Sopportiamo, dunque, copn animo generoso tutto ciò che per legge dell'Universo ci tocca patire.
Seneca, Lettere a Lucilio
3. UN’EMERGENZA SOCIALE E DI CITTADINANZA
3.1. Una nuova geografia del lavoro
La doppia ondata recessiva che ha colpito il Paese (senza soluzione di continuità nel
Mezzogiorno) ha prodotto, da un lato, effetti negativi sempre più diffusi per territorio, settore,
genere, età e professioni, e dall’altro, ha ulteriormente ampliato i tradizionali divari che
caratterizzano in particolare il mercato del lavoro italiano. Questo ulteriore allargamento dei
divari rischia di configurare, con il perdurare dello stato di emergenza che la SVIMEZ denuncia
dall’inizio della crisi, mutamenti sociali di carattere strutturale. Mutamenti che necessitano
dunque di risposte organiche, che devono andare oltre la congiuntura e non possono limitarsi a
qualche aggiustamento.
Ben oltre la crisi, infatti, si sta ridisegnando una geografia del lavoro nel nostro Paese,
che rischia di escludere “strutturalmente” il Mezzogiorno, e col Mezzogiorno soprattutto i
giovani e le donne. Continua a deteriorarsi complessivamente, ma con un’accentuazione
maggiore nelle regioni del Sud che si somma a gravi divari di partenza, la condizione giovanile
segnata da forti perdite di posti di lavoro non compensate da flussi in entrata sempre più esigui.
Connotati diversi, con esiti quantitativi meno drammatici, ma su livelli “strutturali” allarmanti e
peggiori condizioni “qualitative”, caratterizzano il mercato del lavoro femminile nel corso degli
ultimi anni. Questo ha determinato delle conseguenze sulle famiglie meridionali, divenute luogo
principe della sofferenza sociale.
3.1.1. Il mercato del lavoro epicentro del “tracollo”
È il mercato del lavoro l’epicentro che rende evidente la portata del “tracollo” economico
e sociale del Mezzogiorno. Su di esso si è abbattuta una crisi che nell’area non ha conosciuto
tregua, e che oggi, con il crollo della domanda dovuto al venir meno dei redditi da lavoro,
determina un avvitamento recessivo destinato, secondo le previsioni, a prolungarsi al prossimo
biennio. Alla fine di una crisi che sarà durata otto anni, il profilo economico e sociale del Sud
sarà stravolto.
Il Mezzogiorno tra il 2008 e il 2013 registra una caduta dell’occupazione del 9%, ma
anche nelle regioni del Centro-Nord (-2,4%) si interrompe un trend espansivo in atto ormai dal
1994. Delle circa 985 mila unità perse in Italia, ben 583 mila sono al Sud. Un’incidenza di
quattro volte superiore che nel resto del Paese: al Sud, nella crisi, si è concentrato circa il 60%
delle perdite occupazionali complessive, a fronte di una quota del totale degli occupati che ormai
vale poco più di un quarto (26,3%, nel 2012 era il 27,1%). La visione di medio periodo rende
ancora più evidente la divaricazione che, nel mercato del lavoro, si è prodotta a livello
territoriale.
Su questo quadro già particolarmente preoccupante, ha inciso in misura considerevole
l’andamento dell’ultimo anno. Nel 2013 l’occupazione diminuisce, a scala nazionale, di 478 mila
unità (-2,1%): con 282 mila unità perdute nelle regioni meridionali, pari al -4,6% (era stata
del -0,6% nel 2012), a fronte di una perdita di 196 mila unità, pari al -1,2%, delle regioni del
Centro-Nord (-0,2% nel 2012). Prosegue a scala nazionale il calo dell’occupazione maschile
(-350 mila unità pari al -2,6%) e torna a ridursi quella femminile (-128 mila pari al -1,4%) che
negli ultimi anni aveva sperimentato un trend moderatamente positivo. Il crollo si concentra per
intero nelle fasce giovanili (-8,3% per i 15-34 anni), mentre per i 35-49enni scende del 2,2%; a
cui si contrappone l’aumento degli occupati con 50 anni e più (+3,7%).
C’è un dato che colpisce, e dice molto del grado di deterioramento del mercato del lavoro
meridionale. Nel 2013, l’occupazione al Sud scende per la prima volta sotto la soglia –
“psicologica”, ma molto reale – dei 6 milioni di unità: è intorno ai 5,8 milioni, un livello mai
raggiunto nelle serie storiche ricostruite (non accadeva infatti almeno dal 1977, che è l’anno da
cui partono le serie ricostruite dall’ISTAT). È una contrazione dell’occupazione peraltro non
ascrivibile al tendenziale rallentamento nella crescita demografica: il tasso di occupazione che
alla fine degli anni ’70 era intorno al 49-50% scende nel 2013 al 42%. Al Centro-Nord, nello
stesso periodo gli occupati aumentano di 3 milioni di unità mentre il tasso di occupazione sale
dal 56% a circa il 63% del 2013.
Gli andamenti più recenti destano ulteriore preoccupazione per l’anno in corso. Il quadro
che emerge dall’analisi dei dati “grezzi” (non destagionalizzati) evidenzia ancora un calo
dell’occupazione, anche se più contenuto.
Questi segnali, uniti al quadro previsionale del Rapporto SVIMEZ-IRPET, che conferma
significative perdite occupazionali anche per il prossimo biennio, rafforzano la convinzione che
ci troviamo di fronte a qualcosa di ben più grave di una pur fosca congiuntura negativa.
3.1.2. I giovani e le donne del Sud: il rischio di una durevole esclusione
Pur nel peggioramento complessivo, i divari territoriali, combinati con quelli
generazionali e di genere, hanno ripreso ad ampliarsi ulteriormente, ridefinendo al ribasso e
modificando alla radice le prospettive economiche, sociali e demografiche del Mezzogiorno,
come mai avvenuto prima.
Il calo dell’occupazione nel sessennio 2008-2013 è sostanzialmente ascrivibile, a scala
nazionale, agli uomini (–973 mila unità pari al -6,9%), mentre il numero delle donne occupate
resta sui livelli del 2008 (-11 mila unità pari al -0,1%). A livello territoriale, però, si registra un
calo di 60 mila occupate meridionali, pari al -2,7%, a fronte, invece, di un incremento di 49 mila
unità, pari al +0,7%, nelle regioni del Centro-Nord.
L’evoluzione del mercato del lavoro più favorevole alle donne nella crisi nel nostro
Paese è principalmente spiegata in termini di “segregazione” settoriale di genere, e questo
risultato sarebbe connesso al fatto che gli uomini sono tradizionalmente concentrati nei settori
più colpiti dalla crisi degli ultimi anni, quali il settore bancario/finanziario e i settori
manifatturiero e delle costruzioni. Ciò sembra configurare un’emergenza essenzialmente
“qualitativa”. I risultati quantitativi relativamente migliori rispetto ai maschi sono infatti
largamente ascrivibili ad incrementi delle occupazioni precarie e nelle professioni non
qualificate, che rafforzano anziché ridurre la tradizionale “segregazione” di genere che
caratterizza il nostro mercato del lavoro.
Il bilancio della crisi, per la componente femminile, dunque, non va guardato in termini
meramente quantitativi, ma in termini di maggiore precarietà e minore qualità del lavoro e di
mancate nuove opportunità e accessi. Certo, la partecipazione femminile al mercato del lavoro è
aumentata sensibilmente: nel 2013 il divario tra tassi di attività maschile e femminile è sceso a
19,8 punti in Italia (27,3 nel Mezzogiorno e 15,7 nel Centro-Nord) e sotto i 12 punti nell’UE a
28. Negli ultimi anni, sono aumentate sia le donne occupate (ma non al Sud) che le disoccupate,
e si è ridotto il numero delle donne inattive. Questo dato sembra fornire una certa evidenza di un
possibile effetto “lavoratore aggiunto” attivato dalla crisi. Tuttavia, non va dimenticato che
l’Italia, con quasi la metà delle donne fuori dal mercato del lavoro, presenta uno dei più bassi
tassi di partecipazione femminile alle forze lavoro in Europa. Nel 2013, col suo 53,6%, il nostro
Paese era al 27° posto nella UE a 28 (il cui tasso medio è del 66%), appena prima di Malta. Fa
impressione che nella graduatoria delle 272 regioni europee (NUTS2) le otto regioni del
Mezzogiorno sono tutte nelle ultime 10 posizioni, insieme con Malta e la regione Sud-Est della
Romania; tra queste, solo l’Abruzzo supera il 50% di partecipazione (50,2%).
Ad assumere connotati di sempre maggiore gravità, tali da rendere fuorviante limitarsi
solo all’analisi della congiuntura, è il marcato dualismo generazionale del mercato del lavoro
italiano, che si combina con il tradizionale dualismo territoriale. Tale combinazione, per i
giovani meridionali, non determina soltanto “un’accentuazione”, ma sommandosi ai livelli
strutturali pre-crisi, porta ad una situazione in cui si può dire che, al Sud, per gli under 35, il
lavoro – semplicemente – è “finito”.
Le dinamiche più recenti, infatti, hanno ulteriormente aggravato una condizione, specie
per i giovani, che si può riassumere nei seguenti termini: le già basse opportunità di accesso al
mercato del lavoro si sono ridotte, la durata della disoccupazione è aumentata, il processo di
transizione dalla scuola al lavoro si è ulteriormente allungato, e si è ampliato (non solo per i
giovani, anche per le donne) il disallineamento tra domanda e offerta di lavoro. Tali
caratteristiche, e specialmente alcune di esse, peculiari del mercato del lavoro meridionale, con
la crisi si sono diffuse (almeno in parte) all’intero territorio nazionale.
Nella crisi, tra il 2008 e il 2013, per i giovani l’occupazione si riduce in Italia di circa 1
milione 800 mila unità, pari al -25,4%, mentre per le classi d’età centrali ed elevate aumenta di
circa 820 mila unità, pari al +5,0%. In calo, anche se più contenuto, risultano gli occupati tra i 35
ed i 44 anni mentre alle restanti classi è ascrivibile la parziale tenuta dell’occupazione.
Dinamiche simili, sia pur con diverse accentuazioni, si rilevano a livello territoriale: gli occupati
15-34 anni si riducono del 29,3% nel Mezzogiorno e del 23,8% nel Centro-Nord.
L’andamento negativo per i giovani e le classi d’età centrali continua anche nel 2014. Su
base annua, il calo degli occupati di 15-34 anni e 35-49 anni si attesta nel secondo trimestre
al -4,0% e al -1,6%, rispettivamente, parzialmente compensato dalla crescita degli occupati con
50 anni e oltre (+5,5%). Andamenti sostanzialmente simili si rilevano a livello territoriale, con
cali più accentuati nel Mezzogiorno per i giovani (-6,0% a fronte del -3,3% del Centro-Nord) e
incrementi meno pronunciati per gli over 50 (2,7% nel Mezzogiorno a fronte del 6,6% del
Centro-Nord).
Nel 2013, il calo dell’occupazione si accompagna ad un aumento dell’incidenza delle
posizioni non standard che da valori di poco superiori al 30% arrivano quasi al 40% del totale.
L’analisi a livello territoriale evidenzia flessioni più accentuate nel Mezzogiorno per le posizioni
standard (-36%, a fronte del -32% del Centro-Nord), mentre gli occupati part time a tempo non
determinato aumentano nel Mezzogiorno (+2,5% a fronte di una sostanziale stabilità nel Centro-
Nord) e gli occupati atipici flettono del 25% circa nel Mezzogiorno e in misura molto meno
accentuata nelle regioni del Centro-Nord (-10% circa). Il calo della componente standard
continua anche nell’anno in corso.
L’immagine più nitida di tali andamenti emerge dalla flessione dei tassi di occupazione
giovanile: un calo che, in realtà, era iniziato molto prima della crisi economica, in parte per
effetto, nei primi anni Duemila, di un significativo aumento dei tassi di scolarità e di iscrizione
all’Università. Dalla seconda metà del decennio, tuttavia, l’ulteriore più decisa flessione si è
verificata in presenza di una sostanziale stabilità del tasso di scolarità superiore e di un sensibile
declino dei tassi di iscrizione all’Università.
A destare maggiore impressione, e preoccupazione, è il confronto con l’Europa e i
principali paesi, che delinea un quadro assai critico del rapporto tra giovani e mercato del lavoro
in Italia, nella sua articolazione territoriale. La “fotografia” dei giovani tra i 15 e i 34 anni mostra
come l’Italia abbia quote superiori a tutti gli altri paesi di giovani solo in formazione e
decisamente ancora più elevate di giovani Neet. Per converso, si rileva come l’Italia si
caratterizzi per le quote più basse di occupati in formazione e di solo occupati (con l’eccezione
di Grecia e Spagna). A ben vedere, però, è evidente come i valori così negativi dell’Italia siano
sostanzialmente ascrivibili alle regioni meridionali, mentre le regioni del Centro-Nord
presentano valori tutto sommato in linea con quelli degli altri principali paesi, sia pure in
tendenziale peggioramento. Il Sud si colloca in fondo ad ogni classifica europea, facendo
registrare una condizione giovanile nel mercato del lavoro (e nella formazione) peggiore della
Spagna, e persino della Grecia.
Va detto che le difficoltà di accesso al mercato del lavoro, caratteristiche delle regioni
meridionali e dei livelli di istruzione più bassi, si stanno diffondendo nelle regioni del Centro-
Nord e tra i giovani con medio-alti livelli di istruzione. Nell’ambito del quadro strategico per la
cooperazione europea per il settore dell’istruzione e della formazione (ET 2020), che mira a
valutare le opportunità di lavoro per i giovani (20-34 anni), diplomati o laureati, si era fissato
come obiettivo, già raggiunto nella media europea nel 2007, che l’82% di questi giovani fosse
occupato dopo non più di tre anni dal conseguimento del titolo. Già prima della crisi i giovani
diplomati e laureati italiani presentavano un tasso di occupazione più basso di circa 16 punti
rispetto alla media europea. Tale divario nel 2013 sale a circa 27 punti, attestandosi il tasso di
occupazione al 48,3% (la Spagna è al 59,5%), contro una media UE a 27 del 75,6%.
Una valutazione più analitica di tale indicatore per l’Italia evidenzia come le difficoltà
maggiori riguardino i diplomati, con un tasso di occupazione al 2013 del 40,8% a fronte del
56,9% dei laureati. Nel sessennio di crisi il tasso di occupazione dei diplomati flette di 19,7
punti, a fronte dei 13,6 dei laureati. A livello territoriale, emerge il forte divario assoluto tra tassi
di occupazione del Mezzogiorno, 26,2% e 38,2% rispettivamente per i diplomati ed i laureati,
contro valori del 49,6% per i diplomati e del 65,8% per i laureati del Centro-Nord.
La convinzione che il progresso tecnico avrebbe dovuto favorire la domanda di lavoro
istruito e, pertanto, non svantaggiare in modo particolare i giovani, il cui livello di istruzione è in
forte crescita da decenni in tutto il mondo, è stata messa in discussione dagli andamenti nella
crisi. Essa ha determinato una distorsione della domanda di lavoro non solo a sfavore di coloro
che possiedono bassi livelli di istruzione, ma anche di coloro che sono carenti sia di esperienza
lavorativa generica sia di esperienza specifica su un posto di lavoro, al di là del livello di
istruzione formale conseguito nell’ambito del sistema scolastico. In questo senso, la diffusione
del progresso tecnico rischierebbe di rafforzare il principio LIFO (last in - first out) spesso usato
con i giovani dalle imprese in caso di assunzioni/licenziamenti.
Ben oltre le rigidità del nostro mercato del lavoro e i problemi di disallineamento tra
domanda e offerta, la radice di questi fenomeni va ricercata essenzialmente nella scarsa
innovazione di un sistema economico, come quello italiano, scarsamente posizionato sulla
frontiera competitiva e prevalentemente basato su prodotti e sistemi produttivi tradizionali, dove
l’esperienza specifica sul posto di lavoro risulta più importante del capitale umano scolastico.
3.2. Il rischio di perdere “capitale umano”: dalla formazione, alle Università, alla qualità del
lavoro
Sempre sul fronte dell’emergenza sociale, si è sviluppata una dinamica forse ancora più
allarmante: una spirale di “depauperamento” del capitale umano, determinata da una lunga
persistenza dello stato di inoccupazione e dallo “scoraggiamento” a investire nella formazione
più avanzata fino alla scelta che l’investimento più promettente è quello di abbandonare il Sud.
La debolezza della domanda di lavoro qualificato, accentuatasi durante la crisi, oltre alle
specifiche difficoltà nella transizione tra scuola e lavoro, alle crescenti difficoltà economiche
delle famiglie a sostenere i costi dell’istruzione e ai limiti interni del sistema formativo,
contribuisce a ridurre gli incentivi a investire in formazione e conoscenza.
L’impatto negativo di questa evoluzione è duplice: da un lato, induce il depauperamento
del capitale umano già formato bloccato tra inattività e precarietà; dall’altro, ritarda (se non
blocca) i processi di convergenza dell’Italia verso più elevati livelli di istruzione europei e gli
obiettivi di Europa 2020 e, al nostro interno, delle regioni meridionali verso quelle del Centro-
Nord.
La progressiva emarginazione dei giovani anche istruiti dai processi produttivi
determinata dalla crisi recessiva è confermata dalla dinamica crescente dei giovani Neet (Not in
education, employment or training): in base ai dati ISTAT, nel 2013 in Italia hanno raggiunto i 3
milioni 593 mila con un aumento rispetto al 2008 di circa 737 mila unità (+ 25,8%). Di questi,
oltre 2 milioni sono donne (56,2%) mentre quasi 2 milioni (54,6%) si trovano nelle regioni
meridionali (con un’incidenza sulla popolazione di 15-34 anni del 38,5%, contro il 20,1% del
Centro-Nord).
La condizione di Neet, generalmente prevalente tra i meno istruiti, si è diffusa nella crisi
ai giovani con titoli di studio elevati: la quota di diplomati e laureati sul totale è passata da circa
il 48% del 2007 al 58% nel 2013. L’aumento complessivo del 25,8% sottende infatti incrementi
del 50,5% per i diplomati e del 43,5% per i laureati (mentre crescono solo dell’8,1% i giovani
fino alla licenza media). Nelle regioni meridionali, tra i Neet, la quota dei diplomati è al 37,5% e
quella dei laureati al 32,4%, a fronte rispettivamente del 21% e del 17,1% del Centro-Nord.
La presenza di un ampio bacino di offerta di lavoro giovanile non utilizzata o
sottoutilizzata dal sistema produttivo si associa a una percezione di insicurezza per il proprio
futuro, alla difficoltà di fare scelte e di formulare progetti, con forti rischi di dispersione
dell’investimento che il Paese ha effettuato nella formazione dei giovani.
Sono soprattutto le scelte di partecipazione all’istruzione terziaria che evidenziano la
gravità di tale processo. Il calo delle immatricolazioni riflette non solo il peggioramento delle
condizioni finanziarie delle famiglie (anche alla luce dell’aumento delle rette di iscrizione,
spesso in mancanza di un’effettiva tutela e promozione del diritto allo studio), ma anche la
percezione sempre più diffusa dello scarso vantaggio, in termini di occupazione e di reddito,
dell’investimento nella formazione più avanzata.
Si amplia anziché ridursi, nel frattempo, il divario dell’Italia con i principali paesi
europei con riguardo all’istruzione terziaria. Con riferimento alla popolazione tra 30 e 34 anni, i
laureati in Italia si attestavano nel 2013 al 22,4%, il valore minimo tra i paesi della UE (36,8% in
media) e inferiore anche all’obiettivo nazionale stabilito dal Governo nel Programma nazionale
di riforma di aprile del 2011 (26-27%). Nessuna regione italiana superava il 28%. Il divario con
la UE che sembrava stabile nel decennio scorso ha cominciato ad ampliarsi a partire dal 2008,
passando da circa 10 ad oltre 14 punti percentuali. In aumento negli anni Duemila anche il
differenziale tra Centro-Nord e Mezzogiorno salito da circa tre punti nel 2000 a oltre sette nel
2013.
Tali dinamiche derivano in primo luogo da tassi di passaggio dalla scuola superiore
all’Università sempre più bassi. Nel A.A. 2012/2013, con il 51,7% del Sud e il 58,8% del
Centro-Nord, non solo torna ad ampliarsi il divario tra le aree (che si era annullato a metà anni
Duemila), ma si accentua la parabola discendente nella crisi, riportando l’intero Paese a livelli
ben al di sotto di quelli di dieci anni fa. Una dinamica davvero emergenziale, che rende sempre
più arduo il processo di convergenza, in termini di accumulazione di capitale umano, con il resto
d’Europa.
Non aiuta, da questo punto di vista, il sistema di finanziamento delle Università che, pur
complessivamente sottoposto a una costante riduzione di risorse, sta determinando una vera e
propria penalizzazione delle Università meridionali. Come riportato in un capitolo del Rapporto
– che recepisce il lavoro e le preoccupazioni emerse nel “Forum delle Università del
Mezzogiorno” presso la SVIMEZ – il nuovo e crescente meccanismo di premialità, attribuito
annualmente sulla base di criteri ministeriali discutibili, ha determinato, in soli tre anni (2011-
2013), uno spostamento di circa 160 milioni di euro dalle Università del Sud a quelle del Centro-
Nord. E se nulla cambiasse nei prossimi anni, le previsioni parlano di una sottrazione al sistema
universitario meridionale di anche più di 100 milioni di euro all’anno, che lo renderebbe ancora
più lontano dagli standard internazionali tanto agognati.
Per effetto di questo spostamento annuo di risorse, per rispondere alla domanda di
formazione degli studenti meridionali, la già alta migrazione studentesca dal Sud verso il Nord
dovrà crescere all’incredibile ritmo di circa 30.000 studenti all’anno. Il circolo vizioso di perdita
di “capitale umano” per il Mezzogiorno sembra dunque all’opera. Altre scelte del Governo
sembrano concorrere nella stessa direzione. La più eclatante, nel corso del 2013, è relativa alla
modalità con la quale, con riferimento al turnover, si sono imposti alle singole Università, sulla
base di elementi di valutazione simili a quelli considerati per la ripartizione della quota premiale,
limiti molto diversi tra loro, che penalizzano le comunità scientifiche meridionali.
D’altra parte, non è certo sul fronte della tassazione che le Università del Mezzogiorno
possono pensare di migliorare la sostenibilità finanziaria. Il livello di tassazione sostenibile è
assolutamente connesso al livello socio-economico e infatti le differenze che si riscontrano a
livello territoriale sono fortemente correlate con quelle che si registrano in termini di reddito pro
capite o di contributo fiscale; esse, pertanto, si possono ridurre solo operando sulle molte
distanze reali che esistono, complessivamente, tra le varie aree del Paese.
In definitiva tutto concorre, con paradossale coerenza, a spostare numeri rilevanti di
studenti, lavoratori e docenti dal Sud verso il Nord realizzando nel Mezzogiorno un
ridimensionamento del sistema universitario che sembra essere, se non auspicata, quantomeno
non contrastata da una parte del nostro sistema politico.
Un ulteriore rischio di perdita di “capitale umano” è connesso al deterioramento della
“qualità” del lavoro che si pone, come visto, principalmente con riferimento alle donne, la cui
dinamica più recente rischia di rafforzare anziché ridurre la tradizionale “segregazione” di
genere che caratterizza il nostro mercato del lavoro.
Il raffronto tra i dati del 2013 e quelli del 2008 evidenzia che la sostanziale stabilità
dell’occupazione femminile sottende una flessione dell’11,7% delle professioni qualificate,
intellettuali e tecniche, e un incremento del 15,0% delle professioni non qualificate.
L’andamento relativamente migliore dell’occupazione femminile nella crisi nasconde dunque
una ricomposizione a sfavore delle professioni più qualificate e le crescenti difficoltà anche per
le giovani donne italiane con medio-alti livelli di istruzione di trovare opportunità di lavoro non
precarie.
Chiare indicazioni sul deterioramento qualitativo dell’occupazione femminile
provengono dall’analisi dei dati per tipologia contrattuale. Le donne occupate hanno, per il 19%
nel Mezzogiorno e per il 13% nel Centro-Nord, un contratto a termine per quasi la totalità
“involontario”.
Il declino, registrato nella fase recessiva, delle professioni più qualificate
dell’occupazione femminile desta preoccupazione perché rischia di arrestare il contributo
specifico che le donne apportano, nonostante un sacrificio in termini di posizione e retribuzione,
al miglioramento “qualitativo” del nostro sistema produttivo.
Se, ben oltre l’emergenza “qualitativa”, di vera e propria “segregazione” delle donne sul
mercato del lavoro si può parlare, in senso stretto, questo è dovuto essenzialmente alla
condizione delle immigrate. Qui, col divario di genere, si accentua di molto quel divario di
cittadinanza a cui avevamo accennato, che emerge sia dagli andamenti che dalla composizione
dell’occupazione straniera per settore e professione: nel 2013, il 76,6% degli immigrati lavora
nei servizi domestici e di cura (quasi 10 punti in più rispetto al 2008) e la presenza nelle
professioni qualificate è minima (gli stranieri sono circa il 2%, mentre è massima in quelle non
qualificate dove un occupato su tre è straniero).
La crisi ha ulteriormente accentuato la segregazione professionale delle donne
immigrate: nel 2013 appena due professioni (assistenti domiciliari e collaboratrici domestiche)
coinvolgono più della metà delle occupate straniere (mentre nel 2008 ne erano necessarie cinque:
cameriere, commesse, operaie addette ai servizi delle pulizie, erano le altre tre). Anche gli
uomini sono concentrati solo su alcune professioni – sedici coinvolgono la metà degli occupati –
tra cui muratori, camionisti, braccianti, facchini e ambulanti.
Occorre sempre rimarcare che questa “segregazione” non si verifica – almeno non solo e
non tanto – per la minore qualificazione della manodopera immigrata quanto per la maggiore
disponibilità degli stranieri ad accettare lavori non qualificati e disagiati: nel 2013 circa il 35%
delle donne straniere risulta infatti sovra istruita a fronte del 15% delle donne italiane.
3.3. Cambia la geografia demografica del Paese: è il Mezzogiorno che si svuota
Le “nuove emigrazioni” rischiano di determinare una grave perdita di capitale umano nel
Mezzogiorno. Occorre perciò chiarire la portata più profonda delle dinamiche demografiche in
atto nel nostro Paese.
Cambia la geografia demografica dell’Italia. Mentre il Centro-Nord sperimenterà nei
prossimi anni una crescita della popolazione alimentata dalle migrazioni dall’estero, da quelle
dal Sud e da una ripresa della natalità, il Mezzogiorno invecchia: i giovani emigrano verso il
Centro-Nord ma soprattutto verso l’estero, per mancanza di prospettive di lavoro; le famiglie,
colpite dalla crisi, fanno sempre meno figli. Infatti, per il secondo anno consecutivo, il numero
dei morti al Sud sopravanza quello dei nuovi nati. Il calo delle nascite, che riguarda l’intero
Paese, è particolarmente evidente al Sud, e questo fenomeno crea un saldo negativo, che si
traduce in una diminuzione della popolazione via via crescente.
Il numero dei nati nel Sud ha toccato nel 2013 il suo minimo storico: 177.000, il valore
più basso dall’Unità d’Italia. Mentre nel Centro-Nord i 338.000 nati sono ancora ben superiori ai
288.000 del 1987, quando si toccò il minimo storico. Negli ultimi 50 anni il Sud ha continuato a
perdere popolazione anno dopo anno, diversamente dal Nord, dove, dopo il picco negativo del
quinquennio 1985-1989, la popolazione aveva ricominciato a crescere, con una tendenza al
rallentamento dal 2009 in poi.
Nel 1861 nel Sud nascevano 331,1 mila bambini, nel Nord 441,9 mila; il tracollo
dell’area meridionale è il risultato inevitabile di un aggiustamento alle situazioni socioeconomiche
e la reazione alle aspettative puntualmente disattese in special modo negli ultimi
decenni. La reazione della demografia come è noto è lenta ma profondamente incisiva e sfugge
alla percezione immediata che si ha invece degli andamenti ciclici dell’economia, e con fare
silente trasforma e adegua, ignorando anche le più “raffinate” (e astratte) leggi economiche, la
struttura della società.
I numeri ci mostrano una società, quella meridionale, nella quale una intera generazione
non è mai nata, e i giovani nati vivono una condizione di marginalità: non studiano né si
formano in altro modo e per coloro che decidono di intraprendere un dignitoso percorso
formativo, professionale o intellettuale non resta, nella maggior parte dei casi, che la via
dell’espatrio. Il rischio è ora dunque l’involuzione rispetto all’evoluzione che già si sta
affermando nel resto del Paese, dove migliori condizioni economiche e la presenza indubbia di
migliori reti sociali e di buon governo favoriscono un sia pur difficile ricambio generazionale.
Tale ulteriore aspetto del dualismo interno al nostro Paese comporta che, mentre nel
Centro-Nord gli andamenti demografici sono simili a quelli dei paesi del Nord Europa, in primo
luogo la Germania, il Mezzogiorno si muova, invece, sulla falsariga di quelli del Sud, come
Spagna e Grecia, sia come indice di vecchiaia che come rapporto tra popolazione attiva e non più
attiva.
Ormai al Sud la fecondità femminile è giunta a quota 1,36 figli per donna, ben distante
dal livello di sostituzione, che garantisce la stabilità demografica, pari a 2,1 nati per coppia, e
perfino inferiore a quello del Centro-Nord (1,46 figli per donna), dove la ripresa della natalità è
stata favorita anche dai livelli riproduttivi delle donne straniere.
Le ondate migratorie dall’estero potrebbero riequilibrare questa naturale tendenza alla
diminuzione delle nascite. Infatti, i residenti stranieri a fine 2013 erano oltre 5 milioni, quasi
900.000 in più dell’anno precedente (un risultato dovuto prevalentemente alle rettifiche
anagrafiche post censuarie), e rappresentano ormai l’8,2% della popolazione complessiva. Ma
degli oltre 5 milioni, 4 milioni e 200.000 vivono nel Centro-Nord (il 10,8% della popolazione
complessiva) e solo 717.000 nel Mezzogiorno (il 3,5%). La minore capacità di attrarre immigrati
dall’estero da parte delle regioni meridionali rispecchia la persistenza del gap tra le due macro
aree nel grado di sviluppo economico.
Nel decennio 2001-2011 la popolazione italiana è cresciuta del 4,2%, un tasso che non si
registrava dagli anni ‘70 del secolo scorso. Però, mentre nel Centro-Nord la crescita è arrivata al
6,3%, nel Sud si è fermata allo 0,4%.
I dati del 2013 confermano la grave crisi demografica del Sud, il cui peso sulla
popolazione complessiva è giunto nell’anno al 34,4% (era il 36% nel 2001).
Il profondo divario tra le aspettative, soprattutto delle nuove generazioni in termini di
realizzazione personale e professionale, e le concrete occasioni di lavoro qualificato nel territorio
meridionale hanno determinato una forte ripresa dei flussi di emigrazione. Tra il 2001 e il 2013
sono emigrati dal Sud verso il Centro-Nord quasi un milione e 600.000 mila meridionali, a fronte
di un rientro di 851.000 persone, con un saldo migratorio netto di 708.000 unità. Di questa
perdita di popolazione il 70%, 494.000, ha riguardato i giovani, di cui poco meno del 40%
(188.000) laureati.
L’entità dei flussi migratori colpisce soprattutto pensando agli effetti che ciò avrà sulla
capacità del Sud di riprendere un percorso di crescita: il fenomeno si rileva in particolare nelle
aree urbane, dove, invece, si dovrebbe concentrare la ripresa di un processo di sviluppo.
Oggi uno dei problemi centrali del Mezzogiorno è proprio la progressiva rarefazione
delle giovani generazioni: da un’area giovane e ricca di menti e di braccia, il Sud si sta via via
trasformando in un’area anziana, economicamente sempre più dipendente dal resto del Paese.
In definitiva, se questa tendenza alla perdita di peso demografico non sarà sollecitamente
contrastata, il Mezzogiorno rischia di persistere in uno “tsunami” dalle conseguenze
imprevedibili. Una tendenza destinata ad accentuarsi nei prossimi anni: in base alle previsioni
ISTAT, in un cinquantennio il Mezzogiorno perderà 4,2 milioni di abitanti, oltre un quinto
dell’attuale popolazione, rispetto al resto del Paese che ne guadagnerà, invece, 4,6 milioni. Lo
spopolamento del Sud fino al 2065 riguarderà soprattutto i più giovani, con una conseguente
erosione della base della piramide dell’età, una sorta di rovesciamento rispetto a quella del
Centro-Nord. A fine periodo, la popolazione meridionale, oggi pari al 34,3% di quella nazionale,
si ridurrà complessivamente al 27,3%, in parallelo ad un accentuarsi del suo tasso di dipendenza.
3.4. Le crescenti disuguaglianze ostacolo alla crescita
La recessione ha prodotto effetti assai differenziati sul livello e sulla distribuzione del
reddito disponibile delle famiglie dei paesi dell’UE. In quelli dove il reddito è distribuito in
modo più egualitario, attraverso misure specifiche e universali di contrasto della povertà e della
disuguaglianza, vi sono non solo maggiori livelli del prodotto per abitante, ma anche più elevati
tassi di crescita. Quasi tutti i paesi dell’Europa a 15 (Germania, Austria, Svezia, Olanda, Belgio
e Lussemburgo) in cui il prodotto è aumentato durante la crisi, appartengono al gruppo più
egualitario. In quelli, invece, meno egualitari (tra cui Grecia, Portogallo, Spagna e Italia), nei
quali la maggior parte del reddito è detenuta da una minoranza di percettori, il PIL pro capite è
andato via via diminuendo.
La tendenza all’approfondimento degli squilibri nella distribuzione del reddito rischia di
trasformare le inevitabili conseguenti disuguaglianze in una forza destabilizzante del sistema
economico e sociale con prevedibili forti cadute del processo di accumulazione e degli stimoli ai
settori economici in misura tale da comprimere la crescita economica.
L’Italia, in particolare, è il solo paese nel quale la caduta del reddito disponibile sia
risultata di intensità più vicina a quella del PIL, un risultato particolarmente negativo
determinato anche da politiche di bilancio meno incisive.
Il divario di sviluppo tra Centro-Nord e Mezzogiorno si riflette sia sul livello dei redditi
che sulla sua distribuzione. Il dualismo territoriale ha un peso rilevante nel determinare il grado
complessivo di disuguaglianza.
L’ultimo sessennio di crisi ha accentuato ulteriormente questo divario: i più a rischio
sono quanti debbono ancora entrare nel mercato del lavoro, i precari, gli occupati in micro
imprese, categorie per le quali non esiste un sistema universale di tutela dei redditi, per cui
risultano maggiormente esposte al rischio povertà.
Nel 2013 l’approfondirsi della crisi nel Mezzogiorno ha comportato, come detto, un
drastico ridimensionamento dell’occupazione che ha contribuito a determinare un innalzamento
del livello della povertà assoluta, di intensità mai sperimentata prima: +2,8% a fronte di meno di
mezzo punto nel Centro-Nord. Lo scorso anno le famiglie assolutamente povere nel
Mezzogiorno erano pari a un milione e 14 mila unità, come nel Centro-Nord, con un’incidenza
sul totale delle famiglie del 12,6%, più che doppia rispetto al Centro-Nord (5,8%).
Ciò che più colpisce è il rapido approfondimento della gravità del fenomeno nel
Mezzogiorno, dove il numero delle famiglie assolutamente povere è aumentato nei sei anni della
recessione di quasi due volte e mezzo, a fronte di poco meno del raddoppio nel resto del Paese.
Nel Sud, in particolare, quasi il 40% della crescita si è concentrato nell’ultimo anno.
Nel 2012, appena il 5% delle famiglie del Centro-Nord è risultato incluso nella classe a
più basso reddito, con meno di 1.000 euro al mese, contro quasi tre volte tanto nel Mezzogiorno
(il 13,4%).
All’estremo opposto, il 44,1% delle famiglie del Nord e solo il 25,4% di quelle
meridionali hanno più di 3.000 euro al mese: una distanza di quasi venti punti percentuali, che
offre una chiara evidenza delle marcate differenze strutturali tra le due parti del Paese.
In particolare, nel Mezzogiorno sono le famiglie monoreddito, quelle numerose e quelle
composte da anziani soli ad essere esposte al rischio povertà. Nel Sud risulta, inoltre, molto
elevata la povertà tra le famiglie composte da due o più nuclei (circa il 41%). Si tratta di un
fenomeno, quello della “ricomposizione” dei nuclei familiari, che è rinato nel corso della crisi
come soluzione per sfruttare le economie di scala dovute alla condivisione dell’abitazione e di
tutti i costi ad essa legati.
Gli squilibri nel mercato del lavoro si sono riflessi in modo significativo sulle famiglie
meridionali: infatti, nel 2012 (ultimo anno per il quale si dispone di informazioni) in una su
cinque era presente almeno un disoccupato, contro 1 su 10 nel Centro-Nord, ed è molto alta la
frequenza di famiglie con più persone a carico, soprattutto minori: quelle con almeno un minore
sono il 30,1% nel Sud e il 25,4% nel Centro-Nord; quelle con due o più soggetti a carico sono il
32,6% nel Mezzogiorno, contro poco più della metà nel resto del Paese.
I bassi tassi di occupazione, soprattutto giovanile e femminile, e l’insufficiente numero di
percettori di reddito rispetto alla persone a carico, costituiscono gli elementi decisivi di
disuguaglianza e di vulnerabilità delle famiglie meridionali rispetto al resto del Paese.
Profonde differenze nelle opportunità di occupazione caratterizzano, anche a parità di
qualifica professionale, i giovani rispetto agli adulti e le donne rispetto agli uomini (e, tra le
donne, quelle con figli rispetto a quelle senza). Il fattore territoriale, cioè la residenza nel
Mezzogiorno, agisce sistematicamente come un amplificatore di queste differenze.
Se è indubbio che solo una maggiore equità possa contribuire positivamente alla crescita,
allora ciò postula con tutta evidenza una politica fiscale e di bilancio che sia coerente con
quest’obiettivo. Cosa che finora non è avvenuta: sia l’erosione della base imponibile che
l’evasione delle imposte hanno operato e continuano ad operare in senso contrario all’equità.
Non solo, perché in Italia vi sono anche esenzioni fiscali generalmente maggiori per i
contribuenti a più alto reddito, così come avviene per la tassazione separata dei redditi da
capitale.
A ciò si aggiungono l’insufficiente sostegno ai carichi familiari, un sistema tributario che
penalizza le famiglie monoreddito, l’assenza di ammortizzatori sociali universali contro la
disoccupazione, che invece esistono in tutti gli altri paesi europei.
3.5. Gli indicatori di benessere: altra misura del divario
In Italia, ai significativi divari territoriali tra Centro-Nord e Mezzogiorno nel PIL pro
capite si accompagnano evidenti disparità nell’offerta di servizi ai cittadini. Anche quest’anno,
così come lo anno scorso, la SVIMEZ, traendo spunto dai risultati del secondo Rapporto sul BES
curato dal Comitato di indirizzo CNEL-ISTAT, ha costruito, a partire dagli indicatori pubblicati,
delle misure dei differenziali di benessere tra Mezzogiorno e resto del Paese, sia per i diversi
domini, sia a livello aggregato, confrontando i risultati ottenuti con quelli desumibili utilizzando
solo misure economiche. Come atteso, in generale il Mezzogiorno ha performances inferiori a
quelle medie nazionali: la differenza media di benessere con l’intero Paese risulta pari all’85,8%,
ovvero segnala che il Mezzogiorno ha un gap socio-economico di circa il 14,2% rispetto
all’intero Paese, inferiore a quello misurato rispetto ai consumi (delle famiglie) pro capite (-23%) e
la metà di quello misurato attraverso il PIL pro capite (-32,2% circa).
Il benessere è comunque una misura per molti versi soggettiva e relativa allo stato di
sviluppo economico raggiunto. Ad esempio, in un paese a basso reddito, benessere può
significare mangiare ogni giorno, in uno ad alto reddito potrebbe indicare il vivere in un’area
verde con l’aria pulita. Questa soggettività trasforma l’esercizio di misurazione del benessere
nell’individuazione di quali siano gli elementi che formano il benessere stesso e il progresso di
un determinato paese. La misurazione del benessere cattura quindi aspetti non più tecnici ma
squisitamente politici, perché confronta diverse visioni, non tutte assimilabili e integrabili, della
società e, in sostanza, della propria vita. Questo significa che qualsiasi misura o indicatore del
benessere è necessariamente contestualizzato nella società e nel periodo a cui si riferisce.
L’analisi condotta dalla SVIMEZ mostra comunque che esiste una forte correlazione
positiva tra PIL pro capite e benessere percepito, rilevato dalle indagini dell’ISTAT presso i
cittadini: il PIL pro capite spiega circa il 50% di tale relazione. Il Trentino Alto Adige mostra
livelli di soddisfazione molto più elevati di quanto attribuibili dal prodotto pro capite.
Analogamente, nel Mezzogiorno, il gruppo Sardegna-Abruzzo-Molise si colloca al di sopra della
relazione identificata. Nel Centro-Nord appare molto inferiore a quanto atteso il benessere
percepito nel Lazio e, forse inaspettatamente, in Toscana. Su livelli chiaramente inferiori a
quanto atteso è il benessere percepito in Campania.
Nel complesso, l’analisi svolta dalla SVIMEZ indica, da una parte, che il divario socioeconomico
appare di dimensione lievemente inferiore a quello identificato dai consumi o dal PIL
pro capite; dall’altra, che, in molti casi, la direzione e l’ampiezza del gap appare diversa
dall’aneddotica corrente. Risultati analoghi e in parte inattesi si rilevano guardando le differenze
regionali di benessere percepito. Inoltre, l’analisi segnala una notevole eterogeneità tra gli
indicatori: divari molto ampi tra il Sud e il resto del Paese risultano nei domini legati alla salute,
istruzione, ricerca e sviluppo, qualità dei servizi pubblici. Non è ovviamente una novità, ma la
valutazione quantitativa delle differenze segnala come queste siano superiori a quelle puramente
economiche. L’analisi mostra quindi i settori su cui appare necessario orientare le politiche
pubbliche di riduzione dei divari sociali e civili del Paese.
7 aprile 2015
Eugenio Caruso