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Napoleone Bonaparte


La prima campagna d'Italia, la felicità dei francesi e l'irritazione del Direttorio.

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Napoleone durante la prima campagna in Italia

(Mi dilungo su questo argomento per approfondire la tattica militare che Napoleone utilizzò in tutte le sue battaglie)
Il 9 marzo 1796 Napoleone sposò Giuseppina e dopo soli due giorni partì per Nizza per assumere il comando dei 38.000 uomini mal equipaggiati dell'Armata d'Italia. Il generale, giunto al quartier generale il 27 marzo, diede il via a un'operazione militare che, nei piani del Direttorio, doveva essere semplicemente di «diversione», poiché l'attacco all'Austria sarebbe dovuto avvenire lungo due direttrici sul Reno.
Piccolo di statura, magro, il viso scavato, lo sguardo freddo dei grandi occhi grigioazzurro, i capelli lunghi sulle spalle e il volto "sulfureo", il generale, cupo e spigoloso, impose la sua autorità, dimostrò la sua risolutezza, impressionò i suoi generali subordinati e predispose la rapida attuazione dei suoi ambiziosi piani di guerra.
Aveva sotto di sè cinque comandanti di divisione. Il più anziano, Jean Sérurier, vantava 34 anni di servizio nell’esercito francese. Aveva combattuto nella guerra dei sette anni, e stava pensando di lasciare l’esercito proprio quando era scoppiata la rivoluzione, ma negli anni successivi si era battuto bene e nel dicembre 1794 era stato nominato generale di divisione. Pierre Augereau era un ex mercenario di 38 anni, alto, sbruffone, un po’ volgare, venditore di orologi e maestro di danza, i cui soprannomi erano “figlio del popolo” e “orgoglioso brigante”. Aveva ucciso due uomini in duello e un ufficiale di cavalleria in combattimento, e aveva evitato di essere torturato dall’Inquisizione di Lisbona grazie ai buoni uffici della moglie greca. André Masséna, pure trentottenne, era partito in nave come mozzo a 13 anni, ma nel 1775 era passato nell’esercito ed era diventato sergente maggiore prima di essere congedato appena poco prima della rivoluzione. Era diventato contrabbandiere e commerciante di frutta ad Antibes, poi, nel 1791, era entrato nella guardia nazionale e aveva fatto carriera in fretta. I servigi resi durante l’assedio di Tolone gli procurarono la promozione a generale di divisione nell’Armata d’Italia, dove prestò servizio distinguendosi nel 1795. Amédée Laharpe era uno svizzero di 32 anni con folti baffi. Jean-Baptiste Meynier aveva combattuto nell’Armata di Germania, ma, a metà aprile, Napoleone riferì al che era un «incapace, inadatto a comandare anche solo un battaglione in una guerra di movimento come quella».

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Generale di divisione Amédée Emmanuel François Laharpe; morì nella campagna d'Italia

Tutti e cinque gli uomini erano veterani esperti, mentre Napoleone non aveva comandato nemmeno un battaglione di fanteria in vita sua. Sarebbero stati un gruppo difficile da impressionare, figuriamoci da ispirare. Masséna in seguito ricordava: "All’inizio non ne ebbero una grande opinione. La sua bassa statura e la faccia meschina non gli attrassero il loro favore. Il ritratto della moglie che teneva in mano e mostrava a tutti, la sua estrema giovinezza, facevano ritenere che quell’assegnazione fosse frutto di un ennesimo intrigo politico, ma un attimo dopo indossava il suo berretto da generale e sembrava crescere di 60 centimetri. Ci interrogò sulla posizione delle nostre divisioni, sul loro equipaggiamento, il morale e il numero di effettivi di ogni corpo d’armata, ci diede la direzione che dovevamo seguire, annunciò che il giorno dopo avrebbe ispezionato tutti i corpi e che quello successivo si sarebbero messi in marcia verso il nemico per dare battaglia".
In quel primo incontro Napoleone mostrò ai suoi comandanti che la strada Savona-Carcare sfociava in tre vallate, ciascuna delle quali poteva alla fine portarli nelle ricche pianure della Lombardia. Il Piemonte si era opposto alla rivoluzione francese ed era in guerra con la Francia dal 1793. Napoleone era convinto che se il suo esercito fosse riuscito a respingere gli austriaci verso est e a prendere la roccaforte di Ceva, avrebbe potuto estromettere i piemontesi dalla guerra minacciando Torino, la loro capitale. Questo avrebbe significato far scendere in campo 40.000 soldati francesi contro 60.000 austriaci e piemontesi, ma Napoleone disse ai suoi comandanti che avrebbe utilizzato la velocità e l’inganno per mantenere l’iniziativa. Il suo piano era basato sia sui Principes de la guerre de montagnes di Pierre de Bourcet (1775), sia su una strategia precedente che, concepita per essere usata in una campagna contro il Piemonte del 1745, era stata respinta da Luigi XV, ma era incentrata proprio sulla presa di Ceva. Bourcet parlava dell’importanza di una pianificazione chiara, della concentrazione degli sforzi e di mantenere le forze nemiche squilibrate. La campagna in Italia di Napoleone sarebbe diventata un’operazione da manuale in entrambi i sensi del termine. Gli austriaci, che dominavano l’Italia settentrionale dal 1714, stavano mandando un grande esercito verso ovest, in Piemonte, per scontrarsi con i francesi, e i piemontesi venivano riforniti dalla base della Royal Navy in Corsica. Questo costrinse Napoleone ad ammassare tutto quello di cui aveva bisogno sopra gli alti passi montani della Liguria. Il 5 aprile, quando arrivò ad Albenga, spiegò a Masséna e a Laharpe il suo piano di isolare il nemico tra Carcare, Altare e Montenotte.

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Generale Jean Mathieu Philibert Sérurier; fu uno dei 4 più fidati consiglieri e subordinati di Napoleone durante la prima campagna d'Italia.

Il comandante austriaco, Johann Beaulieu, era dotato di molta esperienza e un po’ di talento, ma aveva 71 anni, e in precedenza era già stato battuto da eserciti francesi. Napoleone, accanito studioso delle campagne del passato, sapeva che Beaulieu era prudente, e progettava di sfruttare questa debolezza. L’alleanza con i piemontesi era fragile e Beaulieu era stato avvertito di non farci troppo affidamento. Persino all’interno dell’esercito austriaco, dato il carattere eterogeneo dell’esteso impero asburgico, nelle sue unità spesso non si parlava la stessa lingua; la lingua comune impiegata dal corpo ufficiali era il francese. Andava aggiunto ai problemi di Beaulieu che doveva rispondere a Vienna, a un consiglio tardo e farraginoso, i cui ordini venivano emanati con estrema lentezza e quando arrivavano erano ormai superati dagli eventi. Invece Napoleone progettava di adottare la “strategia della posizione centrale”: sarebbe rimasto tra le due forze che gli si contrapponevano e avrebbe colpito prima una e poi l’altra prima che potessero congiungersi. Era una strategia cui si sarebbe attenuto per tutta la sua carriera. Una delle sue massime in guerra era: "È contrario a ogni principio far agire separatamente corpi che non comunicano tra loro contro una forza centrale le cui comunicazioni sono fluenti"
Quando Napoleone arrivò a Nizza aveva trovato il suo esercito in tale stato da non poter andare da nessuna parte. Si gelava, e i suoi soldati non avevano pastrano. Non veniva distribuita carne da tre mesi, e il pane arrivava irregolarmente. L’artiglieria era trainata dai muli, perché tutti i cavalli da tiro erano morti di malnutrizione, interi battaglioni erano scalzi o calzavano zoccoli, e indossavano uniformi improvvisate. Alcuni uomini erano identificabili come militari solo perché portavano cartuccere dell’esercito, e molti dei loro moschetti erano privi di baionette. Non venivano pagati da mesi, e questo fomentava i brontolii di ammutinamento. Imperversava la febbre, che in 20 giorni uccise almeno 600 uomini della 21° semibrigata.
Vedendo lo stato miserevole del suo esercito Napoleone reagì destituendo Meynier e dando istruzioni al suo quartiermastro Chauvet per una totale riorganizzazione del commissariato, che tra le altre cose, come disse al Direttorioil 28 marzo, doveva «minacciare i fornitori, che hanno rubato molto e godono di buon credito». Ordinò anche al cittadino Faipoult, plenipotenziario della Francia a Genova, di sollecitare «senza baccano» un prestito di tre milioni di franchi ai finanzieri ebrei locali, e richiamò la cavalleria dai pascoli invernali nella valle del Rodano. Nel giro di due giorni dopo il suo arrivo a Nizza, Napoleone smantellò il 3° battaglione della 209a semibrigata che si era ammutinato, destituì i suoi ufficiali e sottoufficiali e distribuì gli altri uomini in gruppi di cinque ad altri battaglioni.
Il 12 aprile 1796 cominciava la prima campagna d'Italia che avrebbe portato alla luce il genio militare e politico di Bonaparte il quale, nonostante l'inferiorità numerica e logistica, riuscì a sconfiggere ripetutamente le forze austriache e piemontesi. Napoleone aveva pianificato di lanciare la sua offensiva il 15 aprile, ma le forze austro-piemontesi avviarono la loro cinque giorni prima, salendo per la stessa strada per cui Napoleone intendeva discendere. Nonostante questa mossa imprevista, nel giro di quarantott’ore Napoleone aveva modificato la situazione. Dopo aver riportate indietro le sue truppe in larga parte illese dalla città di Savona, poté organizzare un contrattacco. La sera dell’11 aprile, rendendosi conto che la linea austriaca era troppo estesa, bloccò il nemico in posizione, sferrando un attacco a Montenotte, un paese di montagna a una ventina di chilometri a nord-ovest di Savona, nella valle dell’Erro, quindi all’una di notte, sotto una pioggia battente, inviò Masséna ad aggirarne il fianco destro per circondarli. Era un brutto accerchiamento in cui combattere: da Montenotte Superiore parte una catena montuosa con picchi alti tra i 700 e i 1000 metri e c’era una fitta vegetazione tutto intorno, che si inerpica su erte ripidissime. L’esercito austriaco aveva costruito molte ridotte, che ora erano state conquistate dalle rapide colonne della fanteria francese. Quando la battaglia fu conclusa, gli austriaci avevano perduto 2500 uomini, molti dei quali catturati. Napoleone ne aveva persi 800. Anche se si era trattato di uno scontro abbastanza modesto, la vittoria di Montenotte fu la prima in campo per Napoleone come comandante in capo, e fu positiva per il suo morale e quello dei suoi uomini. Molte delle sue battaglie successive avrebbero seguito gli stessi parametri: un comandante-avversario anziano privo di energia, un nemico con diverse nazionalità e lingue, che doveva affrontare un esercito omogeneo come quello francese. I francesi si erano mossi assai più in fretta del nemico, e lui aveva impiegato una concentrazione di forze che invertiva le probabilità numeriche per il tempo appena sufficiente da essere decisivo.
Un altro tratto ricorrente era il rapido seguito dopo la vittoria: il giorno dopo Montenotte, Napoleone ingaggiò un altro scontro a Millesimo, un borgo sul Bormida, dove riuscì a scacciare le forze austriache e piemontesi in ritirata. Gli austriaci volevano ritirarsi a est per proteggere Milano, i piemontesi a ovest per proteggere Torino. Napoleone riuscì a sfruttare questi imperativi strategici divergenti. Per uscire dalla valle fluviale entrambi dovevano tornare a un paese fortificato, Dego, dove il 14 aprile Napoleone ottenne la sua terza vittoria in tre giorni. Le perdite austro-piemontesi ammontavano a circa 5700 unità, mentre i francesi avevano perso 1500 uomini. Una settimana dopo, alla battaglia di Mondovì, una cittadina sul fiume Ellero, Napoleone bloccò vigorosamente il fronte piemontese con una manovra ambiziosa e difficile da compiere, ma quando riuscì fu devastante per il morale del nemico. Il giorno dopo i piemontesi chiesero la pace. Fu una fortuna, perché Napoleone non aveva armi da assedio pesanti per cingere Torino. Uno dei motivi per cui mantenne la campagna così fluida era che non aveva risorse per niente altro. Si lamentò con Carnot perché non era stato aiutato «né dall’artiglieria né dal genio»: «nonostante i vostri ordini, non ho nemmeno uno degli ufficiali ufficiali che ho chiesto». Effettuare (o sopportare) un assedio sarebbe stato impossibile.
Il 26 aprile Napoleone emanò un'emozionante proclama al suo esercito da Cherasco: «Oggi con i vostri servigi avete eguagliato le Armate di Olanda e del Reno. Privi di tutto, avete dato tutto. Avete vinto battaglie senza cannoni, superato fiumi senza ponti, compiuto marce forzate senza scarpe, bivaccato senza brandy e spesso senza pane. ... Vi prometto la conquista dell’Italia, ma a una condizione: dovete giurare di rispettare la gente che liberate, e di reprimere l’orribile saccheggio in cui hanno indulto canaglie eccitate dal nemico».
Napoleone distingueva sempre tra «vivere delle risorse di un paese», come doveva fare il suo esercito per il vettovagliamento insufficiente, e «uno spaventoso saccheggio». Ci voleva una certa disposizione ai sofismi, ma la sua mente elastica era atta allo scopo. Spesso in futuro avrebbe accusato gli eserciti austriaco, britannico e russo di saccheggio per atti analoghi a quelli che, come certo sapeva, il suo esercito aveva compiuto in molte occasioni. «Vivevamo di quello che trovavano i soldati», ricordava un ufficiale dell’epoca. «Un soldato non ruba mai niente, trova e basta.» Uno dei comandanti più competenti di Napoleone, il generale Maximilien Foy, in seguito sottolineò che se i soldati di Napoleone avessero «aspettato di mangiare fino a quando l’amministrazione dell’esercito non avesse fatto distribuire le razioni di pane e di carne, avrebbero patito la fame».
I negoziati per un armistizio con i piemontesi cominciarono immediatamente a Cherasco. Durante un colloquio Napoleone disse sarcastico a un plenipotenziario che aveva suggerito delle condizioni per cui restava con meno fortezze di quanto avrebbe desiderato: «La repubblica, affidandomi il comando di un esercito, mi ha dato credito di possedere abbastanza discernimento su quello di cui ha bisogno l’esercito da non dover ricorrere al consiglio del mio nemico». Uno dei due negoziatori, un colonnello savoiardo, il marcheseHenry Costa de Beauregard, in seguito scrisse un memoriale in cui descriveva l’incontro: «[Era] sempre freddo, educato e laconico». All’una del mattino del 28 aprile tirò fuori l’orologio e disse: «Signori, vi annuncio che per le due è ordinato un attacco generale, e se non ho assicurazioni che [la fortezza di] Coni mi sarà consegnata entro la fine della giornata, questo attacco non verrà ritardato di un secondo».

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Generale Jean Antoine Verdier; partecipò a molte campagne napoleoniche.

Avrebbe potuto essere un bluff, ma i piemontesi non potevano correre il rischio. L’armistizio fu firmato immediatamente. Tortona, Alessandria, Coni e Ceva vennero consegnate ai francesi, insieme alla via per Valenza e a tutto il territorio tra Coni e tre fiumi, lo Stura, il Tanaro e il Po. Con un abile stratagemma, Napoleone insistette per una clausola segreta che gli dava il diritto di usare il ponte sul Po di Valenza, sapendo che la notizia sarebbe trapelata arrivando agli austriaci, e che Beaulieu avrebbe mandato delle truppe a proteggere il ponte. In realtà progettava di attraversare il fiume nei pressi di Piacenza, un centinaio di chilometri più a est.
Con l'armistizio di Cherasco, Napoleone costrinse Vittorio Amedeo III di Savoia a pesanti concessioni, ratificate con la Pace di Parigi (15 maggio), che assegnava alla Francia sia la Savoia sia la contea di Nizza.
Il giorno dopo la firma del trattato di armistizio, Napoleone scrisse a Parigi, consapevole che concludendo un accordo diplomatico con una potenza straniera aveva superato i limiti della sua competenza, per non parlare del fatto che, per quanto repubblicano, aveva consentito a re Vittorio Amedeo III di Piemonte e Sardegna di restare sul trono. «È un armistizio accordato a una sola ala dell’esercito, che non mi ha dato il tempo di battere l’altra.» Sperava di placare qualsiasi lagnanza sollevata da Parigi con il denaro, promettendo, infatti, di riscuotere quello che definiva “un contributo” di diversi milioni di franchi dal duca di Parma, e proponendone uno di 15 milioni per Genova. Tali “contributi”, una volta riscossi in tutta l’Italia settentrionale, gli avrebbero consentito di pagare agli organici metà del loro salario in argento, anziché con i disprezzati mandati territoriali, cartamoneta che si svalutava di continuo. Niente, a parte una sconfitta militare, demoralizza un paese in modo così assoluto come l’iperinflazione e il Direttorio, che dal vendemmiaio era guidato da Barras, aveva disperato bisogno dell’oro che Napoleone avrebbe inviato. Questo spiega in larga parte perché i suoi membri, anche se giunsero a risentirsi per i suoi successi in Italia e in Austria, e persino a temerli, fecero solo un debole tentativo di sostituirlo.
«Non lasciate nulla in Italia che la nostra situazione politica vi consenta di portar via e che possa tornarci utile», fu l’ordine ricevuto da Napoleone, il quale abbracciò con entusiasmo questa parte del suo incarico. Aveva deciso che all’Italia, o almeno alle parti che gli si contrapponevano, non sarebbe stato sottratto solo il denaro, ma anche la sua grande arte. Il 1° maggio scrisse al cittadino Faipoult: «Mandatemi un elenco di dipinti, statue e curiosità di Milano, Parma, Piacenza, Modena e Bologna». I governanti di quelle località avevano tutti i motivi di tremare, perché molti dei loro tesori più belli sarebbero stati destinati alla galleria d’arte di Parigi nota come Musée Central des Arts dall’inaugurazione nel 1793 al 1803, quindi Musée Napoléon fino al 1815, e dopo Musée du Louvre.
Gli esperti d’arte e i curatori francesi nominati da Napoleone per scegliere quali oggetti portare via sostenevano che trasferire e riunire gli esempi migliori dell’arte occidentale a Parigi li rendeva in realtà assai più accessibili. «Prima era necessario scalare le Alpi e percorrere intere province per soddisfare questa colta e degna curiosità», scrisse il reverendo britannico William Shephard nel 1814; invece «ora le spoglie d’Italia sono riunite quasi sotto lo stesso tetto e aperte a tutto il mondo». Come sottolineò all’epoca la scrittrice e traduttrice inglese bonapartista Anne Plumptre, molti degli oggetti portati via dai francesi erano stati pure sottratti da romani a luoghi come Corinto e Atene.

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Generale Jean-Baptiste Dumonceau de Bergendal; comamndò regolarmente le truppe olandesi nell'esercito di Napoleone.

Napoleone ammobiliò, decorò, riempì di sculture e trasformò in un “palazzo di rappresentanza” quello destinato a diventare il suo museo, perché desiderava poter vantarsi non solo della collezione d’arte più grande del mondo, ma anche della più grande raccolta di manoscritti storici. Essendo un appassionato bibliofilo, dichiarò che voleva «riunire a Parigi in un unico organismo gli archivi dell’impero tedesco, quelli del Vaticano, della Francia e della province unite». In seguito ordinò a Berthier di chiedere a uno dei suoi generali in Spagna di scoprire dove venivano conservati gli archivi di Carlo V e Filippo II, poiché «avrebbero completato così bene questa vasta collezione europea».

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Louis Alexandre Berthier, uno dei generali che seguì sempre Napoleone. Era un grande organizzatore e il suo contributo fu fondamentale per le vittorie di Napoleone

All’inizio di maggio Napoleone disse al Direttorio che intendeva attraversare il Po, e sarebbe stata un’operazione difficile. Li avvertì di non ascoltare «i militari dei circoli, convinti che possiamo attraversare a nuoto larghi fiumi». Beaulieu, il comandante delle forze austriache, si era ritirato alla confluenza del Po e del Ticino, coprendo Pavia e Milano con le sue linee di comunicazione che correvano a nord del Po. Aveva abboccato all’esca di Napoleone e teneva sotto stretta sorveglianza Valenza. Napoleone fece una puntata a Piacenza nel ducato di Parma, superando diverse linee di difesa fluviale e minacciando Milano. Era il primo esempio di quella che sarebbe diventata un’altra delle sue strategie preferite, la “manovra sul retro”, intesa per prendere il nemico alle spalle. Entrambe le “puntate” a Vienna nel 1805 e nel 1809 e i suoi movimenti strategici in Polonia nel 1806 e nel 1807 sarebbero state repliche di quella prima operazione per attraversare il Po.

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Charles Pierre François Augereau, uno dei più validi generali di Napoleone

Beaulieu si trovava a un giorno di marcia più avanti verso Piacenza, quindi Napoleone avrebbe avuto bisogno di un paio di giorni, o preferibilmente tre, di vantaggio per attraversare il Po in sicurezza. Chiese all’esercito di marciare ancora più veloce, fiducioso di aver calcolato nei dettagli tutti i rifornimenti. Mentre Sérurier e Masséna avanzavano su Valenza per ingannare Beaulieu, e Augereau aumentava la confusione conquistando una postazione a metà strada tra Valenza e Piacenza, tagliando tutte le comunicazioni con l’altra sponda del fiume, Napoleone si precipitava avanti insieme a Laharpe, il generale Claude Dallemagne e la cavalleria del generale Charles Kilmaine. Tecnicamente avrebbero attraversato lo stato neutrale di Parma, ma Napoleone conosceva l’ostilità del suo duca, e non intendeva consentire alle amenità della legge internazionale, per come era fatta all’epoca, di trattenerlo. All’alba del 7 maggio, l’esercito francese era pronto a guadare il Po alla confluenza con il Trebbia. L’intrepido generale Jean Lannes perlustrò le sponde per chilometri, raccogliendo tutte le imbarcazioni e i materiali per costruire i ponti. Trovò un traghetto che poteva trasportare 500 uomini alla volta sul fiume largo 500 metri, mentre Augereau (che si trovava a 30 chilometri di distanza), Masséna (a 48 chilometri) e Sérurier (a 105 chilometri) ricevettero tutti l’ordine di ricongiungersi a Napoleone il prima possibile. Lui partì l’8 maggio per Piacenza, dove il governatore gli aprì le porte della città dopo una breve ma franca spiegazione su che cosa sarebbe successo altrimenti. «Un’altra vittoria», predisse Napoleone quel giorno a Carnot, «e saremo padroni d’Italia.» Furono requisiti dei cavalli, quindi i muli non dovevano più trainare l’artiglieria, anzi molti dei cannoni usati nella battaglia successiva vennero trainati dai cavalli delle carrozze della nobiltà piacentina.

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Generale François de Chasseloup-Laubat; esperto nella realizzazione di fortificazioni e consigliere di stato.

Dopo aver concluso un armistizio con il duca di Parma, di cui aveva invaso i possedimenti con tanta noncuranza, Napoleone inviò a Parigi 20 dipinti, tra cui opere di Michelangelo e Correggio, come pure un manoscritto di Francesco Petrarca sulle opere di Virgilio.
Il 10 maggio l’esercito austriaco stava ritirandosi verso Milano passando per Lodi, 33 chilometri a sud-est di Milano sulla riva destra dell’Adda. Fu allora che Napoleone decise di intercettarlo. Marmont comandava un reggimento di ussari e Lannes un battaglione di granatieri: inseguirono la retroguardia austriaca attraverso la città. Furono fermati bruscamente dal fuoco di mitraglia proveniente dall’altra testa di un ponte di legno lungo 200 metri e largo 10. Napoleone si impossessò dei primi due cannoni che riuscì a trovare, li portò al ponte e diresse il fuoco in modo da evitare che il nemico lo distruggesse, mentre mandava a prendere altri cannoni e appostava dei franchi tiratori, incaricati di sparare dalla riva del fiume e dalle case nelle vicinanze. Poi continuò a dirigere la battaglia dal campanile della chiesa proprio di fronte al ponte.
Il comandante delle retrovie austriache, il generale Sebottendorf, aveva tre battaglioni e quattordici cannoni per proteggere il ponte, con otto battaglioni e quattordici squadroni di cavalleria di riserva, circa 9500 uomini in tutto. Far invertire la posizione poteva richiedere dei giorni, e questo avrebbe annullato tutte le possibilità di raggiungere l’esercito in ritirata di Beaulieu. Napoleone decise che il ponte andava caricato immediatamente. Alle cinque del pomeriggio aveva ormai trenta cannoni in postazione, e mandò 2000 uomini della cavalleria a nord e a sud a cercare di trovare un guado. Poi, nelle stradine di Lodi, formò la colonna di Dallemagne costituita da 3500 uomini, cui fece un discorso per ispirarli. Ordinò a Berthier di raddoppiare il ritmo del fuoco di artiglieria, e alle sei inviò sul ponte due semibrigate leggere, la 27a e la 29a, nonostante la mitraglia austriaca. In realtà le compagnie composite di carabinieri del colonnello Pierre-Louis Dupas si erano offerte volontarie per condurre l’attacco, una missione quasi suicida e di certo esente da qualsiasi naturale istinto di conservazione. Ma era questo fervore frenetico, noto come “la furia francese”, che spesso dava un margine di vantaggio a Napoleone in battaglia, quando la sua arringa aveva fatto leva sull’orgoglio di reggimento e stimolato il fervore patriottico.
I primi soldati sul ponte vennero abbattuti e arretrarono, ma alcuni saltarono nelle acque basse del fiume e continuarono a sparare da sotto al ponte e intorno, mentre Napoleone mandava altre ondate di uomini. Con grande coraggio, il ponte fu preso e difeso, nonostante i contrattacchi della cavalleria e della fanteria. Quando un reggimento francese di cacciatori comparve sulla sponda destra del fiume, avendo trovato un guado per attraversarlo, gli austriaci si ritirarono in buon ordine. Cinque giorni dopo gli austriaci erano stati respinti oltre l’Adige e Napoleone era a Milano.
L’assalto al ponte di Lodi divenne un elemento essenziale della leggenda napoleonica, anche se Napoleone affrontò soltanto la retroguardia austriaca ed entrambe le parti persero circa 900 uomini. Ci volle un tremendo coraggio per caricare su un ponte lungo e stretto affrontando la mitraglia incessante, e diversi ufficiali che condussero gli attacchi quel giorno, tra cui Berthier, Lannes e Masséna, divennero i più grandi comandanti di Napoleone. Dalla battaglia di Lodi in avanti, gli uomini di Napoleone lo soprannominarono le petit caporal, secondo l’antica tradizione dei soldati di canzonare con affetto i comandanti che ammirano. “Piccolo caporale” era un nomignolo gradito a Napoleone, che ne incoraggiava l’uso, poiché sottolineava un livellamento repubblicano al popolo. Dopo Lodi, tutto lo scontento facinoroso scomparve, sostituito dalla sensazione vitale dello spirito di corpo, che non svanì più per il resto della campagna.
«Non mi consideravo più un semplice generale, ma un uomo chiamato a decidere della sorte dei popoli», disse in seguito Napoleone parlando della sua vittoria. «Mi venne in mente che potevo davvero diventare un attore decisivo sul nostro palcoscenico nazionale. Nacque in quel momento la prima scintilla di suprema ambizione.» Lo ripeté a così tante persone diverse in così tante diverse occasioni per tutta la vita che Lodi può davvero essere considerata un momento di svolta nella sua carriera. Un’ambizione ostentata può essere una cosa terribile, ma se unita a una grande abilità, un’energia titanica, un grande obiettivo, il dono dell’oratoria, una memoria quasi perfetta, un tempismo superbo, un’autorevolezza stimolante, può dare risultati straordinari.
Riferì di aver perso 150 uomini contro i 2000 o 3000 austriaci. L’esagerazione sistematica delle perdite nemiche e la minimizzazione delle proprie sarebbe stato un tratto costante in tutte le campagne di Napoleone, e ovviamente era stato un tratto tipico degli scritti degli autori classici a lui così familiari. La applicava persino nelle sue lettere private a Giuseppina, aspettandosi che avrebbe diffuso l’informazione e questo avrebbe aggiunto credibilità grazie alla fonte. Sapeva che non avendo veri e propri mezzi per ricevere delle conferme, i francesi avrebbero creduto alle cifre che sceglieva di dichiarare, almeno in un primo momento, non solo riguardo ai morti e ai feriti, ma anche al numero dei prigionieri, dei cannoni e degli stendardi conquistati. Non riteneva di essere sotto giuramento quando compilava i bollettini militari.
Napoleone è stato criticato perché nei suoi rapporti dopo le battaglie mentiva, ma è assurdo ascrivere a tali rapporti una moralità convenzionale, poiché la disinformazione era un’arma bellica riconosciuta dai tempi di Sun Tzu. L’errore di Napoleone invece era di rendere così endemiche le esagerazioni che alla fine si arrivava a diffidare anche delle vittorie autentiche, o almeno a far loro la tara; nella lingua francese entrò l’espressione “mentire come un bollettino”. Quando poteva, Napoleone dava alla popolazione francese prove concrete, mandando gli stendardi catturati al nemico perché venissero esposti alla chiesa militare degli Invalides, ma per tutta la sua carriera dimostrò una straordinaria capacità di presentare le notizie terribili come se fossero soltanto cattive, quelle cattive come sgradite ma accettabili, quelle accettabili come buone e quelle buone come un trionfo.
Ancora prima di ricevere la notizia della vittoria di Napoleone a Lodi, il Direttorioescogitò un piano per cercare di costringerlo a condividere la gloria della campagna italiana, anche perché le prestazioni tutt’altro che brillanti dei generali Moreau e Jourdan in Germania avevano fatto sì che l’adulazione pubblica cominciasse pericolosamente a concentrarsi su di lui. Dopo il tradimento del generale Dumouriez nel 1793, nessun governo era stato disposto a concedere troppo potere a qualsiasi singolo generale. Quando Napoleone chiese che 15.000 uomini dell’armata delle Alpi al comando del generale Kellermann gli venissero inviati come rinforzi, il Direttoriorispose che senz’altro si potevano mandare gli uomini in Italia, ma Kellermann sarebbe andato con loro e il comando dell’Armata d’Italia sarebbe stato diviso. Il 14 maggio, quattro giorni dopo Lodi e il giorno prima di conquistare Milano, nella risposta Napoleone scrisse a Barras: «Darò le dimissioni. La natura mi ha concesso un sacco di caratteri e alcuni talenti. Non posso essere utile qui senza avere la vostra completa fiducia». Descriveva Kellermann, vincitore della battaglia di Valmy, come «un tedesco per il cui tono e i cui principi non ho rispetto». Allo stesso tempo disse a Carnot: «Non posso prestare servizio volentieri con un uomo che si considera il primo generale d’Europa, e inoltre sono convinto che sia meglio avere un cattivo generale che due buoni. La guerra, come il governo, è questione di tatto».
Napoleone dimostrò assai più tatto nella sua risposta ufficiale al Direttorio: «A ciascuno il suo modo di fare la guerra. Il generale Kellermann ha più esperienza e la farà meglio di me; ma entrambi, facendola insieme, la faremmo malissimo». Abbinata a questa falsa modestia c’era l’arroganza della giovinezza: «Ho condotto la campagna senza consultare nessuno. Non avrei compiuto niente che valesse la noia di obbligarmi a riconciliare le mie idee con quelle di un altro […] Poiché ero convinto della vostra totale fiducia, le mie mosse erano rapide come il mio pensiero». Napoleone aveva ragione a pensare che i due ben presto si sarebbero scontrati: come co-comandante sarebbe stato ingestibile, figuriamoci come subordinato. Fino a quel momento la campagna aveva dimostrato che un solo comandante in capo aveva maggior vantaggio sulla rigida struttura di comando austriaca. La sua minaccia di dimissioni, arrivando a ridosso della notizia della vittoria di Lodi e della presa di Milano, fu sufficiente a non sentir più parlare del progetto. Anche in seguito Napoleone avrebbe sempre saputo che, se continuava a vincere battaglie, aveva il coltello dalla parte del manico con il Direttorio, un organismo cui continuava a tributare obbedienza a parole, ma che era giunto a disprezzare sempre di più.
Domenica 15 maggio 1796 Napoleone entrò a Milano in trionfo. I carabinieri ebbero l’onore di entrare per primi, in riconoscimento dell’eroismo dimostrato nella presa del ponte a Lodi «vennero coperti di fiori e ricevuti con gioia» dal popolino. Anche se Napoleone veniva acclamato a voce alta mentre passava a cavallo per le strade, era consapevole della tendenza ad accogliere bene i conquistatori nelle città che si accingeva a occupare. Molti italiani erano felici che gli austriaci fossero stati espulsi, ma non nutrivano grande entusiasmo, quanto piuttosto apprensione, nei confronti dei loro successori francesi. Tuttavia un gruppo piccolo, ma comunque significativo, era sinceramente eccitato dall’effetto che le idee rivoluzionarie francesi avrebbero potuto avere sulla politica e la società italiana. Di regola erano più il ceto professionale e le élite secolarizzate a considerare Napoleone una forza liberatrice anziché i contadini cattolici, che vedevano i soldati francesi come atei stranieri.
Napoleone fu invitato ad alloggiare a Milano nel sontuoso palazzo Serbelloni dal duca Serbelloni, che aveva 30 domestici per il servizio in casa e 100 persone nelle cucine. Ne aveva bisogno, perché il suo ospite cominciò a dare ricevimenti di dimensioni grandiose, invitando scrittori, editori, aristocratici, scienziati, accademici, intellettuali, studiosi e persone capaci di influenzare l’opinione pubblica, e a godersela con l’opera, l’arte e l’architettura di Milano.

serbelloni

Palazzo Serbelloni dell'epoca

Desiderando apparire come il liberatore illuminato, anziché come l’ultimo di una lunga sfilza di conquistatori, Napoleone offriva la speranza che prima o poi ci sarebbe stato uno stato-nazione indipendente, unito, e perciò attizzava le scintille del nazionalismo italiano. A questo scopo, il giorno dopo il suo arrivo a Milano, dichiarò la creazione di una Repubblica lombarda che sarebbe stata governata da giacobini italiani filofrancesi. Inoltre incoraggiò l’apertura in tutta la regione di circoli politici (quello di Milano ben presto contava 800 tra avvocati e commercianti), abolì le istituzioni governative austriache, riformò l’università di Pavia, tenne elezioni municipali provvisorie, fondò una guardia nazionale e conferì con il principale promotore milanese dell’unificazione d’Italia, Francesco Melzi d’Eril, cui diede tutto il potere possibile. Nulla di tutto questo impedì a Napoleone e Saliceti di prelevare un “contributo” di 20 milioni di franchi alla Lombardia, per ironia della sorte lo stesso giorno in cui emanò l’ordine del giorno con il quale dichiarava di avere «un interesse troppo forte per l’onore dell’esercito per consentire a chiunque di violare i diritti di proprietà».
Il 23 maggio un’insurrezione contro l’occupazione francese a Pavia condotta da preti cattolici fu sedata brutalmente da Lannes, che si limitò a sparare sul consiglio municipale. Un incidente analogo ebbe luogo il giorno dopo a Binasco. Il paese era stato fortificato da contadini armati che lanciavano attacchi contro le linee di comunicazione francesi: «Mentre ero a metà strada per Pavia, a Binasco abbiamo incontrato un migliaio di contadini e li abbiamo sconfitti», riferì Napoleone a Berthier. «Dopo averne uccisi un centinaio abbiamo appiccato il fuoco al paese, dando un esempio terribile ma efficace.» L’incendio di Binasco fu simile a quel genere di azione antimboscata che stava prendendo piede all’epoca in tutta la Vandea, dove massacrare e mettere a fuoco i villaggi erano metodi utilizzati contro gli sciuani. «Lo spargimento di sangue è uno degli ingredienti della medicina politica», sosteneva Napoleone; ma pensava anche che le punizioni rapide e certe consentissero di evitare buona parte della repressione su larga scala.
Non indulgeva quasi mai nella brutalità fine a se stessa, e poteva essere sensibile alle sofferenze della gente. Una settimana dopo la repressione di Binasco disse al Direttorio: «Anche se necessario, lo spettacolo è stato comunque terribile; mi ha dolorosamente colpito». Dieci anni dopo, in un poscritto a una lettera a Junot, Napoleone scrisse: «Ricordate Binasco; mi ha procurato la tranquillità in tutta Italia, e ha risparmiato lo spargimento di sangue di migliaia di persone. Nulla è più salutare degli esempi adeguatamente severi». «Se si fa la guerra bisogna condurla con energia e severità», spiegò al generale d’Hédouville nel dicembre 1799, «è l’unico sistema per renderla più breve e di conseguenza meno deplorabile per l’umanità.»
Nel 1796 l’Italia, come avrebbe osservato in seguito Metternich, era «soltanto un’espressione geografica», un concetto assai più che una nazione, nonostante una cultura condivisa e un linguaggio comune che stava lentamente formandosi. Ora la Lombardia, in teoria, era una repubblica indipendente, anche se in sostanza restava un protettorato francese, ma Venezia era ancora una provincia austriaca e Mantova si trovava sotto l’occupazione dell’esercito asburgico. La Toscana, Modena, Lucca e Parma erano governate da duchi e granduchi austriaci; gli Stati pontifici (Bologna, Romagna, Ferrara, Umbria) erano di proprietà del papa; Napoli e la Sicilia costituivano un unico regno governato dal Borbone Ferdinando IV, e la monarchia savoiarda regnava ancora in Piemonte e Sardegna. Gli italiani come Melzi, che sognavano uno stato unificato, non avevano altra possibilità che riporre le proprie speranze su Napoleone, nonostante le sue richieste di “contributi”.
Il 16 maggio, venne insediata a Milano l'Amministrazione Generale della Lombardia, entità politico-militare della quale facevano parte sia francesi (provenienti dalle file dell'Armata d'Italia) sia esponenti illuministi filo-francesi del capoluogo lombardo, come Pietro e Alessandro Verri, Gian Galeazzo Serbelloni e Francesco Melzi d'Eril.
Il Direttoriovoleva che Napoleone avanzasse sulla Napoli borbonica, ma lui comprese che marciare verso sud sarebbe stato pericoloso alla luce della minaccia proveniente dal Tirolo, quindi invece di esorbitare dagli ordini provenienti da Parigi li sfidò. Napoleone ordinò a Miot di trattare un armistizio con Napoli in base al quale la città avrebbe dovuto ritirare i suoi quattro reggimenti di cavalleria dall’esercito austriaco e le sue navi dalla squadra della marina britannica a Livorno. L’alternativa era un’invasione di Napoli da parte dell’Armata d’Italia. Il negoziatore napoletano, il principe di Belmonte-Pignatelli, di fronte alla minaccia di invasione, nel giro di due ore firmò il trattato che gli fu posto davanti. Ormai Napoleone intendeva denigrare il Direttorio, e chiese a Pignatelli se davvero pensava «che lui combattesse per quei furfanti di avvocati».
Anche se nella campagna italiana il nemico principale era sempre l’Austria, Napoleone riusciva ad approfittare dei brevi momenti in cui gli austriaci non rappresentavano un pericolo per proteggere le sue retrovie. Le truppe francesi, arrivate negli Stati pontifici nel giugno 1796, accendevano le pipe con i ceri d’altare, anche se la semplice vividezza di questa immagine ha un sentore di propaganda antifrancese. È vero però che papa Pio VI aveva denunciato la rivoluzione francese e sostenuto, senza entrarvi ufficialmente, la prima coalizione contro la Francia. Ben presto gliel’avrebbero fatta pagare cara per questo insulto. Il papa, settantottenne, regnava già da 21 anni, e non aveva la capacità militare o personale per impedire che Napoleone entrasse a Modena il 18 giugno né, il giorno dopo, che espellesse le autorità papali da Bologna, e le costringesse a scendere a patti nel giro di una settimana. Verso la fine di giugno Napoleone concordò un armistizio con il papa, con un “contributo” di 15 milioni di franchi, sufficiente a conciliare il Direttoriocon l’idea di un trattato di pace. Saliceti negoziò anche la consegna di «100 dipinti, vasi, busti o statue, come stabiliranno i commissari francesi», incluso un busto di bronzo di Giunio Bruto e uno di marmo di Marco Bruto, più 500 manoscritti della biblioteca vaticana.
Il 21 giugno, il ventiseienne Napoleone scrisse non meno di quattro lettere al Direttorioa Parigi, avvertendo che aveva solo un esercito «mediocre» con cui «affrontare tutte le emergenze»: «Per tenere in scacco le armate [austriache], per assediare forti, proteggere le nostre retrovie, intimidire Genova, Venezia, Firenze, Roma e Napoli, dobbiamo essere in forze dappertutto». Era vero: le grandi città d’Italia (avrebbe potuto includervi anche Milano e Torino) erano tenute a freno sia dal timore complessivo dalla sua apparente invincibilità, sia da qualsiasi forza militare presente nelle vicinanze. Una rivolta ben coordinata lo avrebbe trovato vulnerabile. Il Direttorioera restio a concedere rinforzi, per la convinzione ancora solida che il Reno fosse un teatro delle operazioni assai più importante.
All’epoca, per governare l’Italia, Napoleone si avvaleva di un ben calibrato dosaggio di minacce e noncuranza. «Qui bisogna incendiare e sparare per instaurare il terrore», scrisse il 22 giugno, «e lì bisogna far finta di non vedere, perché non è ancora giunto il momento di agire». Faceva appello all’orgoglio di quelli che conquistava, ma non lasciava loro dubbi sulle conseguenze della resistenza. «L’esercito francese ama e rispetta tutte le popolazioni, soprattutto i semplici e virtuosi abitanti delle montagne», dichiarò in un appello ai tirolesi quello stesso mese, «ma se doveste ignorare i vostri stessi interessi e impugnare le armi, saremo terribili come il fuoco dal cielo».
I britannici, che erano stati ottimi soci d’affari del granduca di Toscana, vennero espulsi da Livorno il 27 giugno, e furono confiscate loro merci per un valore di 12 milioni di sterline. L’11 giugno, quando i britannici reagirono occupando, al largo delle coste italiane, l’isola d’Elba, già possedimento del granducato, Napoleone osservò con buonsenso: «Non avremo il diritto di lamentarci per una violazione di neutralità di cui noi stessi abbiamo dato l’esempio». Poco dopo Napoleone estorse un “contributo” al granduca Ferdinando III di Toscana, fratello minore dell’imperatore Francesco, che aveva concesso ai mercanti inglesi privilegi commerciali a Livorno. Il 1° luglio, quando Napoleone andò a Firenze, le strade da San Frediano alle porte di palazzo Pitti erano «gremite dell’intera popolazione» che cercava di vederlo un istante. Napoleone andò a trovare Ferdinando a palazzo Pitti, nel giardino di Boboli, e vide i magnifici affreschi di Pietro da Cortona sui soffitti, commissionati dai Medici, difficili da trasferire a Parigi, mentre i dipinti di Rubens, Raffaello, Tiziano, Van Dyck e Rembrandt, si potevano portar via. Disse al granduca, che lo ricevette con estrema gentilezza: «Vostro fratello non ha più un metro di terra in Lombardia». Non era vero: Mantova resisteva ancora. Ma anche se Ferdinando «ebbe una tale padronanza di sé da non tradire la minima preoccupazione», sapeva che alla caduta della città sarebbe presto seguita, per lui, la perdita del trono.
Il 26 giugno alla fine Giuseppina partì da Parigi diretta a Milano, in lacrime. La accompagnavano: la sua dama di compagnia Louise Compoint, Giuseppe Bonaparte (che stava curandosi una malattia venerea), il cognato di Giuseppe, Nicolas Clary, il finanziere Antoine Hamelin (che voleva un lavoro da Napoleone e quindi manteneva Giuseppina a sue spese), Junot, quattro servitori, una scorta di cavalleria e il suo cagnolino bastardo, Fortuné, che una volta aveva morso Napoleone a letto e in seguito avrebbe avuto la peggio in una impari battaglia contro il cane più grosso e più feroce del cuoco. Giuseppina, con una sfacciataggine inaudita, si portò dietro anche l'amante, il suo “ussaro da camera” Hippolyte Charles. Durante il viaggio Junot sedusse Louise, quindi, quando giunsero a Milano, Giuseppina la licenziò, inimicandosi Junot. Due anni dopo lo avrebbe rimpianto amaramente.
Costretto il Piemonte all'armistizio e occupata Milano, Napoleone ricevette dal Direttorioi pieni poteri sull'Armata d'Italia e si preparò al compito più difficile: sconfiggere l'esercito austriaco. Mentre le truppe francesi assediavano la fortezza di Mantova, gli austriaci sferrarono una controffensiva che inizialmente mise in difficoltà il generale. Dopo una serie di scontri parziali, gli eserciti francese e austriaco si fronteggiarono, il 5 agosto, nella Battaglia di Castiglione. Fu, quella di Castiglione delle Stiviere, la prima grande battaglia campale diretta da Napoleone, il quale dimostrò il suo genio tattico ribaltando a proprio favore una situazione che pareva compromessa e conquistando una delle più importanti vittorie della sua carriera militare. Sebbene non definitiva, la sconfitta fu pesante per l'esercito austriaco che, riorganizzato e rinforzato da nuovi reparti, venne in seguito battuto a Bassano, Arcole e, infine, a Rivoli, prima battaglia d'annientamento della carriera di Napoleone.
Nell'ottobre del 1796, si costituì la Legione Lombarda, prima forza armata composta da italiani ad adottare quale bandiera di guerra il Tricolore (verde, bianco e rosso). Contemporaneamente le ex-legazioni pontificie si costituirono in Repubblica Cispadana e adottarono (7 gennaio 1797) il tricolore quale bandiera nazionale. Col trattato di Tolentino, Papa Pio VI, fu costretto a riconoscere la cessione delle Legazioni di Forlì, Ravenna, Bologna e Ferrara. Per gestire questi territori, venne creata l'Amministrazione Centrale d'Emilia, la cui sede venne fissata da Napoleone stesso in Forlì a partire dal 18 aprile 1797. Il successivo 29 giugno venne proclamata la Repubblica Cisalpina con capitale Milano; la stessa il 9 luglio incorporò la Repubblica Transpadana. Con il diretto intento di danneggiare il pontefice fu proclamata il 19 novembre 1797 la Repubblica Anconitana con capitale Ancona che fu poi unita alla Repubblica Romana: il tutto ebbe però breve durata, poiché nel 1800 lo Stato Pontificio fu ripristinato.
Napoleone aveva chiamato Giuseppe, al quale Saliceti aveva procurato la carica di commissario generale dell’Armata d’Italia, allo scopo di avere qualcuno vicino a cui poter affidare delicate trattative segrete. In quella funzione, Giuseppe sarebbe stato utilizzato dal fratello per missioni a Livorno, Parma e Roma, e in seguito si sarebbe recato insieme a Miot de Melito in Corsica per ristabilire il controllo francese. Nel corso di tali spedizioni, Giuseppe scoprì di avere un autentico talento per la diplomazia.
Wurmser stava marciando verso sud con 50.000 uomini, e i francesi avevano bisogno di strappare Mantova a Beaulieu prima che potesse liberarla. «Propongo di effettuare un ardito colpo di mano», scrisse Napoleone al Direttorio. Lo informò anche del piano di Murat di attraversare di notte, con uomini travestiti da soldati austriaci, uno dei quattro laghi artificiali a protezione di Mantova, nella speranza di riuscire a tenere aperte le porte della città per un arco di tempo sufficiente a far entrare le truppe napoleoniche. Probabilmente Napoleone pensava alle oche capitoline che avevano salvato l’antica Roma quando scrisse dell’«attacco improvviso [di Murat] che come tutti quelli di natura analoga, dipende dalla fortuna, un cane o un’oca». Nel caso specifico un calo inaspettato del livello del Po fece abbassare le acque dei laghi abbastanza per intralciare il piano. Verso la fine di luglio Napoleone aveva scoperto da un informatore prezzolato nello stato maggiore austriaco che Wurmser stava portando il suo esercito, in cui al momento c’erano eccellenti unità di veterani recuperati dalla campagna sul Reno, su entrambi i lati del lago di Garda per liberare Mantova dove le malattie cominciavano a logorare la guarnigione di Beaulieu. Wurmser stava, effettivamente, avanzando lungo la sponda orientale del lago di Garda con 32.000 uomini disposti in cinque colonne, mentre il generale Peter von Quasdanovich, ufficiale di cavalleria croato di nascita, costeggiava il fiume sulla sponda occidentale con 18.000 uomini. Napoleone lasciò Sérurier con 10.500 uomini a mantenere l’assedio di Mantova. Gli restavano 31.000 uomini per affrontare le nuove minacce. Ne mandò 4400 al comando del generale Pierre-François Sauret a Salò per rallentare Quasdanovich, ordinò a Masséna di recarsi sulla sponda orientale con 15.400 uomini, schierò il generale Hyacinthe Despinoy con 4.700 uomini a proteggere la linea Peschiera-Verona, mandò i 5.300 uomini di Augereau a sorvegliare le strade provenienti da est e tenne come riserva i 1.500 soldati di cavalleria di Kilmaine. Lui poi continuò a spostarsi tra Brescia, Castelnuovo, Desenzano, Roverbella, Castiglione, Goito e Peschiera, stabilendo il suo quartier generale mobile nel campo che di volta in volta gli dava la migliore prospettiva riguardo al progredire della campagna militare.
Il 29 luglio Quasdanovich scacciò Sauret da Salò come previsto, anche se la cittadina cambiò di mano tre volte. Alle tre del mattino, a est del lago di Garda, Masséna fu attaccato alla Madonna della Corona e a Rivoli da gruppi numerosi, e dovette condurre una lunga ritirata armata seguendo il corso dell’Adige e arrivando a Bussolengo prima di notte. Gli austriaci avanzarono e occuparono Rivoli. Napoleone rassicurò Masséna: «Riprenderemo domani, o più avanti, quello che avete perso oggi. Nulla è perduto, finché c’è il coraggio». Ma il 30 luglio, in un’operazione nota come la “sorpresa di Brescia”, gli austriaci occuparono la guarnigione e gli ospedali di Brescia, con solo tre uccisi e undici feriti. Tra i malati c’erano Murat (che aveva preso una malattia venerea da madame Rugat), Lannes e il figlio di Kellermann, l’eccellente cavallerizzo François-Étienne.
«Abbiamo incontrato alcuni intoppi», ammise Napoleone nel rapporto al Direttorio, mentre inviava nelle retrovie tutto l’equipaggiamento non indispensabile. All’alba del 29 luglio, ritenendo che il nemico stesse scendendo in forza da Bassano, aveva ordinato il concentramento a Villanova, a est di Verona. La divisione di Augereau aveva percorso 100 chilometri in 55 ore di marcia e contromarcia, ma a mezzogiorno del giorno dopo Napoleone si rese conto che la forza nemica principale in realtà si trovava a nord e ovest rispetto a lui. Se nello scontro con il grosso delle forze di Wurmser non avesse ottenuto una vittoria completa avrebbe perso comunque Mantova, quindi decise di occuparsi innanzitutto di Quasdanovich. Perciò il 30 luglio ordinò a Seurier di abbandonare l’assedio di Mantova per andare a ingrossare le sue forze sul campo, aggiungendo alle truppe di Augereau la brigata del generale Louis Pelletier e quella di Dallemagne al contingente di Masséna. Il suo ordine ad Augereau di ritirarsi a Roverbella diceva: «Ogni minuto è prezioso […] il nemico ha sfondato la nostra linea in tre punti: è padrone di due punti importanti, la Corona e Rivoli […] Vedrete che le nostre comunicazioni con Milano e Verona sono state tagliate. Aspettate nuovi ordini a Roverbella; verrò di persona». Augereau non perse tempo.
Rinunciare all’assedio a Mantova comportava l’abbandono di ben 179 cannoni e mortai che non potevano essere spostati e obbligava a buttare nei laghi le munizioni. A Napoleone dispiaceva farlo, ma sapeva che nella guerra moderna le vittorie decisive si ottenevano sul campo di battaglia, non nelle fortezze. «Qualunque cosa accada e per quanto costi, domani dobbiamo assolutamente dormire a Brescia», disse a Masséna. Nel territorio tra Brescia e Mantova ci sono alture di 1000 metri e catene di colline moreniche sulla linea Lonato, Castiglione, Solferino e Volta, un terreno molto accidentato che scende su una campagna pianeggiante e ampia. Il 31 luglio alle tre del mattino l’esercito francese si mise in marcia in direzione ovest, e all’alba Sauret e il generale austriaco Ott si contesero la cittadina di Lonato in un’accanita battaglia che proseguì per quattro ore. Intanto Masséna si schierava alla sua sinistra, tra Desenzano e Lonato, con la 32a semibrigata di linea. Ott, data la forte inferiorità numerica, arretrò. Augereau stava avanzando in tutta fretta, quindi i 18.000 uomini di Quasdanovich si trovarono a dover affrontare 30.000 francesi: subito si ritirarono. Quella notte Napoleone, temendo per le sue linee di comunicazione, avanzò insieme ad Augereau fino a Brescia, e vi arrivò la mattina dopo prima delle dieci.
Intanto Wurmser, avendo sentito dire che Napoleone marciava verso ovest alla volta di Brescia e ammassava le forze a Roverbella per difendere le linee dell’assedio a Mantova (che in realtà aveva abbandonato), era del tutto disorientato, e rimase inattivo perdendo l’iniziativa. Il giorno dopo il generale Antoine Lavalette, che colto dal panico era fuggito da Castiglione, fu destituito dal comando di fronte ai suoi uomini della 18a semibrigata leggera. Quel giorno l’entusiasmo delle truppe aiutò Napoleone a decidere di tentare di sgominare Quasdanovich. Alla seconda battaglia di Lonato, il 3 agosto, mandò da Brescia il contingente di Despinoy ad accerchiare il fianco destro di Quasdanovich a Gavardo, e Sauret con i suoi effettivi e altri rinforzi ad attaccarlo sul fianco sinistro a Salò, mentre la brigata di Dallemagne marciava tra i due con funzioni di collegamento. Quando gli uomini di Sauret si lamentarono di avere fame, Napoleone disse loro che avrebbero potuto trovar da mangiare nel campo nemico.
Proprio mentre la brigata del generale Jean-Joseph Pijon veniva respinta da Lonato e Pijon stesso finiva prigioniero, Napoleone arrivò alla testa di una parte della divisione di Masséna. Ordinò la 32a semibrigata di linea in “colonne di plotoni”, e senza pause, mentre tamburini e musicisti suonavano, la mandò a una carica di baionetta, sostenuta dalla 18a di linea. Nonostante la perdita di entrambi i comandanti dei battaglioni, i francesi respinsero gli austriaci spingendoli verso Desenzano, proprio tra le braccia della compagnia di cavalleria della scorta di Napoleone insieme a una parte del 15° reggimento dragoni e del 4° di fanteria leggera. Junot era stato ferito sei volte, ma questo non gli impedì di accettare la resa di tutta la brigata austriaca. Quando apprese del disastro, Quasdanovich si ritirò proprio passando intorno alla parte settentrionale del lago per ricongiungersi a Wurmser. Per i dieci giorni successivi sarebbe rimasto inattivo. «Ero tranquillo», scrisse Napoleone nel bollettino dopo la battaglia. «C’era la coraggiosa 32a semibrigata.» La 32a fece ricamare a grandi lettere d’oro queste parole sulla propria bandiera: l’orgoglio l’avrebbe spronata a maggior coraggio. «È stupefacente il potere delle parole sugli uomini», osservò Napoleone anni dopo, parlando della 32a.
Augereau riconquistò Castiglione il 3 agosto, dopo 16 ore di accaniti combattimenti nella rovente, arida pianura. Per anni, in seguito, ogni volta che tra i generali Augereau veniva criticato per la sua slealtà, Napoleone diceva: «Ah, ma non dimentichiamoci che a Castiglione ci ha salvato». Il 4 agosto quando tutti i francesi vi si furono concentrati, Wurmser aveva ormai perso qualsiasi possibilità di attaccare Napoleone alle spalle. Il massimo che poteva sperare, mentre si avvicinava lentamente a Solferino con circa 20.000 uomini, era di guadagnare tempo perché Mantova si preparasse a un altro assedio. La mattina del 4 agosto Napoleone era a Lonato con 1.200 uomini appena, quando oltre 3.000 austriaci dispersi, che erano stati tagliati fuori dal comando di Quasdanovich, d’un tratto si ritrovarono per errore nella cittadina. Napoleone informò con calma il loro parlamentare (l’ufficiale mandato a trattare) che era presente il suo «intero esercito»: «Se nel giro di dieci minuti la divisione non avesse deposto le armi, non avrei risparmiato un solo uomo». Corroborò l’inganno dando a Berthier, che era al corrente della situazione, ordini circa unità di granatieri e di artiglieria del tutto fittizie. Solo dopo essersi arresi ed essere stati disarmati, gli austriaci scoprirono che non c’erano forze francesi nelle vicinanze e che avrebbero potuto catturare Napoleone senza difficoltà.
Nella seconda battaglia di Lonato Napoleone utilizzò per la prima volta il sistema del battaglione quadrato. Anche se era stato proposto da Guibert e Bourcet nei manuali tra il 1760 e il 1780, Napoleone fu il primo a metterlo in pratica con successo su un campo di battaglia. Con le unità in formazione a diamante, se ci si scontrava con il corpo principale del nemico, diciamo, sul fianco destro, la divisione sulla destra diventava avanguardia con il compito di trattenere il nemico sul posto. Le divisioni che in precedenza costituivano avanguardia e retroguardia diventavano automaticamente la massa di manovra. L’esercito perciò poteva svoltare di 90 gradi in entrambe le direzioni con relativa facilità; il sistema aveva l’ulteriore vantaggio di poter essere riprodotto in scala più ampia, in quanto applicabile a interi corpi d’armata e divisioni. Il punto essenziale era quello che Bourcet chiamava “dispersione calcolata”, che consentiva un enorme aumento di flessibilità a Napoleone, permettendogli di adeguare costantemente il fronte con il mutare delle circostanze.
Il battaglione quadrato venne impiegato da Napoleone anche venerdì 5 agosto nella seconda battaglia di Castiglione, 30 chilometri a nord-ovest di Mantova. Wurmser era schierato con 20-25.000 uomini tra Solferino, sul suo fianco destro, e la solida ridotta di Monte Medolano, sulla strada tra Mantova e Brescia. Napoleone aveva oltre 30.000 uomini, i 10.000 di Masséna ammassati in linea e in colonna alla sinistra, gli 8.000 di Augereau disposti su due linee di fronte alla cittadina di Castiglione, la cavalleria di Kilmaine di riserva sulla destra, 5.000 uomini di Despinoy tornati da Salò, e i 7.500 del generale Pascal Fiorella provenienti dal sud, nella speranza di infliggere un colpo decisivo alla retroguardia austriaca. Aveva progettato di attirare le riserve di Wurmser a nord fingendo di ritirarsi. Alle nove del mattino del 5 agosto, quando sentì sparare i cannoni, Napoleone ritenne che segnalassero l’arrivo del generale Fiorella, ma in realtà era soltanto il suo 8° dragoni che saccheggiava le salmerie austriache a Guidizzolo. Mandò all’attacco Masséna e Augereau, mentre Marmont fu inviato verso Monte Medolano con una batteria di 12 cannoni. I combattimenti si svilupparono su tutta la linea, Augereau espugnò Solferino e Despinoy arrivò in tempo per aiutare la sinistra del centro, mentre Wurmser fu costretto a spostare la fanteria per bloccare Fiorella. Così Wurmser si trovò intrappolato tra due armate, con una terza che lo minacciava alle spalle. Fu costretto a ritirarsi, evitando di essere catturato dalla cavalleria leggera francese. Solo la spossatezza dei francesi dopo la lunga marcia impedì la totale distruzione dell’esercito austriaco, che fuggì oltre il Mincio.
Quel giorno gli austriaci ebbero 2.000 caduti tra morti e feriti; altri 1.000 uomini vennero catturati insieme a 20 cannoni. «Quindi eccoci qui», riferì Napoleone al Direttorioil 6 agosto. «In cinque giorni è stata ultimata un’altra campagna». Due giorni dopo, mentre rioccupava Verona, aggiunse: «L’esercito austriaco […] è svanito come un sogno, e l’Italia che minacciava ora è tranquilla». Il 10 agosto riprese l’assedio di Mantova. Tra le sue mura spesse tre metri c’erano ancora 16.400 soldati austriaci, anche se solo 12.200 abili al servizio.
Napoleone impiegò le tre settimane di agosto rimaste a rimettere in sesto il suo esercito, e rimandò a casa Sauret e Sérurier, due suoi generali che erano stati feriti e che ammirava molto. Li sostituì, con pochissime indicazioni da Parigi, con un artigliere veterano, il generale Claude-Henri de Vaubois e il trentenne appena promosso generale Jean-Joseph de Sahuguet. La sua reputazione in Francia stava crescendo a ogni vittoria e i membri del Direttoriotemevano sempre di più che non potesse essere tenuto sotto controllo.
Alla fine di agosto Napoleone venne a sapere che Wurmser stava per fare un secondo tentativo di liberare Mantova. Setacciando le sue linee di comunicazione e ricevendo alcuni uomini dall’Armata delle Alpi Napoleone mise insieme un totale di oltre 50.000 effettivi. Non sapendo quale dei tre itinerari possibili avrebbe seguito Wurmser, inviò Vaubois con 11.000 uomini sulla parte orientale del lago di Garda per bloccare quell’accesso, Masséna con 13.000 e Augereau con 9.000 rispettivamente a Rivoli e a Verona come sua massa di manovra centrale. Kilmaine sorvegliava gli accessi orientali con 1.200 soldati di fanteria e la maggior parte della cavalleria. Quanto a Napoleone, rimase con 3.500 riserve a Legnago, mentre Sahuguet assediava Mantova con 10.000 uomini e altri 6.000 sorvegliavano i dintorni di Cremona contro le insurrezioni. Una volta compresa la via d’attacco seguita da Wurmser, Napoleone avrebbe concentrato le sue forze. Sino ad allora si sarebbe dedicato a fare in modo che ci fossero grosse provviste di brandy, farina, foraggio, munizioni e gallette.
Il 2 settembre ormai Napoleone sapeva per certo che Wurmser stava scendendo lungo la Vallagarina, la valle dell’Adige. Progettava di attaccare non appena avesse ricevuto la notizia che il generale Moreau, al comando dell’Armata di Germania, era arrivato a Innsbruck, perché, se possibile, intendeva coordinare le sue avanzate con quanto accadeva in Germania. Ma il 3 settembre l’arciduca Carlo sconfisse il generale Jourdan a Würzburg; Moreau stava compiendo un’incursione molto lontano nella Baviera meridionale, a Monaco, quindi nemmeno lui poteva essere di alcun aiuto. Napoleone doveva evitare il rischio di battersi nello stesso momento contro le forze dell’arciduca Carlo e quelle di Wurmser, perché non aveva abbastanza uomini per farlo.
Napoleone avanzò sino a Rovereto, 25 chilometri a sud di Trento, dove il 4 settembre intercettò l’avanguardia di Wurmser. All’alba si trovava di fronte alla ben difesa gola di Marco (proprio sotto Rovereto) mentre un altro contingente nemico aveva preso posizione oltre l’Adige, al campo trincerato di Mori. La fanteria leggera di Pijon conquistò le alture a sinistra di Marco, e dopo due ore di ostinata resistenza la linea austriaca cedette. 750 francesi risultarono uccisi, feriti o dispersi. Il generale austriaco, il barone Davidovich, perse 3.000 uomini (per la maggior parte fatti prigionieri), 25 cannoni e 7 stendardi.
L’esercito austriaco era ormai in piena ritirata, ma nella stessa vallata, nel corso di quella settimana, si svolsero altre quattro battaglie. A Calliano, a causa del cattivo servizio di picchetto austriaco, i francesi sorpresero gli austriaci mentre si preparavano la prima colazione e li costrinsero ad abbandonare le loro posizioni. Il 7 settembre a Primolano i francesi attaccarono una posizione in apparenza inespugnabile, e la occuparono grazie al loro slancio. I due lati della vallata si univano bruscamente formando una “u” in cui, tra i dirupi laterali, c’era meno di un chilometro. Non sembrava difficile per gli austriaci riuscire a difendere il passo, ma nel pomeriggio alcune colonne di fanteria leggera francese sciamarono su entrambi i lati della montagna, attraversarono la forte corrente del Brenta entrando nell’acqua fino al petto e caricarono gli austriaci, mettendoli in fuga sino a Bassano.
Il giorno dopo Napoleone catturò 2.000 austriaci e prese 30 cannoni a Bassano, oltre a molti carri di munizioni. Solo l’11, a Cerea, Masséna subì una sconfitta secondaria, con 400 francesi caduti, tra morti e feriti, quando, inseguendo il nemico, si spinse troppo avanti. Il giorno dopo Augereau prese Legnago e 22 cannoni austriaci senza subire perdite, liberando 500 prigionieri di guerra francesi. Poi, solo tre giorni dopo, il 15 settembre, alla Favorita, fuori Mantova, Kilmaine inferse una sconfitta a Wurmser che costrinse il comandante in capo austriaco a rifugiarsi in città.
Il 19 settembre Napoleone era di nuovo a Milano con Giuseppina, e vi rimase quasi un mese, mandando Marmont a Parigi con il miglior strumento di propaganda: 22 stendardi austriaci da esporre a Les Invalides. Il tempismo tenuto nelle operazioni gli aveva, da solo, consentito di mantenere sempre l’iniziativa, di filare inarrestabilmente lungo una stretta vallata piena di punti in cui gli austriaci sarebbero dovuti riuscire a rallentarlo o a fermarlo. Questa campagna lampo su per la valle del Brenta era un perfetto esempio del perché lo spirito di corpo fosse così prezioso. Napoleone aveva sfruttato la sua padronanza dell’italiano per interrogare la popolazione locale e aveva utilizzato il sistema del battaglione quadrato per poter muovere velocemente il suo esercito in qualsiasi direzione, dando ordini sul momento. Aveva diviso l’esercito austriaco a Rovereto e aveva costretto i tronconi ad allontanarsi separatamente, facendo sì di poterli battere uno dopo l’altro con la classica manovra della posizione centrale, mantenendo nel contempo Wurmser sotto pressione con attacchi regolari all’alba.
Il 10 ottobre ormai Mantova era di nuovo sotto stretto assedio, con la differenza che questa volta Wurmser era dentro le mura. Nel giro di sei settimane 4.000 dei suoi uomini morirono per le ferite, la malnutrizione e le malattie, e altri 7.000 vennero ricoverati. Disponendo di derrate alimentari sufficienti solo per altri 38 giorni, Wurmser era costretto a fare delle sortite per cercare provviste in campagna, anche se una gli costò quasi 1.000 uomini. Mantova non poteva resistere ancora per molto, ma nel quadro complessivo della guerra Napoleone non sembrava avere molte possibilità di espugnarla. Il 21 settembre Jourdan era stato respinto oltre il Reno dall’arciduca Carlo ed era probabile che gli austriaci avrebbero presto fatto un terzo tentativo di liberare Mantova, questa volta con effettivi assai più numerosi. Napoleone chiese al Direttorio25.000 uomini di rinforzo nel caso di una dichiarazione di guerra degli stati papalini e di Napoli, aggiungendo: «Il duca di Parma si comporta proprio bene; è anche inutile, da tutti i punti di vista». Il 2 ottobre Napoleone offrì condizioni di pace all’imperatore Francesco, sperando di attirarlo al tavolo dei negoziati con un misto di adulazioni e minacce. «Maestà, l’Europa vuole la pace», scrisse. «Questa guerra disastrosa è durata troppo a lungo.» Poi lo avvertì che il Direttoriogli aveva ordinato di chiudere il porto di Trieste e altri porti austriaci sull’Adriatico, aggiungendo: «Per ora ho rimandato l’esecuzione del piano, sperando di non aumentare il numero delle vittime innocenti di questa guerra». L’imperatore Francesco d’Austria, che era anche il capo del Sacro romano impero, era un uomo orgoglioso, ascetico, calcolatore, che odiava la rivoluzione in cui era stata decapitata sua zia Maria Antonietta e che aveva per breve tempo guidato l’esercito austriaco nella campagna delle Fiandre del 1794, prima di cedere il comando a suo fratello, l’arciduca Carlo, assai più dotato sul piano militare. Napoleone non ricevette risposta alla sua offerta di pace.
L’8 ottobre Napoleone minacciò di nuovo di dimettersi, questa volta in ragione dello sfinimento generale. «Non riesco più a montare a cavallo», scrisse, «mi rimane soltanto il coraggio, che non è sufficiente in un posto come questo». Dichiarò anche che non sarebbe stato possibile prendere Mantova prima di febbraio, aggiungendo: «Roma sta armandosi e fomenta il fanatismo della popolazione». Riteneva che l’influenza del Vaticano fosse «incalcolabile». Chiese l’autorizzazione di firmare un trattato definitivo con Napoli, valutandolo «davvero fondamentale», e una «necessaria» alleanza con Genova e il Piemonte, avvertendo che le piogge autunnali avevano portato malattie per cui i suoi ospedali stavano riempiendosi. Il messaggio principale era: «Soprattutto, mandate truppe». Ma voleva anche che a Parigi sapessero una cosa: «Ogni volta che il vostro generale in Italia non è al centro di tutto correte gravi rischi».
Due giorni dopo, e senza il consenso preventivo del Direttorio, Napoleone firmò un ampio trattato di pace con Napoli, che consentiva ai Borboni di conservare il trono indisturbati se accettavano di non partecipare ad alcuna attività contro i francesi. Se gli austriaci erano intenzionati a sferrare un attacco da nord, Napoleone aveva bisogno di essere sicuro a sud. Fece anche in modo che le sue linee di comunicazione corressero attraverso la più affidabile Genova, anziché il Piemonte, il cui nuovo re, Carlo Emanuele IV, rappresentava un’incognita.
Il 16 ottobre Napoleone mandò a dire a Wurmser di consegnare Mantova. «I prodi dovrebbero affrontare il pericolo, non soffocare le epidemie», scrisse, ma ricevette un netto rifiuto. Lo stesso giorno, sempre con istruzioni minime dal Direttorio, proclamò l’istituzione della Repubblica cispadana, formata da Bologna, Ferrara, Modena e Reggio (questo comportava la destituzione del duca di Modena, che aveva consentito a un convoglio di vettovaglie di entrare a Mantova) con una nuova legione italiana, forte di 2800 effettivi, per proteggerla. La Repubblica cispadana aboliva il feudalesimo, decretava l’eguaglianza civile, istituiva un’assemblea eletta dal popolo; diede inizio al movimento di unificazione noto come Risorgimento, che alla fine, anche se 75 anni dopo, avrebbe prodotto un’Italia unita, indipendente. Per scriverne la costituzione ci vollero ben 38 riunioni, e questo attesta la pazienza di Napoleone, che vi partecipò in prima persona. I francesi stavano cominciando a portare nella penisola un’unità politica che non si vedeva da secoli.
In un ambito, tuttavia, le istituzioni rivoluzionarie francesi non avevano grandi possibilità di imporsi, in Italia: nonostante gli sforzi, non riuscivano a ridurre il potere della chiesa cattolica romana. Gli italiani si opponevano con passione alle innovazioni religiose di Napoleone; in quella che nella storia italiana si chiama l’epoca francese, le riforme di Napoleone della chiesa erano odiate con la stessa intensità con cui era ammirata l’introduzione della sua cultura amministrativa. I tentativi di Napoleone di fare il prepotente con il Vaticano cominciarono presto. Nell’ottobre del 1796 avvertì Pio VI di non opporsi alla Repubblica cispadana e di non sognarsi di attaccare i francesi quando fossero tornati gli austriaci. Informò il pontefice con tono minaccioso che «per distruggere il potere temporale del papa, basta volerlo», aggiungendo che invece, in tempo di pace, «si può concordare ogni cosa». Poi lo avvertiva che se avesse dichiarato guerra, questo avrebbe comportato «la rovina e la morte dei pazzi che si fossero opposti alle falangi repubblicane». Con il Direttorioche non riusciva a mettere insieme i 25.000 rinforzi di cui aveva così disperato bisogno dopo le sconfitte di Jourdan e Moreau in Germania (ne arrivarono appena 3.000 per la campagna imminente), Napoleone doveva guadagnare tempo. Lo disse a Cacault a Roma: «Per noi in realtà il gioco consiste nel gettarci la palla da uno all’altro, in modo da ingannare la vecchia volpe».
All’inizio di novembre gli austriaci erano pronti per il loro terzo tentativo di liberare Mantova.n Il generale veterano ungherese József Alvinczi e i suoi 28.000 uomini dovevano respingere i francesi da Rivoli a Mantova, mentre il generale Giovanni di Provera sarebbe dovuto avanzare con 9.000 uomini da Brenta a Legnago come diversivo; intanto 10.000 effettivi a Bassano avrebbero cercato di impedire a Napoleone di concentrare le sue forze. Il fatto che 19.000 uomini fossero essenzialmente impegnati in azioni diversive, e solo 28.000 costituissero la forza principale domostrava che gli austriaci non avevano imparato niente dai sei mesi precedenti.
Napoleone ora aveva 41.400 uomini, li posizionò il più lontano possibile in modo che potessero avvertirlo con il massimo anticipo su dove e quando sarebbero arrivati gli austriaci. Inoltre aveva 2700 uomini di guarnigione a Brescia, Peschiera e Verona, e dalla Francia stava arrivando la 40a semibrigata, costituita da 2500 unità. Il 2 novembre Alvinczi attraversò il Piave. Diede ordine a Quasdanovich e Provera di arrivare a Vicenza, Quasdanovich passando da Bassano e Provera da Treviso. L’avanzata austriaca era iniziata. Con suo gran dispiacere, Masséna fu costretto a obbedire all’ordine di Napoleone di ritirarsi a Vicenza senza combattere. Dopo Augereau, anche lui aveva cominciato ad apprezzare Napoleone come capo e come soldato, ma d’altra parte era geloso della propria reputazione di essere fra i migliori generali di Francia e orgoglioso del soprannome di “amato figlio della vittoria”. Non gli piaceva ricevere l’ordine di ritirarsi, nemmeno davanti a forze più numerose. Il 5 novembre Napoleone fece arrivare Augereau a Montebello e, vedendo l’avanguardia austriaca attraversare il Brenta proprio di fronte alle loro colonne, decise di attaccarla il giorno dopo. Intanto Masséna attaccò la colonna di Provera a Fontaniva, respingendola su alcune isole nel fiume ma non sull’altra sponda. Il 6 novembre Augereau attaccò le forze di Quasdanovich che stavano uscendo da Bassano, ma pur battendosi con accanimento non riuscì a respingerla oltre il Brenta. Il paese di Nove cambiò di mano diverse volte nel corso della giornata; Napoleone, ora in minoranza numerica con 19.500 uomini contro 28.000, dovette ritirarsi. Ci sono molti criteri per assegnare una vittoria: il numero dei caduti, il controllo del campo di battaglia, il successo nell’intralciare i piani del nemico. Comunque si consideri la battaglia di Bassano, fu la prima sconfitta di Napoleone, anche se non grave. Ritirandosi a Vicenza, Napoleone apprese della sconfitta di Vaubois per mano di Davidovich dopo cinque giorni di scaramucce a Cembra e Calliano. Oltre il 40 per cento dei suoi effettivi erano stati uccisi, feriti o erano dispersi. Augereau ricevette l’ordine di tornare immediatamente all’Adige, a sud di Verona, Masséna a Verona, in città, e il generale Barthélemy Joubert, ricevette l’ordine di mandare una brigata da Mantova a Rivoli perché aiutasse Vaubois a riprendersi. L’inattività austriaca dopo la vittoria di Bassano consentì a Napoleone di radunare le forze. Il 12 aveva ormai il controllo di Verona con 2500 uomini e delle rive dell’Adige con 6000, mentre Vaubois, caduto in disgrazia, tratteneva Davidovich a Rivoli e Kilmaine proseguiva l’assedio di Mantova. Questo lasciava Masséna con 13.000 uomini sul fianco destro e Augereau con 5000 su quello sinistro per attaccare Alvinczi a Caldiero, un paese a 15 chilometri a est di Verona. Con la pioggia battente che sferzava loro il viso, non mostrarono affatto l’impeto consueto dell’Armata d’Italia. Il vento portava via la polvere da sparo, gli stivali scivolavano nel fango e i loro attacchi per tutta la mattina valsero soltanto a guadagnare un po’ di terreno sulla destra, che dovettero cedere alle tre del pomeriggio, quando arrivarono i rinforzi austriaci. Entrambi gli schieramenti persero un migliaio di uomini, tra morti e feriti.
Il 13 novembre entrambi gli eserciti si riposarono. Napoleone utilizzò il tempo a sua disposizione per scrivere una lettera disperata al Direttorioda Verona, di fatto imputandogli la colpa per quel brutto imbroglio: "Forse siamo sul punto di perdere l’Italia. Nessuno dei soccorsi che aspettavo è arrivato […] Sto facendo il mio dovere, l’esercito sta facendo il suo. La mia anima è a pezzi, ma la mia coscienza è in pace […] Il tempo continua a essere brutto; tutto l’esercito è troppo stanco e senza stivali […] I feriti sono l’élite dell’esercito; tutti i nostri ufficiali superiori, tutti i nostri generali migliori sono fuori combattimento. Chiunque venga da me è così inetto e non ha la sicurezza del soldato! […] Siamo stati abbandonati nelle remote terre d’Italia […] Forse la mia ora […] è giunta. Non oso più espormi perché la mia morte scoraggerebbe le truppe."
Era vero che Sérurier e Sauret erano feriti, mentre Lannes, Murat e il giovane Kellermann si trovavano all’ospedale perché malati, ma aveva molti altri bravi generali che prestavano servizio sotto di lui. Finiva poi con una nota così positiva da contraddire tutte le altre cose che aveva scritto: «Nel giro di qualche giorno faremo un ultimo tentativo. Se la fortuna ci sorride, Mantova sarà nostra, e con essa l’Italia». Napoleone aveva ideato un piano ardimentoso: prendere alle spalle Alvinczi a Villanova e costringerlo a battersi per la sua linea di ritirata in un terreno così coperto d’acqua per le piantagioni di riso che la sua superiorità numerica avrebbe contato poco. Evitando il facile attraversamento dell’Adige ad Albaredo, dove la cavalleria austriaca poteva dare l’allarme, decise di attraversarlo a Ronco, dove nella campagna precedente avevano costruito un ponte di barche; era stato smantellato, ma stivato al sicuro nelle vicinanze. La sera del 14 novembre Masséna lasciò Verona da ovest per ingannare le spie austriache in città, ma poi svoltò verso sud-est per congiungersi ad Augereau sulla strada.
All’alba la 51a semibrigata di linea attraversò con le barche per fissare la testa di ponte e alle sette del mattino dopo il ponte era finito. Dove la strada si biforcava dall’altra parte del fiume, Augereau girò a destra lungo un argine fino alla cittadina di Arcole, con l’intenzione di attraversare il torrente Alpone e dirigersi a nord verso Villanova, per attaccare il parco artiglieria di Alvinczi. Intanto Masséna svoltò a sinistra verso Porcile per cercare di aggirare il fianco sinistro di Alvinczi da dietro. Augereau avanzava nella nebbia con la 5a semibrigata leggera del generale Louis-André Bon, ma per tutta la strada che correva a fianco dell’Alpone si ritrovò sotto il fuoco di due battaglioni croati e di due cannoni che proteggevano la retroguardia sinistra di Alvinczi.
Arcole aveva difese formidabili, scappatoie e barricate, e respinse il primo attacco, come pure un secondo proveniente dalla 4a semibrigata di linea comandata da Augereau in persona. Gli attaccanti dovevano scivolare lungo gli erti pendii per cercare protezione dal fuoco. Intanto Masséna incontrò un altro battaglione croato e un reggimento austriaco al comando di Provera a metà strada per Porcile e li respinse, assicurandosi così la sinistra della testa di ponte. Combattere nelle pianure lombarde era diverso che in montagna e dava maggiori possibilità alla cavalleria austriaca; d’altra parte i torrenti impetuosi e la rete degli argini rappresentavano un vantaggio per un giovane comandante con un talento per i particolari tattici ma una cavalleria assai meno numerosa. Alvinczi fu tempestivamente informato del movimento francese, ma per via delle paludi suppose che si trattasse soltanto di una forza leggera che effettuava una manovra diversiva. Quando le sue pattuglie trovarono Verona tranquilla, le mandò a vedere che cosa stesse succedendo alla sua sinistra, dove i 3000 soldati di Provera erano stati battuti da Masséna. Altri 3000 avevano marciato in fretta sino ad Arcole, arrivando poco dopo mezzogiorno. Piazzarono due obici per tenere la strada rialzata sotto un fuoco battente mentre Lannes, che era appena tornato all’esercito dall’ospedale di Milano, fu ferito di nuovo.
Napoleone arrivò al ponte di Arcole proprio mentre il tentativo di Augereau di espugnarlo veniva respinto. Ordinò un altro attacco, che si concluse con uno stallo sotto un fuoco pesante. Allora Augereau afferrò una bandiera e uscì a 15 passi davanti ai suoi scaramucciatori, dicendo: «Granatieri, venite a prendere il vostro stendardo». A quel punto Napoleone, circondato dai suoi aiutanti di campo e dalla sua scorta, afferrò un’altra bandiera e guidò la carica di persona, spronando le truppe a ricordarsi del loro eroismo a Lodi. Nonostante tutte le dichiarazioni fatte al Direttoriodi due giorni prima riguardo al fatto che non si sarebbe esposto al pericolo, ad Arcole lo fece di sicuro. Ma senza successo. Secondo Sulkowski gli uomini mostrarono una «straordinaria codardia» perché non assaltarono il ponte coperto di cadaveri; nonostante questo, il suo aiutante di campo, il colonnello Muiron, e altri furono uccisi sul ponte accanto a Napoleone. Durante un contrattacco austriaco, Napoleone dovette essere portato indietro a braccia nel terreno paludoso retrostante il ponte e fu salvato soltanto da una carica dei granatieri. Era un uomo coraggioso, ma nessuno avrebbe potuto fare altro di fronte a un fuoco concentrato diretto dalla risoluta resistenza austriaca, che si protrasse poi per altri due giorni.
Quando divenne chiaro che non sarebbero riusciti a conquistare il ponte, Napoleone ordinò a Masséna e Augereau di tornare a sud dell’Adige, lasciando i fuochi dei bivacchi accesi ad Arcole per far credere che i francesi fossero ancora lì. Aveva bisogno di essere pronto ad avanzare contro Davidovich se Vaubois si fosse ritirato ancora più avanti, a Rivoli. Dal campanile del paesino di Ronco i francesi videro Alvinczi che tornava a Villanova e si schierava a est dell’Alpone. Il ponte di Arcole sarebbe stato preso solo un paio di giorni dopo da Augereau e Masséna, che vi tornarono il 17; Napoleone non era presente quando cadde. Anche se i francesi subirono perdite significative (1200 morti tra cui 8 generali, e 2300 feriti rispetto ai 600 morti e ai 1600 feriti austriaci), in fin dei conti Arcole fu una vittoria francese, perché i francesi ne tornarono con 4000 prigionieri e 11 cannoni catturati agli austriaci. «C’è voluta parecchia fortuna per sconfiggere Alvinczi», ammise in seguito Napoleone.
Mentre l’inverno si avvicinava e la stagione dei combattimenti si concludeva con Mantova ancora sotto assedio, gli austriaci fecero un quarto tentativo di liberare la città. La campagna era costata all’Austria quasi 18.000 caduti e ai francesi oltre 19.000. Ora i francesi scarseggiavano di tutto: ufficiali, scarpe, medicinali e salari. Alcuni erano affamati al punto che nella 33a semibrigata di linea vi fu un ammutinamento: si dovettero porre agli arresti tre compagnie e fucilare due caporioni. Non appena i combattimenti cessarono Napoleone destituì Vaubois e promosse Joubert al comando della divisione che proteggeva Rivoli. Alla fine di novembre, quando il Direttoriomandò a Vienna il generale Henri Clarke, ex capo di Napoleone all’agenzia topografica, a indagare sulle possibilità di pace, Napoleone lo persuase che, essendo Mantova sul punto di cadere, non avrebbe dovuto sacrificare la Repubblica cispadana nelle trattative. «È una spia che mi ha messo alle costole il Direttorio», disse Napoleone a Miot, o almeno così pare; «è un uomo senza talento, solo presuntuoso.» Difficile che fosse l’opinione ponderata di Napoleone, perché in seguito promosse il competentissimo Clarke, che poi nominò duca di Feltre, alla funzione di suo segretario privato, poi di ministro della guerra; nel 1812 sarebbe diventato uno degli uomini più potenti di Francia. «Mandatemi 30.000 uomini e avanzerò su Trieste», disse Napoleone al Direttorio, «portate la guerra nei territori dell’imperatore...... Allora avrete il diritto di aspettarvi milioni, e una buona pace».
Ammettendo che dopo la caduta di Livorno non potevano più difendere la Corsica dai francesi, i britannici al comando del commodoro trentottenne Horatio Nelson in ottobre avevano effettuato un’evacuazione dall’isola. Paoli e i suoi sostenitori partirono con loro. Napoleone mandò Miot de Melito e Saliceti a organizzare i dipartimenti francesi che sarebbero stati istituiti dopo la partenza dei britannici.
Tra il settembre e il dicembre 1796, a Mantova quasi 9000 persone morirono per le malattie e la fame. Sui 18.500 soldati di guarnigione in città erano ormai abili al servizio solo in 9800. Si prevedeva che le ultime razioni si sarebbero esaurite il 17 gennaio. Quindi il successivo intervento austriaco doveva arrivare in fretta, e la preoccupazione principale di Napoleone era preparare il suo esercito per affrontarlo. A dicembre, nel giro di 18 giorni mandò 40 lettere a Berthier da Milano e implorò il Direttoriodi inviargli altri rinforzi. «Il nemico sta ritirando le sue truppe dal Reno per mandarle in Italia. Fate lo stesso, aiutateci», scrisse il 28. «Stiamo chiedendo solo altri uomini.» Nella stessa lettera diceva di aver catturato una spia austriaca che portava una lettera per l’imperatore Francesco in un cilindro nel suo stomaco.
Il 7 gennaio Napoleone ricevette la notizia che Alvinczi stava avanzando verso sud, questa volta con 47.000 uomini. Gli austriaci divisero di nuovo le loro forze. L’esercito principale di Alvinczi, costituito da 28.000 uomini (incluso Quasdanovich), avanzò a est del lago di Garda in sei colonne, utilizzando tutte le strade e le piste disponibili ed evitando così di dover affrontare i francesi in pianura, mentre i 15.000 soldati di Provera attraversarono la pianura da est, dirigendosi a Verona. Oltre 4000 uomini furono collocati a ovest del lago di Garda. Alvinczi ordinò a Wurmser di sfondare l’assedio, uscire da Mantova e dirigersi a sud-est per raggiungerli. Napoleone partì immediatamente da Milano e fece svariate visite a Bologna, a Verona e al suo quartier generale di Roverbella, cercando di indovinare le intenzioni di Alvinczi. Aveva 37.000 uomini in campo e 8500 al comando di Sérurier nelle linee d’assedio mantovane.
Il 12 gennaio Joubert riferì di un attacco alla Corona, abbastanza a nord di Rivoli, fallito a causa della neve fresca, molto alta. Napoleone riteneva che la campagna sarebbe stata decisa sui pendii italiani delle Alpi lungo l’Adige, ma aveva bisogno di assai più informazioni prima di lanciare il contrattacco. Mentre aspettava, ordinò a Masséna di presidiare Verona e ritirare 7000 uomini oltre l’Adige; il generale Gabriel Rey era incaricato di concentrare due brigate a Castelnuovo. Lannes doveva lasciare i suoi soldati italiani nel sud e tornare con i 2000 francesi a Badia per impedire agli austriaci di avanzare verso sud, mentre Augereau difendeva Ronco.
Il giorno dopo, mentre Napoleone si preparava ad avanzare e a sgominare Provera, alle dieci di sera apprese che Joubert stava fronteggiando un’importante offensiva e si ritirava a Rivoli in buon ordine, lasciandosi dietro i fuochi di bivacco accesi. Rendendosi conto che l’avanzata di Provera era perciò una finta, e che l’attacco principale sarebbe arrivato attraverso Rivoli, Napoleone vi si recò in tutta fretta da Verona, emanando una serie di ordini. Ora Joubert doveva difendere Rivoli a tutti i costi; Sérurier doveva diffondere il massimo allarme tra le linee d’assedio, ma anche mandare subito a Rivoli cavalleria, artiglieria e 600 uomini di fanteria; Masséna doveva marciare con tre semibrigate, la 18a, la 32a e la 75a, fino a prendere posizione alla sinistra di Joubert; Augereau doveva trattenere Provera sull’Adige, pur mandando un po’ di cavalleria e di artiglieria a Rivoli. Fu detto a tutti che era in vista una battaglia decisiva. Napoleone, con due brigate del generale Gabriel Rey, aspettò di concentrare 18.000 unità di fanteria, 4000 di cavalleria e 60 cannoni a Rivoli all’alba del 14 gennaio, lasciandone 16.000 sull’Adige e 8000 a Mantova. Non si sarebbe potuta seguire meglio la vecchia massima “marciare separati, combattere uniti”. Alvinczi non aveva portato altre forze a Rivoli a parte i 28.000 uomini e i 90 cannoni con cui era partito.

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Generale Sextius Alexandre François de Miollis; comandante delle truppe francesi in Toscana e Lazio

Napoleone arrivò alle due del mattino di sabato 14 gennaio 1797 sull’altopiano sopra le gole di Rivoli, che sarebbe stato il luogo chiave della battaglia. Era una notte chiara, molto fredda, con una luna luminosa; lui dedusse dal numero e dalla posizione dei fuochi di bivacco che il marchese di Lusignano, un energico generale austriaco di origini spagnole, era troppo lontano per impegnare battaglia almeno fino a metà mattinata. Conosceva molto bene la zona, avendola attraversata a cavallo più volte nei quattro mesi precedenti. Poteva difendere la gola di Osteria e il pendio su cui c’era la cappella di San Marco, sul versante orientale del campo di battaglia, e riteneva di poter respingere l’attacco principale con relativa facilità. Doveva lasciar riposare la divisione di Masséna e guadagnare tempo per aspettare l’arrivo di Rey; quindi decise di effettuare una razzia per concentrare l’attenzione di Alvinczi. Joubert ricevette l’ordine di tornare all’altopiano di Rivoli e di mandare una brigata a Osteria prima di attaccare al centro, protetto da tutti i cannoni francesi posizionati sull’altopiano. Intanto Masséna ebbe l’ordine di mandare una brigata a trattenere Lusignano il più a lungo possibile.
Alle quattro, tre ore prima dell’alba, la brigata del generale Honoré Vial respinse gli austriaci a San Giovanni e Gamberon, conquistando la cappella di San Marco. All’alba Joubert attaccò all’altezza di Caprino e San Giovanni, ma la sua linea era molto rada e doveva affrontare una forza numericamente molto superiore. Gli austriaci contrattaccarono alle nove del mattino, mettendo in rotta la brigata di Vial, ma nel frattempo Napoleone mandò subito una brigata di Masséna a salvare il centro, riconquistando così il paese di Trambassore. I combattimenti al centro continuarono ininterrottamente per dieci ore.
Alle undici del mattino giunse Lusignano con 5000 uomini. Aveva respinto la brigata inviata da Masséna ed era penetrato a fondo nella parte sinistra delle retrovie francesi, nei pressi di Affi, impedendo ai rinforzi di arrivare. Napoleone riusciva a malapena a resistere, a tenere il centro; inoltre subiva pressioni enormi sul fianco destro, mentre Lusignano lo aveva accerchiato a sinistra. Aveva solo una brigata di riserva e Rey si trovava ancora a un’ora di distanza. Quando giunse la notizia che Lusignano era arrivato alle sue spalle, gli ufficiali di stato maggiore guardarono con ansia Napoleone, che con una calma fuori dal comune si limitò a osservare: «Ora li abbiamo in pugno». Napoleone valutò che le forze austriache al centro erano ormai esauste e Lusignano si trovava ancora troppo lontano per influire sulla battaglia, quindi si concentrò su Quasdanovich a est, poiché lo considerava la minaccia principale. Alleggerì la linea di Joubert e mandò a San Marco ogni uomo che poteva. Quando le fitte colonne austriache, protette dall’artiglieria, assaltarono la gola e raggiunsero l’altopiano, furono decimate dal fuoco di mitraglia dell’artiglieria francese, sparato a ranghi serrati da tutte le parti; poi furono caricati alla baionetta da una colonna di fanteria, quindi attaccati da tutta la cavalleria francese disponibile. Mentre arretravano nella gola, per un colpo di fortuna un proiettile colpì un carro di munizioni, il cui scoppio fu ancora più devastante nello spazio ristretto; Quasdanovich dichiarò l’interruzione dell’attacco.
Napoleone spostò immediatamente il suo attacco al centro, dove gli austriaci mancavano quasi del tutto di artiglieria e di cavalleria. Le tre colonne austriache, che avevano conquistato l’altopiano a caro prezzo, furono tutte ricacciate indietro. Lusignano venne bloccato al suo arrivo sul campo di battaglia, proprio mentre Rey gli piombava d’improvviso alle spalle. Riuscì appena a scappare con 2000 uomini. Alle due del pomeriggio gli austriaci erano ormai in piena ritirata e l’inseguimento fu abbandonato soltanto quando da Augereau giunse la notizia che Provera aveva attraversato l’Adige e si dirigeva verso Mantova; perciò Masséna fu mandato ad aiutare Augereau a impedirne la liberazione.
Alla battaglia di Rivoli Napoleone perse 2200 uomini e 1000 altri finirono prigionieri, ma il prezzo pagato dagli austriaci fu molto più alto: 4000 uomini tra uccisi e feriti e 8000 catturati, insieme a 8 cannoni e 11 stendardi. Fu un’impresa imponente, anche se non proprio dei livelli dichiarati da Napoleone.
A mezzogiorno del 15 gennaio, Provera giunse alla Favorita con la sua colonna di soccorso di 4700 uomini, molti dei quali erano reclute non ben addestrate. Il giorno dopo, alle prime luci, Wurmser tentò di fare una sortita fuori Mantova, ma fu subito bloccato. Quando arrivò Napoleone, Provera era intrappolato tra Masséna e Augereau alla Favorita, fuori Mantova. Si batté con coraggio, ma si arrese prima che avvenisse un massacro: tutto il suo contingente venne catturato. A Mantova alla fine le riserve di viveri erano finite. Wurmser era riuscito a tirare avanti per 15 giorni più del previsto, nella vana speranza che Alvinczi potesse comparire miracolosamente, ma giovedì 2 febbraio 1797 cedette la città e la sua emaciata guarnigione. Negli otto mesi precedenti la presa di Mantova erano morti circa 16.300 soldati austriaci, e molti più civili, ridotti a nutrirsi di topi e cani. I francesi si impadronirono di 325 cannoni austriaci e ripresero i 179 che avevano abbandonato ad agosto. Wurmser e 500 uomini del suo stato maggiore furono autorizzati a uscire con gli onori militari e a tornare in Austria, a condizione che non si battessero contro la Francia fino a quando non fosse avvenuto uno scambio di prigionieri. Gli altri andarono in prigionia in Francia, dove vennero messi a lavorare nel settore agricolo e in quello edile. La notizia della caduta di Mantova fece clamore a Parigi, dove venne annunciata tra squilli di tromba, come ricordava un contemporaneo, da un «pubblico ufficiale che proclamò la gloria delle armi francesi in mezzo a una immensa moltitudine».

RIVOLI
Stampa antica della battaglia di Rivoli

Napoleone non era presente per assistere a questo trionfo. Proseguì per Verona e poi Bologna per punire gli stati papalini che avevano minacciato di insorgere in favore dell’Austria nonostante l’armistizio firmato il giugno precedente. Usurpando senza ritegno i poteri del Direttorio, il 22 gennaio, per far pressione sul Vaticano, chiese all’inviato francese a Roma, Cacault, «di andarsene da Roma entro sei ore dal ricevimento» della sua lettera. Lo stesso giorno scrisse al negoziatore del papa, il cardinale Alessandro Mattei, per dire che l’influenza austriaca e napoletana sulla politica estera di Roma doveva cessare. Ma ammorbidì i toni nella conclusione: gli chiese di «assicurare a Sua Santità può restare a Roma nel massimo agio» nella sua qualità di «primo ministro della religione». Napoleone aveva un timore e lo espose al Direttorio: «Se il papa e tutti i cardinali dovessero fuggire da Roma, non riuscirei mai a ottenere quello che ho chiesto». Sapeva pure che fare irruzione in Vaticano gli avrebbe attirato addosso le ire, e forse la perenne inimicizia, dei cattolici devoti d’Europa. «Se andassi a Roma, perderei Milano», disse a Miot.
Il 1° febbraio Napoleone, sperando di smussare l’opposizione del clero al governo francese in Italia, emanò un proclama affermando che tutti i preti e i monaci che non si comportavano «secondo i principi del Nuovo Testamento», sarebbero stati trattati «con maggior severità degli altri cittadini». Le truppe degli Stati pontifici fecero un tentativo risibile, per quanto innegabilmente coraggioso, di combattere. A Castel Bolognese il 3 febbraio, il generale Claude Victor-Perrin sopraffece senza difficoltà i soldati che incontrò e una settimana dopo catturò la guarnigione papale ad Ancona senza perdite. Il 17 febbraio il papa chiese la pace. Mandò Mattei a Tolentino, al quartier generale di Napoleone, per firmare un trattato in base al quale cedeva la Romagna, Bologna, Avignone e Ferrara alla Francia, chiudeva tutti i porti alla Gran Bretagna e prometteva di pagare “un contributo” di 30 milioni di franchi e 100 opere d’arte. «Avremo tutto quello che c’è di bello in Italia», dichiarò Napoleone al Direttorio.
Il 18 febbraio 1797 l’Armata d’Italia pubblicò un notiziario intitolato “Journal de Bonaparte et des Hommes Vertueux”, la cui testata proclamava: «Annibale ha dormito a Capua, invece a Mantova Napoleone non dorme». Napoleone era ben consapevole del potere della propaganda, e ora cercava intenzionalmente di influenzare l’opinione pubblica che era già decisamente schierata in suo favore. Cominciò la sua nuova carriera di proprietario di un periodico e giornalista dettando frasi tipo “Bonaparte vola come il lampo e colpisce come il tuono”. Dieci giorni dopo il giornale criticava indirettamente il Direttorio, cosa che non avrebbe fatto senza il permesso di Napoleone. Nel corso dell’anno istituì anche due notiziari per l’esercito, il “Courrier de l’Armée d’Italie”, diretto dall’ex giacobino Marc-Antoine Jullien, e il meno consistente “La France Vue de l’Armée d’Italie”, diretto da Michel Regnaud de Saint-Jean d’Angély, di cui venivano regolarmente pubblicati degli estratti nei giornali parigini. Il fronte del Reno era molto più vicino alla Francia, Napoleone non voleva che la campagna d’Italia venisse marginalizzata nell’immaginazione pubblica, e pensava che i suoi uomini avrebbero apprezzato le notizie da Parigi.
D’Angély era un ex parlamentare e avvocato che dirigeva gli ospedali dell’Armata d’Italia e sarebbe diventato uno degli alti assistenti di Napoleone. La nomina di Jullien era un segno della disponibilità di Napoleone a ignorare le posizioni politiche pregresse se una persona era dotata e si dimostrava disposta a seppellire il passato. In una società fluida come quella francese, non si trattava tanto di tolleranza, quanto piuttosto di buon senso. In fondo, anche Napoleone solo tre anni prima era stato un giacobino.
Venerdì 10 marzo 1797, Napoleone avviò la campagna settentrionale che aveva promesso al Direttorio: una spedizione rischiosa con 40.000 uomini soltanto, attraverso il Tirolo fino a Klagenfurt e poi a Leoben in Stiria, da cui, in cima alle colline di Semmering, la sua avanguardia scorgeva le guglie di Vienna. Gli eserciti di Jourdan e Moreau, entrambi di dimensioni doppie, erano stati cacciati dalla Germania dall’arciduca Carlo; la Francia ora sperava che le forze più modeste di Napoleone, minacciando la capitale, avrebbero costretto gli austriaci a concludere la pace. In un primo momento Napoleone voleva lavorare in tandem con l’Armata del Reno per effettuare un movimento a tenaglia, ma quando venne a sapere che né Jourdan né Moreau erano riusciti a riattraversare il Reno dopo la disfatta d’autunno cominciò a preoccuparsi sempre di più. Per incoraggiare i suoi uomini, in un proclama definì il fratello di Carlo, l’imperatore Francesco, «servo prezzolato al soldo dei mercanti di Londra».
Il 16 marzo Napoleone attraversò il Tagliamento, infliggendo una piccola sconfitta all’arciduca Carlo a Valvassone; il giorno dopo il generale Jean-Baptiste Bernadotte la trasformò in qualcosa di più grande, poiché catturò un nutrito distaccamento di austriaci che erano rimasti isolati dal corpo principale. Al Tagliamento Napoleone introdusse l’ordine misto, un compromesso tra l’attacco in linea e l’attacco in colonna, elaborato per primo da Guibert per affrontare un terreno impervio che non consentiva gli schieramenti regolari. Era una tecnica che avrebbe utilizzato di nuovo alcuni giorni dopo mentre attraversava l’Isonzo e passava in Austria; in entrambe le occasioni intervenne personalmente per mettere a punto una formazione che combinasse la potenza di fuoco di un battaglione in linea con il peso d’attacco di due battaglioni in colonna.
«Bandite il vostro turbamento», disse alla popolazione della provincia asburgica di Gorizia, «siamo buoni e umani.» Non era impressionato dal suo nuovo avversario, di cui trovava ingiustificata la reputazione di stratega, anche se nel 1793 Carlo aveva vinto delle battaglie in Olanda e nel 1796 aveva sconfitto Jourdan e Moreau. «Per ora l’arciduca Carlo ha manovrato peggio di Beaulieu e Wurmser», disse Napoleone al Direttorio, «fa errori a ogni svolta, e per giunta molto stupidi.» Gli austriaci, assaliti con nuovo vigore anche da Moreau proveniente dalla Germania, decisero, senza che si fosse svolta nemmeno una battaglia importante tra Napoleone e l’arciduca Carlo, di non correre il rischio di dover consegnare la loro capitale ai francesi: il 2 aprile accettarono la loro offerta di armistizio a Leoben, poco più di 150 chilometri a sud-ovest di Vienna.
Napoleone aveva combattuto contro forze austriache immancabilmente più numerose, che spesso aveva decimato sul campo di battaglia, grazie all’impiego reiterato della strategia della posizione centrale. L’aver studiato in modo approfondito la storia e la geografia dell’Italia prima ancora di mettervi piede si era dimostrato oltremodo utile, e lo stesso si può dire della sua disponibilità a sperimentare le idee degli altri, in particolare il battaglione quadrato e l’ordine misto, e dei suoi minuziosi calcoli logistici, in cui era aiutato moltissimo dalla memoria prodigiosa. Dato che teneva le divisioni a un giorno di distanza una dall’altra, poteva concentrarle per la battaglia e, una volta unite, dimostrava la massima calma sotto pressione.
La tregua si concretizzò nel trattato di Campoformio, il 17 ottobre 1797. Oltre all'indipendenza delle nuove repubbliche formatesi, la Francia acquisiva i Paesi Bassi e la riva sinistra del Reno, gli austriaci inglobavano i territori della Repubblica di Venezia. Terminava così, con una secca sconfitta dell'Austria, la campagna d'Italia.
Nel corso della campagna d'Italia, Napoleone manifestò la sua brillante capacità strategica, in grado di assimilare le nuove teorie innovative dei pensatori militari francesi e applicarle magistralmente sul campo. Ufficiale di artiglieria per formazione, utilizzò i mezzi d'artiglieria in modo innovativo come supporto mobile agli attacchi della fanteria. Dipinti contemporanei del suo Quartier generale mostrano che in queste battaglie utilizzò, primo al mondo in un teatro di guerra, un sistema di telecomunicazioni basato su linee di segnalazione realizzate col telegrafo ottico di Chappe, appena perfezionato nel 1792. Napoleone imparò molte lezioni di comando essenziali da Giulio Cesare, soprattutto la sua prassi di ammonire i soldati che riteneva non avessero corrisposto alle aspettative, come a Rivoli nel novembre 1796. Nel suo libro Le guerre di Cesare, che scrisse in esilio a Sant’Elena, racconta la storia di un ammutinamento a Roma: Cesare aveva laconicamente accolto le richieste di smobilitazione dei suoi soldati, ma poi si era rivolto a loro chiamandoli con malcelato disprezzo “cittadini” anziché “compagni”. L’impatto era stato rapido e significativo. «Alla fine, il risultato di questa scena commovente fu di ottenere che restassero in servizio». Assai più spesso, ovviamente, prodigava lodi: «I vostri tre battaglioni potrebbero essere come sei ai miei occhi», dichiarò alla 44a semibrigata di linea durante la campagna di Eylau. «E lo dimostreremo!» risposero loro di rimando.
La principale residenza di Napoleone nella primavera del 1797 era il palazzo di Mombello fuori Milano, dove convocava Miot de Melito per discutere. Miot notò la grandiosità di Napoleone nelle faccende quotidiane. Non si era limitato a portare a vivere con sé la famiglia (in prima battuta Madame Mère, Giuseppe, Luigi, Paolina e suo zio Joseph Fesch, e altri a seguire), ma aveva introdotto anche una pseudo etichetta di corte. Alla sua tavola invece degli aiutanti di campo c’erano i nobili italiani, e i pranzi avvenivano in pubblico come accadeva a Versailles sotto i Borboni: Napoleone tradiva un gusto assai poco repubblicano per i lacchè. Per pagarli attingeva a una fortuna che, secondo le sue stesse affermazioni, all’epoca ammontava a 300.000 franchi. Bourrienne affermava che erano oltre tre milionidi franchi, equivalenti all’intera paga mensile dell’Armata d’Italia. In entrambi i casi, viene da pensare che non erano stati soltanto i suoi generali ad aver truffato l’Italia.

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Villa Pusterla Arconati Crivelli (Mombello) - Residenza di Napoleone nel 1779

In novembre Napoleone lasciò l’Armata d’Italia nelle mani di suo cognato Charles Leclerc, e andò al congresso di Rastatt, passando per Torino, Chambéry, Ginevra, Berna e Basilea, dove fu osannato dalle folle. Una sera a Berna, ricordava Bourrienne, passarono in mezzo a una doppia linea di carri «ben illuminati, carichi di belle donne che gridavano: “Viva Bonaparte! Viva il Pacificatore!”». Entrò a Rastatt su una carrozza trainata da otto cavalli e scortata da 30 ussari, un protocollo di solito adottato dai monarchi regnanti. Napoleone comprendeva il potere delle scene spettacolari sull’immaginario collettivo, e voleva che la nuova repubblica francese avesse lo stesso impatto visivo goduto dalle vecchie monarchie europee.
Il trattato di Campoformio fu ufficialmente ratificato a Rastatt il 30 novembre. Obbligava l’Austria a cedere le sue principali fortezze renane, Mainz, Philippsburg e Kehl, a evacuare Ulm e Ingolstadt, e a ritirare le sue forze oltre il fiume Lech. All’epoca c’erano 16 milioni di tedeschi che non vivevano né in Austria né in Prussia: Napoleone voleva che la Francia puntasse in modo energico a ottenere il loro sostegno, dato che i giorni gloriosi del Sacro romano impero che un tempo li univa erano ormai tramontati da tempo. Napoleone voleva compensare i principi tedeschi che avrebbero dovuto cedere territori alla Francia in base al trattato, atteggiandosi a protettore degli stati tedeschi di media dimensione contro le mire espansionistiche dell’Austria e della Prussia. Come aveva scritto con lungimiranza in una lettera al Direttorioil 27 maggio: «Se il concetto di Germania non esistesse, dovremmo inventarlo per le nostre finalità».
Arrivò a Parigi il 5 alle cinque del pomeriggio, in abiti civili e con una carrozza anonima, accompagnato soltanto da Berthier e dal generale Jean-Étienne Championnet. «Era nei piani generali di passare inosservato, in quel momento almeno, e lui faceva il suo gioco in silenzio», ricordava un contemporaneo. Napoleone, troppo giovane per diventare membro del Direttorio, decise deliberatamente di tenere un basso profilo a Parigi, in modo da non entrare in antagonismo con il Direttorio, nonostante il clamore che la sua presenza nella capitale provocò non appena divenne nota. La figlia di Giuseppina, Ortensia, ricordava di come si doveva «trattenere una folla costituita da persone di tutte le classi, impazienti ed entusiaste di dare un’occhiata al conquistatore d’Italia». Rue Chantereine, in cui Napoleone e Giuseppina avevano affittato una casa al numero 6 fu rinominata in suo onore “rue de la Victoire”.
Il 6 dicembre alle undici del mattino Napoleone incontrò Talleyrand al ministero degli esteri, l’hôtel Galifet su rue du Bac. Si studiarono con calma nel corso di una lunga conversazione e si piacquero. Giova dire subito che Talleyrand tradì Napoleone e la Francia in modo vergognoso e determinante per la sconfitta dei francesi; la causa del suo comportamento fu forse dovuto all'invidia nei riguardi dei successi di Napoleone. Quella sera Napoleone ebbe un pranzo privato con il Direttorio: fu ricevuto con cordialità da Barras e La Révellière, in modo abbastanza amichevole da Reubell, ma freddamente dagli altri. Domenica 10 dicembre a mezzanotte tutto il governo partecipò a un’enorme e lunga cerimonia di benvenuto data per lui al palazzo di Lussemburgo, dove il grande cortile era coperto da bandiere e in un anfiteatro costruito per l’occasione si ergevano statue che rappresentavano la Libertà, l’Eguaglianza e la Pace. Per tutto il tempo Napoleone tenne un atteggiamento diffidente. Un britannico che all’epoca viveva a Parigi notò: «Mentre passava per le strade affollate, si appoggiava allo schienale nella carrozza […] Lo vidi rifiutare di sedersi sulla poltrona di stato che gli era stata preparata, e sembrava che desiderasse sfuggire agli scoppi generali di applausi». Un altro contemporaneo osservava: «Le acclamazioni della folla contrastavano con le fredde lodi del Direttorio».
Collocarsi sotto le luci della ribalta mentre si finge di evitarle modestamente è una delle mosse politiche più abili: Napoleone era un maestro nel farlo. «Erano presenti tutte le persone più eleganti e distinte che ci fossero allora a Parigi», ricordava un altro osservatore; tra gli altri, i membri del Direttorioe di entrambe le camere con le rispettive mogli. Riguardo all’ingresso di Napoleone, un altro testimone osservò: «Tutti si alzarono e si scoprirono il capo; le finestre erano gremite di donne giovani e bellissime. Ma nonostante questo splendore, la cerimonia fu caratterizzata da una gelida freddezza. Tutti sembravano partecipare solo per dare un’occhiata, e la riunione pareva ispirata dalla curiosità più che dalla gioia».
Talleyrand presentò Napoleone con un discorso molto lusinghiero, a cui Napoleone rispose elogiando il trattato di Campoformio e lo zelo dei suoi soldati nel combattere "per la gloriosa costituzione dell’anno terzo".
Napoleone fu assai più contento il giorno di Natale, quando lo elessero, al posto dell’esule Carnot, membro dell’Institut de France, allora (come oggi) la società intellettuale più eminente in Francia. Con l’aiuto di Laplace, Berthollet e Monge ottenne il sostegno di 305 membri su 312, mentre gli altri due candidati ottennero rispettivamente solo 166 e 123 voti. Il giorno dopo, scrivendo per ringraziare Armand-Gaston Camus, presidente dell’Institut, Napoleone diceva: «Le vere conquiste, le uniche che non provocano rimpianti, sono quelle ottenute sull’ignoranza».
Non era soltanto il popolo francese che sperava di impressionare esibendo queste credenziali intellettuali: «Sapevo bene che nell’esercito non c’era un tamburino che non mi avrebbe rispettato di più per il fatto di non essere semplicemente un soldato», disse. I suoi promotori e sostenitori all’Institut senza dubbio pensavano che fosse un vantaggio avere il più eminente generale del momento tra i membri, ma Napoleone era un vero intellettuale, non soltanto un intellettuale tra i generali. Aveva letto e annotato molti dei libri più profondi del canone occidentale; era un conoscitore, un critico e persino un teorico dilettante della tragedia e della musica drammatica; difendeva la scienza e simpatizzava con gli astronomi; gli piaceva intrattenere lunghe discussioni teologiche con vescovi e cardinali, e non andava da nessuna parte senza la sua grande biblioteca da viaggio, che consultava spesso.
Avrebbe colpito Goethe con le sue opinioni sulle motivazioni del suicidio di Werther, e Berlioz con la sua conoscenza musicale. In seguito avrebbe inaugurato l’Institut d’Égypte e vi avrebbe fatto lavorare i più grandi eruditi francesi dell’epoca. Napoleone era ammirato da molti intellettuali europei e dai personaggi creativi di primo piano dell’Ottocento, tra cui Goethe, Byron, Beethoven (almeno all’inizio), Carlyle e Hegel; pose per l’università di Francia le più solide basi della sua storia. Meritava la sua giubba ricamata.
Napoleone dimostrò un notevole tatto quando, vedendosi offrire un ruolo di spicco dal Direttoriodurante le non più popolari celebrazioni dell’anniversario dell’esecuzione di Luigi XVI, il 21 gennaio, partecipò modestamente indossando la sua uniforme dell’Institut, anziché quella militare, e sedendo in terza fila anziché accanto ai membri del Direttorio.
Volgendo i suoi pensieri all’invasione della Gran Bretagna, Napoleone aveva organizzato per dicembre un incontro con Wolfe Tone, il capo della Society of United Irishmen, per sollecitarne il supporto. Quando Tone gli aveva detto di non essere un militare e quindi di non potergli dare grande aiuto, Napoleone lo aveva interrotto: «Ma siete coraggioso». Tone ammise con modestia che effettivamente lo era. «Eh bien, sarà sufficiente», rispose Napoleone, secondo quanto riferì in seguito Tone. In febbraio, nel giro di due settimane, Napoleone si recò a Boulogne, Dunkerque, Calais, Ostenda, Bruxelles e Douai per valutare le possibilità di riuscita di un’invasione, interrogando marinai, piloti, contrabbandieri e pescatori, talvolta sino a mezzanotte. «È troppo rischioso», concluse, «non ci proverò». Il suo rapporto al Direttoriodel 23 febbraio 1798 era inequivocabile:
  Qualsiasi sforzo facciamo, per alcuni anni non otterremo la supremazia navale. Invadere l’Inghilterra senza questa supremazia è l’impresa più azzardata e difficile mai intrapresa […] Se, tenendo in considerazione l’attuale organizzazione della nostra marina, sembra impossibile acquisire la necessaria rapidità di esecuzione, allora dobbiamo davvero rinunciare alla spedizione contro l’Inghilterra, accontentarci di sostenerne la finzione, e concentrare tutta la nostra attenzione e le nostre risorse sul Reno, allo scopo di cercare di sottrarre l’Hannover all’Inghilterra […] oppure intraprendere una spedizione orientale che minaccerebbe il loro commercio con le Indie. E se nessuna di queste tre operazioni è praticabile, non vedo altra soluzione che quella di concludere la pace con l'Inghilterra.
Il Direttorionon era affatto disposto a concludere la pace e scelse l’ultima delle tre alternative di Napoleone; il 5 marzo gli diede carta bianca per prepararsi a un’invasione a tutto campo dell’Egitto, nella speranza di infliggere un colpo all’influenza britannica sul paese e sulle vie commerciali del Mediterraneo orientale. Era nell’interesse del Direttorioche Napoleone andasse in Egitto. Poteva conquistarlo per la Francia o, soluzione altrettanto gradita, tornare dopo una sconfitta, con la reputazione debitamente distrutta. Per Napoleone rappresentava l’opportunità di seguire le tracce dei suoi due eroi preferiti, Alessandro il Grande e Giulio Cesare; non escludeva inoltre la possibilità di servirsi dell’Egitto come trampolino di lancio per l’India. «L’Europa non è altro che una montagnola di talpe», disse Napoleone felicissimo al suo segretario privato, «tutte le grandi reputazioni sono arrivate dall’Asia.»
Napoleone, mentre progettava una nuova campagna in Egitto, aveva tutte le ragioni per desiderare di allontanarsi al più presto da Parigi per evitare di essere coinvolto in scandali finanziari per la condotta di Giuseppina che oltrecchè esssere un po' "puttana" si era rivelata anche un po' ladra e intrallazzatrice.

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