbagliati” a dispetto delle conseguenze che derivano dal proibirli.
È evidente che quanti di recente hanno protestato nelle strade contro la globalizzazione hanno associato il mondo dell’impresa con la ricchezza consolidata: a loro avviso, dare più spazio all’impresa avrebbe fatto crescere i privilegi della ricchezza di chi ricco lo è già.
Si fa una gran confusione associando il “capitalismo” con il potere e la ricchezza già stabilizzati. Il capitalismo scolastico che ci viene descritto da Schumpeter nel 1912 e da Hayek nel 1930 consiste nell’apertura dell’economia a nuovi comparti industriali, nell’apertura di questi settori a nuove imprese, e nell’apertura delle vecchie imprese esistenti a nuovi proprietari e nuovi manager. Esso è inseparabile da un adeguato livello di concorrenza.
Sarebbe antistorico dire che il capitalismo in questo senso scolastico del termine non esista e non possa esistere. Scrivendo sull’America, Alexis de Tocqueville si entusiasma alla vista del relativamente “puro” capitalismo che vi ritrova. Il maggiore impegno degli americani nell’autogoverno, la più ampia diffusione dell’istruzione di base e la maggiore eguaglianza di opportunità incoraggiano al tempo stesso la comparsa dell’ “uomo d’azione” e il talento di chi sa “cogliere l’opportunità del momento”.
Voglio concludere sostenendo che generare più dinamismo attraverso iniezioni di piùcapitalismo aiuta la giustizia economica.
Tutti ci sentiamo bene nel vedere che le persone sono libere di seguire i propri sogni. Tuttavia, credo che Hayek e Ayn Rand andassero troppo in là facendo di questa libertà “un assoluto”, a dispetto delle conseguenze. Nel giudicare se il sistema economico di una nazione sia accettabile o meno, le conseguenze per le prospettive di realizzazione della sua popolazione sono anch’esse importanti. Dacché l’economia è un sistema nel quale le persone interagiscono, gli sforzi di alcuni possono danneggiare le prospettive (e la riuscita) di altri. Quindi una giustificazione persuasiva di un capitalismo ben funzionante deve essere fondata anzitutto sulle sue conseguenze, non soltanto su quelle che chiamiamo “libertà”.
Per sostenere che le conseguenze del capitalismo siano giuste abbiamo bisogno ovviamente di una qualche concezione della giustizia economica. Io mi riconosco più o meno nella concezione di giustizia economica elaborata da John Rawls nel suo capolavoro del 1971. In ogni tipo di organizzazione dell’economia, i partecipanti avranno un risultato ineguale rispetto al livello della loro autorealizzazione, sulla base di quanto sono riusciti a procedere nella loro crescita personale. Un’organizzazione che lascia coloro che hanno avuto un esito peggiore della vita in condizioni peggiori di quelle di cui godrebbero in un’altra organizzazione sostenibile, è ingiusta. Così, un nuovo modello organizzativo che innalzasse gli esiti di alcuni ma a spese della riduzione degli esiti di coloro che stanno peggio non sarebbe giustificato. D’altra parte, un alto punteggio nella vita è giustificato soltanto se non danneggia gli altri. “L’invidia è il vizio dell’umanità”, disse Kant, che Rawls grandemente ammirava.
Quale sarebbe la conseguenza, da questo punto di vista rawlsiano, del liberare gli imprenditori all’interno dell’economia? Nel caso classico, al quale Rawls riservò la sua attenzione, il peggior esito è sempre quello dei lavoratori col salario più basso, che Rawls chiamava “i meno avvantaggiati della società”: la loro autorealizzazione consiste perlopiù nello sposarsi, nel far crescere i figli e nel partecipare alla vita della comunità, ed è tanto maggiore quanto più alto è il loro salario. Dunque, se un maggior dinamismo creato dalla liberazione di imprenditori e finanziari nell’economia tende ad aumentare la produttività, come ho sostenuto, e se ciò a sua volta spinge verso l’alto i salari più bassi e comunque non li abbassa, allora esso non può essere considerato ingiusto. C’è qualcuno che dubita che gli scorsi due secoli di innovazione commerciale abbiano alzato i salari più bassi e così pure tutti gli altri?
Tuttavia, il tono qui sarebbe sbagliato. Per citare ancora Kant, le persone non possono essere considerate mezzi per i vantaggi di altri. Immaginiamo che si prevedesse che il salario dei lavoratori meno pagati si ridurrà in futuro a causa delle innovazioni concepite dagli imprenditori. Bisognerebbe allora che coloro il cui sogno è autorealizzarsi attraverso una carriera imprenditoriale non seguissero i propri sogni? Gli aspiranti ballerini non dovrebbero avere il permesso di esercitarsi ed esibirsi, cercando di raggiungere il proprio sogno, se i salari più bassi dovessero scendere?
Per rispondere, dobbiamo uscire dal classico modello di Rawls, nel quale il lavoro è una cosa che riguarda solo il denaro. Dobbiamo riconoscere che in un’economia nella quale gli imprenditori e i ballerini non possono realizzare i propri sogni di autorealizzazione, sono proprio loro quelli che avrebbero l’esito peggiore in termini di autorealizzazione, quale che sia il tipo di lavoro che si troverebbero a svolgere, e questo conta, che essi siano o meno nati “meno avvantaggiati”. Quindi, persino se le loro attività avessero luogo a spese dei lavoratori meno pagati, una visione rawlsiana della giustizia, in questo senso esteso, richiede che agli imprenditori e ai ballerini vengano date opportunità a sufficienza per poter avere un esito migliore in termini di autorealizzazione, che sia almeno uguale a quello dei lavoratori meno pagati, e senz’altro più alto, in caso tali lavoratori non fossero danneggiati dalla presenza di imprenditori e ballerini.
Anche in questo caso, quindi, l’introduzione del dinamismo imprenditoriale serve ad innalzare quelli che in una prospettiva rawlsiana vanno considerati gli esiti più bassi.
Il “capitalismo reale” è diverso da questo modello di capitalismo ben funzionante, vi sono monopoli tanto grandi che non si rompono, cartelli nascosti, fallimenti del regolatore e corruzione politica. Con le sue stesse innovazioni il capitalismo pianta i semi della sua incrostazione col potere costituito (Peter Martin, nel suo ultimo editoriale, ha suggerito di spezzettare tutte le imprese dopo due decenni di vita).
Tali deviazioni pesano molto sui guadagni, in particolar modo sui salari dei meno avvantaggiati, e valgono una brutta reputazione al capitalismo. Ma insisto: sarebbe un non sequitur rinunciare ai liberi imprenditori e agli investitori finanziari così come al continuo flusso del dinamismo, solamente perché i frutti del dinamismo sono inferiori di quanto sarebbero in un sistema meno imperfetto.
Ne concludo che il capitalismo è giustificato, normalmente per i benefici attendibili per i lavoratori meno pagati ma, anche in assenza di quelli, per l’ingiustizia che seguirebbe dal togliere a coloro che hanno una vocazione imprenditoriale (così come altre persone di temperamento creativo) la piena opportunità di esprimere se stessi.».
Edmund S. Phelps
Io ritengo che Phelps, come la maggior parte dei professori universitari sia innammorato della sua teoria dell'esistenza di due economie differenziate tra Europa e Usa. Alcuni aspetti del suo lavoro sono condivisibili, ma l'esperienza mi insegna che, specialmente tra le piccole e medie imprese, non c'è alcuna differenza di comportamenti rispetto all'innovazione tra le due economie. La teoria di Phelps può, forse, adattarsi alla grande impresa.
Eugenio Caruso
20/09/2007
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