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Platone le LEGGI. Legislazioni e costituzioni


Dopo aver commentato di PLATONE il Timeo, il Simposio, lo Ione, il Critone, l'Apologia di Socrate, il Fedone, l'Eutifrone, il Carmide, il Lachete, il Liside, l'Alcibiade Maggiore, l'Alcibiade minore, l'Ipparco, gli Amanti, il Teage, l'Eutidemo, il Protagora, il Gorgia, il Cratilo, il Menone, l'Ippia Maggiore, l'Ippia minore, il Menesseno, il Clitofonte, il primo libro della Repubblica, il Crizia, il Teeteto, il Sofista, il Politico, il Parmenide, il Filebo, il Fedro, il Minosse, mi dedico ora a Le leggi.

Il grammatico Trasillo, nel I secolo d.C., seguendo un'affinità di argomento, ordinò le opere platoniche in gruppi di quattro:

1. Eutifrone, Apologia di Socrate, Critone, Fedone
2. Cratilo, Teeteto, Sofista, Politico
3. Parmenide, Filebo, Simposio, Fedro
4. Alcibiade primo, Alcibiade secondo, Ipparco, Amanti
5. Teage, Carmide, Lachete, Liside
6. Eutidemo, Protagora, Gorgia, Menone
7. I ppia maggiore, Ippia minore, Ione, Menesseno
8. Clitofonte, La Repubblica, Timeo, Crizia
9. Minosse, Leggi, Epinomide, Lettere
Altre opere spurie sono:
Definizioni, Sulla giustizia, Sulla virtù, Demodoco, Sisifo, Erissia, Assioco, Alcione, Epigrammi.

PREMESSA A LE LEGGI

Le Leggi furono scritte alcuni anni prima che la morte cogliesse il grande filosofo ateniese e costituiscono la fase finale della sua lunga riflessione politica sullo stato. E' impossibile riassumere il dibattito che la critica, sin dall'antichita, ha sviluppato intorno al problema della cronologia e dell'autenticità dell'opera, sicché in questa sede ci limiteremo ad alcune considerazioni di carattere generale.
Innanzitutto la data del 353 a.C., anno in cui avvenne verosimilmente la vittoria dei Siracusani sui Locresi ricordata nel libro 1, appare come il termine di riferimento cronologico più sicuro per datare la composizione del dialogo. In secondo luogo, un'attenta analisi dell'opera ha messo in luce alcune imperfezioni stilistiche (frequenti ripetizioni e omissioni, ad esempio) che hanno fatto pensare a un'opera non pienamente compiuta, ma forse ancora in fase di elaborazione e in attesa di revisione.
Si può allora concludere che dopo la morte del filosofo, avvenuta presumibilmente nel 348 a.C. - e quindi qualche anno dopo la composizione delle Leggi -, spettò al segretario del maestro, Filippo di Opunte, provvedere a una sistemazione, peraltro sommaria, dell'opera, nonché all'attuale divisione in dodici libri.
Le Leggi dunque, come si è appena detto, rappresentano la fase finale del pensiero politico di Platone ma è stato anche osservato che, prima ancora che indagine filosofica pura, possono essere quasi considerate come una specie di trattato storico sulla legislazione ateniese, spartana, e cretese del tempo.
Ed è forse proprio in questa storicità delle Leggi che si scorge un elemento di rottura rispetto ai dialoghi precedenti che avevano affrontato il problema, dello stato e delle costituzioni: nella Repubblica, ad esempio, si dovevano creare le fondamenta di uno stato che sarebbe peraltro esistito soltanto su di un piano ideale, razionale (dove la ricerca della Giustizia e le speculazioni sul Sommo Bene coincidevano con le fondamenta dello stato ideale), mentre l'intento delle Leggi è quello di tradurre nella realtà storica, mediante l'attività del legislatore e il suo sforzo normativo, lo stato ideale delineato in precedenza.
Si spiegano così l'analisi e la critica nei confronti delle legislazioni e delle costituzioni spartane e cretesi, le riflessioni storico-politiche sui fallimenti dell'impero persiano (determinato da un eccesso di dispotismo) e su quelli dello stato ateniese (determinati da un eccesso di libertà), il confronto, rigoroso e serrato, con il diritto positivo dell'epoca. Platone dichiara apertamente l'intento "pratico" del dialogo al termine del libro terzo, ricorrendo a un semplice espediente: Clinia, uno dei personaggi del dialogo, è stato incaricato dalla città di Cnosso di emanare quelle leggi che ritiene migliori per una colonia che i Cretesi hanno intenzione di fondare, ragion per cui rivolge un appello ai suoi due interlocutori, ovvero quello di fondare "con la parola", il nuovo stato. In altri termini, la riflessione puramente teorica sulle leggi dovrà ogni volta adattarsi alle esigenze pratiche della nuova colonia cretese.
I primi tre libri costituiscono dunque una lunga introduzione al vero e proprio trattato sulle leggi: il libro 1 si apre con la splendida descrizione della campagna cretese nelle prime ore del mattino di una calda giornata estiva. Tre vecchi prendono parte al dialogo: l'Ateniese, identificato sin dall'antichità con Platone stesso, il cretese Clinia e lo spartano Megillo.
L'Ateniese propone ai suoi compagni di discutere di costituzioni e di leggi lungo la strada che da Cnosso conduce all'antro di Zeus: essi incontreranno molti ed alti alberi che con la loro frescura permetteranno loro di sfuggire alla canicola estiva.
La discussione entra subito nel vivo: il cretese Clinia, dopo aver constatato che a Creta le consuetudini (l'uso dei pasti in comune, ad esempio) e la legislazione si ispirano alla guerra, a causa della conformazione geografica del luogo che è aspra ed accidentata, sostiene che il legislatore dovrebbe legiferare soltanto in vista della guerra, dal momento che la condizione umana si trova in uno stato di guerra permanente.
Ma l'Ateniese non è d'accordo con le posizioni del cretese: la guerra rappresenta senz'altro un evento necessario nel complesso delle relazioni umane, ma non costituisce certamente la norma, e dunque il legislatore non deve legiferare solo in vista della guerra, ma anche in vista della pace, realizzando le virtù della giustizia, della saggezza, e dell'intelligenza. Di qui sorge la critica verso l'eccessiva severità delle legislazioni spartane e cretesi: esse non sono solo carenti perché legiferano unicamente in vista del coraggio che si manifesta in guerra, ma si caratterizzano anche per la loro eccessiva severità di costumi.
L'Ateniese dimostra ad esempio che il divieto di bere vino imposto dalla legislazione spartana non ha un fondamento logico: se la consuetudine del bere vino viene regolata all'interno dei simposi, così come accade ad Atene, essa non è affatto da respingere, ma, anzi, si rivela utile ai fini dell'educazione, in quanto, rendendo temporaneamente impudenti, contribuisce in seguito a contrastare l'impudenza stessa e ad acquistare di conseguenza la virtù del pudore.
Il libro 2 affronta il tema dell'educazione che verrà ripreso nel 7. L'educazione si raggiunge attraverso i cori, le danze, e la musica che ad essi è connessa. A questo proposito l'Ateniese avverte che le belle danze, i bei cori, e l'arte in genere non possono essere sottoposti al giudizio dei poeti perché fondano la loro arte sulla mimesi, e quindi il loro giudizio non sarebbe attendibile: l'arte infatti non dev'essere giudicata soltanto in base al piacere che essa procura, ma anche in base ai fini educativi che è in grado di realizzare. Tenendo conto di questi princìpi, il legislatore ordinerà tre tipi di cori, ovvero quello dei fanciulli, quello dei giovani sino ai trent'anni, ed infine quello degli uomini fra i trenta e i sessant'anni. Il terzo coro è quello dei cantori che cantano in onore di Dioniso: seguono così alcune pagine in cui Platone si abbandona ad una appassionata difesa del dionisismo, affermando che i cori di Dioniso, se sono guidati da persone sobrie, si rivelano vantaggiosi per l'educazione e per lo stato in generale.
Nel libro 3 si affronta la questione riguardante l'origine dello stato in una chiave che potremo definire storica: Platone ripercorre la storia del genere umano tornando ai suoi albori, quando un diluvio universale ciclicamente annientava uomini e cose. Ogni volta si salvavano soltanto quegli uomini che abitavano i luoghi più alti, i quali però, come in una sorta di età dell'oro, non avevano bisogno né di leggi né di legislatori, perché vivevano nella concordia reciproca.
In un secondo momento le famiglie scesero nelle pianure e presero a radunarsi: si innalzarono mura di siepi per delimitare e separare una proprietà dall'altra e vennero fondati i primi organismi politici. Seguì la fase delle costituzioni delle città che coincise con la fondazione e la distruzione di Troia. Dopo di che si apre una prima parentesi sull'analisi dei fallimenti delle esperienze politiche di Argo e di Micene: l'ignoranza degli affari umani e l'assenza di un potere moderato hanno causato la rovina di quegli stati.
Nel corso della seconda digressione storica si prendono invece in esame i mali della costituzione persiana e di quella ateniese: quando i Persiani raggiunsero, sotto Ciro, il giusto mezzo fra servitù e libertà, lo stato prosperava e dominava sugli altri popoli, ma in seguito una malvagia educazione, unita all'accentuato dispotismo di sovrani come Cambise, segnò il definitivo declino della potenza persiana; quanto alla costituzione ateniese, i poeti ingenerarono con le loro opere una temeraria trasgressione nel campo artistico che ben presto si estese ad ogni altro aspetto dello stato determinando la nascita dell'illegalità e della licenza. Conclusa dunque la lunga introduzione delle Leggi, si gettano le basi della costituzione del nuovo stato che verrà discussa dal libro 4 all'8.
Il libro 4 si apre con l'elenco dei requisiti che la geografia del nuovo stato deve possedere: oltre alla capitale situata nell'interno, esso deve avere abbondanza di porti, benché convenga in ogni caso limitare il più possibile i rapporti commerciali con gli altri stati, dato che il commercio rende infidi i cittadini e la gran quantità d'oro e d'argento corrompe i loro animi. Per quanto riguarda la scelta della costituzione, le varie forme di costituzioni storicamente esistenti (democrazia, oligarchia, aristocrazia, monarchia) presentano aspetti positivi e negativi che difficilmente si combinano in una costituzione ideale. Ci si deve dunque appellare alla divinità che indicherà i criteri di giustizia che si devono seguire nella realizzazione dello stato e delle leggi. Le ultime pagine del libro 4 sono infine dedicate all'esposizione del metodo con cui verranno redatte le leggi: in primo luogo esse non devono apparire soltanto minacciose, ma anche persuasive, e in secondo luogo occorre fornire ogni legge di un proemio che introduce alla legge vera e propria.
All'inizio del libro 5 troviamo ancora un proemio dal carattere squisitamente etico: dopo gli dèi si deve onorare l'anima, e dopo l'anima il corpo. L'uomo virtuoso deve conformarsi alla temperanza, all'intelligenza, e al coraggio, e deve combattere contro gli egoismi e gli eccessi delle gioie e dei dolori. Si entra quindi nel vivo della costituzione del nuovo stato: si fissano le norme relative alla distribuzione delle terre e il numero dei 5.040 cittadini che parteciperanno di diritto a questa distribuzione. I cittadini vengono divisi in quattro classi censuarie e tutta la popolazione dello stato viene ripartita in dodici tribù.
La materia trattata nel libro 6 è meramente tecnica e riguarda la nomina e l'istituzione dei magistrati. Innanzitutto vengono istituiti i custodi delle leggi che rivestono un'importanza fondamentale all'interno del nuovo stato. Quindi si procede all'elezione degli strateghi, dei tassiarchi, dei filarchi, e dei pritani. Seguono le magistrature degli astinomi (per gli affari interni alla città), degli agoranomi (per quel che accade sull'agorà), dei sacerdoti, ed infine degli agronomi (per la custodia e la sorveglianza delle campagne). Assai importanti sono i due ministri dell'educazione, uno per la musica ed un altro per la ginnastica.
Ed è proprio il libro 7 che riprende e sviluppa il tema dell'educazione di cui s'era fatto un rapido cenno nel libro 2: si affrontano i problemi relativi alla prima infanzia, e quindi quelli dei bambini dai tre ai sei anni. Dodici donne, una per tribù, si occuperanno dell'educazione. Ma l'educazione si ottiene anche grazie alla ginnastica per il corpo e alla musica per l'anima. La questione si sposta quindi sul problema dell'istruzione e della scuola: essa dev'essere obbligatoria tanto per le donne quanto per gli uomini, e a scuola si devono studiare le lettere e i componimenti dei poeti. Fra le altre discipline che si devono apprendere vi sono la matematica, la geometria, e l'astronomia.
Con il libro 8 ci avviamo ormai verso la parte finale delle Leggi. Gettate le fondamenta del nuovo stato bisogna ora dotarlo di un vero e proprio codice di leggi che siano in grado di rispondere alle esigenze più diverse che sorgono in uno stato. Si stabiliscono innanzitutto le festività del nuovo stato, e le varie esercitazioni che si devono compiere in tempo di pace e di guerra. Vi sono poi alcune pagine interessanti sulle norme che regolano i costumi sessuali dei cittadini in cui Platone condanna esplicitamente l'omosessualità, pratica assai diffusa nel suo tempo, e fissa una legge che regola i rapporti eterosessuali e l'astinenza. L'ultima parte del libro 8 passa in rassegna i problemi legati all'agricoltura e alle attività degli artigiani.
Nel libro 9, dopo l'esame dei casi di spoliazione dei beni, si apre un'interessante digressione sull'origine del male che si genera all'interno di una società umana: viene ribadito in questo caso il vecchio principio socratico secondo il quale nessuno compie il male volontariamente, ma per ignoranza del bene. Ed è proprio l'ignoranza del bene, insieme all'ira e al piacere, che determina i crimini peggiori in uno stato. Si passano allora in rassegna le varie specie di omicidi - essi possono essere commessi volontariamente ed involontariamente, e i moventi possono essere l'ira, o la passione, o ancora la legittima difesa -, e analogamente i casi di ferimenti e di violenze.
Il libro 10 è una lunga riflessione filosofica sull'ateismo che interrompe la dettagliata esposizione del codice di leggi: Platone condanna fermamente l'ateismo e confuta le tesi di chi sostiene che gli dèi non esistono, o esistono ma non si prendono cura degli affari umani, o, ancora, crede che essi si possano corrompere con doni votivi. A questo proposito non soltanto si può adeguatamente dimostrare l'esistenza degli dèi attraverso l'esistenza dell'anima, ma si può anche affermare l'esistenza della provvidenza divina. Seguono le pene relative ai reati commessi per empietà e per ateismo.
Nel libro 11 riprende l'esposizione delle leggi, in gran parte dedicata alle norme relative ai contratti che i cittadini stipulano fra loro. La materia è assai vasta e complessa e spazia dalla normativa riguardante gli schiavi e i liberti a quella che regola il commercio degli artigiani, dalla spinosa questione dei testamenti al divorzio dei coniugi, per citare soltanto i casi più significativi.
L'esposizione del codice delle leggi prosegue ancora in tutta la prima parte del libro 12, e fra queste leggi possiamo ricordare, a titolo di esempio, la diserzione dei soldati, l'istituzione dei magistrati inquisitori, le leggi sul giuramento, le normative sulle mallevadorie. Il dialogo giunge così alle sue battute finali. Nelle ultime pagine Platone, per bocca dell'Ateniese, avverte l'esigenza di ribadire il fine cui mira tutto il corpo delle leggi oggetto della lunga esposizione, vale a dire quello di realizzare il complesso delle virtù nello stato. Un'intelligenza superiore a tutte le altre istituzioni dello stato dovrà quindi essere in grado di cogliere la ragion d'essere di ogni legge, e come la testa è a capo del corpo, così un consiglio n otturno, supremo organo politico composto dai dieci più anziani custodi delle leggi - custodi-filosofi, dunque, che hanno appreso l'arte della politica attraverso la dialettica - dovrà sorvegliare e presiedere le leggi e la costituzione del nuovo stato. ENRICO PEGONE

LIBRO TERZO
ATENIESE: Così stanno allora queste cose. E quale diciamo che sia stata l'origine delle costituzioni politiche? Non è forse da questa parte che la si potrebbe scorgere più facilmente e nel modo migliore? CLINIA: Da quale? ATENIESE: Da quella parte donde è possibile ogni volta osservare il progredire e il mutarsi degli stati verso la virtù o il vizio. CLINIA: Da quale parte intendi dire? ATENIESE: Credo che bisognerebbe porsi dalla parte della sconfinata lunghezza del tempo e dai mutamenti che in tale lasso di tempo avvennero. CLINIA: Che cosa vuoi dire? ATENIESE: Coraggio: da quando esistono gli stati e gli uomini che sono governati dalle costituzioni, credi di poter calcolare quanto tempo è trascorso? CLINIA: Non è affatto facile. ATENIESE: Sarà dunque immenso e incalcolabile? CLINIA: Questo senz'altro. ATENIESE: In tutto questo tempo non furono mille e più di mille gli stati che vennero alla luce, e in numero non inferiore, anzi, secondo la stessa proporzione, quelli che vennero distrutti? E non sono stati dovunque amministrati da ogni sorta di costituzione? E ora da piccoli sono diventati grandi, e da grandi sono diventati piccoli? E da migliori che erano sono diventati peggiori, e da peggiori migliori? CLINIA: Necessario. ATENIESE: Cerchiamo di capire la causa di questi mutamenti, se possiamo: forse, infatti, essa potrebbe mostrarci la prima origine delle costituzioni e il loro cambiamento. CUNIA: Dici bene, e allora bisogna che ci disponiamo in modo che tu mostri ciò che pensi riguardo a quelle, e noi ti seguiamo. ATENIESE: Vi sembra dunque che le antiche leggende contengano una certa verità? CLINIA: Quali leggende? ATENIESE: Quelle riguardanti i frequenti stermini degli uomini dovuti ad inondazioni, a malattie, e a molti altri eventi ancora, nel corso dei quali una piccola parte del genere umano riuscì a scampare. CLINIA: Chiunque potrà prestare fede a queste credenze. ATENIESE: Coraggio, prendiamo in considerazione una delle molte distruzioni, quella ad esempio che un tempo avvenne a causa del diluvio. CLINIA: E quale considerazione dobbiamo fare riguardo ad essa? ATENIESE: Dobbiamo pensare che coloro che allora scamparono a quella distruzione dovevano essere pastori delle montagne, ultime e piccole scintille del genere umano che si sono salvati stando sui luoghi più alti. CLINIA: è chiaro. ATENIESE: è inevitabile che costoro non avessero esperienza di ogni altra arte, e di quei mezzi che nelle città gli uomini escogitano gli uni contro gli altri, e che sono volti al guadagno e all'ambizione, e di tutte quante le altre malvagità che essi intendono arrecarsi l'un l'altro. CLINIA: è vero. ATENIESE: Non dobbiamo supporre che le città edificate in pianura e presso il mare venissero in quel tempo rase al suolo? CLINIA: Dobbiamo supporlo. ATENIESE: Non diremo che in quell'occasione vennero distrutti tutti gli strumenti, e se qualcosa che riguardi l'arte o la politica o qualsiasi altra forma di sapienza, era stato diligentemente scoperto andò tutto quanto in rovina? Come, carissimo, si sarebbe potuto scoprire qualcosa di nuovo, se tali cose fossero rimaste per tutto il tempo nella condizione in cui sono disposte ora? CLINIA: Questo significa che tali conoscenze rimasero celate agli uomini di allora innumerevoli volte e per migliaia di anni, e sono mille o duemila anni che sono sorte, ed alcune si mostrarono a Dedalo, altre ad Orfeo, altre ancora a Palamede, e quelle riguardanti la musica a Marsia e ad Olimpo, quelle concernenti la lira ad Anfione, e ad altri tutte le altre, le quali sono sorte, per così dire, ieri o l'altro ieri. ATENIESE: Benissimo, Clinia, dato che hai tralasciato il tuo amico che è senza dubbio nato ieri. CLINIA: Alludi forse ad Epimenide? ATENIESE: Sì, proprio a lui: secondo voi egli superò di gran lunga tutti gli altri per quello che inventò, amico, e ciò che Esiodo con la parola aveva anticamente predetto nei fatti quello lo realizzò, come voi dite. CLINIA: Sì, lo diciamo. ATENIESE: Possiamo allora dire che questa era la condizione umana quando avvenne quella distruzione: un'immensa e paurosa solitudine, la maggior parte della terra abbandonata, scomparsi tutti gli altri animali, e sopravvissuti soltanto pochi armenti e qualche capra, e, in ogni caso, anche questi troppo scarsi perché i pastori potessero vivere in quei tempi. ATENIESE: Ma dello stato, della costituzione, della legislazione, di ciò che ci ha fornito l'occasione per il discorso attuale, riteniamo, per così dire, che sia rimasto almeno il ricordo? CLINIA: Nient'affatto. ATENIESE: Dunque da ciò che si trovava in tale condizione non deriva tutto quanto è in nostro possesso: stati, costituzioni, arti, leggi, molti vizi e molte virtù? CLINIA: Come dici? ATENIESE: Crediamo forse, carissimo, che gli uomini di allora, che non avevano esperienza dei molti beni che vi sono nella città e del loro contrario, avessero realizzato la virtù e il vizio? CLINIA: Dici bene, e capiamo quello che vuoi dire. ATENIESE: Dunque con il passare del tempo e con il moltiplicarsi della nostra stirpe, tutto è progredito sino a giungere così com'è ora? CLINIA: Giustissimo. ATENIESE: Non all'improvviso, a quanto pare, ma gradualmente, in un ampio lasso di tempo. CLINIA: Ed è assai conveniente che sia così. ATENIESE: In tutti, io credo, era ancora recente la paura che impediva di scendere dai luoghi alti al piano. CLINIA: E come no? ATENIESE: E non erano lieti di vedersi in quel tempo, per il fatto di essere un esiguo numero? E i mezzi di trasporto con cui allora per terra e per mare si recavano gli uni dagli altri non erano stati tutti pressoché distrutti, per così dire, insieme alle arti? Credo allora che non fosse possibile che essi si mescolassero fra di loro: erano infatti scomparsi il ferro, il bronzo, e tutti i metalli mescolati insieme, sicché la difficoltà di estrarli e di purificarli era assoluta, e vi era scarsità di provviste di legno. E se sui monti era rimasto qualche strumento, consumandosi rapidamente era scomparso, e non era possibile realizzarne un altro, prima che giungesse nuovamente agli uomini l'arte dei metalli. CLINIA: E come no? ATENIESE: Dopo quante generazioni pensiamo che questo sia avvenuto? CLINIA: Dopo moltissime, è chiaro. ATENIESE: E dunque anche tutte quelle arti che avevano bisogno del ferro, del bronzo, e di tutti i metalli non scomparvero per lo stesso lasso di tempo, e anche più a lungo, in quel periodo? CLINIA: E allora? ATENIESE: E allora sedizioni e guerre in quel tempo erano scomparse. CLINIA: Come? ATENIESE: Prima di tutto quegli uomini si amavano e usavano benevolenza gli uni verso gli altri a causa della loro solitudine, in secondo luogo il nutrirsi non rappresentava per loro motivo di contesa. I pascoli non mancavano, se non in principio per alcuni, e soprattutto dei pascoli in quel tempo vivevano: non mancavano affatto né latte né carne, e inoltre andando a caccia si procuravano un non vile né scarso nutrimento. Ed erano forniti di vestiti, di coperte, di case, e di vasi da mettere sul fuoco e da usare in altro modo: le arti plastiche e tessili, infatti, non hanno affatto bisogno del ferro, e un dio le donò perché procurassero agli uomini tutto ciò che si è appena detto, e perché quando il genere umano venisse a trovarsi in simili difficoltà avesse come un germoglio per potersi sviluppare. Essi non erano del tutto poveri, e la povertà non li costringeva ad essere ostili fra loro: ma non erano neppure ricchi, poiché non possedevano né oro né argento, e questa era in quel tempo la loro condizione. E quando in una comunità non convivono né ricchezza né povertà, nascono in essa i più nobili costumi: e non vi possono essere né violenza, né ingiustizia, né invidie, né gelosie. Per queste ragioni erano buoni e per quella che viene definita semplicità: se ascoltavano qualcosa di bello o di brutto, ritenevano, nella loro semplicità, che ciò che era stato detto fosse verissimo e vi prestavano fede. Nessuno sapeva sospettare il falso abilmente come ora, ma tenendo per vero ciò che si raccontava degli dèi e degli uomini vivevano in questo modo: perciò erano tali quali noi ora li abbiamo descritti. CLINIA: Siamo d'accordo su queste cose, costui ed io. ATENIESE: Non dobbiamo allora dire che molte sono state le generazioni vissute in questo modo, ed erano meno progrediti di quelli che vissero prima del diluvio e di quelli che vivono adesso, e più ignoranti rispetto alle altre arti che sarebbero comparse, e alle arti della guerra, sia quelle che ora si praticano per terra e per mare, sia anche quelle che si esercitano solo nelle città e che prendono il nome di processi e sedizioni, dove si escogitano tutti gli espedienti, con le parole e con i fatti, per farsi vicendevolmente del male e per compiere ingiustizie? Non possiamo dire anche che quegli uomini di allora erano d'animo più semplice, e più valorosi, e più saggi, e sotto ogni aspetto più giusti? La ragione di queste cose l'abbiamo già detta. CLINIA: Dici bene. ATENIESE: Tutto questo sia da noi detto, e quanto seguirà ancora si dica per questa ragione, e cioè per capire quale bisogno delle leggi avevano quegli uomini di allora, e qual era il loro legislatore. CLINIA: Hai detto bene. ATENIESE: E dunque non è forse vero che quelli non avevano bisogno di legislatori, e nulla di simile è solito sorgere in quei tempi? Coloro che vivono in questo periodo di tempo non possiedono la scrittura, ma vivono seguendo i costumi e le leggi che si dice che siano dei padri. CLINIA: è verosimile. ATENIESE: E questa è già una forma di costituzione politica. CLINIA: Quale? ATENIESE: Mi sembra che tutti chiamano signoria la costituzione politica di quel tempo e che ancora adesso viene attuata in molti luoghi, e presso i Greci e presso i barbari. Omero sostiene che essa si ritrova nel governo dei Ciclopi, quando afferma: «Essi non hanno assemblee che danno consiglio né leggi, ma vivono sulle cime di altissimi monti in profonde caverne, e ciascuno stabilisce leggi sui figli e sulle donne, e non si occupano l'uno dell'altro». CLINIA: Mi pare che questo vostro poeta sia davvero elegante. E noi abbiamo letto altri suoi passi di grande acutezza, anche se non molti, per la verità: noi Cretesi, infatti, non coltiviamo molto la poesia straniera. MEGILLO: Noi invece la leggiamo, e ci sembra che Omero domini i poeti del suo genere, anche se ogni volta descrive la vita ionica più di quella della Laconia. Ora però mi pare che renda una valida testimonianza a sostegno del tuo discorso, avendo imputato, mediante il mito, alla feroce natura selvaggia i loro antichi modi di vita. ATENIESE: Sì. Rende questa testimonianza, ed anzi, possiamo ritenerlo come una fonte che ci indica che tali costituzioni sono in quel tempo esistite. CLINIA: Bene. ATENIESE: E queste costituzioni non nascono forse da questi uomini dispersi in famiglie e stirpi da una terribile situazione causata dalle distruzioni, costituzioni in cui i più vecchi hanno il potere, il quale è loro derivato dal padre e dalla madre, e gli altri, seguendoli come fanno gli uccelli formano un solo gregge, e sono retti dalle leggi paterne e governati dal governo più giusto di tutti i governi? CLINIA: Certamente. ATENIESE: Dopo di che si riuniscono in comunità più numerose, formando organismi politici più grandi, e si rivolgono dapprima alla coltivazione dei campi che si trovano ai piedi del monte, e costruiscono intorno dei muri di cinta, come di siepe, per proteggersi dalle fiere, realizzando una sola grande dimora comune. CLINIA: è verosimile che le cose stiano in questi termini. ATENIESE: Ebbene? E questa cosa non è verosimile? CLINIA: Che cosa? ATENIESE: Che questi organismi familiari più grandi si svilupparono grazie a quei primi e più piccoli organismi, e ciascuno dei più piccoli era presente con la propria stirpe, avendo come sua guida il più anziano e portando con sé alcune proprie usanze, per il fatto di essere vissuti separati gli uni dagli altri; e avendo avuto antenati ed educatori diversi fra loro, diversi erano stati anche i rapporti che avevano instaurato con gli dèi e fra di loro, più disciplinati quelli di coloro che discendevano da antenati più disciplinati, più virili quello dei progenitori più virili. E in questo modo, ciascun organismo formò i figli e i figli dei figli secondo le proprie concezioni, e, come dicevamo, entrarono a far parte della comunità più grande con le proprie norme particolari. CLINIA: E come no? ATENIESE: Ed è inevitabile che a ciascuno sono più gradite le proprie norme e si preferiscono a quelle degli altri. CLINIA: è così. ATENIESE: A quanto pare senza accorgercene siamo giunti all'origine della legislazione. CLINIA: Certamente. ATENIESE: Dopo di che è allora necessario che tutti costoro che si sono riuniti in una comunità scelgano alcuni di loro, i quali, esaminate le norme di ciascun gruppo, mostrino con chiarezza ai capi e ai condottieri dei popoli come si farebbe coi re, quelle norme che secondo loro sono le più adatte, per quanto riguarda il comune interesse, e le affidino loro perché siano discusse. E quelli verranno chiamati legislatori, e stabiliranno dei magistrati, e dalle signorie formeranno l'aristocrazia o anche una monarchia, e governeranno nel corso di questo cambiamento della costituzione. CLINIA: Le cose non possono che succedersi in tale sequenza. ATENIESE: Diciamo che la terza forma di costituzione politica è quella in cui si incontrano ogni specie di costituzioni e di stati, e i loro peculiari comportamenti. CLINIA: Qual è questa forma? ATENIESE: Quella che segue la seconda, e che Omero ha contrassegnato, affermando che la terza era così. Ed egli disse: «Fondò Dardania, ché la sacra Ilio non ancora in pianura era stata edificata, città di uomini mortali, che ancora abitavano le falde dell'Ida dalle molte sorgenti». In questi versi e in quelli riguardanti i Ciclopi egli parla esprimendosi come un dio, seguendo la natura delle cose. Divina è infatti la stirpe dei poeti, cantando inni ispirati, ogni volta riesce a cogliere la verità di molti fatti con l'aiuto delle Grazie e delle Muse. CLINIA: Certamente. ATENIESE: Procediamo ancora innanzi in questo mito che ora si è presentato ai nostri occhi: forse potrebbe indicare qualcosa che ha a che fare con il nostro intento. O non dobbiamo fare così? CLINIA: Senza dubbio. ATENIESE: Ilio fu fondata, dicevamo, quando gli abitanti scesero dai monti in una grande e bella pianura, su di un colle non troppo alto, e ricco di molti fiumi che sorgevano dalle sommità dell'Ida. CLINIA: Così dicono. ATENIESE: Non pensiamo che ciò sia avvenuto molto tempo dopo il diluvio? CLINIA: E come non potrebbe essere avvenuto molto tempo dopo? ATENIESE: A quanto pare si trovava allora presso di loro un terribile oblio della distruzione di cui ora stiamo parlando, quando in tal modo fondarono la città collocandola vicino a molti fiumi che scorrevano dalle alture, fidandosi di luoghi non eccessivamente alti. CLINIA: è chiaro che un periodo di tempo assai lungo doveva separarli da quel fatto. ATENIESE: E molti altri stati, io credo, venivano ormai fondati, moltiplicandosi la popolazione umana. CLINIA: E allora? ATENIESE: E questi stati ad un certo punto mossero guerra contro Ilio, e forse per mare, poiché tutti ormai solcavano il mare senza paura. CLINIA: Può essere. ATENIESE: E rimasti là dieci anni, gli Achei distrussero Troia. CLINIA: Certamente. ATENIESE: Dunque in questo periodo di tempo, che durò appunto dieci anni, in cui Ilio venne assediata, accaddero molte sventure all'interno di ciascuno degli stati assedianti causate dalle rivolte dei giovani che non accolsero bene e neppure secondo giustizia i soldati che giungevano nei loro stati e nelle loro case, al punto che vi furono innumerevoli morti, uccisioni, e fughe: e i fuggitivi fecero ritorno cambiando nome, e si chiamarono Dori anziché Achei, poiché Doro raccolse quelli che allora erano fuggiti. E tutti questi miti che voi, Spartani, raccontate ed esponete in modo completo, hanno origine da questo punto. MEGILLO: Ebbene? ATENIESE: Ora siamo nuovamente ritornati, come per un intervento divino, a quel punto da cui in principio ci eravamo discostati, quando, discorrendo sulle leggi, ci siamo imbattuti nella musica e nell'uso smodato del vino. Ed è proprio il discorso che ci offre l'occasione di tornare al punto di partenza: infatti esso è giunto alla fondazione dello stato spartano, che voi avete detto che si trattò di una giusta fondazione, e a Creta, le cui leggi sono come sorelle. Ora grazie a questo divagare del discorso abbiamo tratto un certo guadagno, poiché abbiamo passato in rassegna alcune costituzioni politiche e fondazioni di stati: abbiamo visto una prima forma di stato, una seconda, e una terza che, come crediamo, vennero fondate l'una dopo l'altra nel corso di sconfinati spazi di tempo. In questo momento si impone alla nostra attenzione un quarto stato, o se volete un popolo, che un tempo fu fondato e ancora adesso si regola su quei princìpi. Se dunque da tutte queste cose possiamo capire che cos'è che fu bene o male regolato, e quali leggi conservano ciò che viene conservato e quali invece distruggono ciò che viene distrutto, e quali cambiamenti potrebbero rendere felice uno stato, o Megillo e Clinia, bisogna riprendere tutte queste cose dal principio, se non vi è nulla da obiettare nei discorsi che abbiamo fatto. MEGILLO: Se dunque, straniero, un dio ci promettesse che, ricominciando un'altra volta l'indagine sulla legislazione, noi ascolteremmo discorsi non peggiori né meno estesi di quelli che abbiamo fatto ora, io vorrei percorrere un lungo cammino, e il giorno presente mi parrebbe breve. Eppure si è vicini a quel periodo in cui il dio volge la stagione estiva in quella invernale. ATENIESE: Dobbiamo compiere, a quanto pare, questa indagine. MEGILLO: Senza dubbio. ATENIESE: Andiamo con il pensiero a quel tempo in cui Sparta, Argo, e Messene, e le loro terre erano passate nelle mani dei vostri antenati, Megillo: dopo questi fatti, parve loro opportuno, come dice il mito, dividere l'esercito in tre parti, e fondare tre stati, Argo, Messene, e Sparta. MEGILLO: Certamente. ATENIESE: E Temeno diventò re di Argo, di Messene Cresfonte, di Sparta Prode ed Euristene. MEGILLO: Come no? ATENIESE: E tutti in quel tempo giurarono di soccorrersi, se qualcuno fosse venuto a distruggere il loro regno. MEGILLO: Ebbene? ATENIESE: Si dissolve un regno, per Zeus, o si è mai dissolto un governo, per causa di altri piuttosto che per causa degli stessi governanti che lo detengono? O non è vero che proprio ora, imbattendoci poco fa in questi discorsi, abbiamo stabilito queste cose di cui forse ora ci siamo dimenticati? MEGILLO: E come sarebbe? ATENIESE: Dunque ora rafforzeremo ancora di più questo punto: essendoci imbattuti in eventi che sono realmente avvenuti, a quanto pare, siamo ritornati allo stesso discorso, sicché non faremo una ricerca su di un argomento inesistente, ma su ciò che avvenne e che si fondò sulla verità. Accaddero queste cose: le tre monarchie strinsero un giuramento con i tre stati loro sudditi, secondo le leggi comuni che essi avevano stabilito e che riguardavano il rapporto fra governanti e sudditi, gli uni impegnandosi a non rendere più violento il comando con il passare del tempo e delle generazioni, gli altri, sempre che i governanti mantenessero queste promesse, impegnandosi a non far cadere quel potere e a non permettere ad altri di farlo, e, inoltre, i re giurarono di venire in soccorso ai re e ai popoli vittime di soprusi, e i popoli a loro volta, di venire in aiuto ai re e ai popoli vittime di ingiustizie. O non è così? MEGILLO: Sì, è così. ATENIESE: Dunque questo non era forse l'elemento più importante nella formazione delle costituzioni politiche e nella legislazione di quei tre stati, sia che fossero i re a dare le leggi, sia che fossero altri ancora? MEGILLO: Quale elemento? ATENIESE: Il fatto che vi erano sempre due stati pronti ad accorrere in soccorso di quel terzo che disobbedisse alle leggi stabilite. MEGILLO: è chiaro. ATENIESE: E la maggioranza ordina ai legislatori di stabilire leggi tali che possano essere accolte di buon grado dai popoli e dalle masse, come se si ordinasse ai maestri di ginnastica o ai medici di curare e di guarire piacevolmente i corpi che sono oggetto di cure. MEGILLO: Senza dubbio. ATENIESE: Ma spesso ci si deve accontentare se i corpi possono riacquistare vigore e salute con un dolore non eccessivo. MEGILLO: Certo. ATENIESE: Anche questo non era un elemento di scarsa importanza per rendere più facile l'istituzione delle leggi. MEGILLO: Quale? ATENIESE: Il fatto che quei legislatori non erano oggetto di feroci critiche, cercando di fondare una certa uguaglianza dei beni; e queste critiche prendono corpo in molti altri stati che sono regolati da una costituzione, quando qualcuno cerca di riformare il possesso della terra e di annullare i debiti, considerando che senza queste riforme non si potrebbe conseguire adeguatamente l'uguaglianza. Allora ognuno si oppone al legislatore che tenta di promuovere queste riforme, dicendo di non muovere ciò che non si può muovere, e maledice contro chi introduce nuove divisioni della terra e la rescissione dei debiti, in modo che ogni legislatore si trova in grande difficoltà. Ma per i Dori anche questo andò bene e non suscitò critiche, e infatti si divisero la terra senza entrare in controversie, e i debiti non erano enormi o d'antica data. MEGILLO: Vero. ATENIESE: Perché allora, carissimi, finirono così male la loro costituzione e il complesso delle loro leggi? MEGILLO: Che cos'è che rimproveri e in che modo? ATENIESE: Il fatto che, essendoci tre stati, due di essi distrussero rapidamente la loro costituzione e le leggi, e l'unico che rimase fu proprio il vostro stato. MEGILLO: Non è certo facile quello che domandi. ATENIESE: Ma bisogna che indagando ed esaminando tale questione in questo momento, giocando al gioco delle leggi, un saggio divertimento proprio dei vecchi, percorriamo la strada senza affaticarci, come abbiamo detto quando abbiamo intrapreso il cammino. MEGILLO: Ebbene? Bisogna fare come dici. ATENIESE: E quale più bella indagine potremmo fare intorno alle leggi di questa che si occupa di quelle leggi che regolarono questi stati? Di quali stati più illustri e anche più grandi prenderemo in esame la fondazione? MEGILLO: Non è facile citarne altri che sostituiscano questi. ATENIESE: è chiaro che quegli uomini pensavano che una simile compagine di stati doveva garantire un'adeguata difesa non solo al Peloponneso ma anche a tutti i Greci, se qualche barbaro volesse recare offesa, così come allora quelli che abitavano ad Ilio, fidando nella potenza assira che era sorta con Nino, divennero insolenti e suscitarono la guerra di Troia. Non era infatti di poca importanza quel che si era conservato della struttura di quella potenza: come ora temiamo il Gran Re, anche in quel tempo si temeva quella compatta alleanza. La grande accusa nei loro confronti consisteva nella seconda presa di Troia, quando essa faceva parte del loro impero. Contro tutte queste forze venne allestito un esercito solo, diviso allora in tre parti come i tre stati, e comandato dai tre re fratelli, figli di Eracle, che, a quanto sembra, era ben studiato e ordinato, superiore a quello che si era recato a Troia. Prima di tutto si riteneva di avere negli Eraclidi condottieri migliori dei Pelopidi, in secondo luogo si pensava che quest'esercito superasse in virtù quello che si era recato a Troia: questi infatti erano vincitori, mentre quelli, gli Achei, erano stati vinti dai Dori. Non dobbiamo allora pensare che quelli si prepararono sulla base di una simile considerazione? MEGILLO: Certamente. ATENIESE: è dunque anche verosimile che essi ritenessero stabile questa loro potenza e capace di durare per molto tempo, ché avevano condiviso insieme molte fatiche e pericoli, governati com'erano da re fratelli di una sola stirpe, ed inoltre poiché avevano consultato molti indovini, e fra gli altri, anche Apollo di Delfo? MEGILLO: Come non potrebbe essere verosimile? ATENIESE: E questa potenza considerata così grande cadde, a quanto pare, in quel tempo e assai velocemente, fatta eccezione, come dicevamo, per quella piccola parte del vostro paese, e che fino ad ora non ha mai smesso di combattere contro le altre due parti: perché se quella armonia di intenti che allora si era realizzata fosse rimasta unita, avrebbe formato in guerra una potenza irresistibile. MEGILLO: Come no? ATENIESE: Come e perché si dissolse? Non è degno di attenzione indagare quale sorte abbia annientato un apparato così antico e così importante? MEGILLO: Sarebbe inutile guardare altrove, volendo trascurare queste cose, per vedere se vi sono altre leggi o costituzioni che siano in grado di conservare belle e grandi istituzioni, o, al contrario, di mandarle del tutto in rovina. ATENIESE: A questo punto mi pare che ci siamo fortunatamente messi sulla strada di una indagine adeguata. MEGILLO: Certamente. ATENIESE: Dunque, carissimo, anche noi ora non ci siamo forse sbagliati, come tutti gli uomini, ritenendo che, ogni volta che vediamo una nobile istituzione, realizzata in modo splendido, questo sia dovuto al fatto che qualcuno sappia servirsene bene e in modo appropriato, e che quindi noi adesso proprio su di essa non abbiamo pensato correttamente, né secondo quella che è la sua natura, e così tutti non riflettono correttamente su tutte le altre cose quando riflettono in questo modo? MEGILLO: A che cosa alludi? E a proposito di che cosa dobbiamo dire che tu hai fatto questo discorso. ATENIESE: Amico mio, ora ho preso in giro me stesso. Avendo infatti rivolto la mia attenzione a quell'esercito di cui abbiamo parlato, mi parve che fosse assai bello e capace di procurare splendide ricchezze ai Greci, se, come dicevo, qualcuno fosse stato allora capace di utilizzarlo bene. MEGILLO: Allora tu non hai parlato bene e in modo saggio di tutte queste cose e noi in modo non assennato ti abbiamo approvato? ATENIESE: Forse: e io rifletto sul fatto che chiunque, quando vede un qualcosa di grandioso e dotato di molta potenza e forza, prova immediatamente questa impressione, per cui se chi possiede questa cosa così importante sapesse servirsene, realizzerebbe molte imprese meravigliose e sarebbe felice. MEGILLO: E questo non è giusto? O come dici? ATENIESE: Considera qual è l'aspetto cui deve prestare attenzione chi elogia qualsiasi cosa, se vuole far questo in modo corretto: prima di tutto, riferendoci alla questione di cui stiamo adesso parlando, se quelli che allora ordinarono l'esercito avessero saputo disporlo in modo conveniente, avrebbero potuto in qualche modo sfruttare l'occasione? Non forse se lo avessero solidamente ordinato e lo avessero mantenuto tale per il tempo futuro, in modo da restare essi stessi liberi e di comandare tutte le altre genti che volessero, e di compiere, essi stessi e i loro discendenti, tutto ciò che volessero a tutti gli altri uomini, Greci e barbari che fossero? Non dovrebbero meritarsi lodi per questo? MEGILLO: Certamente. ATENIESE: E un tale che veda una grande ricchezza, e onori che rendono superiore una famiglia, e altre cose di questo genere, e dica le stesse parole di lode, non le dice pensando a questo, e cioè che con quei mezzi si potranno realizzare tutte le cose che si desiderano, e la maggior parte di esse e quelle più degne di considerazione? MEGILLO: Mi pare. ATENIESE: Coraggio, non vi è forse un desiderio comune a tutti gli uomini che ora è stato messo in evidenza da queste parole, così come lo stesso discorso afferma? MEGILLO: E qual è? ATENIESE: Il desiderio che le cose avvengano secondo quanto è stato predisposto dalla nostra anima, tutte quante se possibile, o, altrimenti, almeno quelle umane. MEGILLO: Certamente. ATENIESE: Se tutti vogliamo sempre una cosa del genere, da quando siamo giovani fino a quando siamo vecchi, non sarà inevitabile che proprio questo sia incessantemente l'oggetto delle nostre preghiere? MEGILLO: Come no? ATENIESE: E pregheremo insieme ai nostri cari perché le loro preghiere vengano esaudite. MEGILLO: Certamente. ATENIESE: E il figlio è caro al padre, egli che è un bambino all'uomo adulto. MEGILLO: Come no? ATENIESE: E di quelle cose che il figlio si augura che si avverino, molte il padre scongiurerà gli dèi perché non avvengano affatto secondo le preghiere del figlio. MEGILLO: Parli di un figlio che è ancora privo della ragione e che prega ancora da bambino? ATENIESE: E quando il padre, essendo vecchio o anche troppo giovane, e non avendo cognizione del bene e del giusto, prega con grande fervore trovandosi in condizioni simili a quelle in cui si trovava Teseo nei confronti di Ippolito che fece una misera fine, e il figlio invece abbia cognizione di queste cose, allora, tu credi, il figlio pregherà insieme al padre? MEGILLO: Capisco quello che stai dicendo. Mi sembra che tu voglia dire che non si deve pregare e desiderare che tutto segua il nostro volere, ma piuttosto che sia il nostro volere a seguire l'intelligenza: lo stato ed ognuno di noi deve pregare e sforzarsi in ogni modo di possedere dunque la mente. ATENIESE: Sì, e mi viene in mente che l'uomo politico che è legislatore deve sempre tenere presente questo principio quando stabilisce gli ordinamenti delle leggi; e ora vi ricordo, se non abbiamo dimenticato quanto abbiamo detto all'inizio, che secondo il vostro precetto era necessario che il buon legislatore disponesse tutto il complesso delle leggi in funzione della guerra, mentre io sostenevo che tale precetto indirizzava le leggi verso una sola virtù - ed esse sono quattro -, mentre bisognava tenerle tutte presente, e soprattutto, e per prima, quella che è guida di tutta la virtù, e cioè la prudenza, e l'intelletto e l'opinione, insieme all'amore e al desiderio che ad essi si accompagnano. Il discorso è così giunto di nuovo allo stesso punto, ed io che parlo ora dico di nuovo ciò che dicevo allora, per scherzo, se volete, o seriamente, e cioè che è pericoloso far voti se si è privi dell'intelletto, e che avviene il contrario di quel che si vuole. E se volete assicurarvi che io parlo seriamente, assicuratevi pure: prevedo sicuramente che voi ora scoprirete, seguendo quel ragionamento che poco fa abbiamo esposto, che la causa della rovina di quei re e di tutto quello che loro concepirono non fu la viltà né il fatto che i capi e quanti dovevano obbedire non conoscevano a fondo le cose della guerra, ma quei regni andarono in rovina a causa di tutti i loro vizi, e soprattutto per l'enorme ignoranza intorno alle questioni umane. E che queste cose sono avvenute in questo modo allora e anche adesso, se avvengono, e non altrimenti avverranno nel tempo futuro, se volete, cercherò di scoprirlo, procedendo nel discorso, e di mostrarlo, per quanto mi è possibile, a voi che siete amici. CLINIA: Straniero, lodarti a parole è cosa troppo molesta, e dunque lo faremo con i fatti: seguiremo volentieri le tue parole, ed è in questo caso che l'uomo libero manifesta assai bene ciò che approva e ciò che non approva. MEGILLO: Benissimo, Clinia, e facciamo come dici. CLINIA: Sarà così, se il dio lo vuole. Avanti, parla. ATENIESE: Diciamo dunque, procedendo lungo la strada che ancora ci resta da percorrere del nostro discorso, che la più grande ignoranza annientò allora quella potenza, e che ancora adesso determina questa stessa conseguenza, sicché il legislatore, se le cose stanno così, deve sforzarsi di ingenerare negli stati, secondo le sue possibilità, un'assennata prudenza, levando via, per quanto gli è possibile, la stoltezza. CLINIA: è chiaro. ATENIESE: Qual è quella che si deve giustamente definire la più grande ignoranza? Vedete se siete d'accordo anche voi con quello che dico: io propongo una definizione di questo genere. CLINIA: Quale? ATENIESE: Quella secondo cui un tale, ritenendo una cosa bella o buona, non la ama, ma la detesta, mentre predilige e brama ciò viene ritenuto malvagio ed ingiusto. Dunque io dico che questa dissonanza di piacere e dolore con l'opinione conforme alla ragione costituisce il caso più estremo di ignoranza, e il più grave, perché occupa la parte più ampia dell'anima: infatti il soffrire e il godere sono in essa come popolo e massa sono nello stato. E quando l'anima si oppone alla conoscenza, all'opinione, e alla ragione, che per natura sono preposte al comando, chiamo questo atteggiamento stoltezza, e la stessa cosa avviene in uno stato, quando la massa non obbedisce ai governanti e alle leggi, e, ancora, nel singolo individuo, quando i bei ragionamenti che si trovano nell'anima non fanno nulla di più che esserci, ma in realtà avviene tutto il contrario di quello che essi dicono: e tutte queste forme di ignoranza io le considero fra le più sconvenienti per lo stato e per i singoli cittadini, e non certo quella degli artigiani, se capite, stranieri, quello che voglio dire. CLINIA: Capiamo, amico, e siamo d'accordo con quello che dici. ATENIESE: Pertanto si stabilisca questo, proprio come è stato fissato e definito, e cioè che ai cittadini che vivono in una simile ignoranza non conviene affidare alcun potere, ma si devono rimproverare per il fatto di essere ignoranti, anche se siano in grado di ragionare assai bene e siano esercitati in ogni sorta di sottigliezza o in tutto ciò che per natura favorisce l'agilità dell'anima, mentre quelli che sono il contrario di questi bisogna chiamarli sapienti, anche se, per così dire, non sanno scrivere né nuotare, e si deve affidare loro il potere come a persone assennate. Come, amici, potrebbe esserci una forma anche minima di assennata prudenza senza l'armonia? Non è possibile, ma si può assai giustamente dire che la più bella e la più grande delle armonie sia la più grande sapienza, di cui è partecipe chi vive secondo ragione, mentre chi ne è privo distrugge la propria casa e non può affatto salvare lo stato, ma appare ogni volta tutto il contrario, essendo appunto ignorante. Tali cose siano dunque dette e stabilite così come si è detto un momento fa. CLINIA: Sia stabilito così. ATENIESE: è necessario che negli stati vi siano governanti e governati. CLINIA: Certamente. ATENIESE: Ebbene: quali e quanti sono i princìpi del governare e dell'esser governati nei grandi stati come in quelli piccoli e nelle famiglie? Non è forse vero che uno di essi riguarda il padre e la madre? E non è ovunque un giusto principio che i genitori debbano esercitare il comando assoluto sui figli? CLINIA: Senza dubbio. ATENIESE: A questo segue il principio per cui coloro che sono nobili per nascita comandano coloro che non sono nobili: e a questi due segue il terzo secondo cui i più vecchi devono comandare, e i più giovani devono essere comandati. CLINIA: Certamente. ATENIESE: Il quarto dice che gli schiavi devono esser comandati, e i padroni devono comandare. CLINIA: E come no? ATENIESE: Il quinto, io credo, che il più forte deve comandare, e il più debole deve essere comandato. CLINIA: è del tutto inevitabile questa forma di comando di cui tu parli. ATENIESE: Ed è quella che, per natura, si ritrova in più larga misura fra gli esseri viventi, come disse un giorno il tebano Pindaro. Ma il più importante, a quanto pare, dei princìpi è il sesto, che prescrive all'ignorante di seguire, e al saggio di guidare e di comandare. E questo, o sapientissimo Pindaro, non potrei dire che si verifichi contro natura, ma secondo natura, perché il comando della legge vale per chi lo accetta volontariamente, e non è per natura violento. CLINIA: Quello che dici è giustissimo. ATENIESE: Citando ancora una forma di comando caro agli dèi e fortunato, ci avviciniamo alla sorte, e diciamo che è assai giusto che comandi chi è stato scelto da lei, mentre colui al quale essa si è opposta si ritiri e obbedisca. CLINIA: Quello che dici è verissimo. ATENIESE: «Vedi, legislatore», potremmo dire per scherzo ad uno di quelli che si accingono a stabilire le leggi con troppa faciloneria, «quanti sono i princìpi che riguardano i governanti, e come per loro natura sono opposti fra di loro? Ora infatti noi abbiamo scoperto una fonte di sedizioni che tu devi curare. Per prima cosa considera con noi come e perché i re di Argo e di Messene, contravvenendo a questi princìpi, distrussero se stessi e insieme la potenza dei Greci, davvero mirabile in quel tempo. Non erano forse all'oscuro di quel giusto detto di Esiodo secondo il quale “la metà è più del tutto”? Quando prendere il tutto è dannoso, e la metà, invece, è segno di moderazione, allora Esiodo ritenne che il moderato è meglio di ciò che è eccessivo, essendo migliore del secondo che appunto è peggiore. CLINIA: Giustissimo. ATENIESE: Dobbiamo forse pensare che una corruzione del genere coinvolga ogni volta i re prima dei popoli? CLINIA: Naturalmente questo è un male che colpisce soprattutto i re che vivono nell'arroganza e nello sfarzo. ATENIESE: Non è dunque chiaro che i re di allora patirono dapprima questo male, quello cioè di andare oltre le leggi stabilite e di non essere coerenti con se stessi, riguardo a ciò che con le parole e i giuramenti avevano approvato, e che la mancanza di armonia che, come diciamo, è la forma più grave di ignoranza, prendendo le sembianze della sapienza, mandava in rovina tutte quelle cose, a causa della discordanza e di un'amara mancanza di armonia? CLINIA: Così pare. ATENIESE: Bene. E quali misure doveva allora adottare il legislatore per guardarsi dal sorgere di questo male? Per gli dèi, non ci vuole ora una grande saggezza per riconoscere questa cosa, e non è difficile da dirsi: ma se in quel tempo fosse stato possibile prevederlo, chi lo avrebbe previsto non sarebbe stato più sapiente di noi? MEGILLO: Che cosa vuoi dire? ATENIESE: Considerando ciò che è avvenuto presso di voi, Megillo, oggi è facile sapere, e sapendolo, dire ciò che allora bisognava che avvenisse. MEGILLO: Parla più chiaramente. ATENIESE: In questo modo sarò forse chiarissimo. MEGILLO: Quale modo? ATENIESE: Se si dà di più a ciò che richiede di meno, andando oltre la misura, vele alle navi e nutrimento ai corpi e potere alle anime, tutto viene sconvolto, e per l'esuberanza i corpi vanno incontro alle malattie, e le anime all'ingiustizia che è figlia della tracotanza. Che cosa mai vogliamo dire? Forse questo, e cioè che non esiste, cari amici, natura d'anima mortale che possa mai reggere il supremo potere fra gli uomini, se essa è giovane ed irresponsabile, in modo che la sua mente non sia del tutto occupata dalla più grave malattia, la stoltezza, e non abbia l'odio degli amici più stretti, cosa che, quando avviene, distrugge la sua mente e annulla tutta la sua potenza? Guardarsi da questo male, conoscendo la giusta misura, è proprio dei grandi legislatori. E adesso non è difficile congetturare quanto avvenne allora: pare le cose andarono così. MEGILLO: Come? ATENIESE: Vi era un dio che si preoccupava di voi, il quale prevedendo il futuro fece nascere per voi una doppia stirpe di re da una che era, riducendola di più a giusta misura. Dopo di che un uomo, la cui natura si era combinata con una certa potenza divina, vedendo che il vostro potere era piuttosto acceso, unì il moderato potere dei vecchi alla superba forza della nobiltà, e fece in modo che il potere dei ventotto vecchi avesse lo stesso diritto di suffragio, nelle questioni più importanti, di quello dei re. Il vostro terzo salvatore, vedendo che il potere ribolliva ancora d'orgoglio ed era intemperante, come un freno vi introdusse il potere degli efori, accostandolo al potere della sorte: e per questa ragione il potere regio che è presso di voi, risultando composto di quegli elementi che dovevano comporlo e possedendo la giusta misura, dopo aver salvato se stesso, fu causa di salvezza per gli altri. Poiché per Temeno e Cresfonte e per i legislatori di allora - chiunque fossero quelli che stabilivano le leggi - nemmeno la parte di Aristodemo si sarebbe mai salvata: perché non erano abbastanza esperti di legislazione. Non avrebbero mai pensato che una giovane anima si sarebbe potuta tenere a bada con giuramenti, quando essa avesse assunto un potere da cui era possibile che scaturisse la tirannide. E ora il dio ha indicato quale doveva e quale deve essere il governo più stabile. Il fatto che noi conosciamo queste cose, come si è già detto prima, non è indice di sapienza, ora che esse sono avvenute - svolgere infatti delle considerazioni sull'esempio di ciò che è avvenuto non è per nulla difficile -, ma se in quel tempo vi fosse stato qualcuno in grado di prevedere queste cose e di contemperare insieme i tre poteri, facendone uno solo, allora avrebbe salvato tutto quello che di bello era stato pensato in quel tempo, e né l'esercito Persiano, né nessun altro esercito si sarebbe mosso alla volta della Grecia, disprezzandoci come persone degne di scarsa considerazione. CLINIA: Quello che dici è vero. ATENIESE: E si sono difesi in modo vergognoso, Clinia. E per vergognoso non intendo dire che quelli di allora non hanno vinto delle belle battaglie vincendo per terra e per mare. Ma è questo ciò che dico che allora fu vergognoso, e cioè che, innanzitutto, di quei tre stati uno solo difese la Grecia, mentre gli altri due erano così corrotti dalla malvagità che uno impedì anche a Sparta di prenderne le difese, facendole guerra con tutta la sua forza, l'altro, che al tempo d ella suddivisione aveva primeggiato, lo stato di Argo, chiamato a respingere il barbaro, non ascoltò né portò soccorsi. E chi volesse ricordare i fatti che allora capitarono nel corso di quella guerra potrebbe rimproverare alla Grecia molte cose del tutto prive di dignità. E neppure direbbe bene colui che dicesse che la Grecia si difese: ma, se grazie al comune intento di Ateniesi e di Spartani non fosse stata respinta la schiavitù che incalzava, le stirpi dei Greci sarebbero ormai tutte mescolate fra loro, quelle dei barbari con i Greci e quelle dei Greci con i barbari, così come adesso quelle stirpi su cui i Persiani esercitano il loro dominio, disseminate e raccolte insieme, vivono sciaguratamente disperse. Queste cose, Clinia e Megillo, dobbiamo rimproverare ai cosiddetti uomini politici e legislatori di un tempo, e anche a quelli attuali, perché, ricercando le cause di quegli eventi, scopriamo che cos'altro si doveva fare al posto di ciò che si è fatto: ad esempio, anche in questo momento abbiamo detto che non bisogna stabilire poteri troppo grandi, né che non siano contemperati da altri elementi, pensando che uno stato dev'essere libero e dotato di intelligenza e coerente con se stesso, e che chi stabilisce le leggi deve legiferare tenendo presente questi princìpi. Non meravigliamoci se proponendoci di frequente certi scopi, abbiamo detto che il legislatore deve legiferare in vista di quelli, e che poi gli scopi proposti non ci sembrano ogni volta gli stessi: ma bisogna calcolare che, quando diciamo che bisogna prestare attenzione alla temperanza, o all'intelligenza, o all'amicizia, questo fine non è diverso, ma è sempre lo stesso, e non preoccupiamoci se useremo molte altri termini come questi. CLINIA: Cercheremo di fare così, quando ritorneremo a questi discorsi: e ora parla dell'amicizia, dell'intelligenza e della libertà, e spiegaci a che cosa desideravi che il legislatore dovesse mirare, quando stavi per parlare. ATENIESE: Ora ascolta. Vi sono due forme di costituzione che sono come due madri, dalle quali non sarebbe sbagliato dire che sono nate tutte le altre: e una di queste si può giustamente chiamare monarchia, l'altra democrazia, e la prima ha il suo punto più alto nella stirpe dei Persiani, l'altra qui da noi. Le altre come dicevo, risultano dalla varia unione di queste due. Bisogna dunque, ed è anche necessario, che si prenda parte dell'una e dell'altra, se è vero che dovrà esserci libertà ed amicizia, accompagnata dall'intelligenza: e questo è ciò che il nostro discorso vuole prescrivere, dicendo che uno stato non potrà mai essere ben governato se non prende parte di costituzioni come queste. CLINIA: E come potrebbe infatti? ATENIESE: Poiché l'una ama unicamente e più di quanto deve la monarchia, e l'altra la libertà, nessuna delle due costituzioni possiede la giusta misura, ma le vostre, quella spartana e la cretese, la possiedono in misura maggiore: gli Ateniesi e i Persiani una volta di più, ora di meno. Proviamo ora a spiegare le ragioni di questi fatti, o no? CLINIA: Assolutamente sì, se voglia mo giungere allo scopo che ci siamo proposti. ATENIESE: Ascoltiamo. I Persiani, quando sotto Ciro si erano avvicinati di più alla giusta misura di schiavitù e di libertà, prima di tutto diventarono liberi, e in seguito signori di molti altri popoli. Poiché i comandanti rendevano partecipi della libertà i loro sottoposti e li conducevano verso l'uguaglianza, i soldati erano legati ai comandanti da vincoli di amicizia più stretti, e si esponevano volentieri ai pericoli. E se qualcuno di essi era intelligente e capace di dare consigli, poiché il re non era invidioso, ma concedeva piena libertà dì parola e onorava coloro che erano in grado di dare consigli, metteva in comune e a disposizione della comunità questa sua capacità di fornire intelligenti consigli, e ogni cosa allora progrediva presso di essi grazie alla libertà, all'amicizia, e alla partecipazione comune dell'intelligenza. CLINIA: Pare che la situazione stesse proprio nei termini che tu hai illustrato. ATENIESE: Perché allora quell'impero andò in rovina sotto Cambise per essere di nuovo quasi salvato sotto Dario? Volete che cerchiamo di capirlo servendoci della divinazione? CLINIA: Questo porta la nostra indagine nella direzione in cui si è mossa. ATENIESE: Secondo quel che ora posso congetturare riguardo a Ciro, suppongo che egli, comandante valoroso e amante della patria fra le altre cose, non abbia affatto ricevuto una buona educazione, e non abbia mai prestato attenzione all'amministrazione della casa. CLINIA: Come possiamo dire una cosa del genere? ATENIESE: Pare che fin da giovane egli abbia condotto guerre, e per tutta la vita, affidando alle donne l'educazione dei figli. E queste li allevarono come se fin da bambini fossero già subito felici e beati, e come se non avessero alcun bisogno di queste cose: e quasi fossero già completamente felici, impedivano a chiunque di opporsi ad essi su qualsiasi cosa, e costringevano tutti ad approvare qualsiasi cosa quelli dicevano o facevano, e quindi li allevarono tali quali erano. CLINIA: è bella, a quanto pare, l'educazione di cui hai parlato. ATENIESE: Si trattava di un'educazione da donne; e di donne regali divenute ricche in tempi recenti, e che allevavano i figli senza la presenza di uomini, poiché costoro non avevano tempo libero a causa delle guerre e dei molti pericoli che dovevano affrontare. CLINIA: Questo ragionamento ha un senso. ATENIESE: Il padre conquistava per loro greggi di pecore, e mandrie, e schiere di uomini, e molte altre cose, ma ignorava che quelli cui avrebbe consegnato queste cose non erano stati educati secondo l'arte dei padri, quella persiana - i Persiani infatti erano pastori e provenivano da una terra aspra -, che era un'educazione severa e capace di formare pastori molto forti, e tali da dormire sotto il cielo aperto e vegliare, e di far guerra se ce ne fosse stato bisogno: trascurò il fatto che i suoi figli venivano educati da donne e da eunuchi secondo l'educazione dei Medi corrotta dalla cosiddetta felicità, per cui essi diventarono tali quali era verosimile che diventassero, allevati com'erano in maniera permissiva. E quando alla morte di Ciro i figli ricevettero il regno, pieni di lusso e di dissolutezza, per prima cosa uno uccise l'altro, mal sopportando che gli fosse uguale, e dopo di che, impazzito lui stesso a causa dell'ubriachezza e per la mancanza di educazione perdette il poter e per opera dei Medi, e di colui che allora veniva chiamato “l'eunuco”, che disprezzava la stoltezza di Cambise. CLINIA: Si dicono queste cose, e pare che le cose avvennero all'incirca in questo modo. ATENIESE: E si dice che il potere sia di nuovo tornato nelle mani dei Persiani per opera di Dario e dei Sette. CLINIA: Certamente. ATENIESE: Osserviamo questa cosa seguendo il discorso. Dario non era figlio di re e non fu allevato con un'educazione sfarzosa; ma, giunto al potere e impadronitosi come settimo, lo divise separandolo in sette parti, di cui anche adesso sono ancora rimaste piccole tracce come in sogno. E ritenne opportuno governare fissando delle leggi con cui introdusse una certa comune uguaglianza, e per legge stabilì il tributo che Ciro aveva promesso ai Persiani, procurando amicizia e alleanza a tutti i Persiani e cattivandosi il popolo dei Persiani con ricchezze ed onori: e dunque gli eserciti conquistarono con benevolenza per lui delle terre che non avevano minore estensione di quelle lasciate da Ciro. Dopo Dario venne Serse, che era stato nuovamente allevato secondo un'educazione regale e sfarzosa - «O Dario», si potrebbe forse dire con ragione, «che non hai capito l'errore di Ciro, hai allevato Serse negli stessi costumi in cui Ciro allevò Cambise!» - e questi dunque, poiché proveniva dalla medesima educazione, commise quasi tutti gli errori che aveva commesso Cambise: e press'a poco da quell'epoca non nacque più fra i Persiani alcun re davvero grande, se non per il nome. E la causa non è da imputarsi alla sorte, come sottolinea il mio discorso, ma alla vita malvagia che i figli di coloro che sono particolarmente ricchi e dei re generalmente conducono: non può infatti nascere da un'educazione come questa bambino, uomo, o vecchio che si distingua per virtù. Ed è proprio questo il punto, noi diciamo, che il legislatore deve prendere in esame, e anche noi nella circostanza presente. Ed è giusto, Spartani, assegnare questo riconoscimento al vostro stato, e cioè che non attribuite nessun onore o educazione particolare al povero e al ricco, al privato cittadino e al re, se non quelli che in principio il divino legislatore abbia determinato per voi ricevendoli da un qualche dio. Infatti non bisogna che in uno stato siano attribuiti onori eccessivi ad un tale perché si distingue per ricchezza, o perché è agile, bello, forte, ma è privo della virtù, e di quella virtù che manchi di temperanza. MEGILLO: Che cosa vuoi dire con questo, straniero? ATENIESE: Il coraggio non è una parte della virtù? MEGILLO: E come no? ATENIESE: E giudica dunque, dopo aver ascoltato il discorso, se accetteresti di avere uno che viva con te o un vicino assai coraggioso, ma privo di temperanza e addirittura privo di qualsiasi freno. MEGILLO: Silenzio! ATENIESE: Ebbene? E un artigiano competente nel suo mestiere, ma ingiusto? MEGILLO: Nient'affatto. ATENIESE: Ma ciò che è giusto non nasce senza la temperanza. MEGILLO: Come potrebbe? ATENIESE: E neppure l'uomo saggio che ora noi abbiamo presentato, quello che possedeva piaceri e dolori in armonia con i giusti ragionamenti con cui si accompagnano. MEGILLO: No, infatti. ATENIESE: Esaminiamo ancora questa cosa a proposito degli onori che vengono assegnati negli stati, per vedere quali sono giusti e quali no, in ogni circostanza. MEGILLO: Che cosa? ATENIESE: Se la temperanza abitasse da sola in un'anima senza tutte le altre virtù, sarebbe giusto che fosse onorata o disonorata? MEGILLO: Non so come risponderti. ATENIESE: E hai detto come si doveva dire: se infatti tu avessi risposto in un modo o nell'altro alla domanda che ti ho fatto, mi sembra che avresti risposto in modo sbagliato. MEGILLO: Allora è andata bene così. ATENIESE: Bene. E ciò che costituisce un'appendice che riguarda onori e disonori non è degno di discorso, ma piuttosto di un silenzio privo di parole. MEGILLO: Mi sembra che tu parli della temperanza. ATENIESE: Sì. E ciò che fra le altre virtù ci è maggiormente utile insieme a questa aggiunta sarà assai giustamente degno di ricevere molti onori, mentre ciò che viene per secondo, per secondo viene onorato: e così secondo la logica successione, ciascun bene avrà successivamente gli onori che gli spettano, come è giusto. MEGILLO: è così. ATENIESE: E allora? E non diremo che spetta al legislatore distribuire anche queste cose? MEGILLO: Certamente. ATENIESE: Vuoi che gli si affidi il compito di distribuire tutti gli onori, in base ad ogni atto che abbiamo compiuto e fino a giungere a quelli più insignificanti, mentre noi, dal momento che siamo desiderosi di fissare le leggi, facciamo una triplice divisione, cercando di separare le cose più importanti da quelle di secondo e di terzo grado? MEGILLO: Certamente. ATENIESE: Diciamo allora che lo stato, a quanto pare, che vuole salvaguardare se stesso ed essere felice, per quanto è umanamente possibile, deve di necessità distribuire in modo corretto onori e disonori. Ed è giusto stabilire i beni riguardanti l'anima, quando in essa vi sia la temperanza, come i più degni di onori, e per primi, per secondi la bellezza e i beni riguardanti il corpo, e terzi quelli riguardanti la sostanza e la ricchezza: chi si allontani da questa sequenza, legislatore o stato, elevando al rango di onori le ricchezze o collocando prima, fra gli onori, ciò che andava posto dopo, non compie un'opera né moralmente lecita né giusta dal punto di vista politico. Dobbiamo dire così o no? MEGILLO: Certo, dobbiamo chiaramente dire così. ATENIESE: E l'indagine intorno alla costituzione dei Persiani ha fatto sì che noi parlassimo più diffusamente di queste cose: e troviamo che essi si sono corrotti sempre di più, e diciamo che la ragione consiste nel fatto che tolsero in modo eccessivo la libertà al popolo, e condussero lo stato verso il dispotismo più di quanto era necessario, annientando la concordia e la comunità che si forma in seno allo stato. Annientate queste cose, il consiglio dei governanti non decide più in vista dei governati e del popolo, ma in vista del proprio potere, e ogni volta che ritengono di poter possedere anche una piccola cosa in più, saccheggiano città, saccheggiano popoli amici distruggendoli con il fuoco, e in modo ostile e senza pietà odiano e sono odiati: e quando si trovano nella necessità che i popoli combattano per loro, non trovano in essi né un'alleanza, né una benevola disponibilità a voler esporsi ai pericoli e combattere, ma pur avendo incalcolabili migliaia di uomini, sono tutti inutilizzabili ai fini della guerra, e come avessero bisogno di uomini, li pagano, ritenendo di essere messi in salvo da uomini mercenari e stranieri. Sono inoltre costretti ad agire da stupidi, dicendo in pratica che quelle cose che ogni volta sono dette onorevoli e belle nello stato sono una sciocchezza in confronto all'oro e all'argento. MEGILLO: Certamente. ATENIESE: Quanto agli affari Persiani, e al fatto che il loro attuale governo non si basa su giuste fondamenta a causa dell'eccessiva schiavitù e del dispotismo, il discorso abbia fine. MEGILLO: Senza dubbio. ATENIESE: Allo stesso modo ora noi dobbiamo passare in rassegna, dopo di ciò, la costituzione attica, evidenziando come la libertà assoluta e slegata da ogni potere è di gran lunga peggiore di un potere che è limitato da altri fattori: in quel tempo in cui i Persiani assaltarono i Greci, e probabilmente quasi tutti gli abitanti dell'Europa, noi avevamo un'antica costituzione e delle magistrature che provenivano da quattro classi basate sul censo, e come un padrone vi era dentro di noi un senso del pudore, per cui desideravamo vivere asserviti alle leggi di allora. A questo si aggiunga che la grandezza smisurata di quella spedizione che si muoveva per terra e per mare, incutendo un insostenibile timore, ci rese ancor più schiavi dei governanti e delle leggi, e per tutte queste ragioni avvenne che fra noi vi fossero dei vincoli di amicizia molto stretti. Infatti, circa dieci anni prima della battaglia navale di Salamina, giunse Dati alla guida di una spedizione persiana, inviato espressamente da Dario contro gli Ateniesi e gli Eretriesi perché li portasse al suo cospetto in catene, e minacciandolo di morte se non avesse agito così. E in un breve lasso di tempo Dati prese con la forza tutti gli Eretriesi grazie ad un numero infinito di uomini, e fece pervenire una notizia terribile presso la nostra città, secondo la quale nessun Eretriese gli era scampato, e i soldati di Dati, tenendosi per mano, avevano preso tutta la città di Eretria come in una rete. La notizia, sia che fosse fondata, sia che giungesse chissà da dove, sconvolse gli altri Greci e gli Ateniesi, e avendo mandato ovunque degli ambasciatori per richiedere aiuto, nessuno volle rispondere all'appello se non gli Spartani: e questi, poiché erano impediti dalla guerra in corso con Messene e da qualche altra ragione - ma non sappiamo che cosa dissero di preciso -, giunsero il giorno successivo alla battaglia di Maratona. Dopo di che si sparse la voce di grandi preparativi e di innumerevoli minacce da parte del Re. Con il passare del tempo si disse che Dario era morto, e che suo figlio, giovane e pieno di ardore aveva ricevuto il potere, e non desisteva affatto dall'ardore dell'assalto. Gli Ateniesi pensarono che tutti questi preparativi fossero diretti proprio contro di loro, a causa di ciò che era avvenuto a Maratona, e sentendo che il monte Athos era stato forato, che l'Ellesponto era stato unito, e che vi era una quantità formidabile di navi, pensarono che non si sarebbero salvati né per terra né per mare e che nessuno sarebbe venuto loro in soccorso. Ricordavano infatti che nessuno era venuto a portare loro aiuto, né aveva voluto correre il rischio di scendere in battaglia insieme a loro, quando quelli erano venuti per la prima volta ed erano accaduti i fatti di Eretria, e prevedevano che anche allora sarebbe avvenuta la stessa cosa per terra: e per mare, d'altra parte, vedevano che sarebbe stata assolutamente impossibile la salvezza, dinanzi all'avanzata di migliaia e anche più navi. Pensavano ad una sola salvezza, debole e disperata, ma anche l'unica, considerando quanto era avvenuto in passato, e come da situazioni impossibili anche allora era apparsa la vittoria in battaglia: appoggiandosi a questa speranza trovarono una via di scampo a questa situazione soltanto in loro stessi e negli dèi. Tutto ciò suscitava in essi la reciproca amicizia: sia la paura che allora era presente, sia quella che scaturiva dalle leggi precedenti. Questa paura essi l'avevano acquistata dal fatto di essersi asserviti alle leggi precedenti, e noi spesso nei discorsi di prima l'abbiamo chiamata pudore, e ad essa dicevamo che deve asservirsi chi vuole diventare onesto, mentre è libero e non nutre timore nei suoi confronti la persona meschina: ma se in quella circostanza il timore non avesse colto anche il meschino, non si sarebbe mai unito agli altri per la difesa, e non sarebbe venuto in soccorso per difendere i templi, e le tombe, e la patria e le altre cose che gli erano familiari e nel contempo care, così come fece, ma in quella circostanza ciascuno di noi, disperdendosi a poco a poco, si sarebbe allontanato chi da una parte chi da un'altra. MEGILLO: E certamente, straniero, quello che dici è giusto, e si addice a te stesso e alla tua patria. ATENIESE: Sì, è così, Megillo: è giusto raccontarti quello che avvenne allora, dato che prendi parte della natura dei tuoi padri. Verificate, tu e Clinia, se quello che diciamo ha attinenza con la legislazione, dal momento che non ho raccontato queste cose per il solo gusto di raccontare, ma per il fine dì cui parlo. Vedete un po': perché in un certo senso ci è capitato lo stesso inconveniente che è capitato ai Persiani - a quelli, infatti, per aver ridotto il popolo ad una totale schiavitù, a noi, al contrario, per aver esortato la massa verso la più completa libertà. Per stabilire allora come e che cosa diremo da questo punto in poi, i discorsi che abbiamo tenuto prima sembrano in un certo senso ben fatti. MEGILLO: Dici bene. Ma cerca di indicarci ancora più chiaramente ciò che ora hai detto. ATENIESE: Farò così. Nelle antiche leggi, ami ci, il nostro popolo non era padrone di qualche cosa, ma in un certo senso si asserviva volontariamente ad esse. MEGILLO: A quali leggi? ATENIESE: Prima di tutto alle leggi che riguardavano la musica di allora, se vogliamo esaminare dal principio lo sviluppo di una vita eccessivamente libera. Allora la musica era stata da noi divisa secondo certe specie e figure, e una specie di canto era costituita dalle preghiere agli dèi, e la chiamavano con il nome di “inni”: e vi era un'altra specie di canto opposta a questa - e si potevano chiamare “treni” -, e un'altra “peani”, e un'altra ancora, che, io credo, riguardava la nascita di Dionisio, era detta “ditirambo”. Un'altra forma di canto aveva lo stesso nome delle leggi, e tali leggi venivano chiamate “canti citaredici”. Stabiliti questi princìpi ed alcuni altri, non era possibile ricorrere ad una specie di melodia in cambio di un'altra: e l'autorità di riconoscere queste cose, e, una volta riconosciute, di giudicarle e di punire chi non aveva obbedito, non consisteva nei fischi, né nelle grida scomposte della folla, come oggi, né in applausi che assegnavano lodi, ma si era stabilito che coloro che erano provvisti di buona educazione ascoltassero in silenzio fino alla fine, mentre per i bambini, i pedagoghi, e in genere per la folla vociante, vi era una verga per ammonirli e riportarli all'ordine. Fissate in tal modo queste cose, la massa di cittadini era desiderosa di obbedire e non aveva il coraggio di giudicare nel tumulto: dopo di che, con il passare del tempo, i poeti diventarono i signori incontrastati delle trasgressioni compiute a danno della musica, poeti per indole naturale, ma ignoranti del giusto e del lecito in poesia, e colti da furore bacchico e invasi dal piacere più del necessario, mescolavano insieme i treni con gli inni, e i peani con i ditirambi, e imitando con la musica della cetra quella del flauto, e confondendo tutto con tutto, pur senza volerlo, dicevano delle menzogne contro la musica a causa della loro ignoranza, e cioè che la musica non ha alcuna norma, e che qualunque persona - buona o cattiva che sia - può giudicarne il valore dal piacere che gli procura. Facendo tali opere e aggiungendo ad esse tali discorsi, inculcarono nella maggior parte delle persone questa licenza nella musica e l'ardire di sentirsi in grado di erigersi a giudici: e quindi i teatri da muti diventarono vocianti, come se chiunque avesse orecchio per capire ciò che nella musica è bello e ciò che non lo è, e in luogo di un'aristocrazia competente in tale campo si sostituì una cattiva “teatrocrazia”. Se una democrazia formata da uomini liberi si fosse limitata al solo ambito musicale, non sarebbe accaduto nulla di terribile: ma ora, presso di noi, ha preso origine dalla musica l'opinione per cui tutti sanno tutto e un'illegalità che si è accompagnata alla licenza. Tutti infatti non avevano più paure perché si credevano sapienti, e questa sicurezza ha generato l'impudenza: perché nel non avere timore, a causa della propria insolenza, dell'opinione di chi è migliore consiste la malvagia impudenza che nasce da una libertà eccessiva. MEGILLO: Quello che dici è verissimo. ATENIESE: A questa libertà segue quella di non volersi sottomettere ai magistrati, e, connessa con questa, quella di sfuggire alla sottomissione e agli ammonimenti del padre e della madre e dei più anziani; e proseguendo e avvicinandoci alla fine, si cerca di non obbedire alle leggi, e giunti ormai al termine, non ci si cura dei giuramenti e delle promesse, e neppure degli dèi, ma indicando ed imitando quella che si diceva fosse l'antica natura dei Titani, si ritorna di nuovo a quello stadio, e si vive una penosa esistenza, senza che i mali possano cessare. Per quale ragione si è detto questo? Mi sembra che ogni volta si debba riprendere il discorso mettendogli dei freni come ad un cavallo, e senza farsi trasportare dalla forza delle parole, come se non si avesse freni in bocca, cadendo, secondo quel che dice il proverbio, anche da un asino, bisogna ripetere la domanda che ci siamo fatti ora: per quale motivo abbiamo detto queste cose? MEGILLO: Bene. ATENIESE: Queste cose sono state dette per questi motivi. MEGILLO: Quali? ATENIESE: Dicemmo che il legislatore deve tenere conto di tre princìpi quando fissa le leggi: e cioè che lo stato che è regolato dalla legislazione sia libero, che vi sia amicizia al suo interno, che sia intelligente. Abbiamo detto questo, o no? MEGILLO: Certamente. ATENIESE: Per queste ragioni la nostra scelta è ricaduta sulla forma di costituzione più dispotica e su quella più libera, e ora stiamo indagando quale di queste due risulta ben regolata: e avendo preso ciò che in esse costituiva la giusta misura, l'una nei confronti del dispotismo, l'altra della libertà, abbiamo osservato che allora vi era in esse un'eccellente prosperità, ma avvicinandosi l'una e l'altra verso i loro estremi, l'una verso la schiavitù, l'altra in direzione opposta, non traevano, né l'una né l'altra, alcun vantaggio. MEGILLO: Quello che dici è verissimo. ATENIESE: Per le stesse ragioni abbiamo anche osservato come si costituì l'esercito dorico, e le pendici di Dardano, e le città fondate presso il mare, e i primi uomini che si salvarono dalla distruzione, e inoltre i nostri discorsi precedenti a questi sulla musica e sul bere, e quelli ancora prima di questi. Tutto questo è stato detto per studiare come uno stato può essere governato nel modo migliore, e come un privato cittadino possa perfettamente condurre la propria vita: e quale prova potremo portare dinanzi a noi stessi, Megillo e Clinia, di aver compiuto qualcosa di utile? CLINIA: Straniero, mi sembra di scorgerne una. Mi pare dunque che il complesso di tutti questi discorsi che abbiamo pronunciato sia dovuto alla sorte: e ora sono quasi giunto al punto di aver bisogno di quei discorsi, e tu e questo Megillo siete arrivati proprio al momento giusto. Non vi nasconderò ciò che adesso mi sta capitando, anzi, lo considero un presagio fortunato. La maggior parte della popolazione cretese sta intraprendendo la fondazione di una colonia, e ha ordinato ai Cnossi di prendersi cura dell'impresa, e lo stato dei Cnossi ha a sua volta affidato l'incarico a me ed altre nove persone: intanto mi prescrivono di stabilire, fra le leggi vigenti in questo luogo, quelle che preferiamo, e altre ancora provenienti da altri luoghi, senza tenere conto se giungono da stati stranieri, che ci sembrino essere le migliori. Ora dunque concediamo questo favore a me e a voi: prendendo spunto dalle cose dette, formiamo razionalmente uno stato, come se lo dovessimo costruire dalle fondamenta, e così la nostra indagine intorno a ciò che stiamo ricercando proseguirà, e nel contempo io potrò servirmi della formazione di questo stato ideale per il futuro stato che dovrà sorgere. ATENIESE: Non stai dichiarando guerra, Clinia! Ma se Megillo non ha nulla in contrario, per quanto mi riguarda, ritieni pure che, nei limiti del possibile, sarà tutto secondo la tua volontà. CLINIA: Dici bene. MEGILLO: Anche per me va bene. CLINIA: Avete detto benissimo! Cerchiamo allora prima di tutto di gettare le fondamenta di questo stato.

Eugenio Caruso ... 25 - 01-2020

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