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Seneca. L'arte di non adirarsi.


LIBRO III
1. Prologo: l’ira passione repentina

[1] Ora tenteremo di fare, o Novato, la cosa che hai desiderato più di tutte: sradicare l’ira dalle nostre anime o, almeno, frenarla e trattenerne gli impulsi. È una cosa che, a volte, si deve fare palesemente e a viso aperto, quando lo permette la minor forza del male, a volte, di nascosto, quando essa è troppo accesa e ogni ostacolo la esaspera e accresce. È importante valutare quali forze ha e quanto integre, se è da colpire e respingere, o se dobbiamo cederle, al primo infuriare della tempesta. [2] Si deve deliberare in base al comportamento di ciascuno: alcuni si lasciano vincere dalle preghiere, alcuni attaccano e incalzano chi si fa piccolo di fronte a loro; alcuni li placheremo spaventandoli, altri abbandonano l’impresa in seguito a un rimprovero, altri per averla dovuta confessare, altri perché se ne vergognano, altri con il passare del tempo, rimedio lento per un male precipitoso, al quale dobbiamo ridurci solo come ad una scelta estrema. [3] Veramente tutte le altre passioni ammettono dilazioni e si possono curare con respiro, invece la violenza di questa, che è tutta eccitazione e trascina se stessa, non procede per fasi successive, ma è già completa al suo primo insorgere; poi non stimola gli animi al modo degli altri vizi, ma li aliena, li rende incapaci di dominare e desiderosi del male, anche a costo d’esserne coinvolti, e non infuria soltanto sui bersagli prestabiliti, ma su tutto quanto incontra sul suo cammino. [4] Gli altri vizi spingono gli animi, l’ira li trae a precipizio. Anche quando non è possibile resistere alle proprie passioni, è però possibile che le passioni stesse si fermino: questa, invece, non diversamente dai fulmini, dalle procelle e da tutti gli altri fenomeni che sono inarrestabili, perché non camminano ma cadono, intensifica man mano la sua forza. [5] Gli altri vizi si allontanano dalla ragione, questa dal senno; gli altri vizi hanno inizi blandi ed una crescita che sfugge alla nostra attenzione; nell’ira, gli animi si buttano a capofitto. Non ci incombe dunque nessun’altra realtà più insensata e schiava delle sue stesse forze, superba in caso di successo, furibonda in caso di insuccesso, la quale, poiché non si lascia fiaccare neppure dalla sconfitta, quando il caso le ha sottratto l’avversario, rivolge i suoi morsi su se stessa. E non importa quanto grande sia il suo momento iniziale: dagli sfoghi più leggeri, sfocia nei più gravi.
2. L’ira delle masse
[1] Non le sfugge nessuna età, non fa eccezione per nessuna razza umana. Ci sono popolazioni che, grazie alla loro povertà, non conobbero il fasto; altre, continuamente travagliate e nomadi, sono sfuggite alla pigrizia; quelle che hanno costumi primitivi e vivono la vita dei campi, non conoscono l’inganno, la frode e tutti quei mali che nascono nel foro: ma non c’è nazione che l’ira non istighi. Fa sentire il suo potere tanto tra i Greci, quanto tra i Barbari; non è meno perniciosa per chi vive nel rispetto delle leggi, che per chi misura il diritto con il metro della forza. [2] Infine, tutti gli altri vizi trascinano persone singole, ma questo è il solo che, talvolta, riesce a scaturire nell’ambito dello Stato. Mai un popolo intero s’è sentito bruciare d’amore per una sola donna, né un’intera città ha riposto la sua speranza nel denaro o nel guadagno; l’ambizione prende gli uomini ad uno ad uno, la prepotenza non è vizio di popolo. [3] Ma all’ira, si è andati tante volte in schiera compatta: uomini e donne, vecchi e fanciulli, dignitari e volgo si sono trovati d’accordo, e un’intera folla, sollevata da pochissime parole, ha preceduto anche chi la sollevava: si è corsi immediatamente alle armi e al fuoco e si sono dichiarate guerre ai popoli vicini, o le si sono combattute contro i concittadini.
3. Nuova confutazione della dottrina di Aristotele sull’ira
[1] “È fuori dubbio”, mi dici “che si tratta di una forza immensa ed esiziale; mostraci dunque come la si deve guarire”. Sì, ma, come ho detto nei libri precedenti, Aristotele si erge a difesa dell’ira e ci proibisce di liberarcene con un taglio netto: dice che è sprone della virtù e che, se la togliamo di mezzo, l’animo resta disarmato e diventa pigro ed indifferente di fronte alle grandi imprese. [2] Dunque è necessario denunciarne la bruttezza e bestialità e mettere davanti agli occhi quanto sia mostruoso un uomo furente contro un altro uomo e con quanto impeto si precipiti a recar danno, anche con danno proprio, e a buttare a fondo cose che non possono venir sommerse, se non trascinando chi le sommerge.
4. Nuova descrizione dell’irato e conclusione del prologo
[1] Ammesso che ci siano dubbi sugli altri aspetti negativi, certo nessuna passione si presenta con volto peggiore, e lo abbiamo già descritto nei libri precedenti: aspro e pungente, ed ora pallido per il ritirarsi e rifuggire del sangue, ora rossastro, perché tutto il calore e la vitalità si riversano sul volto, o quasi insanguinato, per il rigonfiarsi delle vene; gli occhi, intanto, ora tremano e sembrano voler balzar fuori, ora si fissano in una sola direzione e restano immobili. [2] Aggiungi i denti, che s’urtano tra di loro come volessero divorare qualcuno e non mandano altro suono che quello dei cinghiali, quando arrotano le loro zanne per affilarle; aggiungi lo schioccare delle dita, quando le mani si tormentano a vicenda, ed il petto battuto ripetutamente, il respiro affannoso ed i gemiti che sgorgano dal profondo, il corpo che non sa star fermo, le parole inarticolate, spezzate dalle esclamazioni, le labbra che tremano e talora si richiudono, emettendo un sibilo minaccioso. [3] L’aspetto delle belve, per Ercole, è meno brutto di quello di un uomo ribollente d’ira, quando le tormenta la fame o un ferro loro conficcato nelle viscere, anche nel momento in cui, moribonde, rivolgono l’ultimo morso contro il cacciatore. E se hai voglia di ascoltare voci e minacce, pròvati ad ascoltare le parole di un animo straziato.
5. Schema generale della trattazione e illustrazione del primo punto: come non adirarsi
[1] “Dove vuoi arrivare” mi chiedi “con questo discorso?”. A far sì che nessuno si ritenga immune dall’ira, poiché la natura provoca alla crudeltà ed alla violenza anche le persone calme e tranquille. Come la robusta costituzione e l’attenta cura della salute non giovano a nulla contro la pestilenza, che colpisce indiscriminatamente i deboli e i robusti, così è esposto al pericolo dell’ira tanto chi è abitualmente inquieto, quanto chi è calmo ed arrendevole, ma, per questi ultimi, essa comporta maggior vergogna e pericolo, perché opera in essi maggiori cambiamenti. [2] Ma poiché il primo punto è il non adirarsi, il secondo, deporre l’ira, il terzo, porre rimedio anche all’ira degli altri, dirò, in primo luogo, come possiamo non incorrere nell’ira, poi come possiamo liberarcene, infine come è possibile trattenere un adirato, placarlo e riportarlo all’uso del senno. [3] Riusciremo a non adirarci, se prenderemo in osservazione tutti gli aspetti negativi dell’ira e la valuteremo nel modo giusto. Dobbiamo metterla sotto accusa davanti a noi stessi ed emettere la condanna; le sue male azioni debbono essere esaminate a fondo e trascinate in pubblico giudizio.
6. Bisogna esser superiori alle provocazioni e non accollarsi troppi impegni
[1] Non c’è prova più sicura di grandezza del non lasciarsi aizzare, qualunque cosa possa accadere. La parte superiore del cielo, la più ordinata, quella vicina alle stelle, non si lascia addensare in nube, spingere in tempesta, agitare in turbine; è libera da ogni turbamento: sono le zone più basse che scagliano i fulmini. Allo stesso modo, un animo sublime, sempre sereno e posto in un soggiorno tranquillo, soffocando dentro di sé tutto ciò che può concentrarsi in ira, rimane moderato, degno di venerazione e in bell’ordine: di tutto ciò, nulla trovi nell’uomo adirato. [2] Chi infatti, una volta che s’è arreso al dolore ed è furibondo, non butta via, per prima cosa, il ritegno? Chi, turbato dall’impulsività e pronto a lanciarsi contro un altro, non ripudia tutto ciò che in lui dice contegno? Chi, nell’eccitazione, resta cosciente del numero e dell’ordine dei suoi doveri? Chi ha saputo misurare le parole, controllare una sola parte del suo corpo, guidarsi nel suo slancio?
7. Bisogna assumere soltanto quegli impegni che si è in grado di sbrigare
[1] Tieni presente che accade altrettanto nella vita politica e in quella privata. Gli affari spicci e agevoli sono alla mercé di chi li tratta, quelli impegnativi, superiori alle forze di colui che se li accolla, non si lasciano sbrigare facilmente e, una volta intrapresi, sviano chi li cura: quando crede di averli in pugno, crollano insieme con lui. Accade così che spesso va a vuoto l’intento di colui che si dedica alle imprese, non perché è in grado di compierle, ma perché pretende che sia facile la cosa cui s’è dedicato. [2] Ogni volta che tenterai qualcosa, misura insieme te stesso e l’impresa alla quale ti accingi e ti devi adeguare: il rincrescimento di non essere riuscito ti renderebbe intrattabile. Certo, c’è differenza tra un carattere estroverso ed uno freddo ed introverso: nell’uomo di carattere, l’insuccesso farà scoppiare l’ira, nel languido ed inerte, la tristezza. Le nostre azioni non siano dunque né meschine, né presuntuose ed ostinate, i nostri progetti abbiano traguardi raggiungibili, non temiamo nulla il cui ottenimento susciti subito in noi stupore per il buon esito.
8. Bisogna scegliere bene le proprie compagnie
[1] Facciamo in modo di non ricevere ingiuria, dato che non la sappiamo sopportare. Bisogna vivere con persone estremamente calme ed abbordabili, per nulla ansiose o pedanti; il nostro comportamento si adegua a quello delle persone che frequentiamo e, come certe malattie del corpo si trasmettono per contatto, così l’animo infetta dei suoi mali i vicini.
9. Bisogna ricrearsi ed evitare l’affaticamento
[1] Gli iracondi debbono anche lasciar da parte le occupazioni troppo gravose, o praticarle badando di non raggiungere il limite di affaticamento. La mente non deve sentirsi tormentata da molti impegni, ma potersi dedicare alle arti gradevoli; si plachi con la lettura di poesie e si distenda con le narrazioni storiche: ha bisogno di esser trattata con la debita moderazione e delicatezza. [2] Pitagora placava i turbamenti dell’animo suonando la lira: chi non sa che litui e trombe sono eccitanti, mentre certe musiche ci calmano e dissipano i nostri crucci? Agli occhi annebbiati giova il verde, una vista debole trova riposanti certi colori e viene abbagliata dallo splendore di altri: così gli studi distensivi leniscono gli animi malati. [3] Dobbiamo fuggire l’attività del foro, le avvocature, i processi e tutto ciò che esulcera il vizio; allo stesso modo, dobbiamo guardarci dalla stanchezza fisica, che consuma in noi tutta la mitezza e la tranquillità e stuzzica l’acredine.
10. Bisogna curarsi ai primi sintomi del male
[1] La cosa migliore, dunque, è curarsi ai primi sintomi del male, cominciando dal concedere una libertà minima alle proprie parole e contenerne la foga. [2] È facile intercettare le proprie passioni al loro primo insorgere: i segni delle malattie si manifestano in anticipo e, come i presagi della tempesta e della pioggia vengono prima di esse, così ci sono dei prenunzi di codeste procelle che tormentano gli animi. [4] Giova conoscere la propria malattia e soffocarne le forze, prima che prendano campo. Osserviamo che cosa è che ci eccita più di tutto: uno si risente delle offese verbali, un altro, di quelle di fatto; questo vuole che si abbia riguardo alla sua nobiltà, quello alla sua bellezza; uno vuol essere ritenuto il più raffinato, un altro il più dotto; questo non sopporta la superbia, quello la disubbidienza; quello non ritiene che valga la pena adirarsi con gli schiavi, questo è feroce in casa e mite fuori; quello giudica segno di astio ogni preghiera, questo s’offende se non lo si prega. Non tutti sono vulnerabili dallo stesso lato; devi dunque sapere quale è il tuo punto debole, per proteggere soprattutto quello.
11. Bisogna non essere troppo curiosi
[1] Non conviene vedere tutto, ascoltare tutto. Molte ingiurie debbono sfuggirci: esse, nella maggior parte dei casi, non colpiscono, perché restano sconosciute. Non vuoi essere iracondo? Non essere curioso. Chi si informa di quanto è stato detto contro di lui, chi dissotterra i discorsi malevoli, anche se fatti in segreto, si inquieta da sé. Il voler interpretare certe cose, ci spinge al punto di considerarle ingiurie; perciò, talora, dobbiamo prender tempo, talora riderne, talora passarci sopra. [2] L’ira si può circoscrivere in molti modi: tantissime cose debbono essere risolte con l’arguzia o la battuta. Dicono che Socrate, una volta che si prese uno schiavo, non abbia detto niente altro che: “È un guaio che gli uomini non sappiano quando devono uscir di casa con l’elmo!”. [3] Non importa in che modo l’ingiuria è stata inflitta, ma come viene sopportata, e non vedo per quale motivo sia difficile moderarsi, quando so che uomini, nati per esser tiranni, gonfi di successo e di strapotere, hanno saputo reprimere la loro abituale crudeltà.
12. Non bisogna suggestionarsi
[1] Molte persone si fabbricano da sé i motivi di lagnarsi, o sospettando il falso, o dando peso a cose da nulla. Spesso è l’ira che viene a noi, più spesso siamo noi che la andiamo a cercare. Eppure non la si deve mai chiamare: anche quando l’incontriamo a caso, dobbiamo respingerla. [2] Non c’è nessuno che sappia dire a se stesso: “Questa cosa, che mi fa adirare, o l’ho fatta anch’io o l’avrei potuta fare”; nessuno valuta l’intento di chi agisce, ma il fatto puro e semplice; eppure bisogna considerare la persona, se ha agito volontariamente o accidentalmente, se per costrizione o per inganno, se è stata spinta dall’odio o dalla mira d’un vantaggio, se ha accondisceso a se stessa o s’è messa a disposizione di altri. In parte, l’età di chi sbaglia, in parte, le condizioni di fortuna fanno sì che sopportare e tacere sia umanità o, certamente, non sia viltà. [3] Mettiamoci ora nella condizione in cui è la persona con la quale ci adiriamo e vedremo che è una falsa valutazione di noi stessi a renderci iracondi, cioè il non voler subire cose che vorremmo fare. [4] Nessuno si concede un rinvio: eppure il rinvio è il miglior rimedio dell’ira, perché permette al primo suo bollore di placarsi ed a quella nebbia, che ci chiude la mente, di cadere o di farsi meno densa. Alcuni di quegli impulsi che ti trascinavano a precipizio, basterà un’ora, non dico una giornata, a metterli sotto controllo; altri svaniranno del tutto. Ma se il rinvio richiesto non otterrà alcun effetto, sarà chiaro che non si tratta di ira, ma di condanna già pronunciata. Quando vorrai renderti conto esattamente di una cosa, affidala al tempo: non si può osservare esattamente un oggetto che fluttua. [5] Platone, adirato con un suo schiavo, non riuscì ad imporsi un rinvio; ordinò allo schiavo di abbassare la tunica e di offrire le spalle alla frusta, pronto a colpire personalmente. Ma quando s’avvide di essere preso dall’ira, come aveva alzato la mano, la manteneva sollevata, nell’atteggiamento di chi sta per colpire. Chiedendogli poi un amico, che era sopravvenuto per caso, che cosa stesse facendo: “Punisco” rispose “un uomo iracondo”.
13. Conclusione del primo punto: bisogna usare una continua vigilanza
[1] Combatti tu, contro te stesso; se vuoi vincere l’ira, essa non può vincere te. Cominci a vincere, quando rimane nascosta, quando non le dai sfogo. Seppelliamone i segni e, per quanto è possibile, teniamola occulta, segreta. [2] Ciò comporterà per noi grave molestia, perché essa desidera balzar fuori, accenderci gli occhi e mutarci il volto, ma se le permettiamo di uscire da noi, diventa più forte di noi. Nascondiamola nel più profondo recesso del petto e portiamola con noi, non lasciamoci portare. Anzi, volgiamo al contrario tutti i suoi indizi: il volto sia disteso, la voce si faccia più blanda, il passo più lento; l’interno, a poco a poco, si plasma sull’esterno. [3] In Socrate, era segno d’ira l’abbassare la voce e parlare meno. Si vedeva che, allora, egli contrastava se stesso. Se ne accorgevano dunque gli amici e glielo dicevano apertamente, ma a lui non dispiaceva sentirsi rimproverare un’ira latente. Perché non doveva esser soddisfatto che molti intuissero la sua ira, senza che nessuno la dovesse sperimentare? L’avrebbero sperimentata, se egli non avesse concesso agli amici il diritto di rimproverarlo, come se lo era preso per sé nei riguardi degli amici.
25. Tutti possono sbagliare
[1] Come per un uomo da nulla è di conforto, nella disgrazia, il pensare che è instabile anche la fortuna dei grandi e come, nel suo cantuccio, piange con maggior rassegnazione la morte di un figlio chi vede uscire funerali di fanciulli anche dal palazzo del re, così sopporta con maggior serenità di essere talvolta offeso, talvolta disprezzato, chiunque pensa che non esiste potere tanto grande che l’ingiuria non osi attaccarlo. [2] Se sbagliano anche i più prudenti, c’è qualcuno che sbagli, senza avere la sua brava scusa? Ripensiamo quante volte, da adolescenti, siamo stati poco diligenti nel dovere, poco misurati nel parlare, poco temperanti nel bere. Se uno è adirato, diamogli il tempo di rendersi conto di ciò che ha fatto: diverrà il punitore di se stesso. Ammettiamo che ci sia debitore di un castigo: non è il caso di mettere i conti in pari con lui. [3] Non sarà posto in dubbio che si sia sottratto al comportamento della massa e si sia eretto più in alto, colui che ha saputo non tener conto dei suoi offensori: è caratteristico della vera grandezza non avvertire il colpo. Così una belva gigantesca tarda a volgersi al latrare dei cani, così il flutto si rovescia invano contro un grande scoglio. Colui che non s’adira, resta immobile di fronte all’ingiuria, chi si adira, ne ha risentito.
26. Tutti abbiamo i medesimi difetti
[1] “Ma”, mi obietti “è gravoso tollerare un’ingiuria”. Mentisci: chi non può sopportare l’ingiuria, se sopporta l’ira? Aggiungi che lo scopo di questo esercizio è giungere a sopportare sia l’ingiuria che l’ira. Perché compatisci la rabbia del malato, le parole del delirante, le mani insolenti dei fanciulli? Certamente, perché è chiaro che non sanno quello che fanno. A che serve distinguere quale vizio renda ciascuno incosciente? L’incoscienza è scusante ugualmente valida per tutti. [2] “Ma allora”, dici “la passerà liscia?”. Anche se tu lo volessi, non accadrebbe: la più grande punizione dell’ingiuria fatta è la coscienza d’averla fatta e nessuno subisce punizione più grave di colui che viene consegnato al tormento del rimorso. [3] In secondo luogo, si deve tener conto della situazione comune a tutte le vicende umane, per farsi giudici obiettivi di tutto quanto accade: è ingiusto colui che addebita al singolo un vizio di tutti.
27. È meglio saper perdonare
[1] Quanto è meglio guarire l’ingiuria che vendicarla! La vendetta assorbe molto tempo e si espone a molte ingiurie, mentre ne lamenta una sola. La nostra ira dura più della nostra ferita. Quanto è meglio prendere un’altra direzione e non contrapporre vizio a vizio. Ti sembrerebbe in senno colui che restituisse i calci alla sua mula o i morsi al suo cane? "Ma codesti esseri”, mi obietti “non sanno di offendere”. [2] Prima di tutto, quanto è iniquo colui per il quale l’esser uomini costituisce ostacolo al perdono! Poi, se tutti gli altri animali sono esenti dalla tua ira, perché incoscienti, valuta allo stesso modo, chiunque agisca con poca coscienza. Che importa, infatti, che sia diverso dagli animali per altri aspetti, quando assomiglia loro in ciò che rende gli animali irresponsabili di qualunque errore, l’aver cioè la mente ottenebrata? [3] Ha sbagliato. È la prima volta? È l’ultima? Non hai motivo di credergli; anche se dice: “Non lo farò più”, costui sbaglierà ancora, ed altri sbaglieranno a suo danno, e l’intera vita rotolerà tra gli sbagli. Chi non è buono, va trattato con bontà.
28. La vendetta danneggia chi la compie e non sa discernere le persone.
[1] Prima ti adiri con uno, poi con un altro; prima con gli schiavi, poi con i liberti; con i genitori, poi con i figli; con le persone che conosci, poi con sconosciuti: motivi ce ne sono dovunque in abbondanza, se l’animo non si frappone a scongiurarti. Il furore ti trascina da questa direzione a un’altra, poi da quella a un’altra ancora e, con il sorgere via via di nuove provocazioni, la rabbia sarà continua: suvvia, infelice, verrà per te il momento d’amare? Quanto tempo utile perdi in una occupazione malvagia! [2] Come sarebbe stato meglio, allora, procurarti degli amici, rappacificarti i nemici, amministrare lo Stato, dedicare la tua attività agli affari di casa, invece di cercarti attorno come poter fare del male a qualcuno, come ferirlo nel prestigio, nei beni, nel corpo, cose che non puoi ottenere senza contesa e senza pericolo, anche se ti mettessi in lizza con chi ti è da meno!
29. Ancora sul discernimento e sull’ostinazione
[1] È vergogna odiare la persona che devi lodare, ma ancor più vergognoso è odiare qualcuno per motivi che lo rendono degno di compassione. Un prigioniero che ha appena subìto l’onta della schiavitù, conserva i residui della libertà e non è sollecito ad accollarsi mansioni umilianti e faticose; uno schiavo, impigrito dal riposo, non riesce a tener dietro, di corsa, al cavallo e alla carrozza del padrone; uno sfinito da più giorni di veglia, cade addormentato; rifiuta il lavoro nei campi, o non lo affronta con il debito vigore, uno che è stato trasferito dalla riposante schiavitù della città ad una fatica tanto dura! [2] Teniamo distinto colui che non può, da colui che non vuole; assolveremo molti, se cominceremo a farci un giudizio, prima di adirarci. Ora invece noi seguiamo il primo impulso, poi, per inconsistenti che siano i motivi della nostra eccitazione, perseveriamo, perché non sembri che abbiamo incominciato senza motivo, infine, e sta qui l’ingiustizia più grave, la pretestuosità della nostra ira ci rende più ostinati; ce la teniamo e la accresciamo, come se l’essere molto adirati dimostrasse che avevamo un buon motivo di adirarci.

31. Bisogna sapersi accontentare
[1] A nessuno piace il suo, se si volta a guardare l’altrui: perciò ce la prendiamo anche con gli dèi, se qualcuno ci passa davanti, e dimentichiamo quale folla abbiamo dietro e quale smisurata invidia ha, dietro la schiena, chi ha pochi da invidiare. Ma la sfrontatezza degli uomini è tale che, sebbene abbiano ricevuto molto, si sentono come offesi, perché avrebbero potuto ricevere di più. [2] “Mi ha dato la pretura, ma io speravo il consolato; mi ha dato i dodici fasci, ma non mi ha fatto console ordinario; ha voluto che l’anno si datasse con il mio nome, ma non mi fa avere un sacerdozio; sono stato cooptato in un collegio, ma perché in uno solo? Mi ha concesso tutti gli onori, ma non ha aggiunto nulla al mio patrimonio: mi ha dato quello che doveva pur dare a qualcuno ma, di suo, non ci ha aggiunto nulla”.
32. Bisogna saper soprassedere
[1] A seconda delle persone, scegliamo motivi diversi di controllo: con alcuni, non dobbiamo adirarci per timore, con altri per rispetto, con altri per disgusto. Sarà certamente una grande impresa mandare in carcere uno schiavo che ci serve male! Che fretta abbiamo di farlo sferzare subito, di fargli spezzare subito le gambe? [2] Questa possibilità non ci verrà meno, se rimanderemo. Lascia che venga il momento in cui siamo noi a comandare: ora parleremmo agli ordini dell’ira. Quando se ne sarà andata, vedremo finalmente quanto vale la contesa. Sbagliamo soprattutto in questo: giungiamo alla spada, alla pena capitale e puniamo con catene, carcere e fame, un fatto che dovrebbe essere castigato con pochi colpi di sferza.
33. Il denaro, primo fattore d’ira
[1] Il denaro è la cosa che fa gridare di più: è lui che affatica i tribunali, mette a lite padri e figli, versa i veleni, consegna le spade ai sicari, è bagnato del nostro sangue: per lui, le notti di mogli e mariti sono uno strepito di litigi e le folle pressano i seggi dei magistrati, i re incrudeliscono e derubano. [2] Vuoi guardare gli scrigni che giacciono nei ripostigli? È per quelli che si grida fino a farsi uscire gli occhi dalle orbite, che le basiliche risuonano dello strepito dei processi e che giudici, fatti venire dalle regioni più lontane, siedono per decidere di chi è più giustificata l’avidità. [3] Che dire, se non si tratta nemmeno di uno scrigno e, per un pugno di monete, o per un denaro messo in conto da uno schiavo, crepa di bile un vecchio che non lascia eredi? E se, per un misero uno per mille di interesse, un usuraio paralizzato, coi piedi storti e le mani incapaci di prendere, grida e rivendica, negli accessi del male, i suoi assi, richiamandosi alle cauzioni? [4] Se tu mi portassi davanti tutto il denaro delle miniere che sappiamo scavare profondissime, se tu buttassi a mia disposizione tutto ciò che è nascosto nei tesori (gli avari usano riportare sotto terra quello che non doveva uscirne), io non stimerei tutto quel mucchio capace di far corrugare la fronte ad un uomo buono. Con quante risa dovremmo accogliere le cose che ci strappano le lacrime!
34. Altri incentivi d’ira: l’umana piccineria
[1] Suvvia, passa ora in rivista gli altri incentivi d’ira, il mangiare, il bere e il pretendere, per quelle occasioni, apparecchiature fastose, la raffinatezza e poi le parole offensive, i gesti poco rispettosi, gli animali restii e gli schiavi indolenti, e poi i sospetti, le interpretazioni malevole dei discorsi altrui, in seguito alle quali dobbiamo annoverare tra le ingiurie di madre natura l’aver dato all’uomo la parola. Credimi, non hanno peso i motivi per i quali diamo in pesanti escandescenze, come non ne hanno quelli che eccitano i fanciulli a rissare ed insultarsi. [2] Di ciò che facciamo tanto corrucciati, nulla è serio, nulla è importante: la vostra ira, vi dico, la vostra pazzia nasce dal vostro sopravvalutare cose da nulla. Costui mi ha voluto portar via una eredità, quello lì mi ha infamato presso persone che mi ero conquistate, in vista del testamento; quel tizio s’è invaghito della mia amante. [3] Ed ecco che il voler la stessa cosa, che dovrebbe diventare un vincolo di amicizia, provoca invece liti e odio. Una strada stretta suscita risse tra i passanti, una strada spaziosa, larga, aperta, non permette che s’urtino nemmeno le folle: le cose che voi desiderate, perché sono di poco conto e non possono passare da un padrone all’altro se non per furto, suscitano lotte ed alterchi tra i loro contendenti.
36. Conclusione del secondo punto: la pratica dell’esame di coscienza
[1] Tutti i nostri sensi devono essere indirizzati a fermzza; per natura sono pazienti, se l’animo smette di corromperli: esso deve esser convocato ogni giorno alla resa dei conti. Era un’abitudine di Sestio: al cadere della giornata, non appena si era ritirato per il riposo notturno, interrogava la sua coscienza: “Qual tuo male hai guarito oggi? A qual difetto ti sei opposto? In qual settore sei migliorato?”. [2] L’ira cesserà, e sarà più moderato l’uomo che sa di doversi presentare ogni giorno al giudice. C’è usanza più bella di questa, di esaminare un’intera giornata? Che sonno segue questa inchiesta su se stessi, quanto tranquillo, quanto profondo e libero, dopo che l’animo o è stato lodato o ammonito e, da osservatore e censore privato di se stesso, ha concluso l’inchiesta sui suoi costumi. [3] Io mi avvalgo di questa possibilità, e mi metto sotto processo ogni giorno. Quando hanno portato via la lucerna e mia moglie, che conosce la mia abitudine, tace, io scruto l’intera mia giornata e controllo tutte le mie parole ed azioni, senza nascondermi nulla, senza passar sopra a nulla. Perché dovrei temere uno qualunque dei miei errori, se posso dire: [4] “Questo, vedi di non farlo più; per questa volta, ti perdono. In quella discussione sei stato troppo polemico; impara a non contendere più con gli incompetenti, che non vogliono imparare, perché non hanno mai imparato. Hai rimproverato quello là con eccessiva franchezza, quindi non lo hai corretto, ma offeso; d’ora in poi, non guardare soltanto se è vero quello che dici, ma anche se la persona, alla quale parli, è in grado di accettare la verità”. L’uomo buono gradisce un ammonimento, ma tutti i cattivi sono estremamente restii ai pedagoghi.
38. Appendice: esempi di Diogene e di Catone
[1] Qualcuno ti ha fatto offesa: certo non è più grave di quella fatta al filosofo stoico Diogene, al quale un giovane insolente sputò addosso, mentre era infervorato in un discorso sull’ira. Egli sopportò il fatto con serenità e disse saggiamente: “Certo, non mi adiro, ma nemmeno so se sarebbe il caso di adirarsi”. [2] Quanto meglio si comportò il nostro Catone! Mentre discuteva un processo, quel tal Lentulo, che i nostri padri ricordano come fazioso e prepotente, raccolse abbondante saliva e gli sputò in mezzo alla fronte. Quello si ripulì e disse: “Dichiarerò davanti a tutti, o Lentulo, che sbagliano quelli che dicono che non hai bocca”.
39. Terzo punto: bisogna placare l’ira altrui ed essere cauti
[1] Siamo già riusciti, o Novato, a dare la giusta compostezza al nostro animo; o non avverte l’irascibilità o la sa vincere. Vediamo, ora, come rabbonire l’ira altrui: non vogliamo soltanto essere sani, ma saper guarire. [2] Non ci prenderemo la libertà di rabbonire a parole il primo scatto d’ira, perché sordo e pazzo; dobbiamo concedere tempo. Le medicine giovano nei periodi di calma; non tocchiamo gli occhi gonfi, tentando di eccitarne la rigidezza col muoverli; e nemmeno le altre malattie in stato acuto: le malattie, all’inizio, si curano con il riposo. [3] “Giova ben poco” mi obietti “la tua medicina, se placa l’ira che sta gi spegnendosi da sé!”. In primo luogo, ne anticipa la fine; poi la mette al riparo da ricadute; infine, trarrà in inganno anche quel primo impulso che non osa placare: allontanerà tutti gli strumenti di vendetta, simulerà l’ira, per aver maggior autorità nel dare consigli in veste di aiutante che condivide il dolore, inventerà rinvii e, fingendo di cercare vendette più aspre, ritarderà quella immediata. [4] Userà ogni artificio per dar tregua al furore: se sarà molto impetuoso, gli incuterà una vergogna o un timore al quale non sappia resistere; se sarà piuttosto limitato, avvierà discorsi piacevoli o nuovi, e lo distrarrà con la curiosità. Raccontano che un medico, che doveva curare la figlia del re e non poteva farlo senza operare, mentre le applicava un fomento sulla mammella gonfia, vi introdusse il bisturi nascosto sotto una spugna: la fanciulla si sarebbe opposta, se egli avesse avvicinato lo strumento allo scoperto, ma, dato che non se l’aspettava, sopportò il dolore. Ci sono dei mali che si guariscono soltanto con l’inganno.
41. Epilogo: la pace dell’animo
[1] Diamo pace al nostro animo, quella pace che deriva dalla continua meditazione dei dettami salutari, dalle azioni buone e da una mente intenta a desiderare soltanto la virtù. Pensiamo a soddisfare la nostra coscienza, senza preoccuparci della fama: ci tocchi magari cattiva, purché ce la meritiamo buona. [2] “Ma la gente ammira le imprese coraggiose ed onora gli audaci: i pacifici, li giudica indolenti”. A prima vista, forse. Ma non appena la coerenza della loro vita ha fatto fede che quella non è pigrizia d’animo, ma pace, quel medesimo popolo li rispetta, li onora. [3] Non porta, dunque, con sé nulla di utile, questa passione tetra ed ostile, ma porta invece tutti i mali, il ferro ed il fuoco. Calpestando ogni ritegno, s’è lordata le mani di stragi, ha disperso le membra dei figli, non ha lasciato niente libero dal delitto e, senza ricordarsi della gloria, senza temere l’infamia, è divenuta incorreggibile quando, da ira, s’è incallita in odio.
42. Riflessione sulla brevità della vita
[1] Stiamo lontani da questo male, ripuliamone l’anima ed estirpiamo alla radice quei germogli che, per esili che siano, attecchiranno dovunque troveranno terreno, e l’ira, non moderiamola, ma allontaniamola del tutto: come ci può essere, infatti, una giusta misura in una cosa cattiva? [2] Ci riusciremo, se sapremo sforzarci. Non c’è sussidio più utile che il riflettere sulla nostra condizione di mortali. Ognuno dica a se stesso ed agli altri: “A che serve dichiarare la nostra ira, come fossimo nati per l’eternità, e sciupare una vita tanto breve? A che serve trasferire in dolore e tormento altrui quei giorni che possiamo impiegare nei piaceri onesti? Queste attività non sopportano perdite, e non disponiamo di tempo da sciupare.” [3] Perché ci precipitiamo nella battaglia? Perché ci andiamo a cercare le lotte? Perché dimentichiamo la nostra debolezza, ci accolliamo inimicizie enormi e ci leviamo, noi fragili, per infrangere? Ben presto, una febbre o qualche malattia ci impedirà di portare a termine queste inimicizie che coviamo implacabili in seno; ben presto, la morte si metterà di mezzo, a separare i due accanitissimi avversari. [4] “Per quale motivo fare tumulti e turbare la vita con sedizioni? Il destino incombe sul nostro capo e tiene il giusto conto dei giorni che passano e si avvicina sempre, e sempre più. Quell’ora che tu designi per la morte altrui, forse coincide con la tua”.
43. Finché noi restiamo tra gli uomini, dobbiamo anche essere umani
[1] Perché non ripensi piuttosto alla tua vita breve, e non la progetti pacifica, per te e per tutti gli altri? Perché, piuttosto, non ti rendi degno d’amore per tutti, finché vivi, di rimpianto, quando te ne sarai andato? Perché vuoi tirar giù quel tale che tratta con te troppo dall’alto? Perché vuoi schiacciare con la tua forza quell’altro che ti latra contro, abietto e spregevole, ma acido e molesto a chi gli sta sopra? Perché t’arrabbi con il tuo schiavo, il tuo padrone, il tuo patrono, il tuo cliente? Abbi un poco di pazienza ed ecco: verrà la morte e vi metterà alla pari. [2] Tra gli spettacoli mattutini dell’arena, assistiamo di solito alla lotta di un orso e un toro, legati insieme: quando si sono tormentati a vicenda, li aspetta l’abbattitore. Noi facciamo altrettanto, assaliamo uno che è legato a noi e, intanto, pende sul capo del vincitore e del vinto la fine, e ben vicina. Trascorriamo invece in tranquillità e pace quel poco tempo che ci resta! Che il nostro cadavere non giaccia detestato da nessuno! [3] Talvolta una rissa s’è sciolta, perché nelle vicinanze s’è sentito gridare: “Al fuoco!”, e il sopravvenire di una belva ha separato il viaggiatore dal ladro. Non c’è tempo di lottare con i mali minori, quando si prospetta un timore più grave. E noi, quanto abbiamo a che vedere con i combattimenti e gli agguati? A colui con il quale sei adirato, auguri forse più della morte? Anche se rimani immobile, morirà. Lavori inutilmente: vuoi fare quello che accadrà. [4] “Non voglio” dici “ucciderlo, ma infliggergli l’esilio, l’infamia, un danno”. Sono più disposto a perdonare a chi augura al suo nemico una ferita, che a chi gli augura una pustola: quest’ultimo non è soltanto malvagio, ma anche vile. Che tu pensi al supplizio estremo o ai meno gravi, quanto breve è il tempo in cui quello sarà tormentato dalla sua pena, mentre tu proverai l’amara gioia della pena altrui! Stiamo già esalando il respiro! [5] Ma per ora, finché restiamo tra gli uomini, siamo umani; non siamo oggetto di paura, motivo di pericolo, per nessuno! Disprezziamo i danni, le ingiurie, gli insulti, le punzecchiature e sopportiamo, con la magnanimità, questi inconvenienti di breve durata.

Il tempo di volger l’occhio, dice il proverbio, di girarci, e la morte arriva.

Lucio Anneo Seneca - Commenti di Eugenio Caruso - 04-03-2015

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Tratto da De ira

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