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Napoleone Bonaparte


Napoleone console a vita
Nel marzo 1801, quando lord Hawkesbury, il ministro degli esteri nel nuovo governo di Henry Addington a Londra, aprì le discussioni con il diplomatico francese Louis-Guillaume Otto che era stato nella capitale britannica per diversi anni a organizzare scambi di prigionieri di guerra, si prospettò all’orizzonte un nuovo trattato di pace. Il governo di William Pitt il Giovane era caduto a febbraio sulla questione dell’emancipazione cattolica e Hawkesbury, pur essendo un seguace di Pitt, cominciò a sondare con cautela la possibilità di una conciliazione con la Francia, soluzione che durante il ministero di Pitt era considerata inammissibile. Allo stesso tempo, l’8 marzo una forza di spedizione britannica sbarcò ad Abukir in Egitto. I generali Friant, Belliard, Lanusse e Menou ancora non riuscivano a evacuare le truppe perché la Royal Navy era al largo di Tolone e bloccava l’ammiraglio Ganteaume, il quale avrebbe dovuto andare a prenderli; quindi in Egitto la situazione stava diventando molto difficile per Napoleone.
Il 5 agosto Hawkesbury disse a Otto che forse avrebbe potuto consentire a Malta di diventare indipendente. Questo avrebbe impedito alla Royal Navy di utilizzare l’isola, essenziale dal punto di vista strategico: era la concessione che Napoleone aspettava.
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Generale Jacques François Menou Comandò l'armata d'Oriente, come era stato chiamato il corpo di spedizione francese in Egitto.

Quando seppe che Menou aveva capitolato alle forze britanniche il 2 settembre dopo un assedio di due settimane, ordinò a Otto di offrire la ritirata francese dall’Egitto, da Napoli e dagli stati papalini in cambio della pace, prima che la notizia arrivasse al governo britannico. Non sapendo che i francesi erano stati sconfitti ad Alessandria, Hawkesbury accettò.
Il 1° ottobre 1801 Otto firmò i 15 articoli di un accordo, e tanto in Francia quanto in Gran Bretagna iniziarono i festeggiamenti. «Il pubblico era così impaziente di esprimere i propri sentimenti in occasione della notizia della firma dei preliminari di pace, che la notte scorsa quasi tutte le strade pubbliche erano illuminate», riferiva il “Times”. Il ritratto di Otto veniva esposto nelle vetrine e le sue lodi erano cantate dai canzonieri. Alcuni giorni dopo, quando un aiutante di campo di Napoleone, il generale Jacques de Lauriston, arrivò a Londra con la ratifica ufficiale, la folla staccò i cavalli dal suo cocchio e lo spinse da Oxford Street a St James’s Street, e poi da Downing Street all’Ammiragliato e attraverso St James’s Park; i festeggiamenti proseguirono per tutta la notte, nonostante una tempesta e una pioggia torrenziale. Tutto questo risultò oltremodo sgradito a Hawkesbury, il quale era convinto che quella situazione sarebbe valsa soltanto a rafforzare la posizione negoziale di Napoleone prima della ratifica dell’intero trattato.
In base all’articolo 2 del trattato preliminare, la Gran Bretagna restituiva a Francia, Spagna e Olanda quasi tutti i territori che aveva conquistato dal 1793, ovvero il Capo di buona speranza, la Guiana olandese, Tobago, la Martinica, Santa Lucia, Minorca e Pondicherry, conservando solo Trinidad e Ceylon. L’articolo 4 decretava che nel giro di un mese la Gran Bretagna avrebbe restituito Malta (che era stata riconquistata dai britannici) ai cavalieri di San Giovanni, i quali sarebbero poi stati protetti da una terza potenza da decidersi nel trattato definitivo; con l’articolo 5 l’Egitto veniva restituito all’impero ottomano; in base al 7 la Francia doveva lasciare Napoli e gli Stati pontifici, mentre la Gran Bretagna, l’isola d’Elba e tutti i porti e le isole che possa occupare nell'Adriatico e nel Mediterraneo. Napoleone era riuscito a strappare grandi concessioni in virtù del desiderio britannico di pace, che, a causa dell’interruzione del commercio con l’Europa per i nove anni di guerra, era molto auspicata. Sul piano diplomatico il trattato era un vero e proprio colpo grosso, poiché l’Egitto sarebbe stato comunque evacuato dopo la sconfitta di Menou, come i britannici scoprirono il 2 ottobre, proprio il giorno dopo averlo firmato. Tutto l’impero d’oltremare della Francia le veniva reso in cambio di alcuni territori italiani, per la cui restituzione Napoleone subiva continue pressioni dalla Russia, la quale manteneva interessi nel Mediterraneo e ancora nel 1800 aveva un esercito in Svizzera; in caso di necessità la Francia avrebbe potuto facilmente riconquistarli. Sul piano territoriale, dopo quasi dieci anni di guerra e 290 milioni di sterline spesi (con il conseguente raddoppiamento abbondante del debito nazionale), la Gran Bretagna non aveva acquisito altro che Trinidad e Ceylon; nessuna delle due comunque in precedenza apparteneva alla Francia. Invece le truppe francesi erano sul Reno, in Olanda e nell’Italia nordoccidentale, e la Francia aveva egemonia sulla Svizzera e influenza sulla Spagna sua alleata, tutte cose che il trattato non menzionava.

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Generale Jacques Jean Alexandre Bernard Law de Lauriston; partecipò a molte battaglie napoleoniche ed ebbe incarichi diplomatici.

Nell’agosto 1801 Napoleone firmò un trattato di amicizia con la Baviera, poi l’8 ottobre un trattato di pace con la Russia, in base al quale 6000 prigionieri russi tornarono a casa con le armi e le uniformi. Il giorno dopo fu concluso un trattato di pace anche con la Turchia, con cui i due paesi accettavano di aprirsi rispettivamente l’accesso ai porti. Insomma, nel giro di un anno Napoleone aveva fatto la pace con l’Austria, Napoli, la Turchia, la Russia, la Gran Bretagna e gli emigrati. All’inizio dell’estate dell’anno seguente sarebbe seguita la Prussia. Il 14 ottobre il sessantatreenne lord Cornwallis, il generale britannico che si era arreso a George Washington a Yorktown nel 1781, fu accolto a Calais con una salva di cannoni e la guardia d’onore, e fu accompagnato prima a Parigi, dove c’erano festeggiamenti e illuminazioni.
Anche se il termine decennale del consolato sarebbe scaduto solo nel 1810, nel maggio 1802 una mozione del senato lo estese per altri dieci anni con una maggioranza di sessanta voti a uno; l’unico a votare contro fu il conte ex girondino Lanjuinais. Questo portò alla richiesta, in apparenza spontanea ma di fatto ben orchestrata, di una nuova costituzione dell’anno decimo, in base alla quale Napoleone sarebbe diventato primo console a vita. «Voi ritenete che io debba al popolo un altro sacrificio», dichiarò lui al senato. «Lo farò, se la voce del popolo ordina quello che ora il vostro voto autorizza.» Come Giulio Cesare che rifiutò per due volte la corona di Roma, voleva far sembrare di accettare controvoglia e con riluttanza il potere a vita. Era un completo rovesciamento dei principi della rivoluzione, ma il popolo francese lo sostenne. La domanda del plebiscito era: «Deve Napoleone Bonaparte diventare console a vita?»; il risultato, rimaneggiato in modo ancora più radicale e non necessario che nel febbraio 1800, fu di 3.653.600 voti a favore e 8.272 contro. Era il primo plebiscito nella storia francese in cui l’affluenza al voto fu, almeno in apparenza, di oltre la metà degli aventi diritto, anche se in alcune zone non venne negato che si era votato due volte a favore; e ancora, la grande maggioranza del paese che era analfabeta non aveva modo di sapere come i sindaci avevano votato a nome loro.
Il 2 agosto 1801 Napoleone fu, secondo le previsioni, dichiarato primo console a vita, con il potere di nominare il suo successore. «Il suo atteggiamento non era affettato né supponente», riferiva il pari britannico bonapartista lord Holland, che era presente quando la delegazione del senato gli conferì quell’onore, «ma di certo gli mancavano la scioltezza e l’attrattiva che si ritiene si possano acquisire solo quando abituati sin da piccoli alle buone compagnie.» Giuseppe fu nominato successore di Napoleone, ma il 10 ottobre 1802 Luigi e Ortensia ebbero un figlio, Napoléon-Louis-Charles, di cui in seguito si parlò come possibile erede.
Il 23 settembre Napoleone scrisse a Talleyrand dicendogli di aver bisogno che la frontiera della Franca Contea fosse sicura, quindi l’alternativa possibile era tra «un governo svizzero solidamente organizzato e amico della Francia» e «nessuna Svizzera». La politica svizzera era complicata da contrasti tra i cantoni aristocratici e quelli populisti, e tra quelli germanofoni, italofoni e francofoni. Il 30 settembre 1802, l’Atto di mediazione di Napoleone riorganizzava la Svizzera in 19 cantoni, con un governo centrale molto debole e un esercito di soli 15.200 uomini. «Non ci sono persone più impudenti o più esigenti degli svizzeri», avrebbe detto in seguito. «Il loro paese è grande circa come la mano di un uomo e loro hanno le pretese più incredibili.» L’atto di mediazione violava il trattato di Lunéville, soprattutto quando il 15 ottobre Napoleone mandò in Svizzera con 40.000 uomini il generale Michel Ney per farlo attuare; tuttavia l’Austria gli diede mano libera, russi e prussiani non protestarono, e gli svizzeri che non erano ancora favorevoli si adeguarono. «Il possesso del Valais è una delle cose più vicine al mio cuore», disse Napoleone a un suo sostenitore svizzero, il filosofo repubblicano Philipp Stapfer, e «l’intera Europa non lo avrebbe indotto a rinunciarvi.» Nonostante il trattato di Amiens non facesse cenno alla Svizzera, la Gran Bretagna bloccò la restituzione di Pondicherry alla Francia e del Capo di Buona speranza all’Olanda, e le sue truppe rimasero ad Alessandria e a Malta.
Il 20 febbraio Napoleone disse al parlamento di Parigi che a causa dell’«abdicazione del sovrano e dei desideri del popolo» per forza di cose il Piemonte era «sottoposto al potere della Francia». Analogamente, disse, la sovranità svizzera era stata violata per «aprire un triplo e facile accesso all’Italia». Con maggior preveggenza faceva riferimento alle truppe britanniche che ancora occupavano Malta e Alessandria, e diceva che mezzo milione di soldati in Francia erano «pronti a difendere e vendicare». Il giorno dopo i britannici consegnarono Città del Capo alla Compagnia dell’India orientale olandese, ma né lusinghe né minacce valsero a convincerli a onorare i loro impegni riguardo a Malta e Alessandria.
Il 25 febbraio la dieta del Sacro romano impero ratificò la dichiarazione finale della deputazione imperiale, che faceva entrare in vigore in Germania le condizioni della pace di Lunéville. Per compensare stati e principi tedeschi dell’annessione da parte della Francia della riva occidentale del Reno, era necessario che l’Austria e gli altri grandi stati tedeschi congiungessero o razionalizzassero gli oltre 200 stati della Germania, riducendoli a 40, soprattutto secolarizzando i territori ecclesiastici e connettendo le città “libere” e “imperiali” ai loro vicini più grandi. Sarebbe stato il più grande trasferimento di stati e proprietà in Germania prima del 1945, con quasi 2.400.000 uomini e 12.700.000 fiorini di entrate annue che andavano ai nuovi governanti. Ne conseguirono diversi mesi di mercanteggiamenti tra Talleyrand e i governanti, che avrebbero beneficiato dell’intero spodestamento delle entità più piccole, fino a quel momento autonome. La carta della Germania fu enormemente semplificata, a prezzo dell’estinzione, dopo secoli, di centinaia di staterelli come la contea ereditaria di Winneburg-Bilstein che apparteneva al padre del principe Clemens von Metternich. Si deve a Napoleone la nascita del primo embrione di Germania.
Dopo una serie di provocazioni, bluff e intrighi tra i britannici e i francesi, accusandosi l'un l''altro di non aver ottemperato alle clausole della pace di Amiens, la Gran Bretagna dichiarò ufficialmente guerra alla Francia, il 18 maggio 1803. Napoleone reagì internando tutti i britannici di sesso maschile in età per combattere che si trovavano ancora sul suolo francese; molti di essi in seguito furono scambiati, ma alcuni invece restarono agli arresti domiciliari per i dieci anni successivi. Il suo messaggio al senato del 20 maggio era propaganda pura; sostenne infatti che in Gran Bretagna la pace di Amiens «era oggetto di un’aspra censura; veniva descritta come fatale per l’Inghilterra, perché non era vergognosa per la Francia […]; vana valutazione del loro odio!». Due giorni dopo ordinò a Decrès di costruire un prototipo di imbarcazione a fondo piatto che potesse traghettare un cannone e 100 uomini oltre la Manica, e di mettersi in contatto con Cambacérès, Lebrun e Talleyrand per trovare persone disposte a finanziare con fondi privati la costruzione di questi mezzi di trasporto che avrebbero portato il loro nome.
Nel trattato di San Ildefonso Napoleone aveva promesso alla Spagna di non vendere la Louisiana a terzi, ma ora decise di ignorare quell’impegno. Lo stesso giorno in cui Whitworth chiese i suoi passaporti a Parigi, dall’altra parte dell’Atlantico il presidente Thomas Jefferson firmava l’acquisto della Louisiana, raddoppiando le dimensioni degli Stati Uniti con un tratto di penna. Gli americani pagarono alla Francia, al costo di circa quattro centesimi all’acro, 80 milioni di franchi per 2.266.000 chilometri quadrati di territorio che oggi comprende per intero o in parte 13 stati, dal Golfo del Messico attraverso il Midwest fino alla frontiera canadese. «L’irresolutezza e la riflessione non sono più di moda», scrisse Napoleone a Talleyrand. «Rinuncio alla Louisiana. Non sto cedendo solo New Orleans, ma tutta la colonia, senza riserve; conosco il valore di quello che abbandono […] Vi rinuncio con il massimo rimpianto: tentare con ostinazione di tenerla sarebbe una follia.»
Dopo il fallimento di Amiens, Napoleone concluse che doveva assolutamente mettere a frutto il suo più grande e (per l’immediato futuro) del tutto inutile vantaggio, uno che prima o poi avrebbe potuto trascinare la Francia in un conflitto con gli Stati Uniti. Invece, aiutando gli Stati Uniti a conseguire dimensioni continentali e nel contempo arricchendo il tesoro francese, Napoleone poteva predire: «Ho appena regalato all’Inghilterra un rivale in mare che prima o poi umilierà il suo orgoglio». Nel giro di dieci anni gli Stati Uniti erano in guerra con la Gran Bretagna, e la guerra del 1812 avrebbe sottratto forze britanniche che stavano ancora combattendo nel febbraio 1815, le quali altrimenti forse sarebbero state presenti a Waterloo.
Dopo la dichiarazione di guerra del 18 maggio la situazione cambiò in fretta. Alla fine del mese la Francia invase l’elettorato di Hannover, il principato di origine di Giorgio III. Per rappresaglia la Royal Navy pose il blocco alle foci dell’Elba e del Weser in Germania; in giugno Nelson isolò Tolone, e a settembre ormai la Gran Bretagna aveva riconquistato Santa Lucia, Tobago, Berbice, Demerara ed Essequibo. Nel frattempo, in violazione del trattato franco-napoletano firmato nel 1801, e nonostante una vigorosa protesta russa, Napoleone mandò in Italia il generale Laurent de Gouvion Saint-Cyr, a presidiare di nuovo Taranto, Brindisi e Otranto.

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Generale Laurent de Gouvion-Saint-Cyr Si distinse eroicamente alla battaglia di Polack.

In giugno Napoleone ordinò la costruzione di cinque grandi campi d’invasione a Brest, Boulogne, Montreuil, Bruges e Utrecht. Furono allestiti dei campi di supporto per la cavalleria e la riserva a Saint-Omer, Compiègne, Arras, Étaples, Vimereaux, Parigi e Amiens. L’Armata d’Inghilterra assorbì gli uomini dell’Armata d’Occidente in Vandea, e fu ribattezzata Armata delle coste oceaniche. Nel gennaio 1804 contava 70.000 uomini, e in marzo 120.000. In seguito Napoleone affermò che aveva sempre e solo voluto spaventare la Gran Bretagna, placare l’Austria e addestrare il suo esercito, ma che in realtà non aveva intenzione di effettuare l’invasione.
Poco dopo il fallimento di un serio complotto, Napoleone dichiarò al consiglio: «Cercano di distruggere la rivoluzione attaccando la mia persona. La difenderò, perché la rivoluzione sono io». È chiaro che ci credeva, e in certa misura era vero, ma fu proprio in quel momento che si allontanò in modo più evidente dal repubblicanismo proclamato dalla rivoluzione. Alcuni giorni dopo il senato approvò un messaggio di congratulazioni a Napoleone che, come disse Fouché, ipotizzava la necessità di “altre istituzioni” per distruggere le speranze di qualsiasi futuro cospiratore.
Il 28 marzo Napoleone disse al consiglio che «l’argomento meritava la massima attenzione; che da parte sua lui non voleva niente; era del tutto soddisfatto della sua sorte, ma era suo dovere tenere conto anche del destino della Francia, e di che cosa era probabile producesse il futuro». Aveva rivisto la sua precedente valutazione riguardo alla legittimità dei monarchi. «Solo il principio ereditario potrebbe prevenire una controrivoluzione», aggiunse in modo analogo. In seguito, dai dipartimenti cominciarono a pervenire petizioni che imploravano Napoleone di prendere la corona. I giornali cominciarono a pubblicare articoli di elogio alle istituzioni monarchiche, e vennero pubblicati libelli ufficiali come Réflexions sur l’hérédité du pouvoir souverain di Jean Chas, in cui si suggeriva che il modo migliore per neutralizzare i cospiratori fosse fondare una dinastia napoleonica.
Napoleone imperatore
Alla fine di marzo questa campagna organizzata con cura aveva riscosso un tale successo che il consiglio di stato dibatteva quale fosse il miglior titolo da assumere per Napoleone. «Nessuno ha proposto di chiamarlo re!» osservò Pelet. Furono discussi invece “console”, “principe” e “imperatore”. I primi due parevano troppo modesti, ma Pelet era convinto che il consiglio considerasse «troppo ambizioso quello di imperatore». Secondo Ségur, il cui padre, il conte di Ségur, era presente all’assemblea e in seguito divenne il gran maestro di cerimonia imperiale, 27 consiglieri su 28 approvarono che Napoleone assumesse un titolo ereditario di qualche genere. Quando il presidente del comitato fece la sua relazione, tutti ritennero che il titolo di imperatore fosse «l’unico di valore sufficiente per lui e per la Francia».

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Napoleone imperatore dipinto di François Gérard

All’epoca in cui Napoleone era pronto per autonominarsi imperatore, molti dei grandi generali repubblicani che avrebbero potuto obiettare erano ormai fuori gioco: Hoche, Kléber e Joubert erano morti; Dumouriez si trovava in esilio; Pichegru e Moreau stavano per subire un processo per tradimento. Restavano solo Jourdan, Augereau, Bernadotte e Brune, i quali poco dopo sarebbero stati rabboniti con il bastone da maresciallo.

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Generale Guillaume Marie-Anne Brune, un eroe della Repubblica più che dell'impero.

Naturalmente la spiegazione data da Napoleone a Soult («Bisognava porre fine alle speranze dei Borboni») non era l’unica ragione; voleva anche essere in condizione di trattare come suoi pari Francesco di Austria e Alessandro di Russia. Nel 1804 ormai la Francia era de facto un impero, e solo riconoscendo questa realtà Napoleone si dichiarò imperatore de iure, proprio come sarebbe diventata la regina Vittoria per l’impero britannico nel 1877. Un numero straordinariamente basso di francesi si oppose al ritorno di una monarchia ereditaria appena 11 anni dopo l’esecuzione capitale di Luigi XVI, e quelli che lo fecero ricevettero la promessa di poter esprimere il proprio dissenso in un plebiscito.


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Generale Jean Baptiste Jourdan Nel gennaio 1803 fu eletto al Senato per il collegio della Haute-Vienne e quindi nominato comandante in capo dell'armata d'Italia.


Il 10 maggio 1804, William Pitt il Giovane tornò al premierato britannico, sostituendo il traballante governo Addison e impegnandosi a costruire la terza coalizione contro la Francia, su cui era disposto a spendere 2.500.000 sterline e nella quale sperava di reclutare la Russia e l’Austria. Otto giorni dopo Napoleone fu ufficialmente proclamato imperatore con una cerimonia di un quarto d’ora a Saint Cloud, nel corso della quale Giuseppe venne nominato grande elettore e Luigi diventò conestabile di Francia. Da quel momento assunse il titolo un po’ contorto e in apparenza contraddittorio «Napoleone, per grazia di Dio e della costituzione della repubblica, imperatore dei francesi».

Divenuto imperatore, Napoleone diede vita a una stagione che spesso viene sottovalutata da tutti coloro che sono soliti attribuirgli solo una grandezza militare. In effetti egli fu un grandissimo legislatore e altrettanto sapiente amministratore. Approfittando del periodo di pace concessagli dagli antagonisti stranieri, Napoleone si dedicò, infatti, alla realizzazione di un numero impressionante di disposizioni. Affetto da una vera e propria febbre di innovazioni portò a compimento una serie di realizzazioni destinate a cambiare per sempre non solo il volto della Francia, ma quello dell'Europa stessa. I suoi grandi capolavori furono le codifiche che si attuarono attraverso la rielaborazione dei codici, civile, penale e commerciale che rappresentarono l'esito finale del percorso iniziato con la Rivoluzione, ma sfrondato dagli aspetti utopistici per realizzare strumenti pragmatici, reali, in grado di essere adottati nella perfetta funzionalità. E tutto questo volle lui stesso seguirlo e indirizzarlo.
Si era deciso che, se Napoleone fosse morto senza un erede, la corona sarebbe passata a Giuseppe e poi a Luigi, mentre Luciano e Girolamo erano tagliati fuori dalla linea di successione a causa dei loro matrimoni disapprovati dal fratello.
Il giorno dopo essere stato proclamato imperatore, Napoleone nominò quattro “marescialli dell’impero” onorari, e 14 attivi. I 14 marescialli attivi erano Alexandre Berthier, Joachim Murat, Adrien Moncey, Jean-Baptiste Jourdan, André Masséna, Pierre Augereau, Jean-Baptiste Bernadotte, Nicolas Soult, Guillame Brune, Jean Lannes, Édouard Mortier, Michel Ney, Louis-Nicolas Davout e Jean-Baptiste Bessières.
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Generale Bon Adrien Jeannot de Moncey Alla Restaurazione ebbe l'audacia di rifiutare di presiedere il consiglio di guerra incaricato di giudicare il maresciallo Ney.

Tra il 1807 e il 1815 ne furono nominati altri otto. Il maresciallato non era un grado militare, ma onorifico, inteso a riconoscere e premiare qualcosa che Napoleone in seguito chiamò “il sacro fuoco”, e ovviamente incentivare gli altri membri dell’alto comando.
Il 12 giugno 1804 il nuovo consiglio imperiale (in sostanza il vecchio consiglio di stato) si riunì a Saint-Cloud per decidere quale forma dare all’incoronazione di Napoleone. Furono prese in considerazione Reims (dove avveniva per tradizione l’incoronazione dei re francesi), il Champ de Mars (scartato per la probabilità di condizioni climatiche inclementi) e Aix-de-la-Chapelle (per le sue connessioni con Carlomagno), prima di decidere per Notre-Dame. La data del 2 dicembre era un compromesso fra il desiderio di Napoleone, che avrebbe voluto il 9 novembre, quinto anniversario del colpo di stato di brumaio, e quello del papa, che avrebbe preferito il giorno di Natale, in cui nell’800 era stato incoronato Carlomagno. Poi il consiglio discusse l’insegna araldica e l’emblema ufficiale dell’impero, Napoleone scelse l'aquila con le ali aperte.


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Generale Michel Ney. Legatissimo a Napoleone si distinse nelle battaglie di Ulma, Friedland e nelle campagne di Spagna e Russia. Considerato un traditore dopo la Seconda Restaurazione, fu processato e fucilato

Il risultato del plebiscito sull’istituzione dell’impero fu annunciato il 7 agosto. Domenica 2 dicembre 1804 l’incoronazione di Napoleone e Giuseppina a Notre-Dame fu uno spettacolo magnifico. Alle sei del mattino, quando cominciarono ad arrivare i primi ospiti, nevicava, quindi si rifugiarono sotto un ponte neogotico di legno e stucco, progettato per nascondere gli effetti della furia iconoclastica perpetrata durante la rivoluzione. Alle sette del mattino 460 musicisti e coristi cominciarono a radunarsi sui transetti, come pure le orchestre al completo della cappella imperiale, del conservatorio, del teatro Feydeau, dell’Opéra, dei granatieri e dei cacciatori della guardia.
Durante l’incoronazione in Notre-Dame, Napoleone ricevette due corone: la prima era una ghirlanda di alloro d’oro, la indossò entrando nella cattedrale per evocare l’impero romano, e la portò per tutta la durata della cerimonia; la seconda era una copia della corona di Carlomagno. Quando il papa ebbe benedetti Napoleone e Giuseppina, abbracciò Napoleone e intonò Vivat Imperator in aeternam. La messa finì, e Napoleone pronunciò il suo giuramento di incoronazione:
Giuro di mantenere l’integrità del territorio della repubblica: di rispettare e di far rispettare le leggi del concordato e della libertà di culto, di libertà politica e civile; di irreversibilità della vendita dei beni nazionali; di non chiedere tasse, se non in virtù della legge; di mantenere l’istituzione della Legion d’onore; di governare solo per l’interesse, il benessere e la gloria del popolo francese.
L’“autoincoronazione” di Napoleone fu il trionfo definitivo di un uomo che si era fatto da solo, e in un certo senso un momento saliente dell’Illuminismo. In fondo fu anche un atto di onestà: Napoleone ci era arrivato davvero per i suoi sforzi. Ma forse in seguito lo rimpianse, per lo sfrenato egocentrismo che l'incoronazione evocava.
Successivamente, il 26 maggio 1805 nel Duomo di Milano, Napoleone fu incoronato Re d'Italia. L'incoronazione a Milano fu fastosa, e accompagnata dai suoi più fedeli collaboratori in Italia, come il cardinale Bellisoni, il Fenaroli, il Baciocchi, il Melzi e l'Aldini. In questa occasione Napoleone, postosi sul capo la corona imperiale, fatta realizzare per l'occasione[, pronunciò le famose parole: "Dio me l'ha data, guai a chi la tocca".
La conquista dell'Europa
Nel dicembre 1804 William Pitt firmò un’alleanza con la Svezia; nell’aprile 1805, quando anche la Gran Bretagna firmò il trattato di San Pietroburgo con la Russia, ormai si era formato il nucleo della terza coalizione. La Gran Bretagna avrebbe pagato alla Russia 1.250.000 sterline in ghinee d’oro per ogni 100.000 uomini che avesse schierato contro la Francia. Austria e Portogallo aderirono alla coalizione in seguito. Napoleone impiegò tutta la sua capacità di formulare minacce diplomatiche nel tentativo di evitare che altri vi aderissero. Già il 2 gennaio scrisse a Maria Carolina, la regina consorte del re di Napoli e Sicilia, sorella di Maria Antonietta e zia dell’imperatore Francesco. La avvertì in modo semplice: «Ho in mano mia numerose lettere scritte da Vostra Maestà che non lasciano dubbi riguardo alle sue segrete intenzioni», cioè di unirsi alla recente coalizione.
Già nel 1793 Pitt aveva creato il precedente di finanziare i nemici della Francia, quando aveva incominciato a prendere in affitto truppe dai principati tedeschi perché combattessero nei Paesi Bassi, ma spesso rimaneva profondamente deluso dai suoi investimenti, come nel 1795, quando i prussiani sembravano più contenti di combattere i polacchi che i francesi, o nel 1797, quando a Campoformio l’Austria prese il Veneto in cambio del Belgio (e della pace). In generale tuttavia, i governi britannici che si erano succeduti avevano ritenuto la politica dei sussidi valevole del suo prezzo.
All’insaputa di Napoleone, il 9 agosto l’Austria, adirata per l’incoronazione italiana, l’annessione di Genova e le alleanze che Napoleone aveva concluso con la Baviera, il Württemberg e il Baden, aveva aderito in segreto alla terza coalizione. Anche se il 3 agosto in privato Napoleone disse a Talleyrand «una guerra non ha senso», era pronto a combattere in caso di necessità. All’inizio di agosto, nel giro di pochi giorni, ordinò a Saint-Cyr di tenersi pronto a invadere Napoli dall’Italia settentrionale se necessario, diede a Masséna il comando dell’Italia e inviò Savary a Francoforte a procurarsi le migliori carte della Germania disponibili e cercare di spiare il consiglio aulico a Vienna.
Essendo giunta la notizia che a quanto pareva l’Austria stava mobilitandosi, era chiaro che l’invasione della Gran Bretagna doveva essere rimandata. «Chiunque dovrebbe essere completamente pazzo per farmi guerra», scrisse a Cambacérès. «Di certo in Europa non c’è esercito migliore di quello che ho oggi.» Ma nel corso della giornata, quando apparve chiaro che davvero l’Austria stava mobilitandosi, fu irremovibile. «Ho preso la mia decisione», scrisse a Talleyrand. «Voglio attaccare l’Austria ed essere a Vienna prima di novembre per affrontare i russi se mai dovessero presentarsi.» Nella stessa lettera ordinava a Talleyrand di cercare di spaventare «quello scheletro di Francesco, collocato sul trono per merito dei suoi antenati» e convincerlo a non combattere: «Voglio essere lasciato in pace per fare la guerra con l’Inghilterra».
Napoleone non voleva rinunciare ai suoi piani di invasione della Gran Bretagna, tuttavia comprendeva che sarebbe stato poco accorto cercare di combattere simultaneamente su due fronti. Aveva dunque bisogno di un piano dettagliato per sgominare l’Austria. Fece sedere Daru perché scrivesse sotto dettatura. In seguito Daru raccontò a Ségur:
"Senza alcuna transizione, in apparenza senza la minima riflessione, e nei suoi toni brevi, concisi e imperiosi, [mi] dettò senza un attimo di esitazione l’intero piano della campagna di Ulma sino a Vienna. L’Armata della Costa, schierata su una linea di oltre 200 leghe di fronte all’oceano, al primo segnale doveva rompersi e marciare verso il Danubio in diverse colonne. L’ordine delle varie marce, la loro durata; i punti dove le varie colonne dovevano convergere o riunirsi; le sorprese; gli attacchi a piena forza; i diversi movimenti; gli errori del nemico; durante la frettolosa dettatura era stato previsto tutto".
Il minuzioso sistema di registrazione di Berthier era una delle colonne portanti dell’imminente campagna; l’altra fu l’adozione da parte di Napoleone del sistema dei corpi d’armata, in pratica una versione enormemente allargata del sistema delle divisioni con cui si era battuto in Italia e in Medio Oriente. Grazie al periodo trascorso negli accampamenti a Boulogne e alle continue manovre effettuate tra il 1803 e il 1805, Napoleone poté dividere il suo esercito in unità di 20-30.000 uomini, a volte anche 40.000, e dare loro un addestramento intensivo. Ogni corpo d’armata era a tutti gli effetti un miniesercito, dotato di fanteria, cavalleria, artiglieria, stato maggiore, servizi informativi, genio, trasporti, vettovagliamento, amministrazione, sezioni mediche e commissariati, concepito per lavorare in stretta connessione con gli altri corpi. Spostandosi a meno di una giornata di marcia uno dall’altro, consentivano a Napoleone di invertire i ruoli di retroguardia, avanguardia o riserva quasi immediatamente, a seconda dei movimenti del nemico. Quindi, tanto in attacco quanto in ritirata, l’intero esercito poteva ruotare sul suo asse senza confusione. Nelle zone rurali i corpi d’armata potevano anche allontanarsi abbastanza uno dall’altro senza causare problemi di vettovagliamento.
Ogni corpo d’armata doveva essere grande abbastanza per fronteggiare un’intera armata sul campo di battaglia, mentre gli altri potevano scendere in campo nel giro di 24 ore per rinforzarlo e disimpegnarlo, o, cosa ancora più utile, per aggirare o accerchiare il nemico. Ai comandanti dei singoli corpi d’armata, che di solito erano marescialli, sarebbero stati assegnati un luogo dove andare e una data di arrivo, e per il resto avrebbero dovuto regolarsi da soli. Non avendo mai comandato una compagnia, un battaglione, un reggimento, una brigata, una divisione o un corpo di fanteria o cavalleria in battaglia, e fidandosi dell’esperienza e della competenza dei suoi marescialli, in generale Napoleone era ben felice di lasciare a loro la logistica e la tattica di battaglia, purché loro riportassero i risultati richiesti. Inoltre, durante un’offensiva, un corpo d’armata doveva essere capace di fare incursioni di rilievo nella forza nemica.
Era un sistema geniale, concepito in origine da Guibert e dal maresciallo de Saxe. Napoleone se ne servì in quasi tutte le successive battaglie vittoriose, in particolare a Ulma, Jena, Friedland, Lützen, Bautzen e Dresda, non desiderando correre di nuovo i rischi di Marengo, dove le sue forze erano troppo sparpagliate. Le sue sconfitte, in particolare ad Aspern-Essling, Lipsia e Waterloo, si verificarono quando non si servì in modo adeguato del sistema dei corpi d’armata.
«A quanto pare l’Austria vuole la guerra», scrisse Napoleone il 25 agosto al suo alleato, l’elettore Massimiliano Giuseppe di Baviera. «Non riesco a spiegarmi un comportamento così bizzarro; ma l’avrà, e prima di quanto se lo aspetti.» Il giorno dopo ricevette conferma da Louis-Guillaume Otto, all’epoca inviato francese a Monaco, che gli austriaci stavano per attraversare l’Inn e invadere la Baviera. Nella previsione che accadesse, alcune unità francesi di quella che era ormai ufficialmente ribattezzata Grande Armée avevano già lasciato Boulogne tra il 23 e il 25 agosto. Napoleone la definì la sua “pirouette”, e finalmente disse al suo stato maggiore del piano di invadere la Gran Bretagna: «Bene, se dobbiamo rinunciarvi, comunque ascolteremo la messa di mezzanotte a Vienna». Il campo di Boulogne non fu fisicamente smantellato fino al 1813.
Per tenere la Prussia fuori dalla coalizione disse a Talleyrand di offrire l’Hannover, «ma devono assolutamente capire che quest’offerta non la riproporrò tra 15 giorni.» I prussiani dichiararono la propria neutralità, continuando tuttavia a insistere per l’indipendenza della Svizzera e dell’Olanda.

Il 1° settembre, quando Napoleone partì da Pont-de-Briques per Parigi allo scopo di chiedere al senato di radunare una nuova leva di 80.000 uomini, disse a Cambacérès: «Non c’è un solo uomo a Boulogne, a parte quelli necessari per la protezione del porto». Impose un totale occultamento delle notizie riguardo ai movimenti delle truppe, e disse a Fouché di proibire a tutti i quotidiani «di citare l’esercito, come se non esistesse più». Se ne uscì anche con un’idea per seguire la mobilitazione del nemico, ordinando a Berthier di trovare qualcuno che parlasse il tedesco per «seguire il progresso dei reggimenti austriaci, e registrare le informazioni nei compartimenti, per poi metterle in una scatola preparata appositamente […] Il nome o il numero di ciascun reggimento deve essere segnato su una carta da gioco, e le carte devono essere spostate da un compartimento all’altro a seconda dei movimenti dei reggimenti».

bessieres

Generale Jean Baptiste Bessières; Cavalcando in prima linea per osservare lo schieramento nemico a Lützen, fu colpito da una granata che l'uccise sul colpo. Quel 1º maggio del 1813 moriva uno dei più fidati uomini di Napoleone e amico.

Il giorno seguente il generale austriaco Karl Mack von Leiberich attraversò la frontiera bavarese e poco dopo conquistò la città fortificata di Ulma, nella previsione di ricevere poco dopo rinforzi dai russi al comando del generale Mihail Kutuzov, i quali avrebbero portato le forze di coalizione in quel teatro a un totale di 200.000 uomini. Ma Ulma era pericolosamente avanzata perché gli austriaci potessero tenerla senza l'aiuto dei russi che, per qualche ragione stavano schierandosi con grande ritardo. Intanto l’arciduca Carlo si preparava ad attaccare in Italia, dove Napoleone aveva rimpiazzato Jourdan con Masséna.
I sette corpi d’armata della Grande Armée, al commando dei marescialli Bernadotte, Murat, Davout, Ney, Lannes, Marmont e Soult, che contavano in totale 170.000 uomini, si diressero verso est a straordinaria velocità, attraversando il Reno il 25 settembre. Gli uomini erano felici di combattere sulla terra asciutta e non affrontare la Manica con fragili chiatte. «Finalmente tutto sta prendendo colore», disse Napoleone a Otto quel giorno. Di per sé, era la campagna più grande mai condotta dalle truppe francesi. Il fronte, che andava da Boulogne all’Olanda e oltre, si allungava per quasi 300 chilometri, da Coblenza a nord fino a Friburgo a sud.
Napoleone partì da Saint-Cloud il 24 settembre, e due giorni dopo raggiunse l’esercito a Strasburgo, dove lasciò Giuseppina, e si diresse verso il Danubio a est di Ulma per cercare di accerchiare Mack e di isolarlo dai russi. Il generale Georges Mouton fu inviato dall’elettore di Württemberg a chiedere l’autorizzazione al passaggio del corpo d’armata di Ney, forte di 30.000 uomini, autorizzazione difficile da rifiutare, e quando l’elettore chiese che Württemberg fosse innalzato a regno, Napoleone scoppiò a ridere: «Bene, a me va benissimo; sia pure re, se non vuole altro!». Il sistema dei corpi d’armata consentì a Napoleone di far ruotare tutto il suo esercito di 90 gradi a destra una volta giunto al Reno. La manovra fu definita da Ségur «il più grande cambio di fronte mai visto», e grazie a essa il 6 ottobre la Grande Armée guardava a sud su tutta la linea da Ulma sino a Ingolstadt sul Danubio. Questa agile collocazione di un esercito molto grande attraverso la linea di ritirata di Mack ancora prima che questi si rendesse conto di quanto stava accadendo, senza perdere nemmeno un uomo, è una delle più grandiose realizzazioni militari di Napoleone. «Per negoziare con gli austriaci non c’è altra premessa che il fuoco dei cannoni», disse quella volta a Bernadotte. Era incoraggiato dal fatto che tutti i contingenti provenienti da Baden, Baviera e Württemtemberg si erano uniti alla Grande Armée.
La sera del 6 ottobre Napoleone proseguì fino a Donauwörth, a detta di Ségur, «per l’impazienza di vedere il Danubio per la prima volta». Mentre si trovava ancora a Bamberga, Napoleone scrisse il primo di 37 bollettini, profetizzando da lì la «totale distruzione» del nemico. Il 9 ottobre i francesi ottennero la vittoria in uno scontro minore a Günzburg, e poi di nuovo ad Haslach-Jungingen l’11. La sera seguente, alle undici, dopo che Bernadotte aveva conquistato Monaco. Il 13 ottobre, avendo completato l’accerchiamento di Ulma, Napoleone ordinò a Ney di riattraversare il Danubio e conquistare le alture di Elchingen, ultimo ostacolo importante prima di Ulma: dall’abbazia di Elchingen c’è una vista magnifica sul terreno pianeggiante fino alla cattedrale di Ulma, a 9 chilometri di distanza. Ney la occupò il giorno dopo. Il giorno dopo Mack aprì i negoziati con la promessa di arrendersi se non fosse stato sollevato dai russi entro 21 giorni. Napoleone, che cominciava a rimanere a corto di provviste e non voleva perdere lo slancio, gliene diede un massimo di sei. Il 18 ottobre, quando Murat sventò un tentativo di soccorso del feldmaresciallo Werneck e catturò 15.000 uomini a Trochtelfingen, la notizia colpì Mack come un pugno allo stomaco. Mack cedette Ulma alle tre del pomeriggio del 20 ottobre, insieme a circa 20.000 uomini di fanteria, 3.300 di cavalleria, 59 cannoni da campagna, 300 carri di munizioni, 3.000 cavalli, 17 generali e 40 stendardi. Quando un ufficiale francese che non lo riconobbe gli chiese chi fosse, il comandante austriaco gli rispose: «Voi vedete dinanzi a voi lo sfortunato Mack!».
La resa avvenne sull’altopiano di Michelsberg, nei dintorni di Ulma. Dalla torre di Aussichtsturm, appena fuori dalla città vecchia, si vede il luogo in cui gli austriaci uscirono in fila dalla città e deposero moschetti e baionette, prima di andare in prigionia a lavorare nelle fattorie francesi e nei progetti edilizi parigini. Parlando ai generali austriaci catturati, aggiunse: «È una sfortuna che persone coraggiose come voi, i cui nomi sono citati con onore ovunque abbiate combattuto, debbano essere vittime della stupidità di un governo il quale si limita a fantasticare su progetti folli e non arrossisce a compromettere la dignità dello stato». Cercò di convincerli che la guerra era stata del tutto inutile, dovuta soltanto al denaro dato dalla Gran Bretagna a Vienna per proteggere Londra dalla conquista. In un ordine del giorno Napoleone descriveva i russi e gli austriaci come puri e semplici mignon dei britannici. Rapp ricordava che Napoleone «era pieno di gioia per un sì bel fatto», come aveva tutte le ragioni di essere, dato che la campagna era stata impeccabile e quasi senza spargimento di sangue. «L’imperatore ha inventato un nuovo metodo per fare la guerra», diceva Napoleone in un bollettino, citando i suoi uomini; «usa soltanto le loro gambe e le nostre baionette.» Con un tempismo quasi poetico, anche se Napoleone lo avrebbe appreso solo quattro settimane dopo, la coalizione sfogò la sua vendetta contro la Francia proprio il giorno dopo. Al largo di capo Trafalgar, un’ottantina di chilometri a ovest di Cadice, la flotta franco-spagnola costituita da 33 navi di linea fu distrutta dalle 27 navi di linea dell’ammiraglio Nelson. Invece di rinunciare del tutto ai suoi sogni di invasione, Napoleone continuò a spendere enormi quantità di denaro, tempo ed energia per cercare di ricostruire una flotta che pensava avrebbe potuto minacciare di nuovo la Gran Bretagna grazie alla mera superiorità numerica. Non comprese mai che una flotta, se trascorreva il 90 per cento del suo tempo in porto, non poteva proprio acquisire le competenze marinaresche necessarie per competere con la Royal Navy al culmine della sua capacità operativa. Non c’era più nulla che potesse ostacolare la Grande Armée nella sua avanzata verso Vienna. Eppure la campagna era tutt’altro che finita, poiché Napoleone doveva fermare l’esercito russo di Kutuzov, forte di 100.000 uomini e diretto verso ovest, impedendogli di congiungersi a quello austriaco, di 90.000 unità, al comando dell’arciduca Carlo, che al momento si trovava in Italia. La speranza di Napoleone che si potesse impedire a Carlo di proteggere Vienna si realizzò verso la fine di ottobre, quando Masséna riuscì a portare gli austriaci a un pareggio nella combattutissima battaglia di Caldiero, durata tre giorni.
«Sono in piena marcia», scrisse Napoleone a Giuseppina il 3 novembre da Haag am Hausruck. «Fa molto freddo; la campagna è coperta da 30 centimetri di neve […] Per fortuna la legna non manca; qui siamo sempre in mezzo a foreste.» Non poteva saperlo, ma quello stesso giorno la Prussia firmò il trattato di Potsdam con l’Austria e la Russia, promettendo “mediazione” armata contro la Francia in cambio del ricevimento di un sussidio britannico. Il trattato, firmato il 15 novembre, fu un raro esempio di come un atto può essere rapidamente superato dagli eventi. Napoleone proseguì l’avanzata verso Vienna. La scarsa efficienza dei sistema di rifornimenti suscitò accese proteste degli uomini, e persino di ufficiali di alto grado come il generale Pierre Macon, ma Napoleone spronò l’esercito a proseguire, e il 7 novembre diede «ordini rigorosissimi» contro il saccheggio; centinaia di uomini furono puniti a Braunau e altrove, privati del bottino e persino frustati dai loro compagni (cosa molto insolita nell’esercito francese). «Ora siamo nel paese del vino!» poté dire alle truppe da Melk il 10 novembre, anche se fu permesso loro di bere solo quello che era stato requisito dai quartiermastri. Il bollettino si concludeva con la ormai consueta invettiva contro gli inglesi, «artefici delle disgrazie dell’Europa».
Il 13 novembre alle undici di mattina fu conquistato l’importante ponte di Tabor sul Danubio, quasi soltanto grazie a vuote minacce dei francesi, i quali diffusero la notizia, inventata di sana pianta, che era stata firmata la pace e Vienna era stata dichiarata città aperta. Quando la verità fu scoperta era troppo tardi, e Murat ordinò perentoriamente agli austriaci di evacuare la zona. Fu dunque un’astuzia di guerra a consegnare Vienna nelle mani dei francesi, anche se l’alto comando austriaco non aveva progettato di resistere molto prima di far saltare i ponti. Quando Napoleone apprese la notizia era «fuori di sé dalla gioia», e proseguì in fretta per occupare il palazzo asburgico di Schönbrunn, fermandovisi quella stessa notte ed entrando a Vienna in pompa magna il giorno dopo, mentre Francesco e la sua corte si ritiravano a est verso i russi in arrivo. Il trionfo fu guastato soltanto dal fatto che Murat consentì a un esercito austriaco di sfuggire alla cattura a Hollabrünn il 15 novembre. Impaziente di avanzare in fretta verso la vittoria decisiva che voleva, Napoleone partì da Schönbrunn il 16 «furibondo» nei confronti di Murat; Napoleone molte volte se la prese con Murat per la sua indisciplina e le sue guasconate. Ma Murat fu spesso capace di risolvere situazioni difficili. Napoleone era altrettanto scontento di Bernadotte, di cui scrisse a Giuseppe: «Mi ha fatto perdere un giorno, e da un giorno dipende il destino del mondo; io non avrei lasciato scappare un solo uomo».

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Gioacchino Murat, il generale "guascone"

Il 17, quando apprese di Trafalgar, si trovava a Znaïm'. La censura che ordinò era talmente rigorosa che la maggior parte dei francesi sentì parlare del disastro per la prima volta solo nel 1814. Le città conquistate dovevano essere presidiate, e le linee di rifornimento protette, quindi alla fine di novembre la forza in avanzata di Napoleone era ridotta a 78.000 uomini sul campo, mentre procedeva di altri 300 chilometri verso est per entrare in contatto con il nemico. I prussiani avevano adottato un atteggiamento minaccioso a nord, gli arciduchi Giovanni e Carlo avanzavano da sud e Kutuzov si trovava ancora davanti a lui a est in Moravia, perciò la Grande Armée stava cominciando a parere molto esposta. Aveva marciato a lungo per tre mesi, e ormai era esausta e affamata. Il capitano Jean-Roch Coignet della guardia imperiale valutava di aver percorso più di 1000 chilometri in sei settimane. In una clausola del successivo trattato di pace, tra i risarcimenti di guerra, Napoleone avrebbe chiesto cuoio da calzature. Il 20 novembre Napoleone fu «sorpreso e lieto» della resa di Bruna (attuale Brno) che era piena di armi e provviste e vi stabilì la sua base successiva. Il giorno dopo si fermò a 15 chilometri a est della cittadina su «una montagnola sul lato della strada che si chiama Santon», non lontana dal villaggio di Austerlitz (attuale Slavkov), e diede ordine di scavarne la base dal lato del nemico in modo da aumentare la scarpata. Poi perlustrò a cavallo il terreno, osservando con cura due grandi laghi e le zone esposte e «fermandosi diverse volte sui punti più elevati», soprattutto l’altopiano Pratzen, per poi dichiarare al suo stato maggiore: «Signori, esaminate con cura il terreno. Diventerà un campo di battaglia, e voi dovrete fare la vostra parte!».
I russi e gli austriaci avevano elaborato un piano per cercare di intrappolare Napoleone tra di loro. Il principale esercito campale, accompagnato da due imperatori, doveva marciare verso ovest da Olmütz con una forza di 86.000 uomini, mentre l’arciduca Ferdinando avrebbe colpito a sud da Praga nelle retrovie aperte dei francesi. Napoleone rimase a Bruna fino al 28 novembre, consentendo un po’ di riposo all’esercito. «Ogni giorno aumentava il pericolo della nostra posizione isolata e distante», ricordava Ségur, e Napoleone decise di sfruttare questo fatto a suo vantaggio. Il 27 novembre, nei colloqui a Bruna con due inviati austriaci, il conte Johann von Stadion e il generale Giulay, finse di essere preoccupato per la sua posizione e la sua generale debolezza, e ordinò ad alcune unità di ritirarsi di fronte agli austriaci, nella speranza di instillare nel nemico un’eccessiva sicurezza. «I russi credevano che i francesi non osassero ingaggiare battaglia», scrisse il generale Thiébault riguardo a questo stratagemma.   I francesi avevano evacuato tutti i punti minacciati, erano andati via da Wischau, Rausnitz e Austerlitz di notte; si erano ritirati di 12 chilometri senza fermarsi; si erano concentrati, invece di cercare di minacciare i fianchi russi. Presero questi segni di esitazione e apprensione, questa apparente ritirata, come la prova definitiva che il nostro coraggio era scosso e come un sicuro presagio di una loro vittoria. Essendo venuto a sapere da un disertore che le forze della coalizione erano decisamente all’offensiva, e dai servizi informativi di Savary che non avrebbero aspettato i 14.000 russi di rinforzo, Napoleone concentrò le sue forze. Con Marmont a Graz, Mortier a Vienna, Bernadotte alle sue spalle a sorvegliare la Boemia, Davout che si muoveva verso Presburgo (l’odierna Bratislava) sorvegliando l’Ungheria, per il momento tranquilla, e Lannes, Murat e Soult allargati davanti a lui sull’asse Bruna-Wischau-Austerlitz, Napoleone aveva bisogno di rimettere insieme tutti i suoi corpi d’armata per la battaglia. Il 28 novembre incontrò il giovane e arrogante aiutante di campo dello zar Alessandro, il ventisettenne principe Petr Petrovic Dolgorukij, sulla strada di Olmütz fuori di Posorsitz. «Ho avuto una conversazione con quel presuntuosetto», raccontò Napoleone all’elettore Federico II di Württemberg una settimana dopo, «durante la quale mi ha parlato come avrebbe fatto con un boiaro che si accingeva a mandare in Siberia.» Dolgorukij chiese che Napoleone consegnasse l’Italia al re di Sardegna, il Belgio e l’Olanda a un principe prussiano o britannico. Ricevette una risposta adeguatamente asciutta, ma Napoleone non lo mandò via fino a quando non gli fu permesso di intravedere quelli che sembravano preparativi per una ritirata. Il piano originale di Napoleone prevedeva che Soult, Lannes e Murat combattessero in difesa per attirare avanti i 69.500 uomini della fanteria austro-russa, i 16.565 della cavalleria e i 247 cannoni, mentre Davout e Beradotte dovevano arrivare quando il nemico fosse stato pienamente impegnato e ne fossero emersi con chiarezza i punti deboli. Anche se Napoleone aveva in totale solo 50.000 uomini di fanteria e 15.000 di cavalleria, disponeva di 282 cannoni, e riuscì a concentrare più uomini ad Austerlitz di quanti gli alleati, sapessero che poteva schierare. Per indurre ancora di più il nemico a cullarsi nel pensiero che i francesi fossero in procinto di ritirarsi, Soult ricevette l’ordine di abbandonare le alture di Pratzen con una fretta in apparenza inopportuna. Anche gli alleati compresero l’importanza delle alture di Pratzen; il loro piano, steso dal capo di stato maggiore austriaco, il generale Franz von Weyrother, era che il generale Friedrich von Buxhöwden sovrintendesse all’attacco di tre colonne (su cinque) dalle alture, al di sopra del fianco destro francese a sud. Poi si sarebbero voltate a nord e avrebbero circondato la linea francese mentre l’intero esercito si avvicinava. In ogni caso, c’era un’eccessiva concentrazione di uomini su un terreno accidentato a sud del campo di battaglia, dove avrebbero potuto essere bloccati da un contingente francese più piccolo, mentre il piano lasciava il centro completamente aperto al contrattacco francese. Lo zar Alessandro approvò l’idea, anche se il suo comandante in campo, Kutuzov, non la condivideva. Invece la strategia francese derivava soltanto da un’autorità unica.

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Ritratto dell'epoca del generale Jean Lannes Lannes fu considerato da Napoleone il suo più caro amico, anche ai tempi dell'Impero permise a lui soltanto di dargli del tu nelle occasioni ufficiali, cosa che era riservata solo a Giuseppina e neppure ai membri della sua famiglia. Per il suo particolare carattere, Napoleone lo chiamava affettuosamente "Orso Lannes".

La mattina di lunedì 2 dicembre 1805 alle quattro, le truppe francesi furono trasferite nelle loro posizioni iniziali sul campo di battaglia di Austerlitz, in larga parte inosservate perché il terreno più basso era avvolto in una fitta foschia che continuò a confondere l’alto comando degli alleati riguardo alle intenzioni di Napoleone per tutte le prime ore della battaglia. «Le nostre divisioni stavano assembrandosi in silenzio nella notte chiara e di un gelo pungente», ricordava Thiébault. «Per ingannare il nemico, alimentarono i fuochi che stavano lasciando.» Napoleone era andato in ricognizione molto prima dell’aurora, e alle sei chiamò i marescialli Murat, Bernadotte, Bessières, Berthier, Lannes e Soult, come pure diversi comandanti di divisione tra cui il generale Nicolas Oudinot, al suo quartier generale di campo su una montagnola chiamata Žurán´, un po’ a sinistra rispetto al centro del campo di battaglia; in seguito lo Žurán´ gli avrebbe offerto una visuale magnifica su quello che doveva diventare il centro della battaglia sulle alture di Pratzen, da cui però non poteva vedere i villaggi di Sokolnitz e Tellnitz dove avvennero molti dei primi combattimenti. La riunione continuò fino alle sette e mezzo del mattino; a quel punto Napoleone era sicuro che ciascuno avesse capito con esattezza che cosa gli veniva chiesto di fare. Il piano di Napoleone era di mantenere debole il suo fianco destro per attirare il nemico ad attaccare a sud, ma di farlo ben proteggere dal corpo d’armata di Davout in avvicinamento, mentre il fianco sinistro a nord era tenuto dalla fanteria di Lannes e dalla cavalleria di riserva di Murat al Santon, su cui aveva collocato 18 cannoni. La terza divisione del corpo d’armata di Soult, al comando del generale Claude Legrand, doveva sostenere l’attacco austriaco al centro, mentre il corpo d’armata di Bernadotte, che fu spostato dal Santon per rischierarsi tra Grzikowitz e Punowitz, doveva sopportare l’attacco principale della giornata. A dare il segnale d’inizio sarebbe stato l’assalto di Soult sul Pratzen, guidato dalle divisioni di Saint-Hilaire e Vandamme, non appena le truppe alleate avessero cominciato a lasciare le alture per attaccare i francesi a sud.

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Generale Louis Charles Vincent Le Blond de Saint-Hilaire Morì nel corso della battaglia di Aspern-Essling a seguito della perdita del piede destro, amputatogli da una palla di cannone.

«Uno attacca, poi aspetta e vede», così Napoleone spiegava la sua arte tattica. Quindi tenne di riserva la guardia imperiale, la cavalleria di riserva di Murat e i granatieri di Oudinot per utilizzarli come forza di emergenza sul fianco meridionale, oppure per intrappolare il nemico quando le alture di Pratzen fossero state conquistate. Negli archivi di stato bavaresi c’è uno schizzo che disegnò per spiegare come era stata combattuta la battaglia, in cui si vede quanto avesse seguito da vicino la concezione originale. Anche se Napoleone cambiava di continuo i piani di battaglia a seconda delle circostanze, in alcune occasioni gli scontri seguivano un piano, e ad Austerlitz fu quello che accadde.
Poco dopo le sette, ancora prima che la riunione finisse e gli uomini di Soult venissero ridisposti in formazione, cominciarono i combattimenti intorno a Tellnitz, dove Legrand fu attaccato dagli austriaci come previsto. Alle sette e mezzo le truppe di Soult vennero schierate a Puntowitz per indurre gli alleati a pensare che stessero spostandosi verso il fianco destro, mentre in realtà avrebbero preso d’assalto le alture di Pratzen e sfondato il centro del campo di battaglia. Alle otto i russi (che quel giorno sopportarono il grosso dei combattimenti) stavano muovendosi verso sud, dalle alture di Pratzen verso il fianco destro francese, indebolendo il centro degli alleati. Alle otto e mezzo ormai gli alleati avevano conquistato Tellnitz e Sokolnitz, ma un quarto d’ora dopo Sokolnitz cadde di nuovo in mani francesi dopo un contrattacco di Davout, che vi comandava personalmente una brigata. Entrando nel villaggio, il maresciallo trentacinquenne, che stava combattendo la sua prima grande battaglia, ricevette un appello urgente dai difensori di Tellnitz e mandò suo cognato, il generale Louis Friant, con la 108a di linea ad attaccare il villaggio coperto di fumo, per riprenderlo ai russi. A un certo punto la 2a divisione di Friant era ridotta a 3.200 uomini, la metà degli effettivi normali, ma sebbene assottigliata non cedette. Come spesso accadeva nell’epoca della polvere da sparo, vi furono alcuni gravi incidenti di “fuoco amico”, come quando la 108a di linea e la 26a leggera si spararono a vicenda fuori Sokolnitz e smisero soltanto nel momento in cui videro le reciproche aquile.
Ora Legrand difendeva Sokolnitz con due semibrigate una delle quali, la Tiratori còrsi, era un’unità isolata soprannominata “i cugini dell’imperatore”. Affrontava 12 battaglioni di fanteria russa che avanzavano verso il muro della fagianaia fuori dal villaggio, difeso da quattro battaglioni francesi soltanto. Durante la lotta, la 26a semibrigata leggera fu lanciata dentro Sokolnitz, e mise in fuga cinque battaglioni russi, proprio mentre la 48a di Friant respingeva altri 4700 russi. Ma prima delle nove e mezzo i russi avevano espugnato il castello di Sokolnitz in un assalto generale; dei 12 più eminenti comandanti francesi presenti a Sokolnitz, 11 rimasero uccisi o feriti. Come spesso accadeva, fu l’ultima formazione di uomini, la più fresca mandata in capo a determinare le sorti della battaglia, giustificando la prassi di Napoleone di tenere sempre delle riserve. Alle dieci e mezzo ormai 10.000 uomini di Davout avevano neutralizzato 36.000 nemici, mentre Napoleone faceva entrare lentamente in campo la fanteria e l’artiglieria, tenendo indietro la cavalleria. Davout diede a Napoleone il tempo importantissimo di cui aveva bisogno per assumere il predominio al centro e inoltre gli consentì di mutare le sorti della battaglia in quel punto, lanciando 35.000 uomini contro 17.000 austro-russi nel luogo decisivo del campo di battaglia, le alture di Pratzen.
Alle nove Napoleone aspettava con impazienza al Žurán' che due delle quattro colonne nemiche lasciassero le alture di Pratzen. «Quanto ci metteranno le vostre truppe per occupare l’altopiano?» chiese a Soult, il quale rispose che sarebbero bastati 20 minuti. «Molto bene, aspetteremo un altro quarto d’ora.» Quando fu trascorso, Napoleone concluse: «Finiamo questa guerra in un lampo!». L’attacco doveva cominciare con la divisione di Saint-Hilaire, che era nascosta tra le ondulazioni e la foschia sospesa della valle di Goldbach. Alle dieci ormai il sole era sorto e dissolse la bruma, e da quel momento “il sole di Austerlitz” divenne un’immagine simbolo del genio di Napoleone, e della sua fortuna. Soult arringò gli uomini della 10a semibrigata leggera, diede loro tripla razione di cognac e li mandò su per il pendio. I francesi adottarono l’ordine misto, una combinazione di linea e colonna per attaccare, con una linea di scaramucciatori davanti, che caricò direttamente la quarta colonna russa mentre scendeva dalle alture. Rendendosi conto del pericolo, Kutuzov mandò gli austriaci di Kollowrath a riempire i vuoti tra le colonne russe. Nella feroce lotta che seguì furono presi pochissimi prigionieri e in pratica non vennero lasciati vivi i feriti.
Saint-Hilaire conquistò il villaggio di Pratzen e buona parte dell’altopiano tra pesanti combattimenti. A quanto pare a determinare le sorti della giornata fu il consiglio del colonnello Pierre Pouzet che sferrasse un nuovo attacco nonostante le condizioni terribilmente avverse, allo scopo di impedire al nemico di contare le sue forze ridotte: gli uomini tornavano a recuperare le armi abbandonate durante la ritirata. Alle undici e mezzo Saint-Hilaire aveva raggiunto l’altopiano, e Soult, non appena divennero disponibili, aveva lanciato in battaglia molti più uomini dei russi. La 57a semibrigata di linea (“i terribili”) si distinse di nuovo.
Kutuzov fu lasciato a guardare sconcertato mentre 24.000 francesi si scontravano con 12.000 uomini degli alleati rimasti sulle alture; fece invertire direzione alle ultime colonne dirette a sud, ma era troppo tardi. Osservando dal Žurán´, e anche grazie ai rapporti di schiere di aiutanti di campo, Napoleone vide le fitte colonne che salivano lungo i fianchi del Pratzen, e alle undici e mezzo diede a Bernadotte l’ordine di avanzare. Bernadotte chiese di essere accompagnato dalla cavalleria, ma ricevette una secca replica: «Non me ne avanza». Non ci si può certo aspettare cortesia su un campo di battaglia ed era la pura verità, ma se alla corte di Napoleone c’era l’opposto di un favorito, quello era Bernadotte.

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Ritratto di Jean-Baptiste Bernadotte. Tradì Napoleone e la Francia.

Alle undici la divisione di Vandamme aveva assalito il quartier generale dello zar Alessandro, il poggio di Stare Vinohrady sul Pratzen, attaccando con sfrenato entusiasmo al suono di bande ammassate che era «sufficiente a elettrizzare un paralitico», come ricordò Coignet. Il granduca Costantino mandò avanti i 30.000 uomini (inclusa la cavalleria) della guardia imperiale russa ad affrontare Vandamme, la cui linea vacillò all’impatto. La 4a semibrigata di linea, comandata dal maggiore Bigarré ma di cui era colonnello onorario Giuseppe Bonaparte, fu caricata dai corazzieri della guardia russa; ruppe le righe, si voltò e fuggì, anche se i suoi uomini ebbero la presenza di spirito di gridare «Vive l’Empereur!» mentre passavano accanto a Napoleone. All’una Napoleone mandò Bessières e Rapp con cinque squadroni di cavalleria della guardia, e in seguito altri due, incluso uno di mamelucchi, ad aiutare Vandamme a riprendere l’iniziativa sul Pratzen togliendola alla guardia imperiale russa. Marbot era presente quando arrivò Rapp, con una sciabola spezzata e una spada piegata fino all’elsa, e offrì all’imperatore le bandiere conquistate e il suo prigioniero, il principe Nikolaj Repnin-Volkonskij, comandante di uno squadrone della guardia russa. «Un cacciatore ferito a morte offrì il suo stendardo e cadde morto sul colpo», ricorda un testimone.
Nella parte settentrionale del campo di battaglia, Murat e Lannes affrontarono il generale Petr Bagration, che ebbe ingenti perdite. A mezzogiorno ormai Napoleone aveva tutti i motivi per essere soddisfatto. Soult aveva occupato le alture del Pratzen, le difese del Santon tenevano saldamente la linea a nord, e a sud Davout non cedeva. All’una trasferì il suo quartier generale a Stare Vinohrady, da dove poteva vedere dall’alto la valle di Goldbach ed elaborare il suo piano per annientare il nemico. Il suo ciambellano Thiard era presente quando Soult giunse a incontrare Napoleone che gli fece i complimenti per il brillante ruolo svolto. «Del resto, monsieur le maréchal, era soprattutto sul vostro corpo d’armata che contavo per vincere», disse. Poi l’imperatore mandò le divisioni di Saint-Hilaire e Vandamme alle spalle dei russi impegnati a combattere a Sokolnitz, e nonostante fossero ancora in minoranza numerica di tre a uno, Davout ordinò un’offensiva generale tra Tellnitz e Sokolnitz. Alle due l’esito della battaglia era ormai certo.

rapp

Generale Jean Rapp Salva per ben due volte la vita a Napoleone.

L’altopiano di Pratzen era già occupato da Bernadotte, quindi Napoleone poté ordinare a Oudinot, Soult e alla guardia imperiale a sud di accerchiare Buxhöwden, mentre la cavalleria di Davout attaccava verso il villaggio meridionale di Augedz. Poi Napoleone partì a tutta velocità dal Pratzen diretto alla torre della cappella di Sant’Antonio che sovrastava tutta l’area lacustre, per comandare l’ultima fase della battaglia. La forza russa a Buxhöwden fu divisa in due e fuggì a est dei laghi ghiacciati e oltre, mentre Napoleone faceva aprire il fuoco sul ghiaccio ai suoi cannoni. L’incidente condusse al mito secondo cui migliaia di russi affogarono perché il ghiaccio si ruppe, benché scavi recenti nella terra bonificata del lago Satschan abbiano restituito solo una dozzina di corpi e un paio di cannoni. Nel complesso, tuttavia, le forze alleate soffrirono terribilmente mentre abbandonavano il campo inseguite da vicino dalla cavalleria francese e sotto il fuoco dell’artiglieria che era stata portata in cima alle alture. (I pettorali degli uomini della cavalleria austriaca non avevano schienale, e questo li rendeva più leggeri da portare durante gli attacchi ma anche oltremodo vulnerabili alle spade e alle lance scagliate, e al fuoco di mitraglia in ritirata.) Un reggimento russo e due battaglioni austriaci che si erano barricati nel castello di Sokolnitz furono massacrati, ma a moltissimi uomini fu consentita la resa nella fagianaia e assai oltre, mentre le bande francesi intonavano La Victoire est à nous.
La notte di Austerlitz, Napoleone scrisse al suo esercito vittorioso con la consueta retorica:
  "Soldati della Grande Armée! Persino a quest’ora prima che questo grande giorno svanisca e si perda nell’oceano dell’eternità, il vostro imperatore sente il bisogno di parlarvi e dirvi quanto è soddisfatto della condotta di tutti quelli che hanno avuto la buona fortuna di battersi in questa memorabile battaglia. Soldati! Siete i combattenti migliori del mondo. Il ricordo di questo giorno e delle vostre imprese sarà eterno! Da qui in avanti per migliaia di ere, fino a che si continueranno a raccontare gli avvenimenti dell’universo, si dirà che un esercito di 76.000 russi, comprati con l’oro dell’Inghilterra, è stato annientato da voi nella pianura di Olmütz".
Fonti moderne affidabili stimano le perdite russe in 16.000 tra morti e feriti, tra cui 9 generali e 293 ufficiali, e 20.000 prigionieri, oltre a 186 cannoni, 400 carri di munizioni e 45 stendardi. Le perdite francesi giunsero a 8.279 uomini, di cui 1.288 morti. Tra i feriti, 2.476 necessitavano di lunghe cure; la divisione di Saint-Hilaire aveva subito il 23 per cento delle perdite, e quella di Vandamme il 17 per cento. Avendo moltissimi russi che ancora non avevano combattuto, l’arciduca Carlo in arrivo dall’Italia e i prussiani che minacciavano di dichiarare guerra contro la Francia, in teoria gli alleati avrebbero potuto continuare a combattere, ma Austerlitz buttò il morale a terra agli austriaci, e lo stesso accadde a quello di Alessandro, che si ritirò in Ungheria. Poco dopo arrivò alla Stara Posta il principe Giovanni di Liechtenstein per discutere le condizioni. «Mai forse nei palazzi dei sovrani europei fu trattato un affare così importante come in quella miserabile abitazione.»
friant

Generale Louis Friant. Nel 1813 assunse il comando della 4a divisione della Nuova guardia dell'Imperatore; durante la Campagna di Germania partecipò eroicamente alle battaglie di Dresda e di Hanau.

Un piano magistrale, la valutazione del terreno, un tempismo straordinario, i nervi d’acciaio, la disciplina e l’addestramento appresi a Boulogne, il sistema dei corpi d’armata, lo sfruttamento di un temporaneo vantaggio numerico nel momento decisivo, un formidabile spirito di corpo, ottime prestazioni quel giorno da parte di Friant, Davout, Vandamme, Soult e Saint-Hilaire, un nemico diviso e a volte incompetente (durante la battaglia Büxhowden era ubriaco) avevano dato a Napoleone la più grande vittoria della sua carriera.
I sovrani d'Europa chiesero la pace.

vandamme

Generale Dominique-Joseph René Vandamme; soldato aggressivo, brutale e violento;

L'Austria perdeva anche Venezia, che veniva unita al regno d'Italia, e perdeva ogni controllo sulla Germania, che ora si ricostruiva come Confederazione del Reno, primo seme dell'unità tedesca sotto il controllo diretto di Napoleone.
Dopo Austerlitz, Napoleone accettò la richiesta dell’imperatore Francesco di un colloquio, e alle due del pomeriggio si incontrarono per la prima volta davanti a un fuoco ai piedi del mulino di Spálený Mlýn, 15 chilometri a sud-ovest di Austerlitz, sulla strada per l’Ungheria. Si abbracciarono cordialmente e parlarono per un’ora e mezzo. «Voleva concludere immediatamente la pace», raccontò poi Napoleone a Talleyrand, «ha fatto appello ai miei più elevati sentimenti.» Rimontando a cavallo, Napoleone annunciò al suo stato maggiore: «Signori, torniamo a Parigi; la pace è fatta». Poi tornò al galoppo al villaggio di Austerlitz per fare una visita a Rapp, che era ferito. «Strano spettacolo, sul quale un filosofo avrebbe da riflettere!» ricordò uno dei presenti. «Un imperatore di Germania arrivato a umiliarsi implorando la pace dal figlio di una modesta famiglia còrsa, che fino a poco tempo prima era soltanto un sottotenente di artiglieria e, grazie al suo talento, alla sua fortuna e al coraggio dei soldati francesi, aveva raggiunto all’apice del potere ed era diventato l’arbitro dei destini dell’Europa.» Talleyrand consigliò a Napoleone di cogliere l’opportunità di allearsi con l’Austria, trasformandola in «un baluardo necessario e sufficiente contro i barbari», naturalmente riferendosi ai russi. Napoleone rifiutò, convinto che, fino a quando l’Italia fosse rimasta francese, l’Austria avrebbe sempre mantenuto un atteggiamento bellicoso e ostile.

francesco ii

Francesco II dopo l'incoronazione imperiale, 1792. Non diede mai tregua a Napoleone

Il 15 dicembre fu consegnato al conte von Haugwitz il trattato franco-prussiano di Schönbrunn, in virtù del quale l’Hannover, ossia la patria d’origine dei sovrani britannici, sarebbe andato alla Prussia in cambio di territori più ridotti. Era un’offerta così allettante che Haugwitz la sottoscrisse subito, in forza della sua sola autorità. Quindi la Prussia scioglieva gli impegni assunti con la Gran Bretagna nel trattato di Potsdam, che aveva concluso appena un mese prima: Napoleone era riuscito a creare una frattura tra i due paesi alleati. Inoltre con il trattato di Schönbrunn la Prussia si impegnava a chiudere i propri porti alle navi britanniche. «La Francia è onnipotente e Napoleone è l’uomo del secolo», scrisse Haugwitz nell’estate del 1806, dopo aver costretto in marzo il suo rivale Karl von Hardenberg, ministro degli esteri prussiano, a rassegnare le dimissioni. «Che cosa dobbiamo temere se siamo suoi alleati?» Tuttavia il re Federico Guglielmo e sua moglie, la bella e indipendente regina Luisa, figlia del duca di Meclemburgo, che nutriva una fiera ostilità per Napoleone, chiese a Hardenberg di continuare a servire in segreto il governo, anche per mantenere aperti i canali diplomatici con la Russia.

austerlitz

La battaglia di Austerlitz

Talleyrand firmò il trattato di Presburgo (attuale Bratislava) nell’antica capitale dell’Ungheria il 27 dicembre 1805, ponendo così fine alla guerra della terza coalizione. Il trattato confermava a Elisa, sorella di Napoleone, il possesso dei principati di Lucca e Piombino; trasferiva al regno d’Italia quanto l’Austria aveva ottenuto in precedenza da Venezia (in sostanza, l’Istria e la Dalmazia); concedeva il Tirolo, la Franconia e il Vorarlberg alla Baviera, alla quale veniva riconosciuto lo status di nuovo regno; e incorporava cinque città danubiane, una contea, un langraviato e una prefettura nel Württemberg, che diveniva pure regno. Il Baden diventava granducato, con altro territorio austriaco. Francesco fu costretto a riconoscere Napoleone come re d’Italia, pagare 40 milioni di franchi di risarcimento e promettere che tra lui e Napoleone ci sarebbero state «pace e amicizia per sempre». L’imperatore austriaco aveva perso di colpo oltre due milioni e mezzo di sudditi e un sesto delle sue entrate, e questo rendeva alquanto improbabile la possibilità di un’eterna amicizia. Da parte sua, Napoleone riconosceva l’“indipendenza” della Svizzera e dell’Olanda, garantiva l’integrità del restante territorio dell’impero austriaco e prometteva, dopo la sua morte, di separare le corone della Francia e dell’Italia, tutte cose che non gli interessavano e non costavano niente.
Il trattato di Presburgo non menzionava affatto Napoli, che era entrata nella terza coalizione nonostante i chiarissimi avvertimenti dati a gennaio da Napoleone alla regina Maria Carolina, e malgrado il trattato di neutralità firmato in seguito. Il 20 novembre i Borboni avevano salutato con favore lo sbarco a Napoli di 19.000 soldati russo-britannici, che tuttavia erano subito ripartiti quando era giunta notizia di Austerlitz. A quanto si dice, Maria Carolina definì Napoleone «quella bestia feroce […] quel còrso bastardo, quel parvenu, quel cane!».
Così, il 27 dicembre, Napoleone annunciò semplicemente: «La dinastia di Napoli ha cessato di regnare; la sua esistenza è incompatibile con la pace in Europa e con l’onore della mia corona». Le dichiarazioni, smaccatamente false, della regina, che sosteneva di essere stata colta di sorpresa dallo sbarco alleato, vennero confutate. Sembra che Napoleone, parlando con Talleyrand, avesse detto: «Finalmente darò una lezione a quella sgualdrina», dimostrando un talento per le invettive colorite quasi pari a quello della regina.
Masséna, arrivato da Milano, aveva conquistato in fretta gran parte dei territori napoletani, facendo impiccare nel novembre 1806 il brigante e capopopolo Michele Pezza (noto come Fra Diavolo), ma i Borboni riuscirono a fuggire in Sicilia; ne derivò una “guerra sporca” nelle montagne calabresi, durante la quale per diversi anni i contadini armati si scontrarono con i francesi, un conflitto caratterizzato da feroci rappresaglie, soprattutto dopo il 1810, quando Napoleone nominò come governatore militare dell’area il generale Charles Manhès. Questa guerra non convenzionale esaurì le energie, il morale e le forze dell’esercito francese, devastando nel contempo la Calabria e lasciando prostrata la sua popolazione. Anche se all’occasione i britannici diedero un aiuto (inviando via mare un piccolo contingente che nel luglio 1806 vinse la battaglia di Maida), il loro principale contributo fu la sorveglianza dello Stretto di Messina.
Un rapporto inviato dal ricevitore-generale della Grande Armée nel gennaio del 1806 illustra alla perfezione quanto fosse stata vantaggiosa la vittoria di Austerlitz per la Francia. Erano stati prelevati circa 18 milioni di franchi alla Svevia, cui si aggiungevano i 40 milioni di franchi richiesti all’Austria come indennità di guerra in base al trattato di Presburgo. Le merci britanniche erano state requisite in tutti i territori appena conquistati e vendute. In totale, le entrate ammontavano a circa 75 milioni di franchi; una volta dedotti i costi di guerra e i debiti francesi nei confronti degli stati tedeschi, rimanevano alla Francia quasi 50 milioni di franchi di profitto. Sebbene Napoleone ripetesse continuamente ai suoi fratelli che finanziare l’esercito era il compito principale del governo, di norma le truppe venivano pagate al termine delle campagne, allo scopo di disincentivare le diserzioni e con l’ulteriore vantaggio che non c’era alcun bisogno di versare lo stipendio ai soldati uccisi o fatti prigionieri. «La guerra deve pagare la guerra», scrisse Napoleone a Giuseppe e a Soult il 14 luglio 1810. Per conseguire questo scopo utilizzava tre metodi insieme: requisizioni dirette di denaro e beni ai nemici (note come “contributi ordnari”); pagamenti da parte delle tesorerie dei paesi nemici concordati nei trattati di pace (“contributi straordinari”); stipendio e mantenimento delle truppe francesi a spese dei paesi alleati o stranieri. La Francia si preoccupava di addestrare, equipaggiare e vestire le sue armate; per tutto il resto, ci si aspettava che si autofinaziassero.
Il 23 gennaio 1806 William Pitt il Giovane morì, a 46 anni, per un’ulcera gastrica. Charles James Fox, da tempo favorevole alla rivoluzione francese e a Napoleone, fu nominato ministro degli esteri. Dopo la vittoria di Austerlitz, quando Napoleone aveva rimandato a San Pietroburgo il principe Repnin, si era dimostrato disposto alla pace con lo zar Alessandro; ora fece lo stesso con Fox il quale il 20 febbraio scrisse a Talleyrand da Downing Street per avvertirlo, nella sua «qualità di uomo onesto», di un complotto per assassinare Napoleone. Questo gesto di correttezza diede inizio a negoziati di pace a largo raggio che proseguirono per tutta l’estate, in larga parte condotti da lord Yarmouth e lord Lauderdale per i britannici, e da Champagny e Clarke per i francesi, grazie ai quali si riuscì a formulare una proposta di trattato.

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Alessandro I, imperatore di tutte le Russie

I negoziati si svolsero in segreto, poiché in caso di fallimento entrambe le parti preferivano non dovere ammettere che avevano avuto luogo; ma negli archivi del ministero degli esteri francese ci sono ben 148 distinti documenti relativi al periodo febbraio-settembre 1806. Il 9 agosto, quando il cinquantasettenne Fox si ammalò, queste lunghe trattative (che vertevano su Malta, l’Hannover, le città anseatiche, l’Albania, le Baleari, la Sicilia, il Capo di Buona speranza, il Suriname e Pondicherry), si trovavano ormai in posizione di stallo; ma fu la sua morte, il 13 settembre, a decretarne il definitivo naufragio. «So benissimo che l’Inghilterra è soltanto un angolo del mondo di cui Parigi è il centro», scrisse Napoleone a Talleyrand quando si interruppero i colloqui, «e che trarrebbe vantaggio da una solida presenza qui, persino in tempo di guerra.» Perciò preferì non intrattenere alcun rapporto con la Gran Bretagna, se non per concludere la pace, e nel marzo 1807, quando il governo di Grenville fu sostituito da quello del terzo duca di Portland, che riprese verso la Francia l’atteggiamento aggressivo di Pitt, perse qualsiasi speranza al riguardo.
La creazione della confederazione del Reno ebbe profonde conseguenze per l’Europa. La più immediata fu che, a causa della simultanea uscita dei suoi membri dal Sacro romano impero, l’impero stesso, istituito con l’incoronazione di Carlomagno nell’anno 800, venne ufficialmente abolito da Francesco il 6 agosto 1806. Con la fine del Sacro romano impero Francesco II divenne semplicemente Francesco I d’Austria. In virtù dello statuto fondante della confederazione del Reno, Napoleone aveva a propria disposizione un contingente aggiuntivo di 63.000 soldati tedeschi, cifra che ben presto venne accresciuta; anzi, la stessa espressione “esercito francese” risulta in qualche modo imprecisa per il periodo che va dal 1806 fino al crollo della confederazione nel 1813. Un’altra conseguenza fu che Federico Guglielmo III di Prussia dovette rinunciare a qualsiasi speranza di svolgere un ruolo di primo piano fuori dai confini del proprio stato, a meno che non fosse disposto a entrare in una quarta coalizione contro la Francia. Nel frattempo, la confederazione promosse un sentimento nascente di nazionalismo germanico e alimentò il sogno che un giorno la Germania avrebbe potuto essere uno stato indipendente governato dai tedeschi. Non c’è esempio che illustri la legge delle conseguenze inattese della storia in modo più efficace: Napoleone contribuì alla creazione della nazione che, mezzo secolo dopo la sua morte, avrebbe distrutto l’impero francese di suo nipote Napoleone III.
La decisione di entrare in guerra contro la Francia, presa da Federico Guglielmo all’inizio di luglio ma concretizzata soltanto a ottobre, nasceva dal suo timore che il tempo non giocasse a favore della Prussia. Pur essendo stato il primo paese a riconoscere Napoleone come imperatore, avendo espulso i Borboni dal proprio territorio e firmato il trattato di Schönbrunn nel dicembre del 1805, a ottobre del 1806 la Prussia si trovava già in guerra. Federico Guglielmo sognava di esercitare un’egemonia regionale senza essere ostacolato dalla Francia e dall’Austria, e temeva sempre di più un’invasione francese della Germania settentrionale. Tra fine giugno e inizio luglio del 1806 il successore di Hardenberg, von Haugwitz, il quale in precedenza aveva lodato l’alleanza con la Francia, scrisse tre memorandum, giungendo alla conclusione che Napoleone stava cercando un casus belli contro la Prussia e tentava di staccare l’Assia dall’orbita prussiana. Raccomandava che la Prussia costituisse un’alleanza antifrancese con la Sassonia, l’Assia e la Russia, e rinunciasse ad annettersi l’Hannover per assicurarsi i sussidi di guerra britannici. La sua posizione era condivisa dall’influente generale Ernst von Rüchel, il quale, tuttavia, riconobbe davanti al re che la guerra contro la Francia, ad appena un anno di distanza da Austerlitz, sarebbe stata un gioco pericoloso.
Intanto a Parigi, il 20 luglio l’inviato dello zar Petr Jakovlevic Ubri accettò la formulazione di un trattato di «eterna pace e amicizia», che richiedeva soltanto la ratifica dello zar a San Pietroburgo per far naufragare qualsiasi speranza prussiana di una quarta coalizione. Ma lo zar era furibondo, poiché aveva saputo che il generale Sébastiani, ambasciatore francese a Costantinopoli, stava esortando la Turchia ad attaccare la Russia; di conseguenza, decise di attendere ancora prima di scegliere tra Francia e Prussia. Non è dato sapere fino a che punto Sébastiani stesse agendo su ordine di Napoleone o Talleyrand; ma, non essendo stato stipulato alcun trattato di pace dopo Austerlitz, era ragionevole che la Francia seguisse questa via diplomatica a Costantinopoli. Napoleone, tuttavia, non desiderava una guerra né con la Prussia né con la Russia, e ancor meno con entrambe contemporaneamente. Il 2 agosto ordinò a Talleyrand di comunicare ad Antoine Laforest, ambasciatore francese a Berlino il suo desiderio di mantenere «rapporti cordiali con la Prussia a qualsiasi prezzo», e aggiunse: «Se necessario, lasciate continuare a credere a Laforest che in realtà non farò la pace con l’Inghilterra a cagione dell’Hannover». Lo stesso giorno ordinò a Murat, il quale si trovava a Berg, nella valle della Ruhr, di non prendere alcuna iniziativa che potesse essere considerata ostile nei confronti della Prussia. «Con i prussiani dovete mantenere un atteggiamento conciliante, molto conciliante, e non far nulla che possa infastidirli», scrisse Napoleone. «Di fronte a una potenza come la Prussia, non si procede mai con abbastanza cautela.»
Federico Guglielmo (influenzato dalla regina Luisa e dalla fazione interventista berlinese, di cui facevano parte due suoi fratelli, un nipote di Federico il Grande e von Hardenberg) inviò un ultimatum a Napoleone nel quale gli ordinava di ritirare tutte le truppe francesi a ovest del Reno entro l’8 ottobre. Era stato così sciocco da non stringere alcun patto con la Russia, la Gran Bretagna o l’Austria prima di fare questa mossa. Alcuni giovani ufficiali prussiani si spinsero fino ad affilare le loro sciabole sui gradini della scalinata principale dell’ambasciata francese a Berlino.
All’inizio di settembre Napoleone si rese conto che, non avendo lo zar Alessandro ratificato il trattato di Ubri, la Russia, in caso di guerra, si sarebbe schierata a fianco della Prussia. Il 5 settembre ordinò a Soult, Ney e Augereau di concentrarsi sulla frontiera prussiana, ritenendo che, se fosse riuscito a condurre il suo esercito oltre Kronach in otto giorni, ne sarebbero occorsi soltanto dieci per marciare fino a Berlino, sicché avrebbe potuto sconfiggere la Prussia prima che la Russia potesse accorrere in suo aiuto. Richiamò 50.000 coscritti, mobilitò 30.000 uomini della riserva e inviò diverse spie a perlustrare le strade che portavano da Bamberga alla capitale prussiana. Se doveva muovere per centinaia di chilometri all’interno del territorio nemico 200.000 uomini suddivisi in sei corpi d’armata, oltre alla cavalleria di riserva e alla guardia imperiale, Napoleone aveva bisogno di informazioni precise sulle caratteristiche del terreno, in particolare sui fiumi, le risorse, i forni, i mulini e i magazzini. Ai topografi che tracciavano le sue mappe fu chiesto di includere ogni tipo di informazione immaginabile, soprattutto «la lunghezza, l’estensione e la natura delle strade»: «Fiumi e torrenti devono essere tracciati e misurati in modo scrupoloso, indicando ponti, guadi, profondità e larghezza del corso d’acqua […] Deve essere specificato il numero di case e abitanti di città e villaggi […] deve essere riportata l’altezza di colline e montagne».
Nel contempo, bisognava passare al nemico informazioni sbagliate. «Domani dovete fare uscire 60 cavalli dalle mie stalle», comunicò Napoleone a Caulaincourt il 10 settembre. «E dovete operare nel modo più misterioso possibile. Cercate di far credere a tutti che sto uscendo per una battuta di caccia a Compiègne.» Specificò che la sua tenda da campo «doveva apparire robusta e non sfarzosa»: «Aggiungetevi qualche folto tappeto». Lo stesso giorno ordinò a Luigi di riunire un contingente di 30.000 uomini a Utrecht «con il pretesto di prepararsi per la guerra contro l’Inghilterra». Alle undici di sera del 18 settembre, mentre la guardia imperiale veniva trasferita in diligenza da Parigi a Magonza, Napoleone dettò al suo ministro della guerra Henri Clarke le proprie “Disposizioni generali per la riunione della Grande Armée”, documento fondante della campagna. Stabiliva con precisione la posizione in cui ciascuna unità, al comando di quale maresciallo, doveva trovarsi per una certa data tra il 2 e il 4 ottobre. Il 25 settembre, alle quattro e mezzo del mattino, Napoleone lasciò Saint-Cloud insieme a Giuseppina. Non sarebbe rientrato a Parigi per dieci mesi. Quattro giorni dopo, mentre si trovava a Magonza, giunse un rapporto di Berthier che, insieme alle informazioni fornite da due spie, modificò del tutto la sua opinione sulla situazione strategica. Appariva ora chiaro che i prussiani, anziché occupare posizioni avanzate, come aveva temuto Berthier, si trovavano ancora nei dintorni di Eisenach, Meiningen e Hildburghausen, e questo avrebbe permesso ai francesi di attraversare le montagne e il fiume Saale schierandosi senza alcun rischio di essere intercettati. Di conseguenza, Napoleone cambiò radicalmente il suo piano d’operazioni; poiché anche Murat e Berthier stavano emanando nuove direttive, per un po’ ci fu una certa confusione. «Ho intenzione di concentrare tutte le forze sulla mia destra», disse Napoleone a Luigi, «lasciando interamente aperto lo spazio tra il Reno e Bamberga, al fine di poter riunire circa 200.000 uomini sullo stesso campo di battaglia.» Era necessario compiere delle marce di eccezionale lunghezza: il 7° corpo d’armata di Augereau in tre giorni marciò rispettivamente per 40, 32 e 38 chilometri, e due semibrigate riuscirono a raggiungere la media di 38 chilometri al giorno per nove giorni consecutivi, gli ultimi tre dei quali attraverso una regione montuosa. Poco dopo Davout occupò Kronach, che, con grande stupore di Napoleone, i prussiani non avevano difeso. «Quei signori non si curano di mantenere le posizioni», disse a Rapp, «si risparmiano per sferrare un grande colpo; daremo loro quello che vogliono.» Il piano generale di Napoleone, conquistare Berlino pur proteggendo con cura le sue linee di comunicazione, era già delineato e operativo quando lasciò Giuseppina a Magonza e partì per Würzburg, dove arrivò il 2 ottobre. Il 7 l’esercito era pronto ad attaccare.
Il 7 Napoleone era a Bamberga, in attesa di comprendere le intenzioni del nemico, e prevedendo una ritirata verso Magdeburgo o un’avanzata attraverso Fulda. La dichiarazione di guerra prussiana giunse quello stesso giorno, insieme a un documento di 20 pagine talmente ovvio e prevedibile che Napoleone non si diede la pena di leggerlo sino alla fine, dicendo con un sogghigno che era scopiazzato pari pari dai giornali britannici. «Lo gettò via con disprezzo», avrebbe raccontato in seguito Rapp; poi, alludendo alle vittorie prussiane del 1792, disse di Federico Guglielmo: «Pensa di essere in Sciampagna?», e aggiunse: «Davvero, ho pietà per la Prussia. Provo compassione per Guglielmo. Non si rende conto di quali rapsodie ispirerà. Anche questo è ridicolo». La risposta privata di Napoleone, inviata il 12 ottobre, mentre il suo esercito avanzava in Turingia, fu la seguente:
  "Vostra Maestà sarà sconfitta, metterete a repentaglio la vostra tranquillità e l’esistenza dei vostri sudditi senza nemmeno l’ombra di un pretesto. La Prussia oggi è intatta, e può trattare con me su un piano consono alla sua dignità; nel giro di un mese si troverà in una situazione ben diversa. Siete ancora in condizione di salvare i vostri sudditi dalle devastazioni e dalle sofferenze della guerra. È appena iniziata; voi potreste fermarla, e l’Europa ve ne sarebbe grata.".
Questa lettera può anche essere considerata l’offerta a Federico Guglielmo di una (davvero) ultima possibilità di soluzione dignitosa, con una valutazione alquanto precisa delle prospettive prussiane nel conflitto (anzi, la previsione di un disastro «nel giro di un mese» era una sottovalutazione, visto che le battaglie di Jena e Auerstädt si svolsero nello spazio di due settimane). La vera arroganza e intimidazione era stata quella dei prìncipi, generali e ministri prussiani che avevano spedito l’ultimatum.
Anche se in teoria la Prussia disponeva di un esercito molto grande, 225.000 uomini, 90.000 erano di guarnigione nelle fortezze. Non ci si poteva aspettare alcun aiuto immediato dalla Russia o dalla Gran Bretagna; inoltre, sebbene alcuni comandanti prussiani avessero combattuto sotto la guida di Federico il Grande, nessuno di loro scendeva in battaglia da almeno un decennio. Il comandante in capo, il duca di Brunswick, aveva 70 anni, e l’altro comandante anziano, il generale Joachim von Möllendorf, addirittura 80. Come se non bastasse, Brunswick e il generale al comando dell’ala sinistra dell’esercito prussiano, il principe Federico von Hohenlohe, avevano strategie opposte e si detestavano, con la conseguenza che i consigli di guerra, sempre tempestosi, potevano durare anche tre giorni prima di giungere a una decisione. Napoleone non tenne nemmeno un solo consiglio di guerra per tutta la durata della campagna.
Alcune delle manovre più bizzarre effettuate dai prussiani nel corso della campagna, decisi da una commissione di generali, risultavano difficili da comprendere persino dalla loro stessa prospettiva. La sera del 9 ottobre Napoleone, sulla base delle informazioni ricevute, concluse che il nemico si stava spostando da Erfurt verso est, per concentrarsi a Gera. In realtà non era così, anche se forse avrebbe dovuto farlo, perché avrebbe protetto Berlino e Dresda meglio che con la manovra effettivamente attuata, ossia l’attraversamento della Saale. Napoleone aveva compiuto un errore di valutazione; ma il giorno dopo, non appena se ne accorse, si mosse con straordinaria rapidità per correggerlo e trarre vantaggio dalla nuova situazione.

soult

Generale Jean-de-Dieu Soult La seconda restaurazione colpì duramente anche lui che fu proscritto e rischiò addirittura il linciaggio durante il terrore bianco.

L’avanzata francese nella Sassonia occupata dalla Prussia era protetta da solo sei reggimenti di cavalleria leggera comandati da Murat. Li seguivano il corpo d’armata di Bernadotte in testa, Lannes e Augereau sulla sinistra, Soult e Ney sulla destra, la guardia imperiale al centro e Davout con il resto della cavalleria nella retroguardia. Nella battaglia di Saalfeld, il 10 ottobre, Lannes sconfisse l’avanguardia prussiana e sassone comandata dal principe Luigi Ferdinando, nipote di Federico Guglielmo, che rimase ucciso guidando un’ultima disperata carica contro il centro dello schieramento francese, abbattuto dal quartiermastro Guindet del 10° ussari. Questa sconfitta, nella quale furono uccisi, feriti o catturati 1.700 prussiani, rispetto ai 172 caduti francesi, ebbe un pesante effetto sul morale prussiano. La Grande Armée si mise in formazione, dando le spalle a Berlino e all’Oder, e impedendo ai prussiani l’accesso alle loro linee di comunicazione, di rifornimento e di ritirata. La mattina dopo si schierò nella pianura sassone, pronta per la nuova fase della campagna. Lasalle, spostandosi rapidamente verso le otto di sera, costrinse i prussiani a ritirarsi attraverso Jena. Napoleone, quando ne venne informato da Murat, all’una del mattino del 12 ottobre, rimase a riflettere per due ore, poi impartì una raffica di ordini che ebbero l’effetto di far muovere l’intero esercito verso ovest, all’inseguimento dei prussiani oltre la Saale.

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Generale Antoine-Charles-Louis, Comte de Lasalle di Antoine-Jean Gros. Molto legato a Napoleone morì alla battaglia di Wagram.

Il 12 ottobre la cavalleria e le spie di Murat confermarono che il grosso dell’esercito prussiano si trovava a Erfurt; pertanto, Murat aprì a ventaglio la sua cavalleria a nord, mentre Davout guadò il fiume a Naumburg, distruggendo qualsiasi eventuale speranza di Brunswick di adottare una difesa avanzata. Perciò i prussiani avviarono un’altra ritirata di massa verso nord-est, demoralizzati e psicologicamente sulla difensiva ancor prima di affrontare uno scontro degno di nota. Il 13 ottobre Lannes mandò la sua avanguardia a conquistare Jena, sgomberò gli avamposti prussiani che vi si trovavano e inviò subito delle truppe a conquistare l’altopiano di Landgrafenberg, che dominava la città.
Napoleone aveva ormai compreso che i prussiani si stavano ritirando verso Magdeburgo, e che Lannes si trovava perciò isolato e rischiava di essere investito da un poderoso contrattacco da parte di 30.000 prussiani i quali, a quanto aveva riferito egli stesso, si trovavano nelle vicinanze. Napoleone ordinò di concentrare tutta la Grande Armée su Jena per il giorno seguente. Davout e Bernadotte ricevettero l’ordine di avanzare, passando da Naumburg e Dornburg, per aggirare il fianco sinistro del nemico a Jena. Davout non poteva sapere che il grosso dell’esercito prussiano stava in realtà dirigendosi contro di lui e, forse per eccesso di sicurezza, non avvertì Berthier delle ingenti forze nemiche già incontrate. Bernadotte e la cavalleria della riserva si mossero più lentamente verso Jena, stremate dalla fatica.

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Generale Louis Nicolas Davout eroe di Auisterlitz e di Jena

Napoleone arrivò sull’altopiano di Landgrafenberg verso le quattro di pomeriggio del 13 ottobre, e, vedendo gli accampamenti nemici collocati a una certa distanza sul medesimo altopiano, ordinò a tutto il corpo d’armata di Lannes e alla guardia imperiale di raggiungerlo, impresa alquanto rischiosa visto che si trovavano a 1000 metri appena dal fuoco nemico. Quella notte Napoleone fece portare sull’altopiano l’artiglieria di Lannes per congiungerla con il corpo d’armata di Augereau e la guardia imperiale. Ney si trovava nelle vicinanze, mentre Soult e la cavalleria della riserva stavano per arrivare. Sperando che Davout avrebbe aggirato la sinistra prussiana il giorno seguente, Napoleone e Berthier gli inviarono un messaggio formulato con cura: «Se Bernadotte è con voi, potete marciare insieme» verso la città di Dornburg.
La battaglia di Jena iniziò alle sei e mezzo del mattino di martedì 14 ottobre 1806 in una fitta nebbia. Napoleone era in piedi già dall’una per ispezionare gli avamposti con uno dei comandanti di divisione di Lannes, il generale Louis Suchet. Rientrato nella sua tenda, Napoleone, cominciò già alle tre del mattino a impartire una lunga sfilza di ordini. Secondo il suo piano, Lannes doveva impiegare entrambe le sue divisioni per attaccare l’avanguardia di Hohenlohe, al comando del generale Bogislav von Tauentzien, onde ottenere lo spazio necessario per consentire al resto dell’esercito di fare manovra sulla sommità. Augereau doveva rimettere in formazione i suoi sulla strada tra Jena e Weimar (nota anche come gola di Cospeda) e marciare sulla sinistra di Lannes, mentre Ney si univa da destra. Soult avrebbe protetto il fianco destro e la guardia imperiale e la cavalleria sarebbero rimaste nella retroguardia per colpire i punti più deboli delle linee nemiche.
Napoleone arringò personalmente le truppe di Lannes alle sei del mattino, poi le fece avanzare verso Taeuntzien. Il colonnello barone Henri de Jomini, uno storico militare che aveva suscitato l’attenzione di Napoleone con un saggio sulla strategia pubblicato nel 1804 ed era stato chiamato a far parte del suo stato maggiore come storico ufficiale dall’imperatore stesso, rimase colpito poiché aveva compreso «la necessità di non ispirare mai troppo disprezzo del nemico, perché, nel caso ci si imbatta in una resistenza ostinata, il morale del soldato potrebbe rimanere scosso». Così, quando si rivolse agli uomini di Lannes, Napoleone elogiò la cavalleria prussiana, ma promise che non sarebbe riuscita a «fare nulla contro le baionette dei suoi egiziani!», riferendosi ai veterani di Lannes che avevano combattuto nella battaglia delle Piramidi.

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Generale Louis Gabriel Suchet Nella Campagna di Prussia (1806), la sua divisione lanciò il primo attacco vittorioso a Saalfeld e diede inizio anche alla battaglia di Jena.

Le forze diel generale Suchet avanzarono sul villaggio di Closewitz in colonne pronte a schierarsi in linea non appena avessero raggiunto l’altopiano; ma nella nebbia svoltarono a sinistra e si scontrarono con il nemico tra Closewitz e il villaggio di Lützeroda. Quando la nebbia cominciò a dissiparsi, si scatenò un aspro combattimento che durò quasi due ore e creò scompiglio tra i francesi, costretti a sprecare moltissime munizioni sulle masse della cavalleria nemica schierate sul Dornberg, il punto più elevato del campo di battaglia. Ciò nonostante, Lannes, un esperto maestro d’esercitazioni, fece avanzare la sua seconda linea verso il fronte con il compito di sgomberare l’altopiano, respingendo un contrattacco lanciato da Lützeroda e riuscendo anche a volgersi verso il villaggio di Vierzehnheiligen. Oltre Vierzehnheiligen, il terreno del campo di battaglia diventa improvvisamente molto piatto, ideale per la cavalleria. Nel corso dei combattimenti tanto Vierzehnheiligen quanto il Dornberg furono conquistati e perduti, poiché Hohenlohe continuava a inviare alla spicciolata contro i francesi piccole unità anziché sferrare un massiccio contrattacco. Napoleone si congiunse a Lannes proprio in questa fase della battaglia, verso le sette e mezzo, quando la nebbia si dissolse, facendo piazzare una batteria di 25 cannoni, e ordinando al 40° reggimento di linea di attaccare Vierzehnheiligen.
Grazie all’arrivo di Soult, Saint-Hillaire riuscì a cacciare i prussiani da Closewitz, e non appena la sua artiglieria e la sua cavalleria lo raggiunsero si mosse verso il villaggio di Rödigen. Fu fermato da una tenace resistenza dei prussiani, ma verso le dieci riuscì a riprendere l’avanzata attraverso Hermstedt per aggirare il fianco sinistro nemico. Augereau, che aveva ammassato un’intera divisione nella gola di Cospeda, non giunse sull’altopiano fino alle nove e mezzo; ma, non appena arrivato, ingaggiò battaglia con il nemico a est di Isserstedt. Nel frattempo, Ney aveva raggiunto l’altopiano con circa 4.000 uomini, e aveva notato che si stava aprendo una breccia sulla sinistra di Lannes. Perciò, di sua iniziativa, si spostò dietro a Lannes e si dispose sulla sua sinistra, proprio mentre quest’ultimo veniva scacciato da Vierzehnheiligen. Grazie all’attacco di Ney i francesi ripresero il villaggio e riuscirono a portarsi sull’estremità meridionale del Dornberg. La potenza del fuoco d’artiglieria prussiano fermò la loro avanzata, ma la fanteria di Ney tenne il villaggio ormai in fiamme. Un attacco della cavalleria costrinse Ney a rifugiarsi in un quadrato della fanteria. A quel punto Napoleone inviò un altro appello a Lannes, le cui truppe assalirono il Dornberg e si riunirono a quelle di Ney alle dieci e trenta, proprio mentre Hohenlohe inviava 5.000 fanti, sostenuti da circa 3.500 uomini della cavalleria e 500 artiglieri in perfetto ordine di schieramento, a scontrarsi con i difensori di Vierzehnheiligen. Fatto di cruciale importanza, le truppe di Hohenlohe non assaltarono il villaggio.
Alle undici Augereau aveva ormai conquistato Isserstedt e si era ricollegato con Ney, e a mezzogiorno Soult era giunto sul fianco destro. Con le due divisioni di Ney alla sinistra di Lannes, e la cavalleria guidata dai generali Dominique Klein, Jean-Joseph d’Hautpoul ed Étienne Nansouty sul punto di arrivare, Napoleone ritenne giunto il momento di sferrare un attacco decisivo.

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Generale Dominique Louis Antoine Klein Si distinse nell'Armata del Nord

Al suo ordine, l’esercito francese avanzò d’impeto in linee compatte seguite da battaglioni incolonnati. I prussiani indietreggiarono caparbiamente per un’ora, ma le loro perdite aumentarono, e sotto i ripetuti attacchi della cavalleria di Murat alla fine i reggimenti di Tauentzien si dispersero e si diedero alla fuga. Alle due e mezzo del pomeriggio l’esercito di Hohenlohe fuggiva ormai dal campo di battaglia in completo disordine, e soltanto qualche battaglione in formazione a quadrato si ritirava sotto il comando dei propri ufficiali. Murat, che cavalcava seguito dai dragoni, dai corazzieri e dalla cavalleria leggera di tutti i tre corpi d’armata, si lanciò in un inseguimento per oltre nove chilometri, uccidendo molti nemici e catturando diverse migliaia di sassoni lungo la strada. Si fermò soltanto quando arrivò a Weimar, alle sei del pomeriggio. Questo prolungato inseguimento delle forze prussiane dopo la disfatta di Jena fu un’operazione da manuale, alla lettera, poiché ancora oggi si insegna nelle accademie militari per illustrare come si fa a trarre il massimo vantaggio dalle vittorie.
Soltanto dopo avere vinto Napoleone si rese conto di non essersi battuto con il corpo principale dell’esercito prussiano, al comando del duca di Brunswick, ma solo contro la sua retroguardia, guidata da Hohenlohe. Fu invece Davout che quello stesso giorno, a 20 chilometri di distanza, ad Auerstädt, sconfisse Federico Guglielmo e Brunswick: il primo riuscì a mettersi in salvo solo grazie a una fuga di molte ore a cavallo, mentre il secondo morì poco dopo la battaglia per le ferite riportate. Davout, con 30.000 uomini e 46 cannoni, era riuscito a effettuare un doppio accerchiamento delle forze prussiane, costituite da 52.000 uomini e 163 cannoni, perdendo, in quel sanguinoso combattimento, 7.000 uomini tra morti e feriti, ma infliggendo quasi il doppio delle perdite ai prussiani. Fu una delle più straordinarie vittorie delle guerre napoleoniche, e, come ad Austerlitz, Davout aveva completamente ribaltato il pronostico in favore dei francesi. Quando il colonnello Falcon, aiutante di campo di Davout, riferì a Napoleone che non aveva sconfitto il grosso dell’esercito prussiano ma soltanto il distaccamento di Hohenlohe, Napoleone non volle crederci. Ma quando si rese conto della verità, Napoleone si dimostrò estremamente caloroso. «Comunicate al maresciallo che lui, i suoi generali e le sue truppe hanno acquisito un eterno diritto alla mia riconoscenza», disse a Falcon, concedendo alle truppe di Davout l’onore di guidare l’entrata trionfale a Berlino il 25 ottobre.
Bernadotte, invece, non era riuscito ad arrivare in tempo su nessuno dei due campi di battaglia, cosa che Napoleone e Davout non gli perdonarono mai. «Avrei dovuto far fucilare Bernadotte», disse Napoleone a Sant’Elena, e sembra che già all’indomani della battaglia avesse preso in considerazione, per un momento, la possibilità di portarlo davanti alla corte marziale. Il 23 ottobre Napoleone gli scrisse un’aspra lettera: «Il vostro corpo d’armata non era sul campo di battaglia, e questo avrebbe potuto risultarmi fatale». Bernadotte aveva preso alla lettera gli ordini di Berthier e aveva fatto marciare i suoi uomini a Dornburg. Dal 9 ottobre la sua strada e quella di Napoleone non si incrociarono fino all’8 dicembre, quando ormai l’imperatore gli aveva già scritto congratulandosi per aver strappato Lubecca a Blücher, per cui gli aneddoti su un infuocato colloquio personale sono soltanto leggende. Capitava di rado che Berthier desse ordini ambigui, ma l’assenza di Bernadotte da entrambi i campi di battaglia era un perfetto esempio di che cosa poteva accadere se lo faceva. Nonostante tutto, Bernadotte sapeva di essere ancora una volta il bersaglio dell’ira di Napoleone, e la situazione era aggravata dall’antica antipatia e dall’invidia che provava nei suoi confronti. Il comportamento "generoso" di Napoleone nei riguardi di Bernadotte potrebbe essere anche dovuto al fatto che Bernadotte aveva sposato Desiree, la prima donna amata da Napoleone, pertanto Napoleone poteva essere un po' imbarazzato nel castigare duramente Bernadotte.

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La battaglia di Jena

La Grande Armée proseguì la sua inesorabile avanzata attraverso la Prussia, non concedendo mai ai prussiani la possibilità di fermarsi e ricompattarsi. Spandau si arrese a Suchet il 25 ottobre, Stettino a Lasalle il 29 e Magdeburgo, nonostante le sue potenti fortificazioni, a Ney l’11 novembre, assicurando così ai francesi l’intera metà occidentale della Prussia. Il 7 novembre il generale Gerhard von Blücher, che aveva combattuto coraggiosamente ad Auerstädt, rimase del tutto privo di munizioni e fu costretto alla resa, quindi si consegnò insieme a tutti i suoi uomini e alla città di Lubecca.
La caduta di Berlino fu così repentina che i negozianti non ebbero nemmeno il tempo di togliere dalle vetrine le numerose caricature satiriche di Napoleone. Come a Venezia, l’imperatore fece rimuovere la quadriga e il carro della vittoria alata dalla porta di Brandeburgo e li trasferì a Parigi, mentre i prigionieri della guardia prussiana furono costretti a marciare davanti all’ambasciata francese, sui cui gradini avevano con tanta protervia affilato le loro spade appena un mese prima. Napoleone visitò il campo di battaglia di Rossbach, dove nel 1757 la Francia era stata umiliata da Federico il Grande, e ordinò di inviare a Parigi anche la colonna che vi era stata eretta.
Napoleone entrò a Berlino il 27 alla testa di un grandioso corteo di 20.000 granatieri e corazzieri in uniforme da parata. «L’imperatore procedeva fiero con la sua divisa modesta, il cappellino e la coccarda da un centesimo», raccontava il capitano Coignet; «il suo stato maggiore portava l’uniforme da parata, ed era davvero strano vedere l’uomo peggio vestito a capo di un così splendido esercito.» Nel 1840, scrivendo alla futura imperatrice Eugenia, Stendhal ricordava che Napoleone «cavalcava 20 passi davanti ai suoi soldati; la folla silenziosa si trovava a due passi appena dal suo cavallo. Avrebbero potuto sparargli con un fucile da qualsiasi finestra». A Berlino, si insediò nel vasto palazzo rococò di Charlottenburg, già appartenuto a Federico Guglielmo, che divenne il suo quartier generale.
Il 30 ottobre Napoleone propose la pace, a patto che la Prussia rinunciasse a tutti i suoi territori a ovest del fiume Elba; Federico Guglielmo era disposto ad accettare, ma quando Napoleone aggiunse che il regno doveva servire anche da base operativa per l’imminente scontro con la Russia, il re ignorò i suggerimenti della maggioranza dei suoi consiglieri e proseguì la guerra, ritirandosi a Königsberg (odierna Kaliningrad), sulla costa baltica.
La Francia forniva a Napoleone circa 80.000 coscritti all’anno, e buona parte della leva del 1806 era già in viaggio verso la Prussia. Grazie a queste forze, cui si aggiungevano 80.000 soldati che aveva sul territorio, senza contare le guarnigioni presenti nelle città prussiane conquistate e diversi distaccamenti forniti dalla confederazione del Reno, nel novembre 1806, prima che l’inverno facesse cessare la campagna, Napoleone poté attraversare la Vistola in forze e penetrare nei territori già appartenenti alla Polonia. La Polonia era stata una nazione europea dal 966, un regno dal 1205, e nel 1569, con l’unione di Lublino, si era associata alla Lituania. Era stata poi progressivamente ma inesorabilmente cancellata dalla carta geografica con le spartizioni del 1772, 1793 e 1795 tra Russia, Prussia e Austria; ma anche se il paese in quanto tale non esisteva più, le potenze responsabili della spartizione non potevano fare nulla per scalfire il patriottismo dei polacchi. Napoleone incoraggiava senza sosta tale sentimento, facendo credere ai polacchi che un giorno avrebbe riunificato la loro nazione. Forse prima o poi lo avrebbe anche fatto, ma nel breve periodo non aveva alcun progetto a riguardo.
Dal 1797, quando l’esercito rivoluzionario francese aveva costituito le “legioni polacche”, avevano prestato servizio nelle due campagne d’Italia, in Germania e a Santo Domingo, tra i 25.000 e i 30.000 polacchi. L’apparente simpatia di Napoleone per la loro causa incoraggiò un numero crescente di polacchi a schierarsi al suo fianco, e alcuni tra i soldati migliori di Napoleone furono polacchi, tra gli altri quelli delle prime unità di lancieri della Grande Armée: si dimostrarono così efficienti che già nel 1812 Napoleone aveva trasformato nove reggimenti di dragoni in altrettanti reggimenti di lancieri.
I cavalli per la nuova campagna furono requisiti in tutta la Francia e in tutta la Germania, mentre all’Armata d’Italia fu sottratta la cavalleria, destinata alla Grande Armée. In Prussia Napoleone requisì uniformi, viveri, selle, calzature e molte altre cose, ma i rifornimenti erano sempre insufficienti a causa del pessimo stato delle strade polacche.
Il 2 novembre Napoleone ordinò a Davout di spingersi a est fino a Posen con i dragoni di Beaumont, seguito da Augereau. Giunti a destinazione, organizzarono una base e costruirono dei forni per il pane prima dell’arrivo dei corpi d’armata al comando di Lannes, Soult, Bessieres, Ney e Bernadotte, un contingente costituito da 66.000 uomini di fanteria e 14.400 di cavalleria circa. Napoleone fece occupare il territorio tra l’Oder e la Vistola soprattutto per sottrarlo ai russi, ma anche perché sperava di impedire ai prussiani di prepararsi alla rivincita e di persuadere gli austriaci a rimanere neutrali. Lui rimase a Berlino. Il 4 venne informato che 68.000 russi stavano avanzando da Grodno verso ovest con l’intenzione di riunirsi ai 20.000 prussiani al comando del generale Anton von Lestocq. «Se lascio avanzare i russi, potrei perdere il sostegno e le risorse della Polonia», disse; «potrebbero indurre l’Austria, che ha finora esitato soltanto perché erano così lontani, a prendere una decisione; e si porterebbero dietro l’intera nazione prussiana.»
Perciò Murat, Davout, Lannes e Augereau continuarono ad avanzare fino alla Vistola dove allestirono delle teste di ponte prima di rientrare nei loro accantonamenti invernali sulla sponda occidentale del fiume. Marciare verso est a migliaia di chilometri da Parigi, procedendo nel gelido inverno in una delle aree rurali più povere e peggio rifornite d’Europa contro due nazioni nemiche, e con un’altra forse ostile a sud, sarebbe stato comunque un considerevole rischio, per quanto non peggiore di quello affrontato nella campagna di Austerlitz.
Nella successiva fase della campagna quasi tutti gli scontri avvennero nella Prussia orientale, territorio un tempo polacco corrispondente a quella che è oggi l’enclave russa di Kaliningrad, un’area con un’estensione di 9.400 chilometri quadrati. Si tratta in gran parte di terreno pianeggiante e paludoso con numerosi fiumi, laghi e foreste. In inverno le temperature scendono fino a 30 gradi sotto zero e la luce diurna dura soltanto dalle sette e mezzo del mattino alle quattro e mezzo del pomeriggio. Le strade spesso erano solo piste non tracciate sulle mappe; persino la strada principale tra Varsavia e Posen era sterrata e priva dei fossi laterali. Pesanti piogge avevano trasformato tutta la zona in un mare di fango, dove i cannoni avanzavano a una velocità massima di meno di due chilometri all’ora. Napoleone disse scherzando di avere scoperto un quinto elemento da aggiungere all’acqua, al fuoco, all’aria e alla terra: il fango! Mandò in avanscoperta il suo dipartimento topografico a mappare e tracciare il territorio, a registrare il nome di ogni villaggio, la popolazione e persino il tipo di terreno; accanto a queste informazioni era apposta la firma dell’ufficiale responsabile, in modo da poterlo convocare in seguito per avere ulteriori dettagli.
Pur preparandosi ad affrontare nuovamente i russi, Napoleone pensava anche alla Gran Bretagna, che considerava una minaccia altrettanto seria per gli interessi di lungo termine della Francia. Venerdì 21 novembre 1806 convertì in legge il decreto di Berlino, concepito per costringere la Gran Bretagna a sedersi al tavolo dei negoziati, ma destinato invece a provocare (quando cercò di imporlo con la forza al Portogallo, alla Spagna e alla Russia) la sua stessa caduta. Il “blocco continentale” introdotto dal decreto di Berlino (e da quelli successivi, di Milano e di Fontainebleau, del 1807 e del 1810) era ciò che Napoleone definiva “una ritorsione” contro l’order-in-council britannico del 16 maggio 1806, che aveva imposto il blocco della costa europea da Brest fino all’Elba.
«L’Inghilterra non accetta la legge delle nazioni seguita universalmente da tutti i popoli civilizzati», esordiva il decreto di Berlino, concludendo che i suoi avversari avevano «il naturale diritto di opporsi al nemico con le stesse armi da esso impiegate». Pertanto, gli articoli del decreto, redatti e rivisti da Talleyrand, sostenitore di quella linea politica, erano intransigenti:
1. Le isole britanniche sono in stato di blocco.
2. Sono proibiti scambi o corrispondenza di qualsiasi tipo con le isole britanniche.
3. Ogni suddito britannico, quale che sia il suo stato o la sua condizione […] sarà fatto prigioniero di guerra.
4. Tutti i depositi, le merci e le proprietà, di qualsiasi natura, appartenenti a un suddito dell’Inghilterra saranno dichiarati legittimo bottino […]
7. Nessuna nave proveniente direttamente dall’Inghilterra o dalle colonie inglesi, o che vi abbia transitato dopo la pubblicazione del presente decreto, sarà autorizzata a entrare in porto.
Poiché un terzo delle esportazioni dirette britanniche e tre quarti delle sue riesportazioni erano destinate al continente europeo, Napoleone sperava che il decreto avrebbe esercitato una fortissima pressione politica sul governo britannico spingendolo a riprendere i negoziati di pace interrotti in agosto. Il 3 dicembre, in una lettera a Luigi, spiegava: «Conquisterò il mare dominando in terraferma». In seguito affermò: «È il solo modo di colpire l’Inghilterra e costringerla alla pace». Era vero: dopo la distruzione della flotta francese a Trafalgar, non rimaneva altro sistema diretto per danneggiare la Gran Bretagna se non quello commerciale.
Napoleone era convinto che il decreto di Berlino avrebbe riscosso il favore degli imprenditori francesi, i quali, sperava, sarebbero subentrati negli scambi commerciali alla Gran Bretagna, ma ben presto fu disingannato dai rapporti delle sue camere di commercio. Già a dicembre quella di Bordeaux registrò una pericolosa contrazione degli affari. Infatti gli scambi internazionali non sono quel gioco a somma zero che Napoleone, nel suo rozzo colbertismo, credeva. Nel marzo 1807 fu costretto ad autorizzare alcuni speciali prestiti industriali finanziati con i fondi di riserva per neutralizzare la crisi in corso.
Anche se gli articoli più veementi dell’“Edinburgh Review”, un influente periodico britannico conservatore, invocavano la pace per consentire la ripresa del commercio, il governo riuscì a superare le critiche interne. Invece, il blocco continentale danneggiò proprio quanti erano stati avvantaggiati dal regime di Napoleone, e quindi fino a quel momento erano stati i suoi più decisi sostenitori: la classe media, commercianti, mercanti e contadini agiati, acquirenti delle proprietà nazionali che lui aveva sempre cercato di aiutare. «I negozianti di tutti i paesi si lamentavano per la situazione degli affari», ricordava in seguito il ministro del tesoro Mollien, ma Napoleone non aveva intenzione di ascoltare, e ancor meno di scendere a compromessi.
Impedendo ai consumatori occidentali di acquistare le merci britanniche, Napoleone sperava di stimolare la produzione europea, soprattutto francese, e di incoraggiare i produttori a sperimentare nuove alternative. Nel 1810, quando si scoprì che le barbabietole da zucchero e l’indaco potevano essere prodotti in Francia, parlando con il suo segretario paragonò la scoperta a quella dell’America. A Saint-Denis venne aperta una scuola sperimentale per insegnare le tecniche di produzione dello zucchero, e nel marzo 1808 Napoleone chiese a Berhollet di studiare se fosse «possibile ottenere zucchero di qualità dalle rape».
Napoleone ottenne un grande successo quando l’elettore Federico Augusto di Sassonia, le cui forze avevano combattuto a fianco dei prussiani a Jena e Auerstädt, abbandonò l’alleanza con Federico Guglielmo III ed entrò nella confederazione del Reno. Il 19 dicembre Napoleone fu accolto a Varsavia con eccezionale entusiasmo. Istituì immediatamente un governo provvisorio di nobili polacchi, fornito però di poco più che poteri consultivi. Supponeva che i russi non si sarebbero ritirati ulteriormente e che fossero pronti a combattere, perciò ordinò a tutti i suoi corpi d’armata di attraversare la Vistola. Sperando di colmare il divario che lo separava dai generali russi Bennigsen e Büxhowden (entrambi di origine tedesca), disse ai comandanti di corpo d’armata di tenersi pronti per un’importante offensiva. Il 23 dicembre, quando il corpo d’armata di Davout raggiunse il villaggio di Czarnowo, sul fiume Bug, Napoleone fece lui stesso una ricognizione della zona e poi sferrò un attacco notturno, riuscendo a mettere in fuga 15.000 russi che, al comando del conte Aleksandr Ostermann-Tolstoj, si erano spinti troppo avanti, e assicurando ai francesi le vie d’acqua a nord di Varsavia.
Il giorno di Natale del 1806 Napoleone cercò di annientare l’esercito di Bennigsen, che si stava ritirando a nord-est, inviando Lannes a Pultusk per tagliargli la linea di ritirata, mentre Davout, Soult e Murat marciavano verso nord, Augereau si dirigeva a nord-est dal fiume Wkra e Ney, e Bernadotte a sud-est dalla Vistola. Le condizioni atmosferiche guastarono tutte le opportunità di Napoleone, rallentando gli spostamenti a un ritmo di appena 11 chilometri al giorno. «Il terreno sul quale marciavamo era argilloso e inframmezzato da paludi», ricordava Rapp, «le strade erano in pessimo stato: la cavalleria, la fanteria e l’artiglieria rimanevano impantanate, e facevano un’immensa fatica a districarsi.» Il giorno dopo, quando scoppiò la battaglia a Pultusk, «molti ufficiali rimasero bloccati nel fango e non poterono muoversi per tutto il corso della battaglia. Erano bersagli per il nemico».
Bennigsen, al comando di 35.000 uomini, svolse un’efficace azione di retroguardia durante una tempesta di neve a Pultusk contro il corpo d’armata di Lannes, forte di 26.000 effettivi, e si ritirò il giorno seguente. Lo stesso giorno, a Golymin, il principe Andrej Golicyn combatté fino all’imbrunire, e poi sottrasse con eleganza i suoi da una tipica trappola di Napoleone (Murat, Augereau e Davout dovevano attaccarlo da tre lati); a luglio, quando si incontrarono a Tilsit, Napoleone si complimentò con Golicyn per la sua fuga. Dopo una ritirata riuscita, i russi raggiunsero l’accantonamento invernale nei pressi di Bialystok; il 28 dicembre Napoleone sospese le ostilità e acquartierò l’esercito lungo la Vistola, tornando a Varsavia il giorno di capodanno. Non aveva avuto altra scelta, considerando il cattivo tempo, il pessimo stato delle strade e il fatto che, a causa della febbre, delle ferite, della fame e dello sfinimento, spesso mancava all’appello il 40 per cento dei suoi uomini, per lo più impegnati a cercare cibo in una regione che era a malapena in grado di mantenere la propria popolazione in tempo di pace; figurarsi quindi due enormi eserciti in guerra. Furono date disposizioni per la costruzione di ospedali, officine, panetterie e depositi di viveri, e intanto si allestivano teste di ponte e accampamenti fortificati, in modo che la primavera successiva la Grande Armée non fosse costretta ad attraversare a forza il fiume.
Nel gennaio del 1806 Napoleone ruppe gli indugi; il 19 gennaio l’avanguardia di Napoleone incontrò quella di Bennigsen che procedeva in direzione di Danzica. Il tempo era ancora pessimo. «Mai una campagna era stata così dura», scrisse il generale di artiglieria Alexandre de Sénarmont. I suoi cannoni erano sprofondati nel fango fino all’asse e i suoi artiglieri fino alle ginocchia. Poi il terreno si indurì per il gelo, e una pesante nevicata rallentò ulteriormente l’esercito.
Il 27 gennaio la Grande Armée stava ancora procedendo verso nord a marce forzate, mentre Ney e Bernadotte ricevettero l’ordine di proseguire la loro ritirata verso ovest, attirando così Bennigsen sempre più nella trappola di Napoleone. «Non sono mai stato così in salute», si vantò Napoleone con Giuseppe, «e di conseguenza sono diventato più galante di prima».
Il 31 gennaio un contingente di cosacchi appartenenti all’avanguardia del generale russo Bagration catturò un aiutante di campo che stava portando un messaggio non cifrato di Napoleone a Bernadotte, e che non era riuscito a distruggerlo in tempo. Nel messaggio si ordinava a Bernadotte di ricongiungersi alla sinistra della Grande Armée avanzando durante la notte in segreto. Conteneva anche le disposizioni per tutta la Grande Armée e rivelava la sua intenzione di isolare l’intero esercito russo con un attacco da sud. Con perfetta calma, Bennigsen ordinò un’immediata ritirata verso l’Alle. Ignaro che il suo piano era stato scoperto, Napoleone continuò a procedere verso nord, lungo strade in condizioni spaventose e con un tempo tremendo. Per un comandante che aveva sempre considerato la velocità un elemento essenziale, l’inverno polacco era un ostacolo oltremodo frustrante. Il 2 febbraio Napoleone fu informato che, anziché avanzare verso la Vistola, Bennigsen stava ritirandosi verso l’Alle, per mettersi in salvo. Napoleone andò il più in fretta possibile a Bergfried nel tentativo di bloccarlo prima che sfuggisse. Disponeva solo di cinque divisioni di fanteria, la cavalleria della riserva di Murat e parte della guardia imperiale. Il giorno dopo Bennigsen attraversò l’Alle, lasciando soltanto retroguardia a contrastare i francesi. Napoleone annullò l’attacco, e il giorno dopo i russi erano scomparsi. «Sono all’inseguimento dell’esercito russo», disse a Cambacéres, «e lo costringerò a indietreggiare oltre il Niemen».
Il 6 febbraio, quando Murat entrò in contatto con la retroguardia russa presso il ponte di un affluente del Frisching, nelle vicinanze di Hof, il generale Jean-Joseph d’Hautpoul mandò alla carica i suoi corazzieri contro l’artiglieria russa, occupando la postazione. Mezz’ora dopo, di fronte all’intera divisione, Napoleone abbracciò il mastodontico e corpulento veterano dalla lingua tagliente, il quale, fedele all’etichetta, subito dopo si rivolse alle sue truppe e tuonò: «L’imperatore è contento di voi, e anch’io sono così contento di voi che vi bacio il culo a tutti!».

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Generale Jean Joseph Ange d' Hautpoul. Rimase ucciso nella massiccia carica di cavalleria ordinata da Murat nella battaglia di Eylau del 1807.

Bennigsen era riuscito anche in quell’occasione a svicolare. Bennigsen aveva una sola possibilità per proteggere Königsberg, 30 chilometri più a nord (dove non poteva lasciarsi intrappolare), dare battaglia a Eylau (l’odierna Bagrationovsk) allora cittadina della Prussia orientale con 1.500 abitanti, a 200 chilometri dalla frontiera russa. Aveva circa 58.000 uomini, ma attendeva a breve l’arrivo di Lestocq con altri 5.500. Napoleone ne aveva 48.000, ma Ney, 19 chilometri a ovest, e Davout, 16 chilometri a sud-est, stavano sopraggiungendo con quasi 30.000. I russi però erano in netto vantaggio quanto ad artiglieria, con 336 cannoni rispetto ai 200 di Napoleone.
La strada maestra da Landsberg a Königsberg si allunga per una quindicina di chilometri tra una pianura e una foresta e poi sfocia in una pianura ondulata un paio di chilometri da Eylau, che termina in una leggera altura. Da quel punto Napoleone godeva di un’ottima visuale sull’ampia valle che conduceva al pronunciato crinale dove era schierato l’esercito russo. Aveva sulla sinistra il lago Tenknitten e sulla destra il lago Waschkeiten. Nel chilometro circa che li separa, il terreno si solleva leggermente, soprattutto presso l’incrocio stradale, dopo il quale la strada scende per quasi un chilometro fino a Eylau, con una modesta pendenza. Su una collina a destra di quella che nel 1807 era una cittadina di solide case sorte intorno a un importante crocevia si erge una chiesa con il suo cimitero. Il terreno era tempestato di paludi, laghi ghiacciati e boschi di betulle. Sul punto più elevato c’era il villaggio di Serpallen, dove in alcuni tratti la neve era alta un metro.
L’esercito di Bennigsen si schierò per la battaglia nella tarda mattinata di sabato 7 febbraio 1807. Alle due del pomeriggio la cavalleria di Murat e la testa della fanteria di Soult raggiunsero i boschi che si stendevano di fronte al villaggio di Grünhofschen. Augereau arrivò subito dopo e si schierò in direzione del lago Tenknitten. Soult mandò in campo il 18° e il 46° reggimento di linea contro l’avanguardia russa, priva di supporto; i francesi attraversarono un’estremità del lago ghiacciato sotto un pesante fuoco d’artiglieria, scartarono sulla destra e, già alquanto scompigliati, furono attaccati alla baionetta. Poi i dragoni San Pietroburgo, bramosi di vendetta per la sconfitta subita a Hof, attraversarono il lago ghiacciato e attaccarono la retroguardia sinistra, cogliendo di sorpresa entrambi i battaglioni e sbaragliandoli (fu in quell’occasione che il 18° reggimento perse la sua aquila). I dragoni francesi giunsero appena in tempo per contrattaccare e salvarli da un completo annientamento; ma fu una carneficina. Il 46° reggimento di linea riuscì a ritirarsi in buon ordine. Quando Soult schierò la sua artiglieria tra Schwehen e Grünhofschen, l’avanguardia russa cominciò a indietreggiare verso il grosso dell’esercito.
Napoleone controllava ormai tutto l’altopiano, fino alla valle; aveva però subito perdite pesanti: tre settimane dopo c’era ancora un cumulo di cadaveri. Non era sua intenzione assaltare Eylau quella sera, e avrebbe preferito aspettare l’arrivo di Ney e Davout, ma varie circostanze e fraintendimenti, ben riassunti nella celebre espressione «la nebbia della guerra», lo costrinsero a farlo. Forse la miglior spiegazione era quella di Soult, secondo il quale una parte della cavalleria di riserva aveva inseguito i russi fino a Eylau, e il suo 24° reggimento di linea si era mosso dietro di loro, per cui era iniziato uno scontro generale per la chiesa e il cimitero, che naturalmente richiedeva sempre più uomini. Qualunque fosse la vera ragione, la battaglia si trasformò in due giorni di scontri, con 115.000 uomini che si battevano per un’area di appena 12 chilometri quadrati.
La chiesa e il cimitero furono presi d’assalto dalla divisione di Saint-Hilaire; nel corso dell’attacco, Barclay de Tolly, uno dei migliori generali dell’esercito russo, subì una grave ferita dalla mitraglia, che lo lasciò fuori combattimento per 15 mesi. Bagration avrebbe voluto evacuare Eylau ma Bennigsen ordinò che fosse riconquistata a tutti i costi; perciò, guidò tre colonne a piedi contro la fanteria e l’artiglieria francese, che sparava a mitraglia. Alle sei del pomeriggio i russi avevano ripreso gran parte della città, ma non la chiesa e il cimitero. A quel punto Bennigsen cambiò idea e, alle sei e mezzo, ordinò alle truppe russe di ritirarsi dalla città fino a un leggero promontorio a est; i francesi rioccuparono immediatamente la città.

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Generale Claude Juste Alexandre Louis Legrand ritratto da Antoine Jean Gros. Morì il 9 gennaio 1815 a causa delle ferite subite durante la campagna di Russia.

Al calar della notte la divisione di Legrand si spostò poco oltre Eylau; Saint-Hilaire si accampò all’aperto vicino a Rothenen; la cavalleria di Milhaud si trovava a Zehsen; Grouchy era dietro a Eylau; Augereau si teneva in seconda linea tra Storchnest e Tenknitten, e la guardia imperiale trascorse la notte sull’altura da cui Bagration aveva dato avvio alla giornata. Nevicava, ed entrambi gli eserciti si ammassarono intorno ai fuochi dei bivacchi. Dato che in caso di marce forzate le salmerie non erano in grado di tenere il ritmo dell’esercito, da tre giorni un certo numero di soldati non riceveva la razione di pane, e alcuni si ridussero a mangiare la carne dei cavalli morti sul campo di battaglia. Un’ora prima dell’imbrunire Napoleone andò a trovare Eylau. «Le strade erano piene di cadaveri, uno spettacolo orribile», ricordava il capitano François-Frédéric Billon. «Gli occhi dell’imperatore si riempirono di lacrime; nessuno avrebbe creduto possibile una simile emozione in quel grande uomo di guerra; ma le ho viste io stesso, quelle lacrime […] L’imperatore faceva del suo meglio per impedire che il suo cavallo calpestasse qualche resto umano, ma non ci riusciva […] è stato allora che l’ho visto piangere.» Passata la mezzanotte di quella notte gelida, mentre nevicava, Napoleone si coricò su una poltrona nella stazione di posta semidistrutta che si trovava sotto il Ziegelhof, senza nemmeno togliersi gli stivali.

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Generale Édouard Jean-Baptiste Milhaud, famoso per i suoi attacchi con la cavalleria

Alle otto del mattino di domenica 8 febbraio 1807 i russi avviarono un furioso cannoneggiamento su Eylau: la mancanza di precisione nel tiro era compensata dall’enorme numero di colpi sparati. La risposta dell’artiglieria francese provocò pesanti danni alle formazioni russe che spiccavano nella neve. Soffiava un vento gelido e di tanto in tanto nevicava, quindi quel giorno la visibilità fu un fattore di primaria importanza: talvolta si riduceva ad appena una decina di metri, tanto che i russi sulle alture in certi momenti non riuscivano a scorgere Eylau e molto spesso i loro comandanti non riuscivano a vedere le proprie truppe.
Alle nove e mezzo Napoleone ordinò a Soult di spostarsi sull’estrema sinistra della sua linea, a nord-ovest di Eylau. Il corpo d’armata di Davout si avvicinava alla città dalla direzione opposta, e l’imperatore voleva distogliere l’attenzione di Bennigsen. Verso le dieci, tuttavia, Soult fu respinto dai russi fino a dentro Eylau. «Trecento cannoni da entrambi gli schieramenti si tempestavano da breve distanza con una pioggia di colpi a mitraglia, provocando spaventose stragi», ricordava Lejeune. Quando il corpo d’armata di Davout giunse sulla destra di Napoleone, fu arrestato dagli attacchi accaniti della cavalleria di Ostermann-Tolstoj contro l’avanguardia di Friant. Poiché il fianco sinistro, guidato da Soult, era in posizione di debolezza, e Davout si stava schierando con sconfortante lentezza, Napoleone aveva bisogno di una decisiva diversione sulla destra.
Ordinò ad Augereau di attaccare il fianco sinistro russo con i suoi 9000 uomini, e se possibile di ricongiungersi con Davout. Già prima della battaglia Augereau era molto malato, e soffriva il freddo al punto che si era avvolto la testa in una sciarpa, su cui aveva ficcato il suo cappello da maresciallo; doveva essere sostenuto in sella da un aiutante di campo. Durante l’avanzata si perse nella bufera e marciò dritto contro una batteria russa che sparava a mitraglia ad alzo zero, e di cui si poteva intuire la posizione solo dalle fiammate dei fusti. Nel giro di un quarto d’ora vennero uccisi o feriti 5.000 tra ufficiali e soldati, e lo stesso Augereau rimase ferito. Anche la divisione di Saint-Hilaire, che aveva proseguito la marcia per cercare di soccorrere Davout, fu ricacciata indietro. Verso le undici e un quarto la situazione appariva grave. Napoleone osservava lo svolgimento della battaglia dalla chiesa di Eylau, malgrado fosse bombardata dall’artiglieria russa. Il suo fianco sinistro era stato sbaragliato, quello destro gravemente compromesso, e i rinforzi erano in ritardo. Anch’egli si trovò in pericolo quando una colonna di fanteria russa riuscì a entrare a Eylau e ad avvicinarsi alla chiesa, ma poi venne fermata e annientata.
Alle undici e mezzo, essendo ormai chiaro che Augereau aveva fallito, Napoleone effettuò una delle mosse più audaci della sua carriera militare. Non appena la bufera si calmò, lanciò quasi tutta la cavalleria di riserva di Murat nella più grandiosa carica delle guerre napoleoniche. Murat, che per l’occasione indossava un mantello polacco verde, un berretto di velluto verde e teneva in mano soltanto un frustino, si mise alla testa di 7300 dragoni, 1900 corazzieri, 1500 uomini della guardia imperiale a cavallo e lanciò un attacco frontale. «Avanti, per Dio!» gridò il colonnello Louis Lepic dei granatieri a cavallo della guardia. «Sono pallottole, non stronzi!» La cavalleria russa fu respinta contro la propria fanteria; gli artiglieri russi vennero abbattuti a sciabolate accanto ai cannoni; Serpallen fu riconquistata, e Murat si fermò soltanto quando raggiunse Anklappen.
La carica di Murat bloccò il centro dello schieramento russo e riportò l’iniziativa nelle mani di Napoleone. Costò almeno 2.000 caduti, compreso il generale d’Hautpoul, che fu colpito dalla mitraglia e morì pochi giorni dopo la battaglia. Intanto Ney, in mezzo alla bufera, procedeva con lentezza sulle strade terribili che portavano al campo di battaglia. Verso le tre e mezzo Davout era riuscito a portarsi dietro a Bennigsen, e si trovava ormai in prossimità di Anklappen. Napoleone stava per far scattare la sua trappola, accerchiando l’esercito russo, quando improvvisamente apparve Lestocq, che sferrò un attacco contro la divisione di Friant. Ricacciò i francesi da Anklappen quando rimaneva ancora soltanto mezz’ora di luce, salvando così il fianco sinistro di Bennigsen. Alle sette arrivò finalmente Ney, ma era troppo tardi per sferrare il colpo devastante in cui Napoleone aveva sperato. I combattimenti si placarono a poco a poco mentre scendeva l’oscurità e i due schieramenti cedevano esausti alla fatica. A mezzanotte Bennigsen, ormai a corto di munizioni e consapevole dell’arrivo di Ney, ordinò la ritirata, lasciando il campo ai francesi.
«Quando due eserciti si sono inflitti terribili ferite per tutto il giorno, la vittoria sul campo spetta allo schieramento che, armato di perseveranza, rifiuta di abbandonarlo», commentò Napoleone. Ma la vittoria sul campo fu tutto ciò che Napoleone ottenne a Eylau. Non sapendo se si trovava di fronte la retroguardia russa o l’intero esercito di Bennigsen, i suoi attacchi erano stati scomposti e costosi, e gli scontri nelle strade di Eylau erano stati un episodio inutile. Ney fu chiamato soltanto alle otto di mattina dell’8, quando era ormai troppo tardi, perché Murat aveva erroneamente riportato la notizia di una ritirata russa. L’attacco di Augereau nella bufera di neve era stato disastroso al punto che il suo corpo d’armata dovette esser smantellato e gli effettivi distribuiti ad altri marescialli mentre Auegerau si rimetteva in forze, cosa per la quale non perdonò mai veramente Napoleone. La carica della cavalleria di Murat era stata un’impresa splendida e utile, ma comunque un rimedio disperato, come attestava in modo inequivocabile il fatto che vi avesse partecipato la guardia del corpo di Napoleone. Anche la fanteria della guardia imperiale subì gravi perdite a Eylau, essendosi dovuta esporre al fuoco dell’artiglieria nemica per nascondere la debolezza numerica di Napoleone.

eylau

La battaglia di Eylau

Erano stati due giorni davvero terribili. «Non molti prigionieri, ma moltissimi cadaveri», ricordava Roustam, il quale per poco non vi morì assiderato. «I feriti sul campo di battaglia erano coperti di neve, e se ne poteva scorgere soltanto la testa.» Undici giorni dopo la battaglia, Lestocq fece seppellire circa 10.000 cadaveri, più della metà dei quali erano francesi. Eylau rappresenta perciò un nuovo tipo di battaglia nelle guerre napoleoniche, perfettamente riassunto dalle parole pronunciate da Ney alla sua conclusione: «Che massacro! E senza nessun risultato!».
Entrambi gli eserciti rietrarono nei risperttivi acquartieramenti invernali. Napoleone sfruttò il tempo a sua disposizione per reclutare una divisione bavarese di 10.000 uomini e organizzare una leva di 6.000 polacchi, far arrivare rinforzi dalla Francia, dall’Italia e dall’Olanda, e richiamare la leva del 1808 con più di un anno d’anticipo. Eylau aveva infranto il mito della sua invincibilità, e bisognava cancellare la macchia se si voleva che gli austriaci rimanessero neutrali, soprattutto perché, alla fine di febbraio, Federico Guglielmo aveva rifiutato condizioni di pace ben più concilianti di quelle offerte da Duroc dopo la battaglia di Jena al marchese di Lucchesini, l’ambasciatore prussiano a Parigi. Sarebbe stato impossibile effettuare una campagna offensiva in primavera se il ricco e ben fortificato porto di Danzica non fosse caduto, perché in caso contrario i russi avrebbero potuto sferrare un attacco nelle retrovie di Napoleone con l’aiuto della Royal Navy. Dopo il rapimento del generale Victor a Stettino (20 gennaio 1807) a opera di 25 soldati prussiani camuffati da contadini, il maresciallo Lefebvre ricevette l’ordine di assediare Danzica. Quando riuscì a conquistarla, il 24 marzo, mettendo così in sicurezza il fianco sinistro francese, Napoleone gli inviò una scatola di cioccolatini. Il maresciallo non ne fu affatto colpito, ma quando l’aprì scoprì che conteneva 300.000 franchi in banconote. Un anno dopo l’orgoglioso repubblicano Lefebvre, che era stato vice di Napoleone il 18 brumaio, fu nominato duca di Danzica.

lefebvre

Generale François Joseph Lefebvre. Fu tra i marescialli che chiesero l'abdicazione dell'Imperatore; e con la resa della Francia, egli riuscì, trattando con lo zar Alessandro, a far sì che l'Alsazia rimanesse francese.

Entrambi gli eserciti rietrarono nei risperttivi acquartieramenti invernali. Verso fine maggio Napoleone era pronto: Danzica era nelle sue mani, i malati erano stati mandati via dal fronte, e c’erano provviste sufficienti per otto mesi. Poteva contare su 123.000 soldati di fanteria, 30.000 effettivi di cavalleria e 5000 artiglieri. Stabilì la data del 10 giugno per la sua principale offensiva, ma Bennigsen si mosse per primo, attaccando Ney a Guttstadt il 5 giugno. Quello stesso giorno fece muovere tutti i suoi corpi d’armata, desiderando come sempre una battaglia decisiva che potesse concludere la campagna. Davout, che aveva già spostato due divisioni da Allenstein per minacciare il fianco sinistro dei russi, lasciò catturare apposta un messaggero con la falsa notizia che Napoleone aveva 40.000 uomini pronti per assalire le retrovie russe, mentre in realtà ne aveva in tutto 28.000. Il giorno dopo Bennigsen ordinò una ritirata. Nel frattempo, Soult attraversò in forze il fiume Passarge e risospinse indietro il fianco destro dello schieramento russo. L’8 giugno Napoleone interrogò alcuni prigionieri di guerra della retroguardia di Bagration, i quali gli rivelarono che Bennigsen stava marciando su Guttstadt. Sembrava plausibile che vi desse battaglia, invece si ritirò al campo ben fortificato di Heilsberg. Napoleone avanzò con Murat e Ney in testa, seguiti da Lannes e dalla guardia imperiale, mentre Mortier si trovava indietro a una giornata di marcia. Davout era posizionato all’estremità destra e Soult alla sinistra; il sistema dei corpi d’armata funzionava alla perfezione. Bagration protesse la ritirata di Bennigsen, distruggendo ponti e villaggi alle sue spalle man mano che i suoi uomini procedevano lungo le strade interminabili e polverose in un caldo bruciante. Pensando che Bennigsen potesse dirigersi verso Königsberg, il 9 giugno Napoleone decise di attaccare quella che riteneva essere soltanto la retroguardia nemica. Si trattava in realtà dell’intero esercito russo, forte di 53.000 uomini e 150 cannoni.
La cittadina di Heilsberg, che sorge in un avvallamento sulla riva sinistra del fiume Alle, era la base operativa fortificata dell’esercito russo. Diversi ponti portavano a un sobborgo sulla riva destra. I russi avevano costruito quattro enormi ridotte per proteggersi nel caso il nemico avesse attraversato il fiume, intervallate da flêches (terrapieni a forma di punta di freccia), da cui avevano dato battaglia nelle prime ore del 10 giugno. Napoleone arrivò alle tre del pomeriggio, infuriato per il modo dispendioso con cui Murat e Soult avevano condotto la battaglia, durante la quale erano state perdute altre tre aquile. Gli scontri cessarono soltanto alle undici di sera, e dopo si videro scene disgustose di civili al seguito di entrambi gli eserciti indaffarati a depredare i morti e i feriti. L’alba sorse a illuminare un campo di battaglia davvero desolante (erano rimasti feriti più di 10.000 francesi e almeno 6.000 russi), e quando il sole giunse allo zenith entrambi gli eserciti furono costretti ad arretrare per il fetore di morte.
Anche se a Heilsberg erano state prese ingenti quantità di equipaggiamenti e di viveri, Napoleone aveva messo gli occhi su quelle ben più consistenti di Königsberg. Per raggiungere Königsberg i russi dovevano riattraversare l’Alle. Napoleone sapeva che nella cittadina di Friedland (l’odierna Pravdinsk) c’era un ponte; mandò quindi Lannes a compiere una ricognizione, e divise in due il resto del suo esercito: Murat, con 60.000 uomini (la sua cavalleria, più i corpi d’armata di Soult e Davout), fu mandato a conquistare Königsberg, mentre lui stesso rientrò a Eylau con 80.000 uomini. Il 13 giugno l’avanguardia di Lannes riferì di una grande concentrazione russa a Friedland, una città di media grandezza situata in una profonda ansa del fiume, che, in conformità alla dottrina dei corpi d’armata, lo stesso Lannes attaccò e poi riuscì a tenere per almeno nove ore, fino all’arrivo dei rinforzi. Alle tre e mezzo del pomeriggio 3000 uomini di cavalleria dell’avanguardia russa attraversarono l’Alle e cacciarono i francesi dalla città. A quanto pare Bennigsen pensava di poter attraversare l’Alle il giorno dopo, annientare Lannes e poi riattraversare il fiume prima che Napoleone riuscisse ad arrivare da Eylau, situata 24 chilometri a ovest di Friedland. Non era mai opportuno sottovalutare la velocità di Napoleone, soprattutto quando marciava su un terreno asciutto e solido per il sole estivo.
L’Alle è un fiume profondo e impetuoso, con sponde alte oltre dieci metri. Fa una profonda curva intorno a Friedland, avvolgendo la città a sud e a est; a nord invece la delimita un lago formato dal Mühlenbach. Di fronte alla città si apre un ampio terreno pianeggiante, largo quasi tre chilometri; allora era fertile (grano e segale arrivavano al petto) e confinava con una fitta foresta, il bosco di Sortlack. A dividere la pianura, il Mühlenbach, anch’esso dalle sponde alte. Il campanile della chiesa di Friedland offre una superba vista panoramica su tutto il campo di battaglia: molto saggiamente Bennigsen, il suo stato maggiore e il suo ufficiale di collegamento britannico, il colonnello John Hely-Hutchinson, salirono in cima. Ma non si accorsero che i tre ponti di barche fatti montare da Bennigsen per aumentare la portata di quello di pietra della città erano troppo lontani, oltre il suo fianco destro, e che se fossero stati distrutti o comunque bloccati, Friedland sarebbe diventata un’enorme trappola mortale.
Tra le due e le tre del mattino di domenica 14 giugno (l’anniversario della battaglia di Marengo), Oudinot giunse nella piana antistante al villaggio di Posthenen. Oudinot inviò i suoi uomini nel bosco di Sortlack, e lungo il fronte si scatenò un pesante fuoco di scaramuccia e di cannone. Quando il generale Emmanuel de Grouchy, un aristocratico e dotato comandante di cavalleria, giunse alla testa di una divisione di dragoni francesi, Lannes, che nel frattempo era stato raggiunto dalla cavalleria leggera sassone, aveva ormai uomini a sufficienza per tenere a bada circa 46.000 russi fino all’arrivo di Napoleone.

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Generale Emmanuel de Grouchy (dipinto da Jean-Sébastien Rouillard. E' considerato il principale responsabile della sconfitta di Waterloo.

Bennigsen inviò un vasto contingente oltre l’Alle a Friedland, con l’ordine di cominciare ad aprirsi a ventaglio in direzione di Heinrichsdorf, da dove avrebbero potuto minacciare la retroguardia francese. I corazzieri di Nansouty, inviati verso Heinrichsdorf da Lennes, riuscirono a ricacciare indietro le prime linee russe. Quindi Grouchy si mosse in fretta da Posthenen, caricò dal fianco e penetrò in mezzo ai cannoni russi, massacrando a sciabolate gli indifesi artiglieri. La cavalleria francese, ormai non più in formazione, fu contrattaccata, ma alle sette del mattino Grouchy era ormai riuscito a consolidare la linea francese a est di Heinrichsdorf.
Nei confusi scontri che seguirono, il maresciallo Lannes, un guascone astuto e agile, si trovava nel suo elemento. Protetto da una linea insolitamente fitta di scaramucciatori nascosti tra il grano alto e folto, continuava a spostare piccole unità di fanteria e cavalleria su è giù, fuori e dentro il bosco, facendo apparire di avere più uomini di quanti ne avesse in realtà, poiché gliene restavano soltanto 9000 di fanteria e 8000 di cavalleria per fermare le sei divisioni russe che avevano attraversato l’Alle. Per fortuna, proprio mentre Bennigsen schierava le sue forze e attaccava, giunse sul campo di battaglia il corpo d’armata di Mortier, che entrò a Heinrichsdorf giusto in tempo per sottrarla alla fanteria russa. Lasciati tre battaglioni dei granatieri di Oudinot all’interno del villaggio, Dupas si dispose alla sua destra. Giunse poi la divisione polacca di Mortier, e i tre reggimenti polacchi del generale Henri Dombrowski si portarono in posizione, sostenendo l’artiglieria a Posthenen. Nello scontro spaventoso avvenuto nel bosco di Sortlack, la divisione di Oudinot si immolò per respingere la fanteria russa. Alle dieci del mattino la divisione del generale Jean-Antoine Verdier si era ormai riunita a Lannes, portando il totale delle sue forze a 40.000 uomini.
Bennigsen si rese conto che Napoleone (assente ma in arrivo al galoppo a Friedland), gli stava mandando contro un numero crescente di uomini, e cambiò opinione sull’esito della battaglia. Ormai sperava soltanto di tenere la sua linea fino al termine della giornata, in modo da poter scappare di nuovo. Ma d’estate, a quella latitudine, fa buio molto tardi; e a mezzogiorno, Napoleone comparve sul campo di battaglia, giunto di gran carriera da Eylau, con la guardia del corpo. Oudinot, in sella a un cavallo ferito, con l’uniforme forata dai proiettili, riuscì ad avvicinarsi all’imperatore e lo pregò con queste parole: «Datemi dei rinforzi e caccerò i russi nel fiume!». Dalla collina dietro a Posthenen Napoleone comprese subito il grave errore tattico compiuto da Bennigsen. Dato che il lago formato dal Mühlenbach separava in due la piana, il fianco sinistro di Bennigsen era vulnerabile e poteva essere ricacciato verso il fiume.

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Generale Nicolas Charles Oudinot (dipinto di Robert Lefèvre). Oudinot non fu un grande comandante, né pretese di esserlo, ma fu un grande generale di divisione. Fu l'ideale per un generale di fanteria: energico, analitico, risoluto ed abile nella battaglia come qualunque altro maresciallo di Napoleone.

Mentre aspettava rinforzi insieme a Oudinot, l’imperatore concesse un momento di tregua, convinto che Bennigsen non avrebbe potuto rimediare al suo errore nemmeno qualora si fosse accorto di averlo fatto. Gli uomini di entrambi gli schieramenti accolsero con piacere l’opportunità di riposarsi all’ombra e bere un po’ d’acqua. Molti deliravano per la sete, perché avevano passato ore e ore a strappare con i denti le cartucce impregnate di salnitro, in quell’afosa e ardente giornata di giugno, con una temperatura che toccava i 30 gradi centigradi all’ombra. Napoleone si sedette su una sedia di legno e pranzò con un po’ di pane alla portata dei cannoni russi. Il soldato e diplomatico Jacques de Norvins osservò Napoleone camminare avanti e indietro colpendo le erbacce più alte con il suo frustino e poi dire a Berthier: «Giornata di Marengo, giornata di vittoria!». Napoleone prestava sempre grande attenzione alle opportunità propagandistiche degli anniversari, e poi era superstizioso.
Alle due del pomeriggio emanò l’ordine che alle cinque si riprendessero le ostilità. Ney doveva attaccare in direzione di Sortlack; Lannes avrebbe continuato a tenere il centro, e i granatieri di Oudinot avrebbero fatto una diversione a sinistra per attirare l’attenzione su se stessi e allontarla da Ney; Mortier avrebbe preso e tenuto Heinrichsdorf, mentre Victor e la guardia imperiale sarebbero rimasti di riserva dietro il centro.

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Generale Claude-Victor Perrin. Votò a favore della condanna a morte dell'ex collega, Maresciallo Michel Ney.

Dall’alto del campanile della chiesa, Bennigsen e il suo stato maggiore osservavano. Quando era ormai troppo tardi, Bennigsen emanò l’ordine di ritirata, ma subito fu costretto ad annullarlo, poiché ritirarsi risultava troppo pericoloso con il nemico che incalzava.
Alle cinque del pomeriggio tre salve di 20 cannoni segnalarono l’inizio dell’attacco della Grande Armée. I 10.000 uomini della fanteria di Ney si lanciarono nel bosco di Sortlack e alle sei lo avevano ripulito del tutto. Poi marciarono in colonna contro il fianco sinistro dei russi. La divisione del generale Jean-Gabriel Marchand entrò nel villaggio di Sortlack e spinse molti suoi difensori letteralmente dentro il fiume. Poi si spostò a occidente lungo il fiume, isolando la penisola di Friedland e lasciandovi i russi intrappolati. L’artiglieria francese non poteva mancarli. Quindi Napoleone inviò il corpo d’armata di Victor verso Friedland, a sud-ovest, lungo la strada per Eylau.

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Generale Jean Gabriel Marchand. Nel 1814 comandò la 7ª divisione militare, rendendo grandi servigi, quali la riconquista della piazza di Chambéry, strappata agli austriaci.

Quando il corpo d’armata di Ney, ormai esausto, cominciò a indietreggiare, Sénarmont suddivise i suoi 30 cannoni in due batterie. Facendo intonare Front d’action ai propri trombettieri, le sue squadre di cavalleria avanzarono al galoppo, inarrestabili, e spararano prima a 500 metri, poi a 250, a 125 e infine, non avendo più altro che colpi di mitraglia, a 50. Le guardie dell’Ismailovskij e i granatieri del Pavlovskij cercarono di assaltare le batterie, ma in 25 minuti circa il loro fuoco abbatté più o meno 4000 uomini. Un’intera carica di cavalleria fu sbaragliata da un'intensa raffica di mitraglia. Il fianco sinistro russo fu completamente distrutto e intrappolato sulle rive dell’Alle. L’azione di Sénarmont divenne celebre nei manuali militari come esempio di “carica dell’artiglieria”, anche se i suoi artiglieri subirono perdite pari al 50 per cento. Il corpo d’armata di Ney, che si era ripreso, con in testa il 59° reggimento di linea, entrò a Friedland da ovest, si batté per le strade e alle otto di sera si era ormai impadronito della città. I russi furono respinti verso i ponti, chepresero fuoco, e molti soldati annegarono mentre cercavano di attraversare il fiume.

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Generale Alexandre-Antoine barone di Sénarmont. Generale di divisione

A quel punto le divisioni di Lannes e Mortier si riversarono nella piana e le unità russe che si trovavano a destra di Friedland vennero semplicemente sospinte nel fiume. Molti russi combatterono sino alla fine alla baionetta, ma 22 squadroni di cavalleria riuscirono a fuggire lungo la riva sinistra del fiume. Di volta in volta sono stati addotti il caldo, la stanchezza, il crepuscolo e il saccheggio della città in cerca di cibo per spiegare come mai, dopo Friedland, i russi non furono inseguiti come era avvenuto a Jena. Forse Napoleone pensò che un completo massacro avrebbe reso più difficile far scendere a patti Alessandro, mentre lui ormai desiderava con forza la pace. «Nel complesso hanno buoni soldati», disse a Cambacérès: fino a quel momento non lo aveva mai ammesso, e avrebbe fatto bene a ricordarsene cinque anni più tardi.
In virtù della sola concentrazione delle forze, la battaglia di Friedland fu la vittoria più spettacolare di Napoleone dopo Austerlitz e Ulma. Al prezzo di 11.500 caduti, tra morti, feriti e dispersi, aveva completamente sbaragliato i russi, le cui perdite sono state stimate intorno ai 20.000 uomini (ossia il 43 per cento del totale). I 100 chirurghi di Percy dovettero lavorare tutta la notte, e un generale ricordò in seguito «prati coperti di arti asportati dai corpi, corpi, e quei terrificanti luoghi di amputazione e dissezione che l’esercito chiamava ambulanze».

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Battaglia di Friedland (stampa antica)

Il giorno dopo la battaglia Lestocq evacuò Königsberg, e Napoleone emanò uno dei suoi tipici bollettini:
  "Soldati! Il 5 giugno siamo stati attaccati nei nostri accantonamenti dall’esercito russo, che aveva frainteso le cause della nostra inattività. Si è accorto, troppo tardi, che il nostro riposo era quello del leone: ora fa penitenza per i suoi errori […] Dalle rive della Vistola abbiamo raggiunto quelle del Niemen con la rapidità dell’aquila. Ad Austerlitz avete celebrato l’anniversario dell’incoronazione; quest’anno avete degnamente celebrato quello della battaglia di Marengo, che ha posto fine alla guerra della seconda coalizione. Francesi, siete stati degni di voi, e di me; tornerete in Francia coperti di alloro, dopo avere conquistato una pace che è garanzia della sua stessa durata. È tempo che il nostro paese viva in tranquillità, protetto dalla nefasta influenza dell’Inghilterra. Le mie ricompense vi dimostreranno la mia gratitudine e la grandezza dell’amore che vi porto.".
Il 19 giugno lo zar Alessandro inviò il principe Dmitrij Lobanov-Rostovskij a chiedere un armistizio, mentre i russi riattraversavano il Niemen e bruciavano il ponte di Tilsit, l’ultima cittadina prussiana (l’odierna Sovetsk), dove Napoleone arrivò verso le due del pomeriggio. I prussiani, che non potevano proseguire la guerra senza l’aiuto dei russi, avrebbero dovuto adeguarsi alle decisioni diplomatiche dello zar. Alessandro era esortato a concludere la pace da sua madre, l’imperatrice madre Maria Fedorovna, convinta che fosse stato versato fin troppo sangue russo per gli Hohenzollern, e da suo fratello Costantino, che ammirava apertamente Napoleone. L’accordo che fu concluse a Tilsit non rispecchiava affatto la portata della sua sconfitta: fu la Prussia a pagarne quasi tutto il prezzo e la Russia non perse alcun territorio, fatta eccezione per le Ionie (compresa Corfù, che Napoleone definiva «la chiave per l’Adriatico»).
Napoleone garantì che gli stati tedeschi governati da parenti stretti dello zar (come l’Oldenburgo) non sarebbero stati costretti a entrare nella confederazione del Reno. Alessandro accettò di evacuare la Moldavia e la Valacchia, recentemente sottratte ai turchi (non erano mai state russe), ma ottenne mano libera per l’invasione della Finlandia, che apparteneva alla Svezia. La sola concessione che Alessandro dovette fare a Tilsit fu la promessa di aderire al blocco continentale, perché Napoleone sperava che questo avrebbe aumentato le pressioni sulla Gran Bretagna convincendola alla pace.
In netto contrasto con l’eccezionale clemenza mostrata verso la Russia, la Prussia fu penalizzata in modo molto severo. «L’errore più fatale l’ho compiuto a Tilsit», disse in seguito Napoleone; «avrei dovuto detronizzare il re di Prussia. Ma ho esitato. Ero convinto che Alessandro non si sarebbe opposto, purché non mi fossi impadronito dei possedimenti del re.» Alessandro sottrasse alla Prussia la regione di Bialystok, nella Polonia orientale (un gesto non certo da alleato); ma tutte le altre frustate furono inferte da Napoleone. Dalle province che la Prussia aveva acquisito con la seconda e terza spartizione della Polonia ritagliò il granducato di Varsavia, che i polacchi speravano potesse rappresentare la prima fase per la ricostituzione del loro regno, pur non avendo alcuna rappresentanza diplomatica all’estero ed essendo governato da un granduca tedesco, Federico Augusto di Sassonia, con un parlamento privo di effettiva autorità. I territori prussiani a ovest dell’Elba andarono a formare il nuovo regno di Vestfalia, Cottbus venne assegnata alla Sassonia, e fu imposta una gigantesca indennità di guerra (120 milioni di franchi). Per pagarla, Federico Guglielmo fu costretto a vendere parecchi terreni e ad alzare il prelievo fiscale dal 10 al 30 per cento della ricchezza nazionale. La Prussia fu obbligata a aderire al blocco continentale, e le fu proibito di imporre dazi su svariate vie d’acqua, come il fiume Netze e il canale di Bromberg.
Giuseppe doveva essere riconosciuto re di Napoli, Luigi re d’Olanda e Napoleone protettore della confederazione del Reno; inoltre, guarnigioni francesi sarebbero rimaste a proteggere le fortezze sulla Vistola, l’Elba e l’Oder. La Prussia fu ridotta a una popolazione di appena 4,5 milioni (la metà di prima della guerra) e perse due terzi del suo territorio; fu autorizzata ad avere un esercito di 42.000 uomini appena. In quasi tutti i territori tra il Reno e l’Elba «tutti i diritti reali o eventuali» del regno di Prussia erano «cancellati per sempre». Il re di Sassonia avrebbe avuto addirittura il diritto di utilizzare le strade prussiane per inviare truppe al granducato di Varsavia. Imponendo queste umiliazioni al bisnipote di Federico il Grande, Napoleone sapeva benissimo che la Prussia avrebbe nutrito un perpetuo rancore; ma contava di poter tenere a bada il revanscismo austriaco per Presburgo e quello prussiano per Tilsit grazie alla sua nuova amicizia con la Russia.
Ormai prossimo a toccare l’apice della sua potenza, Napoleone seguiva una strategia grazie alla quale, pur sapendo di dover sempre fare i conti con l’ostilità britannica, sarebbe stato sicuro che, in nessun momento, le tre potenze continentali di Russia, Austria e Prussia si sarebbero rivolte contro di lui contemporaneamente. Doveva perciò metterle l’una contro l’altra, e per quanto possibile anche contro la Gran Bretagna. Per evitare di dover combattere nello stesso tempo contro queste quattro potenze, Napoleone sfruttò l’aspirazione della Prussia a possedere l’Hannover, l’impossibilità russa di proseguire il conflitto dopo Friedland, un’alleanza matrimoniale con l’Austria, le divergenze tra Russia e Austria sull’impero ottomano, e il timore di una risorgenza polacca, paventata da tutte e tre le potenze continentali. Il fatto di essere riuscito a realizzare questo obiettivo per un intero decennio dopo il crollo della pace di Amiens, e pur essendo chiaramente l’egemone europeo più temuto da ogni potenza, attesta il suo eccezionale talento di statista. La divisione dell’Europa in sfere di influenza francese e russa fu un momento determinante della sua strategia.
Magdeburgo fu assegnata alla Vestfalia, un nuovo regno con un estensione di 2850 chilometri quadrati ricavato dai territori di Brunswick e Assia-Cassel, cui furono aggiunti dei territori prussiani a ovest dell’Elba, e in seguito alcune parti dell’Hannover. A regnare su questa nuova entità di grande importanza strategica, però, Napoleone inviò un ragazzo che non aveva combinato nulla nei suoi 22 anni di vita, se non prendere una licenza non autorizzata in America, dove aveva contratto un malaccorto matrimonio, poi annullato in modo non del tutto legale; aveva poi prestato servizio nell’esercito guidando, con perfetta competenza (ma nulla di più), i contingenti della Baviera e del Württemberg nell’ultima campagna. Girolamo non aveva un curriculum tale da meritarsi una corona, ma Napoleone continuava a pensare di potersi fidare dei suoi parenti più che di qualsiasi altra persona, nonostante tutte le palesi indicazioni del contrario, a cominciare dall’esilio di Luciano e dal matrimonio di Girolamo per concludere con la debolezza mostrata da Giuseppe a Napoli, le infedeltà e la disobbedienza di Paolina e il disinteresse di Luigi per il contrabbando britannico in Olanda.
Napoleone voleva che la Vestfalia diventasse un modello per il resto della Germania, spingendo così altri stati tedeschi a entrare nella confederazione, o almeno a stare fuori dall’orbita prussiana e austriaca. «È essenziale che il tuo popolo goda di una libertà, un’uguaglianza e un benessere ignoti al popolo tedesco», scrisse a Girolamo il 15 novembre, inviandogli una costituzione per il nuovo regno e predicendo che nessuno avrebbe desiderato tornare al dominio prussiano dopo avere «gustato i benefici di un’amministrazione saggia e liberale». Ordinò a Girolamo di «seguirla fedelmente»: «I vantaggi offerti dal codice napoleonico, dai processi pubblici e dall’istituzione delle giurie saranno la caratteristica specifica e saliente del tuo governo […] Conto più suoi loro effetti […] che sulle più spettacolari vittorie militari». Poi, per colmo di paradosso considerando a chi stava scrivendo, decantò le virtù della meritocrazia: «La popolazione tedesca attende con ansia il giorno in cui coloro che non hanno nobili natali ma sono dotati di talento avranno pari diritti per candidarsi a un lavoro; attende l’abolizione di ogni servitù e la sopressione di tutti gli intermediari tra il popolo e il suo sovrano». Questa lettera non era destinata alla pubblicazione, ma rappresenta comunque i più elevati ideali di Napoleone. «Il popolo della Germania, come quello della Francia, dell’Italia e della Spagna, vuole uguaglianza e valori liberali. Mi sono convinto che l’onere dei privilegi era contrario all’opinione generale. Sii un re costituzionale.»
Campagne di Spagna e Portogallo
All’inizio del 1808 la Prussia era ormai sottomessa e c’era un grandioso accordo con la Russia. Napoleone poteva quindi concentrare l’attenzione sui sistemi per costringere la Gran Bretagna a sedersi al tavolo dei negoziati. Era evidente che, dopo Trafalgar, non poteva riprendere i piani d’invasione; ma i britannici continuavano a incoraggiare attivamente il contrabbando in Europa per far naufragare il blocco continentale, bloccando i porti francesi e non mostrando la minima intenzione di porre fine alla guerra. Perciò Napoleone guardò a sud per realizzare il desiderio di danneggiare il commercio britannico, che a suo parere era il modo infallibile per ridurre quella «nazione di bottegai» all’ubbidienza. Fin dal novembre del 1800, quando a Giuseppe aveva scritto «il più grande danno che possiamo infliggere al commercio britannico sarebbe impadronirsi del Portogallo», Napoleone aveva considerato un possibile tallone d’Achille il più antico alleato della Gran Bretagna. Il 19 luglio 1807 aveva richiesto che il Portogallo chiudesse i propri porti alle navi britanniche entro settembre, arrestasse tutti i cittadini britannici presenti a Lisbona e confiscasse tutte le merci britanniche. Il Portogallo non era riuscito a rispettare il pagamento dell’indennità che aveva accettato nel 1801, quando aveva chiesto la pace. Consentiva alle navi britanniche l’ingresso nei suoi porti per acquistare vino, il suo principale prodotto d’esportazione, e aveva grandi colonie e una flotta consistente, ma un esercito di soli 20.000 uomini. Il paese era governato dall’indolente, obeso e ottuso principe autocratico Giovanni, che la moglie spagnola, Carlotta, aveva cercato di rovesciare nel 1805.

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Generale Bertrand Clauzel; si distinse nella campagna di Spagna.

Il 29 agosto 1807, quando i francesi invasero l’Etruria nel tentativo di debellare la piaga cronica del contrabbando di merci britanniche, il primo ministro spagnolo, don Manuel de Godoy y Álvarez de Faria, comprese che avrebbe dovuto collaborare con Napoleone se voleva ottenere un adeguato compenso per l’infanta Maria Luisa, regina d’Etruria e figlia di Carlo IV di Spagna, il cui marito, re Luigi I, era morto di epilessia nel maggio del 1803. Napoleone non stimava Godoy e non si fidava di lui; quando, nel 1801, Godoy aveva chiesto a Luciano un ritratto di Napoleone, quest’ultimo aveva replicato con una frase brusca: «Non manderò mai il mio ritratto a un uomo che tiene il suo predecessore in galera [Godoy aveva fatto imprigionare il precedente primo ministro, il conte di Aranda, dopo una sconfitta spagnola a opera dei francesi nel 1792] e ricorre ai sistemi dell’Inquisizione. Posso servirmene, ma gli devo soltanto disprezzo». Reagì con estremo sospetto il giorno della battaglia di Jena, quando Godoy mobilitò l’esercito spagnolo, smobilitandolo in fretta e furia alla notizia del suo esito. Godoy stabilì che sarebbe stato opportuno permettere alle truppe francesi di attraversare la Spagna per attaccare il Portogallo.

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Generale Charles Mathieu Isidore Decaen; si distinse nella campagna di Spagna.

«Per prima cosa, il Portogallo deve essere sottratto all’influenza dell’Inghilterra», scrisse Napoleone al re Carlo IV il 7 settembre 1807, «in modo da obbligare quest’ultima a chiedere la pace.» Il 27 ottobre il rappresentante di Godoy firmò il trattato di Fontainebleau, contenente delle clausole segrete sulla spartizione del Portogallo in tre sezioni: quella settentrionale sarebbe stata assegnata all’infanta Maria Luisa in cambio dell’Etruria, quella centrale sarebbe stata sottoposta all’occupazione militare franco-spagnola e quella meridionale avrebbe costituito il feudo personale dell’elegante, astuto, gretto e pretenzioso Godoy, che sarebbe diventato principe di Algarve. Il trattato garantiva i domini di Carlo IV e gli permetteva di fregiarsi del titolo di “imperatore delle due Americhe".

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Generale Jean-Andoche Junot in un ritratto di Henri Félix. Fu aiutante di campo di Napoleone nella campagna di Russia.

Napoleone ratificò il trattato il 29 ottobre, quando le truppe francesi erano già penetrate in profondità nella penisola iberica. Il 18 ottobre Junot aveva attraversato il fiume Bidasoa, entrando in Spagna diretto verso il Portogallo. Non incontrò alcuna resistenza nemmeno a Lisbona, e il 29 novembre la famiglia reale portoghese fuggì a Rio de Janeiro a bordo di navi da guerra della Royal Navy, tra gli insulti della folla che si era riunita al porto, indignata per la loro diserzione. Napoleone aveva ordinato a Junot di assicurarsi che i suoi ingegneri tracciassero una mappa delle strade spagnole durante la marcia di avvicinamento al Portogallo. «Voglio conoscere le distanze tra i villaggi, la conformazione del paese e le sue risorse», scrisse, dimostrando che già allora prevedeva la possibilità di invadere i territori del suo alleato.

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Generale Guillaume Dode de la Brunerie; si distinse nella campagna di Spagna

La politica spagnola era così guasta e i Borboni spagnoli così decadenti e patetici che il loro trono sembrava pronto per la conquista. Carlo IV e la sua autoritaria moglie, Maria Luisa di Parma, odiavano il proprio figlio maggiore ed erede, il ventiquattrenne Ferdinando, principe delle Asturie (poi Ferdinando VII), un sentimento del tutto corrisposto. Il potere esercitato da Godoy in Spagna era così forte che fu persino nominato ammiraglio senza essere mai stato in mare nemmeno una volta. Ferdinando, debole e codardo quanto il padre, detestava Godoy, il quale ricambiava di cuore. Godoy era in effetti detestato in tutta la Spagna per il miserabile stato in cui aveva fatto sprofondare il paese e, soprattutto, per la perdita delle sue colonie a vantaggio della Gran Bretagna, per la catastrofe di Trafalgar (in cui la Spagna aveva perso 11 navi di linea), per la debolezza dell’economia, per la corruzione, le carestie, la vendita di terreni della chiesa, l’abolizione delle corride e persino per lo scoppio di un’epidemia di febbre gialla nel sud del paese.

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Generale Jean Isidore Harispe; si distinse nella campagna di Spagna.

Un’allettante prospettiva si presentò nell’ottobre 1807, quando Ferdinando scrisse a Napoleone (o meglio all’«eroe che cancella tutti i suoi predecessori», come si espresse adulatoriamente il principe) per chiedergli il permesso di unirsi in matrimonio con un membro della famiglia Bonaparte. Suo padre lo aveva fatto arrestare quello stesso mese per tradimento (con false accuse), ma lo aveva subito rilasciato a malincuore, e probabilmente Ferdinando voleva superare in furbizia i genitori e allo stesso tempo proteggere il trono da un’invasione francese. Sarebbe stata la soluzione ideale, risparmiando a Napoleone quella che lui stesso avrebbe poi definito «l’ulcera spagnola»; ma la migliore candidata, Charlotte, figlia di Luciano, aveva appena 12 anni. Durante il suo breve soggiorno alla corte di Napoleone, aveva scritto parecchie lettere ai suoi genitori a Roma lamentandosi dell’immoralità di quell’ambiente e pregandoli di farla tornare a casa; Napoleone, intercettate le lettere, aveva acconsentito.
Dopo avere occupato Lisbona, Junot depose ufficialmente (in abstentia) la dinastia dei Braganza e ne confiscò le proprietà; impose un “contributo” di 100 milioni di franchi e promulgò una costituzione che prevedeva la tolleranza religiosa, l’uguaglianza di fronte alla legge e la libertà dell’individuo. Dichiarò che si sarebbero costruite strade e scavati canali, sostenute l’industria e l’agricoltura e promossa l’istruzione pubblica; ma i portoghesi non si entusiasmarono affatto. Napoleone stabilì che le truppe di Junot dovevano ricevere, oltre alle loro normali razioni, una bottiglia di vino portoghese al giorno.
Nel gennaio 1808, quando il Portogallo pareva ormai sotto controllo, Napoleone inviò nel nord della Spagna un contingente di truppe al comando di Murat, ufficialmente per aiutare Junot, ma in realtà per impadronirsi delle grandi fortezze di San Sebastian, Pamplona, Figueras e Barcellona, con il completo sostegno di Godoy, che era deciso a diventare un sovrano a pieno diritto in base alle clausole segrete del trattato di Fontainebleau. Anche se non lo si affermava, di fatto si trattava di un’invasione della Spagna, e con l’appoggio del suo primo ministro. Il 13 marzo Murat si trovava già a Burgos con 100.000 uomini, e cominciava ad avanzare verso Madrid. Per ingannare gli spagnoli, Napoleone ordinò di «diffondere la voce» che il suo piano fosse «assediare Gibilterra e passare in Africa».
La notte del 17 marzo 1808 Godoy fu destituito dall’“ammutinamento di Aranjuez”, una sollevazione popolare scoppiata in una località a 40 chilometri da Madrid, dove la famiglia reale aveva il proprio palazzo invernale innescata dalla voce che Godoy stesse progettando di portare il re e la regina in America passando dall’Andalusia. Una folla inferocita penetrò in casa sua per linciarlo. Il principe Ferdinando appoggiò la rivolta, e due giorni dopo Carlo IV abdicò. Il giorno prima era stato costretto a licenziare Godoy, scatenando enormi festeggiamenti a Madrid. «Ero ben preparato a qualche cambiamento in Spagna», disse Napoleone a Savary quando gliene giunse notizia, «ma mi sembra di capire che le cose stiano prendendo una direzione diversa da quella che mi aspettavo.» Napoleone, intravedendo un’opportunità di estendere la propria influenza, non volle riconoscere Ferdinando come re, dichiarando che Carlo era stato un suo fedele alleato.
Quando, Godoy cercò di arrendersi alle autorità, la folla lo prese, lo ferì all’anca e per poco non gli cavò un occhio; ma fu comunque arrestato vivo. Il suo ministro delle finanze fu assassinato a Madrid, e la folla saccheggiò le case della sua famiglia e dei suoi amici per poi gettarsi sugli spacci di vino. All’epoca l’opinione pubblica spagnola e la stampa britannica ritennero che fosse stato Napoleone a istigare la rivolta, ma non era vero. Intendeva però sfruttare l’opportunità mettendo una fazione contro l’altra. La Spagna era troppo importante dal punto di vista strategico ed economico per essere lasciata nelle mani di Ferdinando, a parere di Napoleone una pedina delle forze reazionarie aristocratiche ed ecclesiastiche (lo era davvero) e un alleato segreto dei britannici (per il momento, non lo era ancora).
Napoleone non poteva permettersi di avere uno stato in preda al caos alle sue frontiere meridionali, soprattutto se si trattava di uno stato che fino ad allora gli aveva sempre fornito 5 milioni di franchi al mese e che, anche dopo Trafalgar, possedeva una grande flotta della quale avrebbe avuto bisogno se mai avesse deciso di tornare al suo sogno di invadere la Gran Bretagna. Il potere aborrisce il vuoto, e i Borboni (che governavano la Spagna soltanto dal 1700, quando vi erano stati installati da Luigi XIV) ne avevano creato uno. Come aveva dimostrato il 18 brumaio, Napoleone era dispostissimo ad attuare un colpo di stato se lo considerava vantaggioso, e sapeva farlo.
Dopo Tilsit, la Grande Armée non aveva più particolari impegni sul continente, fatta eccezione per il servizio di guarnigione e una moderata azione di contrasto alle forze irregolari in Calabria. «Non ho invaso la Spagna per mettere un membro della mia famiglia sul trono», affermò Napoleone nel 1814, «ma per rivoluzionarla, per farne un regno fondato sulla legge, per abolire l’Inquisizione, i diritti feudali e gli ingiusti privilegi di certe classi.»67 Sperava che la formula della modernizzazione, dimostratasi così efficace in Italia, Belgio, Olanda e nelle regioni occidentali della confederazione del Reno, avrebbe potuto riconciliare gli spagnoli con il suo dominio. Certo si trattava in larga parte di una spiegazione a posteriori, ma Napoleone si aspettava davvero che le sue riforme avrebbero ottenuto l’appoggio di alcune classi spagnole, e almeno in certa misura fu proprio così. Negando di voler appropriarsi dei suoi vasti tesori latinoamericani, disse di volere soltanto 60 milioni di franchi all’anno per francesizzare la Spagna. Ma nonostante tali aspirazioni, questa guerra, al contrario delle precedenti, era un conflitto dinastico, e rappresentò perciò una rottura rispetto alle guerre rivoluzionarie del passato.
Il 21 marzo Carlo IV ritirò la sua abdicazione per l’ottima ragione che era stata resa sotto costrizione. Due giorni dopo, Murat occupò Madrid con 50.000 uomini provenienti dai corpi d’armata di Moncey e Dupont. All’inizio tutto sembrava tranquillo, anche il giorno dopo, quando Ferdinando arrivò a Madrid e fu accolto da sfrenate manifestazioni di giubilo. Ferdinando aveva l’impressione che Napoleone volesse soltanto destituire Godoy, e il 10 aprile partì da Madrid per recarsi a conferire con Napoleone a Bayonne, vicino al confine spagnolo, dove si stavano recando separatamente anche i suoi genitori. Mentre viaggiava verso Bayonne, incontrandolo molti spagnoli si toglievano la giacca e la mettevano sotto le ruote della carrozza per «conservare le tracce di un viaggio che rappresentava il momento più felice della loro vita», credendo (come lo stesso Ferdinando) che Napoleone lo avrebbe riconosciuto legittimo re di Spagna.
Napoleone arrivò a Bayonne il 15 aprile 1808 e si stabilì nel vicino castello di Marraq, dove sarebbe rimasto per oltre tre mesi, con un distaccamento della guardia imperiale accampato in giardino. Sul campo di battaglia cercava sempre di guadagnare un vantaggio sui suoi avversari colpendoli dove le loro forze erano più deboli; ora avrebbe fatto la stessa cosa nei negoziati con i Borboni. L’odio di Carlo e Maria Luisa nei confronti del figlio Ferdinando, e il suo per loro, era ben più forte di qualsiasi sentimento che chiunque di loro potesse nutrire per Napoleone. Lui era dispostissimo a intromettersi nei dolori privati di quella disastrata famiglia, e avendo 50.000 uomini di stanza a Madrid, nessuna delle due parti poteva regnare senza il suo appoggio. Questo gli permise di architettare un piano.
In base alle condizioni di una serie di accordi conclusi a Bayonne, Ferdinando avrebbe restituito la corona spagnola a suo padre Carlo IV, a patto che Carlo la cedesse subito a propria volta a Napoleone, il quale l’avrebbe poi assegnata a suo fratello Giuseppe. Intanto Murat aveva fatto uscire in segreto Godoy dalla Spagna, con grande gioia di Maria Luisa, che ora poteva stare con lui; sembrava dunque che un altro paese ancora fosse finito nelle mani della famiglia Bonaparte. «Se non m’inganno», disse Napoleone a Talleyrand il 25 aprile, «questa tragedia è al quinto atto; arriverà presto la scena conclusiva.»
Si sbagliava: stava per cominciare solo il secondo atto. Il 2 maggio, mentre trapelavano notizie da Bayonne e ormai ci si aspettava il peggio, i madrileni inscenarono una rivolta contro l’occupazione di Murat, e nell’insurrezione passata alla storia come “el Dos de mayo” uccisero circa 150 dei suoi uomini. Come a Pavia, al Cairo e in Calabria, i francesi sedarono la rivolta con brutalità; ma in Spagna non fronteggiarono una sollevazione nazionale coordinata. In alcune regioni, come l’Aragona, si ebbe pochissima opposizione al dominio francese; in altre, come la Navarra, fu fortissima. A Cadice le cortes incontrarono altrettante difficoltà di Giuseppe nel riscuotere le imposte o imporre la coscrizione. La Spagna era così grande che nelle province insorte si riuscirono a stabilire dei governi insurrezionali (juntas) di ambito regionale, e la Francia si trovò costretta a combattere sia contro l’esercito regolare spagnolo sia contro bande locali dedite alla guerra non convenzionale.
I francesi esordirono assediando Girona, Valencia, Saragozza e altre città strategicamente importanti (in realtà nella guerra iberica vi furono più assedi che in tutte le altre guerre napoleoniche messe insieme). Anche se la rivolta del Dos de mayo ebbe certamente un risvolto patriottico, antifrancese, antiateo e di supporto a Ferdinando, vi erano problemi di classe, proprietà terriera, diserzione, contrabbando, regionalismo, renitenza alla leva, anticlericalismo, penuria di cibo, oltre a un crollo degli scambi commerciali che fecero della guerra imminente qualcosa di ben più complesso di un semplice scontro tra avidi invasori francesi ed eroici partigiani spagnoli, pur essendovi indubbiamente anche questo elemento. Alcuni dei gruppi armati che si battevano contro i francesi (come quelli di Juan Martín Díez a Guadalajara e di Francisco Espoz y Mina in Navarra) erano ben organizzati, ma molti erano poco più che bande di briganti simili a quelle sgominate da Napoleone in Francia quando era primo console e contro le quali qualsiasi governo sarebbe dovuto intervenire. Come in ogni insurrezione, alcuni partigiani erano animati dal patriottismo, altri dal desiderio di vendetta per le innegabili atrocità, altri ancora dall’opportunismo, e molti banditi si limitavano a depredare i propri connazionali spagnoli. Il capitano Blaze, della guardia imperiale, scoprì che in molti villaggi la popolazione locale non faceva differenza tra l’esercito francese e i briganti spagnoli.
A luglio, quando Giuseppe fu incoronato a Madrid, Murat prese al suo posto la corona napoletana, mentre Luigi e il figlio più grande di Ortensia (tra quelli ancora in vita), il principe Luigi Napoleone, che aveva tre anni, sostituirono Murat nel granducato di Berg.
Per poter controllare Ferdinando qualora il popolo spagnolo avesse rifiutato gli accordi di Bayonne, Napoleone lo fece trattenere nella residenza di campagna di Talleyrand a Valençay, consentendo così ai suoi sostenitori di parlare di rapimento e prigionia. Quando un audace colonnello ventottenne della sua guardia, don José de Palafox, gli propose di fuggire, Ferdinando disse che preferiva rimanere lì a ricamare e a ritagliare figurine di carta.
Con tutte le critiche destinate a piovere su Napoleone per la sua razzia spagnola, ci si dimentica che quello stesso anno lo zar Alessandro sottrasse la Finlandia alla Svezia con una guerra breve ma altrettanto illegittima. «Ho venduto la Finlandia per la Spagna», disse lo stesso Napoleone; ma nell’affare fu lui a perderci. Non aveva avuto bisogno di fare esplicite minacce a nessuno e nemmeno di combattere sul serio per mettere le mani sul trono spagnolo, ma come disse a Talleyrand in maggio aveva fatto l’errore di credere che gli spagnoli fossero "come tutti gli altri popoli". Napoleone riteneva che, se anche non era stato accolto in Spagna come salvatore e riformatore, Giuseppe avrebbe sempre potuto battere sul campo l’esercito spagnolo; e in effetti il 14 luglio Bessières sconfisse il capitano generale don Gregorio de la Cuesta e l’esercito spagnolo di Galizia nella battaglia di Medina del Rioseco. Ma solo otto giorni dopo sull’esercito francese si abbatté la catastrofe quando il generale Pierre Dupont consegnò il suo intero corpo d’armata, 18.000 uomini e 36 cannoni, più tutte le sue insegne, all’armata di Andalusia del generale Francisco Castaños dopo essere stato sconfitto nella battaglia di Bailén.
Si affrontarono 20.000 francesi al comando del generale Dupont contro 30.000 uomini dell'esercito spagnolo al comando del generale Castaños. Il generale Dupont, dopo la sua vittoria nella battaglia di Ponte Alcolea e dopo aver conquistato e saccheggiato Cordova, si preoccupò di sapere se Castaños stava organizzando un esercito che potesse tagliargli la via di comunicazione con Madrid e lasciarlo così senza basi di approvvigionamento per mantenere il suo avamposto tra popolazioni ostili. Per questo motivo abbandonò Cordova e si ritirò alla difesa di Andújar, dove stabilì il suo quartier generale. Da parte sua, Castaños mise in piedi il suo esercito prendendo come basi gli antichi corpi militari, ai quali si aggiunsero reclute delle Giunte Provinciali dell'Andalusia. Dal suo quartier generale in Utrera si diresse a Sierra Bruno per tagliare le comunicazioni nel centro della Penisola alle truppe francesi in Andalusia. Castaños, con una serie di audaci manovre, spostò il suo esercito di giorno e di notte, cambiando costantemente direzione, in modo che le truppe francesi non potessero essere sicure delle sue intenzioni, mentre egli si manteneva perfettamente al corrente dei movimenti francesi attraverso i compaesani. Davanti a ciò, il generale Dupont inviò parte importante delle sue forze a La Carolina, con l'intenzione di proteggere il passo verso Madrid da un possibile attacco di Castaños, quello che avrebbe comportato l'incomunicabilità che tanto temeva. Ma questo aveva realizzato precisamente tutti i suoi movimenti con l'intenzione di forzare Dupont a dividere le sue forze; si realizzava così la prima condizione che Castaños aveva immaginato come necessaria per la vittoria spagnola. Dupont, da Andújar, non osò opporsi in una battaglia alle forze di Castaños e preferì retrocedere, cercando di ricongiungersi con le altre truppe francesi comandate dai generali Vedel e Dufour, che venivano in suo aiuto e che erano già quasi al limite della provincia. Dirigendosi con quell'intenzione a Bailén il 18 luglio, si trovò con le truppe di Castaños che uscivano della città in quel momento e lì ebbe inizio la battaglia. Il fatto che il confronto avesse luogo alle stesse porte di Bailén poté essere decisivo per la vittoria spagnola: la popolazione locale appoggiò in tutto quanto poté le sue truppe; l'aiuto più importante fu senza dubbio la somministrazione di acqua per i soldati, in un giorno che i cronisti segnalano come "specialmente caldo" — in una regione che già di per sé registrava elevate temperature in quell'epoca. La fornitura d'acqua non fu meno importante per i pezzi dell'eccellente artiglieria spagnola, che non smisero di compiere la loro missione contro le truppe francesi; nel campo avverso, invece, l'efficacia dell'artiglieria fu sostanzialmente ridotta per l'eccessivo riscaldamento dei cannoni. Dopo vari episodi di lotta molto virulenta, in condizioni climatiche asfissianti, il generale Dupont fu sconfitto dalle truppe del Castaños prima che l'esercito del generale francese Vedel, che ritornava da La Carolina avendo indovinato le intenzioni di Castaños, potesse unirsi a Dupont. Alla fine della battaglia, circa 17.600 soldati francesi deposero le armi. Le condizioni di resa furono gravi ed includevano la condizione che le truppe francesi fossero rimpatriate in Francia, tuttavia queste condizioni non furono mai rispettate: benché Dupont ed i suoi ufficiali fossero stati liberati e trasportati in Francia, i loro uomini furono deportati nella desolata isola di Cabrera ed alla fine della guerra non più della metà erano ancora vivi.

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Prima grande sconfitta dei francesi. Bailen

La notizia della sconfitta di Bailén risuonò in tutt’Europa; era la peggiore sconfitta subita dalla Francia in terraferma dal 1793. Napoleone ovviamente era furibondo. Sottopose Dupont alla corte marziale, lo imprigionò per due anni a Fort de Joux e lo privò del suo titolo nobiliare (era stato conte dell’impero), dicendo in seguito: «Avremmo dovuto scegliere alcuni dei generali che hanno prestato servizio in Spagna e mandarli al patibolo. Dupont ci ha fatto perdere la penisola iberica per assicurarsi il bottino». Anche se è vero che l’esercito di Dupont fu sconfitto dopo il saccheggio di Cordoba, pochi generali francesi sarebbero riusciti a sfuggire alla trappola preparata da Castaños.
«Sembrava fare tutto benissimo alla testa di una divisione», scrisse Napoleone a Clarke a proposito di Dupont, «ma come comandante è stato un disastro». Si trattava di un problema che si ripresentava spessissimo con i suoi subordinati, al punto che la colpa è stata imputata allo stesso Napoleone, poiché la sua abitudine di controllare tutto finiva per soffocare lo spirito d’iniziativa. Talvolta si rimproverava del fatto che la maggior parte dei suoi luogotenenti, e persino dei marescialli, sembrava dare il meglio soltanto quando era presente lui. Ma, a parte l’ordine di recarsi in Andalusia, Dupont non era stato sommerso di direttive. «In guerra gli uomini non sono niente, ma un uomo è tutto», scrisse Napoleone a Giuseppe il 30 agosto. Queste parole, a lungo interpretate come un’egoistica espressione di durezza e insensibilità nei confronti delle proprie truppe, in realtà facevano riferimento a Dupont, in una lettera piena di autocritiche: «Fino a ora dovevamo cercarne esempi soltanto nella storia dei nostri nemici; purtroppo, oggi ne abbiamo uno in mezzo a noi». Ben lungi dall’essere una lode al proprio genio, era piuttosto l’ammissione che un comandante incapace poteva provocare un disastro.

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