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Rapporto SVIMEZ 2014. Aumenta il gap Nord-Sud.



Sopportiamo, dunque, copn animo generoso tutto ciò che per legge dell'Universo ci tocca patire.
Seneca, Lettere a Lucilio



7. POLITICA INDUSTRIALE E ACCESSO AL CREDITO: CONDIZIONI PER TORNARE A CRESCERE
7.1. Le ragioni di una politica industriale attiva per il Sud
In tutti i principali paesi avanzati l’intensità e la durata della crisi hanno portato alla riscoperta del ruolo fondamentale dell’industria come elemento catalizzatore per la crescita e per la diffusione dell’innovazione, del progresso tecnologico e della conoscenza. E va da sé che insieme all’industria si è rivalutato anche il ruolo della politica industriale in funzione correttiva e integrativa delle dinamiche spontanee del mercato. In Europa, il riconoscimento dell’importanza dell’industria, quale settore centrale su cui puntare per favorire l’uscita dalla crisi e la ripresa dello sviluppo, è avvenuto con l’adozione, nel 2012, da parte della Commissione della nuova strategia europea di politica industriale, che si è posta l’obiettivo di portare, entro il 2020, il peso relativo dell'industria manifatturiera europea sul PIL dal 15,6% del 2011 al 20%. A gennaio di quest’anno, con il cosiddetto industrial compact, oltre a ribadire l’obiettivo, si sono invitati gli Stati membri a irrobustire le politiche per il settore industriale. Un’ulteriore conferma del nuovo orientamento della Commissione sulla centralità della politica industriale è rappresentato dall’introduzione della Smart Specialisation Strategy (RIS3) nel nuovo ciclo di programmazione dei Fondi strutturali 2014-2020. La Strategia – la cui elaborazione costituisce uno dei requisiti per l’accesso alle risorse comunitarie – prevede che le Regioni e gli Stati identifichino le aree tecnologiche del proprio possibile futuro vantaggio competitivo, concentrando le risorse disponibili su di esse e individuando un numero limitato di priorità, quelle con il potenziale di sviluppo più elevato. L’obiettivo di lungo periodo è evidentemente quello di favorire una trasformazione delle strutture produttive verso attività più competitive e a maggior valore aggiunto. Si riconosce, dunque, che la politica industriale non può fondarsi solamente su interventi di tipo “orizzontale” – quali quelli che per molti anni hanno largamente prevalso – ma anche su interventi “attivi” e selettivi, volti ad imprimere una correzione ai modelli di specializzazione. La rivalutazione del ruolo dell’industria e della politica industriale ha avuto importanti conseguenze sul piano concreto delle misure messe in campo negli ultimi anni dai singoli Stati. Tra vecchi e nuovi strumenti, i principali paesi europei dispongono di uno spettro di interventi ben più ampio che in Italia, con misure di sostegno ai grandi gruppi industriali (i cosiddetti “campioni nazionali”), ma soprattutto con misure volte al rafforzamento delle PMI, alla promozione della ricerca, l’innovazione e allo sviluppo di tecnologie chiave nei settori medium e high-tech, nonché per favorire l’accesso al credito e sostenere l’internazionalizzazione. L’Italia, purtroppo, sembra muoversi in direzione contraria. L’impegno dell’intervento pubblico a favore dell’industria, in concomitanza con la grave crisi economica, è andato riducendosi nel nostro Paese, molto più intensamente che negli altri paesi europei. Nell’intero periodo 2007-2012, il peso degli aiuti di Stato sul PIL è stato in Italia pari allo 0,27%, non solo nettamente inferiore alla media europea dell’UE a 27 (0,47%), ma anche uno dei più bassi tra i nostri principali partner europei (basti, a tal fine, ricordare i valori di Germania e Francia, pari rispettivamente allo 0,53% e allo 0,61%) e superiore solamente a quello del Regno Unito (0,24%) e ai valori di economie di taglia ampiamente inferiore, quali Romania, Estonia e Bulgaria. Nel richiamare, in questa sede, alcuni esempi, si possono ricordare gli interventi più significativi di Germania e Francia. In Germania operano gli istituti Fraunhofer-Gesellschaft, dotati di budget annuali consistenti (nell’ordine dei 2 miliardi di euro), diffusi in modo capillare sul territorio nazionale in modo tale da mantenere un contatto continuo e diretto con i piccoli imprenditori, i quali sviluppano tecnologie e prodotti specifici per le PMI. Inoltre, sono operative la KFW, maggiore banca pubblica, punto di riferimento per l’accesso al credito delle PMI, e la IPEX, la export bank tedesca, anch’essa a controllo pubblico, che nel 2011 ha raggiunto un volume complessivo di prestiti all'export pari ad oltre 60 miliardi di euro (con un flusso di nuovi crediti di oltre 13 miliardi). In Francia, l’intervento pubblico è fortemente caratterizzato da: interventi a favore della ricerca e dell’innovazione, che vengono convogliati soprattutto in centri di eccellenza regionali, i “Poli di competitività”; misure per favorire l’accesso al credito delle PMI; interventi per l’internazionalizzazione gestiti da un’Agenzia ad hoc, UBIFRANCE (che offre servizi di consulenza alle imprese, mette in contatto aziende francesi ed estere, assiste le imprese francesi per fare promozione all’estero). Dai dati del MISE emerge, peraltro, come la riduzione degli aiuti alle imprese abbia colpito essenzialmente il Mezzogiorno, dove si è concentrato gran parte del taglio dell’intervento pubblico. Confrontando il periodo 2007-2009 con il triennio più recente, 2010-2012, la media annua delle agevolazioni complessivamente concesse alle imprese meridionali è passata da 2,6 a 1,2 miliardi, risultando, dunque, più che dimezzata (-52%). Nel Centro-Nord la diminuzione (da 3 a 2,8 miliardi) è stata di appena il -5,2%. Occorre dunque rimettere rapidamente l’industria al centro di una nuova strategia di sviluppo. Con una consapevolezza di fondo: nel Centro-Nord la politica industriale deve mirare principalmente a favorire una ristrutturazione del sistema produttivo esistente, finalizzata principalmente alla sostituzione delle capacità produttive messe fuori mercato dai cambiamenti strutturali intervenuti nella geografia degli assetti produttivi a livello mondiale. Nel Sud, invece, essa deve avere come obiettivo non solo l’adeguamento ma soprattutto l’ispessimento dell’apparato produttivo, ovvero un allargamento della base industriale, ancora largamente sottodimensionata. Nel Mezzogiorno, infatti, come già ricordato, il tasso di industrializzazione è risultato, nel 2013, di 37,4 addetti per 1.000 abitanti, contro il 93,9 del Centro-Nord. Considerando che nel Sud resta, dunque, più che mai prioritaria la necessità di un rilancio del processo di industrializzazione, nei prossimi anni occorre già porre in campo una forte e continuativa azione di sostegno diretto e di promozione dell’industria, dotata di rilevanti risorse finanziarie. A tal fine è necessario che la politica industriale nazionale – per la quale è urgente un vigoroso rafforzamento – sia adeguatamente articolata a livello territoriale, in modo da tenere già essa conto degli specifici deficit strutturali del Mezzogiorno. E che ad essa torni ad affiancarsi anche una specifica politica nazionale regionale, avente per obiettivo diretto lo sviluppo del sistema industriale meridionale. In altre parole, la politica di sostegno diretto e di promozione del processo di industrializzazione deve tornare ad essere una componente centrale della “politica di sviluppo e coesione”. Gli interventi di contesto, che negli ultimi anni hanno finito con l’assumere ruolo centrale e pressoché esclusivo nella politica di sviluppo e coesione, sono certamente di grande importanza ma non possono essere sostitutivi di una politica industriale di medio e lungo termine, volta, attraverso interventi di largo respiro, a promuovere l’innovazione e la crescita dell’industria. Quanto alle caratteristiche e alle finalità della politica industriale da mettere in campo, sono da privilegiare misure “attive” e fortemente selettive, in grado di operare una seria programmazione di settori e filiere, individuando le maggiori opportunità di sviluppo e le tecnologie chiave sulle quali orientare gli investimenti. Per quanto riguarda le grandi imprese, appaiono quanto mai necessari interventi volti a mantenere una significativa presenza del nostro Paese nei comparti produttivi nei quali esso presenta importanti vantaggi competitivi, quelli a maggior valore aggiunto e per i quali più dinamica è la domanda mondiale; interventi che assumono particolare importanza proprio per il Sud, perché è nell’area che è localizzata una quota significativa della capacità produttiva di questi settori, strategici per l’economia italiana. Quanto alle piccole e medie imprese, esse hanno innanzitutto un problema di tenuta in questa lunga fase di crisi. Le politiche a loro favore dovrebbero puntare quindi, a livello macro, sul sostegno sia dei consumi che, soprattutto, degli investimenti, in particolare nel Mezzogiorno dove le PMI sono poco aperte all’export e fortemente dipendenti dalla domanda interna. Va peraltro sottolineato, al riguardo, come un sostegno alla domanda del Sud avrebbe importanti effetti espansivi anche per le imprese del Centro-Nord, che esportano nelle regioni meridionali quote rilevanti delle loro produzioni. Dal lato delle politiche di offerta, è necessario rafforzare l’accesso al credito e ai mercati dei capitali; favorire la crescita dimensionale e la formazione di aggregazioni; sostenere l’attività di internazionalizzazione; incentivare i processi di upgrading e di trasferimento tecnologico; promuovere la creazione di nuove imprese, in particolare di quelle innovative e ad alta intensità di capitale umano qualificato. Sotto il profilo degli strumenti, il generale basso accesso del Sud agli interventi della politica industriale nazionale – ulteriore riprova dell’esistenza di ritardi strutturali delle imprese meridionali – interessa quasi tutti gli ambiti della politica industriale. Si tratta, dunque, di individuare quali misure sia possibile mettere in campo per attuare una strategia di coinvolgimento delle imprese del Mezzogiorno. A tal fine bisognerebbe fortemente calibrare gli strumenti in relazione alle peculiarità riscontrabili nelle due diverse macro aree del Paese, in modo da tenere in considerazione i maggiori ritardi delle imprese meridionali. Agli strumenti della politica industriale nazionale, come detto, si dovrebbero, inoltre, affiancare quelli di una politica regionale, specifici per l’area. Nel caso, in particolare, degli interventi volti a favorire l’aumento delle dimensioni di impresa – che può essere considerato l’obiettivo cruciale della politica industriale per le PMI meridionali, in quanto il loro grado di frammentazione costituisce uno dei principali fattori che frenano gli investimenti in ricerca e innovazione e i processi di internazionalizzazione – andrebbero apportati alcuni correttivi agli interventi esistenti, finalizzati a tale obiettivo. Si fa riferimento, in particolare, alla necessità di rafforzare e potenziare gli interventi del Fondo Italiano di Investimenti per le PMI e dei Contratti di rete, con una specifica attenzione al Mezzogiorno. Nel primo caso, nel raggio d’azione del Fondo – che come noto è un fondo nazionale di private equity pubblico-privato, che effettua investimenti in società di piccole e medie dimensioni – si dovrebbero, in particolare, attivare canali di accesso privilegiato per il Sud, riservando alle imprese meridionali una quota prefissata delle risorse disponibili a livello nazionale. Andrebbero, inoltre, istituiti fondi di private equity specifici per il Mezzogiorno, finalizzati a sostenere non solo l’avvio di nuove imprese, ma anche il consolidamento e lo sviluppo di quelle esistenti. Per quanto riguarda i Contratti di rete – forma di aggregazione che può più facilmente radicarsi anche in presenza di dispersione e discontinuità del tessuto produttivo, caratteristiche tipiche di quello del Sud –, è auspicabile un loro rafforzamento in più direzioni: prolungando le agevolazioni fiscali che si sono interrotte nel 2013; inserendo misure aggiuntive a favore delle “reti d’imprese” tra gli interventi finanziati dai Programmi operativi delle Regioni meridionali nell’attuale ciclo di programmazione 2014-2020, come già qualche Regione ha iniziato a sperimentare in coda al ciclo 2007-2013. Nel campo della ricerca, dell’innovazione e del trasferimento tecnologico, va rilevato come siano stati sviluppati gli strumenti più interessanti della politica industriale di questi ultimi anni, di tipo selettivo e a forte carattere “verticale”, con l’individuazione di ambiti produttivi prioritari su cui concentrare gli interventi. Nel Sud questi strumenti sono stati essenzialmente finanziati con le risorse dei Fondi strutturali 2007-2013, ormai in corso di esaurimento. In prospettiva, poiché si continuerà molto verosimilmente a fare affidamento su queste risorse, è necessario accelerare l’avvio del nuovo ciclo 2014-2020 per garantire il prolungamento e consolidamento delle suddette misure. A questo proposito, la linea maggiormente da perseguire, potrebbe essere quella di sviluppare e potenziare i “Cluster tecnologici”, che più dei distretti tecnologici si contraddistinguono per la concentrazione a scala regionale e sovra regionale degli investimenti su pochi grandi progetti, la focalizzazione su specifici ambiti tecnologici innovativi e la centralità dei processi di trasferimento tecnologico. L’intento è quello di fare massa critica, superando la frammentazione rimproverata ai distretti tecnologici. Il grado di apertura sui mercati esteri è un altro fronte su cui il Mezzogiorno presenta forti ritardi rispetto al resto del Paese. Tuttavia, come già richiamato, a partire dal 2008 si è rilevato un incremento del numero degli esportatori più intenso che a livello nazionale, probabilmente per effetto del crollo della domanda interna, maggiore che nel resto del Paese, e che ha spinto molte piccole imprese del Sud a cercare nuovi sbocchi a livello internazionale. Dovrebbe essere compito della politica industriale sostenere anche questo gruppo di imprese che si affacciano per la prima volta sui mercati esteri, al fine di rafforzare la loro competitività e consolidare progressivamente la loro proiezione esterna. Più in generale, considerata anche l’assoluta irrilevanza dell’accesso del Sud alle agevolazioni per l’internazionalizzazione, potrebbe essere utile introdurre nei canali di finanziamento per il credito all’export – che rappresenta la principale forma di agevolazione per le attività in oggetto – delle corsie preferenziali, per modalità di accesso e risorse, da riservare alle PMI meridionali. Il Piano per il Sud, operativo nel triennio 2013-2015 (dotato di risorse pari a 50 milioni di euro), gestito dall’ICE, potrebbe rappresentare un primo passo per sostenere con maggiore incisività la propensione all’export delle imprese localizzate nelle quattro regioni della Convergenza; andrebbe però prolungato, esteso anche alle restanti regioni del Mezzogiorno e quindi dotato di maggiori risorse. In realtà, nel Mezzogiorno, è necessario innanzitutto favorire l’insediamento di nuovi impianti, anche attraverso l’attrazione di investimenti esterni, nazionali ed esteri. Per compensare gli innumerevoli svantaggi competitivi che penalizzano il Mezzogiorno, non solo rispetto al Centro-Nord ma anche in ambito europeo, sarebbe fondamentale poter contare su forme di fiscalità di vantaggio per gli investimenti, soprattutto esteri, specialmente dove esistono potenzialità non utilizzate. Lo svantaggio competitivo del Mezzogiorno – come precedentemente illustrato – si commisura infatti non solo in rapporto al resto del Paese, ma anche nei confronti dei paesi europei della ex-area sovietica, che oltre ad essere avvantaggiati da un più basso costo del lavoro, possono utilizzare liberamente i maggiori margini di libertà delle leve fiscale e monetaria. A livello europeo, gli interventi a favore del Mezzogiorno dovrebbero tenere esplicitamente conto degli squilibri derivanti dalla non ottimalità dell’Area Euro e dalla assenza di meccanismi atti a compensare i divari di crescita e di competitività tra le diverse regioni europee, ancora fortemente eterogenee. In tale ottica, quello della fiscalità di vantaggio è un tema che deve essere riproposto e discusso a livello europeo, superando vecchi veti che hanno ormai completamente perso la loro ragione d’essere.
7.2. Andare oltre il blocco del credito per la ripresa degli investimenti
L’Eurozona continua ad essere caratterizzata, per il sesto anno consecutivo, da bassi livelli di attività e da elevati tassi di disoccupazione; fenomeni che assumono dimensioni drammatiche nei paesi periferici. Il processo di divaricazione dei mercati creditizi tra Europa del Nord ed Europa mediterranea ha ormai assunto ampiezze ragguardevoli per ciò che concerne la dinamica degli impieghi, i tassi di interesse, l’irrigidimento dei criteri per la valutazione del merito creditizio e la percezione del rischio sull’andamento dell’economia da parte delle banche. In questo scenario si colloca l’economia italiana: la severa flessione dei livelli di attività che il sistema produttivo ha sperimentato nel corso degli ultimi anni, soprattutto a seguito del crollo della domanda interna provocata dalle politiche fiscali restrittive, ha condotto a una parziale riduzione della domanda di credito, recando con sé un progressivo peggioramento della sua qualità e un aumento delle sofferenze. Ciò ha avuto immediate ripercussioni sulla condotta del sistema bancario che è sempre più vincolato, da un lato, da un deterioramento progressivo del quadro macroeconomico e degli impieghi, e, dall’altro, dai vincoli sempre più stringenti imposti dalla vigilanza che assume ora un carattere sovranazionale con il passaggio all’Unione Bancaria che spinge, a sua volta, le banche verso politiche creditizie troppo prudenziali con il risultato di ridurre ulteriormente il potenziale di crescita del sistema economico. Non va sottaciuto che le prospettive di rafforzamento patrimoniale del sistema bancario italiano, secondo quanto prescritto dalle nuove regole sul capitale delle banche di Basilea 3, presentano ancora delle criticità: basti pensare che, sulla base dei dati di fine 2013 riferiti a un campione di 13 gruppi bancari italiani che partecipano al monitoraggio internazionale degli standard di Basilea, il fabbisogno aggiuntivo di capitale di qualità primaria necessario, a regime, per il raggiungimento dei requisiti minimi, sarebbe ancora di 5,3 miliardi. Il deterioramento del quadro macroeconomico assume tratti drammatici per le imprese operanti in contesti territoriali ed istituzionali più fragili, esposte pertanto a rischi sistemici maggiori, come nel caso del Mezzogiorno. In quest’area la crisi ha inciso pesantemente su tutto il sistema produttivo coinvolgendo anche le imprese che operavano in settori protetti come le costruzioni e i servizi, pesantemente penalizzati per il calo prolungato della domanda interna. Si segnala a tale riguardo che i tassi di ingresso in sofferenza sono significativamente più alti per le imprese meridionali, differenziale che si autoalimenta proprio in funzione della sistematica restrizione del credito operata; questo andamento pro-ciclico, in una situazione di depressione strutturale, rischia di provocare danni permanenti e difficilmente riparabili. Infatti, la difficoltà, se non impossibilità, di accedere al credito, unica fonte di finanziamento per le imprese minori, ne compromette la possibilità di espansione della scala produttiva e la stessa capacità di conseguire superiori livelli di efficienza tali da assicurare una maggiore competitività su mercati ormai globalizzati. Risulta quindi cruciale affrontare il problema della riattivazione dei meccanismi del credito alle imprese al fine di riagganciare le evanescenti prospettive di ripresa dell’economia che si stanno profilando all’orizzonte. La riattivazione del canale creditizio passa necessariamente per interventi che riguardano sia le imprese che le banche. Va osservato che allo stato attuale una quota significativa delle imprese meridionali non risulta bancabile sulla base dei restrittivi criteri regolatori imposti dalla BCE alle banche, in particolare a quelle poche banche di territorio ancora rimaste che erano maggiormente coinvolte nel finanziamento del sistema produttivo locale. Risulta quindi cruciale mettere questa platea di imprese in condizioni di accedere al credito e questo può verificarsi nella misura in cui si procede ad una loro significativa ricapitalizzazione. In questo senso si rende necessaria una politica industriale che individui i settori e le imprese che presentano quelle potenzialità tali da consentirle, una volta ricapitalizzate, di accedere anche in misura significativa al credito, di espandersi e competere. Gli interventi di ricapitalizzazione potrebbero prevedere tanto il concorso privato di imprenditori disposti a investire risorse in imprese con potenzialità di successo quanto quello pubblico. Per quanto concerne le banche e la loro disponibilità ad espandere il credito al sistema produttivo, questa può avvenire se i loro bilanci sono ripuliti dai crediti di bassa qualità che sono il diretto effetto della crisi in corso. La possibilità di procedere ad uno smobilizzo dei crediti in sofferenza al fine di ridare elasticità ai bilanci bancari rappresenta una condizione irrinunciabile per le banche se queste devono riprendere a finanziare il sistema produttivo. La questione degli smobilizzi riguarda quindi la possibilità di creare un organismo, riconducibile ad un modello di Bad Bank, che possa rilevare le partite in sofferenza convertendole in liquidità per gli istituti di credito. Questa istituzione potrebbe a sua volta finanziarsi ricorrendo in parte all’apporto della Cassa Depositi e Prestiti, in parte ai realizzi conseguiti dalla riscossione dei crediti rilevati dalle banche e, infine, all’emissione di obbligazioni sul mercato finanziario. Intervenendo su questi due versanti sarebbe possibile arrestare il peggioramento della struttura dei rating per banche e imprese e riattivare il canale creditizio che, di fatto, in questi ultimi due anni, nonostante le politiche espansive condotte dalle BCE, fino ai recenti interventi di questi giorni, non è stato operativo proprio a causa del vincolo posto dal “canale patrimoniale” delle banche.
8. I MOTORI DELLO SVILUPPO
Ben consapevole del rischio di essere monotonamente ripetitivi, la SVIMEZ insiste da tempo su come e perché il Mezzogiorno resti la grande opportunità per avviare un percorso durevole di ripresa e di trasformazione dell’intera economia italiana. Il fallimento delle politiche di austerità e l’aumento delle disparità tra aree forti ed aree deboli dell’UE, impongono di mettere in campo una strategia di sviluppo nazionale, che ponga al centro il Sud. In questo spirito anche il Rapporto di quest’anno ribadisce con forza alcune direttrici di intervento prioritarie, che non sono parti separate di un’azione di sviluppo bensì ambiti fortemente interconnessi tra loro. Questi motori dello sviluppo sono stati identificati nelle città, nelle aree interne, nelle energie rinnovabili, nella logistica in un’ottica euro mediterranea, nel piano delle acque, nella filiera agro-industriale ed agro alimentare. A nostro avviso, il motore dal quale prendere le mosse è costituito dalla rigenerazione urbana, che ha come elementi portanti la riqualificazione edilizia, la ristrutturazione urbanistica, l’efficientamento energetico, il recupero e la valorizzazione del patrimonio archeologico, architettonico e artistico, importante occasione di rilancio per l’industria culturale. Si tratta, infatti, del più rilevante catalizzatore di un processo di sviluppo, che punti sulla valorizzazione della città già costruita senza, per questo, trascurare le aree interne che nel Sud occupano il 40% dell’intero territorio. La proposta è quella di coniugare un’azione strutturale di medio-lungo periodo, fondata sui sopracitati drivers tra loro strettamente interconnessi, con un “piano di primo intervento” da avviare con urgenza, e coerente con la più complessiva strategia di sviluppo. Un piano di primo intervento che assuma come obiettivo quello di realizzare in tempi credibili quanto è possibile fare con le risorse disponibili o immediatamente attivabili, partendo dagli interventi a redditività ravvicinata che abbiano il maggiore impatto economico e sociale. Tale Piano può svolgere un prezioso ruolo iniziale di volano, funzionale alla complessiva strategia di sviluppo. I piani di azione dovranno essere gestiti secondo una “logica industriale”, cioè con un approccio di sistema sia dal punto di vista dei soggetti che dei territori, in quanto sono richiesti investimenti strategici anche a redditività differita e una progettazione a lungo termine. Su questi temi la SVIMEZ intende mettere a punto, fin dalle prossime settimane, un documento organico di proposte, con specifici indirizzi di intervento, da sottoporre al Governo, al Parlamento, alle Regioni e ai Comuni.
8.1. La rigenerazione urbana ed energetica
Le caratteristiche della filiera della riqualificazione edilizia e urbana, l’avere un fattore moltiplicatore dell’investimento tra i più elevati, l’avere un’alta intensità di utilizzo della manodopera, e quindi un effetto di immediato sollievo rispetto alla crisi occupazionale in atto, l’avere una rilevante capacità di attivazione di settori collegati che hanno, al netto del fattore energia, una ricaduta prevalente sulla struttura economica interna, che non favoriscono, cioè, settori industriali per cui dipendiamo dall’estero, indicano senza alcun dubbio il settore della rigenerazione e infrastrutturazione urbana come uno dei driver decisivi per riprendere il cammino della crescita. Per far ripartire il volano economico, stimolato dalla crescente domanda di una nuova politica pubblica dedicata alla filiera delle costruzioni, proveniente dal mondo delle imprese, ma anche ormai da molte associazioni ambientaliste che vedono nella frontiera della rigenerazione urbana un approdo coerente con un nuovo modello di sviluppo ambientalmente più sostenibile e a minor consumo di suolo, il Governo Centrale ha prima promosso il Piano Città (2012-2013), sta curando il rifinanziamento e la stabilizzazione delle detrazioni fiscali per le riqualificazioni edilizie ed energetiche, ed è impegnato a spendere in opere immediatamente cantierabili i residui della programmazione 2007-2013. Si intravede in queste misure – come anche nel recente decreto legge “Sblocca Italia” del Governo Renzi, che si è preoccupato di snellire le procedure autorizzative degli interventi edilizi – l’esito di questa consapevolezza. La direzione è giusta, ma occorre prestare attenzione, da un lato, alla filiera dell’attuazione di una politica per le città, dall’altro, a potenziare la capacità di coordinamento delle misure e di intelligenza delle politiche territoriali. Sotto il primo profilo, si deve considerare come un investimento essenziale il rafforzamento delle strutture tecniche nazionali: ma non possono bastare pochi esperti di programmazione, occorrono tecnici esperti nel campo della rigenerazione e valorizzazione urbana. Il tema della strutturazione di un soggetto per la definizione e l’attuazione di una politica urbana nazionale, tornato in varie forme, a partire dall’istituzione nel 2012 del Comitato Interministeriale per le Politiche Urbane (CIPU), al centro dell’attenzione, senza trovare ancora un approdo convincente, va declinato in un’ottica più operativa e di supporto al livello locale, investendo quel che è necessario. Se l’effetto sarà una maggiore capacità di spesa dei fondi europei e una maggiore capacità di selezionare ed attuare progetti di importanza strategica, capaci di mobilitare capitali privati italiani e attrarre investimenti esteri, si tratterà di un investimento assai prezioso e utile. Sotto il profilo della capacità di fare della programmazione per le città un elemento di vera politica economica e industriale, e non di spesa improduttiva a solo scopo anticongiunturale, occorre avere un’idea precisa dello sviluppo che si vuole perseguire. Il “Piano Città” del 2012, ad esempio, non è stato un piano, non c’è stata cioè un’idea di politica economica per le città coinvolte; il “Piano Città” è stato un bando, che ha stimolato le amministrazioni locali a tirar fuori dal cassetto o formulare progetti di intervento più o meno cantierabili. Occorre, invece, un vero “Programma Nazionale per le Città”, che coniughi gli investimenti infrastrutturali, con gli interventi di rigenerazione urbana e di recupero e bonifica di aree dismesse o sottoutilizzate. E che sia capace di coordinare gli interventi di riqualificazione edilizia e di miglioramento dei servizi e delle infrastrutture urbane, con interventi di natura fiscale e amministrativa (zone franche, zone economiche speciali, “zone a burocrazia zero”, ecc.), che inducano la nascita di nuove imprese, che attraggano capitali, che creino cioè le “condizioni ambientali” per uno sviluppo urbano duraturo. Un Programma che, con specifico riferimento al Mezzogiorno non sia una mera raccolta di proposte dei Comuni, ma un insieme coordinato di politiche urbane – dagli interventi edilizi, agli incentivi fiscali e contributivi, al sostegno all’internazionalizzazione – e che possa incidere sulla capacità di un’area urbana di tornare luogo di opportunità e motore di sviluppo economico e civile. Si tratta di un passaggio necessario per affrontare le sfide che la recente iniziativa (luglio 2014) della Commissione europea per la formulazione di un’Agenda Urbana ha nuovamente posto all’attenzione dell’Unione. Il contesto del Mezzogiorno urbano costituisce uno dei luoghi critici della sfida urbana europea: dalle città ci si aspetta non solo una spinta per rilanciare la crescita, ma anche la realizzazione di un modello di sviluppo che promuova un uso efficiente delle risorse ambientali e che migliori la sua capacità di combattere la diffusione di povertà ed emarginazione, realizzando complessivamente un modello sociale più “inclusivo”. Nelle città del Mezzogiorno si riscontrano in forma particolarmente acuta i tre aspetti critici della condizione urbana dell’Unione: tassi di disoccupazione più elevati; i progressi in termini di efficienza ambientale “sono messi a repentaglio da un’espansione urbana incontrollata che mette sotto pressione i servizi pubblici e riduce la coesione territoriale”; aumenta la tendenza, anche in conseguenza dell’espansione incontrollata, all’aggravarsi della “vulnerabilità delle città ai disastri naturali e provocati dall’uomo”. Per affrontare queste sfide occorre quindi formulare politiche di sviluppo urbano, nel colloquio e nella sussidiarietà dei ruoli e dei compiti, ma affrontando anche, ove necessario e utile, la strada di leggi nazionali e interventi straordinari. E’ il caso, in primo luogo, di Napoli: stretta tra ridimensionamento demografico, crisi ambientali e il dilagare di zone opache della società, favorito dalla crisi economica e amministrativa che la attanaglia, la città non sembra poter trovare al suo interno, senza una robusta e decisa politica nazionale, le forze per rialzarsi e ripartire. La sfida per Napoli ha una dimensione di scala vasta, che va ben oltre i destini del comune centrale e si lega anche al tema della istituzione delle Città Metropolitane e alla definizione di strategie di sviluppo per i loro territori. Le Città Metropolitane del Mezzogiorno, Napoli, Bari, Palermo, Catania, Messina e Reggio Calabria, Cagliari sono anche città costiere e portuali con un retroterra ricco di valori ambientali e culturali da mettere in gioco per migliorare l’attrattività turistica e la qualità della vita: si pensi ad esempio a Bari, alle filiere agroalimentari metropolitane dell’entroterra in connessione con la Fiera del Levante e il vicino porto commerciale e crocieristico, e alle relazioni ambientali costituite dalle “lame”, valli fluviali che originano nel vicino Parco Nazionale dell’Alta Murgia e convergono nella città, da mettere in sicurezza sotto il profilo idraulico, come premessa per una piena valorizzazione in chiave paesaggistica e fruitiva. Ma la sfida non può essere vinta per naturale evoluzione. Ce lo mostrano i dati relativi ai Sistemi Locali del Lavoro (SLL) delle grandi città. Fino al Censimento 1981, i SLL delle aree urbane più grandi del Mezzogiorno, come Napoli, Palermo, Bari, Catania e Messina, registravano una crescita demografica forte, segnale di un’offerta di opportunità che attraeva popolazione. La crescita da allora ad oggi è rallentata o in molti casi è divenuta decrescita. Le grandi città del Centro-Nord, invece, dopo una parziale flessione alla fine del XIX secolo, con il nuovo millennio sono ripartite sia sotto il profilo demografico, sia sotto il profilo economico. Il declino dei grandi sistemi urbani del Sud è particolarmente evidente se consideriamo solo il comune principale del SLL e più lieve se consideriamo anche i comuni di cintura. Il nuovo millennio per le grandi città del Mezzogiorno fa segnare ancora una fase di declino: nonostante nel periodo 2002-2013 vi sia stato un aumento medio annuo della popolazione del Mezzogiorno del 1,7‰, i comuni metropolitani con oltre 250.000 abitanti mostrano una flessione dell0 0,7‰. Solo nei centri medi, compresi tra le 50.000 e le 100.000 unità, vi è una significativa crescita demografica annua, pari al 2,5‰. Nei comuni e nei SLL più popolosi del Mezzogiorno, come nelle altre classi dimensionali del Mezzogiorno, si rileva, inoltre, una più modesta presenza di cittadini stranieri rispetto al Centro-Nord. I valori attuali del Sud sono sostanzialmente pari a quelli rilevati nel Centro-Nord 10 anni fa. Del resto sono ancora pochi, con l’eccezione dei servizi alle famiglie e agli anziani, i settori economici nelle aree urbane del Mezzogiorno in condizioni di offrire un impiego ai lavoratori stranieri. La presenza e la dinamica migratoria degli stranieri è uno degli aspetti chiave della dinamica demografica dell’Italia e in primo luogo del Centro-Nord. Il Mezzogiorno e le sue aree urbane restano ai margini di questo fenomeno, a causa, principalmente, della mancanza di opportunità di lavoro. Il tasso di occupazione testimonia delle difficoltà del Mezzogiorno. Mentre il tasso di occupazione della popolazione italiana di 15 anni e più si attesta a un pur modesto 45%, il valore corrispondente scende nel Mezzogiorno al 36,8%. Dei 5 maggiori centri urbani del Mezzogiorno, solo Bari e il corrispondente SLL hanno un tasso di occupazione più elevato. Gli altri centri mostrano un livello di occupazione molto basso: a Napoli, in particolare, meno di un terzo della popolazione in età lavorativa, il 31,8%, ha un’occupazione. Includendo la popolazione disoccupata in cerca di occupazione (tasso di attività) il valore sale al 44,0%, facendo registrare uno scarto in negativo di 1,8 punti percentuali rispetto alla media del “Mezzogiorno urbano” e di quasi 10 punti percentuali rispetto al “Centro- Nord urbano”. Un recente studio di Banca d’Italia sulla distribuzione del valore aggiunto su base territoriale consente di disporre di indicatori di disuguaglianza a livello provinciale dal 2000 al 2011 attraverso la misurazione dell’indice di Gini (un indicatore che rappresenta la misura globale della diseguaglianza nella distribuzione, tra le n unità di una collettività, di un carattere trasferibile, quale il reddito). A valori più alti dell’indicatore corrisponde una maggiore diseguaglianza nella distribuzione del reddito. I risultati di tale ricerca confermano che le città metropolitane del Mezzogiorno stanno perdendo le sfide poste alla base dell’Agenda Urbana Europea: non solo rallenta o assume un andamento negativo la loro capacità complessiva di creare valore aggiunto, ma aumentano le disuguaglianze di reddito, e con esse rischia di indebolirsi, su base economica, la capacità di inclusione sociale. L’aumento delle disuguaglianze del reddito colpisce negli anni della crisi il complesso delle province metropolitane italiane, non risparmiando le aree più dinamiche ma colpendo più pesantemente le province metropolitane del Sud. Roma registra il valore più elevato dell’area Centro-Nord con un indice di Gini pari a 43. Le province metropolitane del Sud – Napoli con il 43,0; Bari con il 43,4; Palermo con il 43,6 – fanno registrare un livello di disuguaglianza di redditi equivalente o superiore al dato peggiore del Centro-Nord. Le grandi aree urbane meridionali devono, dunque, ritrovare la via dello sviluppo nella rivitalizzazione del loro tessuto produttivo e del loro ambiente urbano e devono contrastare l’ampliarsi della diseguaglianza e delle aree di povertà. Devono favorire interventi di bonifica e riqualificazione di aree dismesse, e azioni per valorizzare la loro vocazione commerciale e turistica, quali città di mare. Devono contrastare l’aggravarsi di fenomeni di esclusione sociale, recuperando in quartieri rinnovati, la partecipazione utile e creativa dei giovani, delle donne, dei molti over 50 che non trovano lavoro o di coloro che la crisi ha spinto a rientrare nella città di origine per una sconsolata emigrazione di ritorno a causa della contrazione dell’industria manifatturiera settentrionale e del suo indotto. Anche il settore dell’energia, che per le aziende italiane costituisce un ostacolo competitivo a causa degli elevati prezzi delle forniture nel nostro Paese, ha nelle città un luogo chiave per il raggiungimento degli obiettivi di riduzione della CO2 attraverso il contenimento dei consumi energetici urbani. Anch’esso, al pari della riqualificazione urbana, è un importante driver di sviluppo che apporta benefici intersettoriali per le imprese e benefici diffusi per le famiglie. L’efficientamento energetico degli involucri e dei complessi edilizi e lo sviluppo di tecnologie di produzione energetica che possono integrarsi negli edifici e nei quartieri, consentono ormai di promuovere “azioni pervasive”. Da un lato, le città del Mezzogiorno, per la loro stratificazione e il valore culturale dei loro centri storici possono essere luogo di sperimentazione e diffusione di tecniche di intervento specifiche per la riqualificazione dell’edilizia esistente, messe a punto da istituzioni pubbliche di eccellenza, quali l’ENEA e il CNR, senza trascurare i centri di ricerca delle Università e delle imprese, dall’altro le stesse città, per le caratteristiche dei contesti ambientali e climatici in cui si inseriscono, possono essere luogo di produzione diffusa di energie rinnovabili. Nelle regioni del Mezzogiorno è però necessaria un’attenzione specifica alle caratteristiche del contesto del tessuto produttivo e sociale. Ci vogliono, ad esempio, provvedimenti mirati e azioni di supporto perché non si verifichi quanto è successo per le detrazioni fiscali per le ristrutturazioni edilizie, che, fin dal loro avvio nel 2007, hanno, per paradosso, premiato le regioni con un’economia più ricca e organizzata, rispetto alle aree più arretrate, dove prevale un tessuto economico informale e polverizzato. Anche per il Fondo Nazionale per l'efficienza energetica istituito dal 4 luglio 2014 per l’attuazione della direttiva 2012/27/UE, così come per le linee di stimolo e finanziamento di politiche per l’energia sostenibile, occorre considerare subito le specifiche difficoltà di attuazione nelle aree meno sviluppate del Mezzogiorno. I bilanci pregressi delle iniziative degli ultimi anni nel Mezzogiorno e la non felice esperienza del PON Energia 2007-2013 non consentono infingimenti in proposito. Un “piano di pronto intervento” incentrato sulla rigenerazione urbana, promosso dal Centro d’intesa con le Regioni, deve essere capace di attivare un insieme di effetti interrelati: realizzare azioni e programmi di miglioramento del contesto urbano che possono riattivare il ciclo economico della riqualificazione edilizia e dare un immediato contributo alla ripresa della crescita e dell’occupazione; promuovere innovazione tecnologica, nell’intervenire su un tessuto edilizio non di rado di valore storico o nello sviluppare tecniche di intervento su edifici e strutture moderne da consolidare e riqualificare; generare innovazione sociale, nello stimolare il rapporto delle giovani generazioni o di fasce marginali della popolazione con la gestione della città; stimolare la nascita di nuove imprese per la riqualificazione e gestione sostenibile di quartieri, singoli edifici, aree verdi. Il “piano di pronto intervento” per le città, già invocato nel Rapporto SVIMEZ 2013 per un efficace utilizzo dei residui dei fondi europei 2007-2013 e dei fondi del nuovo ciclo 2014- 2020, deve perciò essere il primo capitolo di quei cambiamenti strutturali necessari a fare delle aree urbane quei motori dello sviluppo economico e dell’innovazione tecnica, culturale e sociale in grado di generare sempre nuove risposte alle continue sfide dell’economia e della società nel quadro degli attuali processi di globalizzazione e competizione tra territori. Il rischio per il Mezzogiorno, in particolare, è che in assenza di una strategia di intervento chiara e di una capacità di azione veloce, le grandi aree urbane siano abbandonate al loro destino. Ma non si tratterebbe, allora, di lasciarle così come sono. In una fase di acuta crisi economica, il destino delle aree urbane – e le grandi città sono i territori dove le dinamiche si sviluppano con particolare intensità e velocità – può essere quello di scivolare verso un’implosione economica e sociale di gravi proporzioni, tale da contraddire tutta l’impostazione egualitaria e solidaristica dei nostri principi costituzionali e tale da gettare discredito, oltreché accelerare il crollo del mercato interno in atto dal 2008, sull’intero Paese. Per tutto questo non occorrono solo risorse economiche pubbliche, europee e nazionali: occorrono anche, in primo luogo, investimenti in termini di competenze e capacità di coordinamento in grado di superare i limiti mostrati finora dalle Regioni e dalle istituzioni locali (con più di qualche responsabilità anche a livello nazionale); e, inoltre, la capacità di offrire a potenziali investitori privati, nazionali e internazionali, gli elementi base necessari per avviare un investimento rilevante e duraturo, e cioè qualità dei servizi di accoglienza di nuove imprese e capitali, stabilità dei programmi pubblici, certezza del diritto ed efficienza ed efficacia delle procedure autorizzative. Sotto questo profilo, la rafforzata consapevolezza dell’importanza delle politiche nazionali per lo sviluppo, testimoniata anche dal processo di costruzione di un’Agenzia per le politiche di coesione, appare una precondizione necessaria, purché i passi da compiere non rimangano allo stadio iniziale, ma avviino, mutatis mutandis, ricercando cioè modelli coerenti con la contemporaneità, e certamente non ripetendo gli esiti degenerativi del passato, una rapida ricostruzione delle capacità di attuare una politica nazionale per il Mezzogiorno e per le sue aree urbane. Per questo occorre intervenire in modo mirato, in coordinamento con i livelli intermedi di governo, nelle diverse realtà urbane del Mezzogiorno: dalla grande conurbazione napoletana, per riportare Napoli al rango di città europea che storicamente le compete, a città medio-grandi, come Bari, poste in condizioni potenzialmente favorevoli in relazione alle reti internazionali e nazionali dello sviluppo e al centro di un contesto metropolitano di particolare interesse, ai centri urbani intermedi che, da “paesoni” isolati in vasti contesti rurali o deindustrializzati, devono sviluppare economie di scala nel rafforzamento di reti policentriche di servizi e infrastrutture per le famiglie e per le imprese. Riguardo alle specificità territoriali e ambientali delle città del Mezzogiorno, un caso, insieme particolare e paradigmatico, è costituito dall’area metropolitana di Napoli. Per Napoli la realizzazione di un Grande Progetto che miri alla valorizzazione del giacimento di energia geotermica, al miglioramento energetico degli edifici, all’abbattimento dei consumi sia pubblici che privati, potrebbe assumere un valore non solo economico, ma anche di contrasto all’immagine di città degradata e in declino che si è riproposta prepotentemente negli ultimi anni. L’impatto sarebbe di grande rilievo sia per gli investimenti correlati che per la riduzione della spesa corrente in costi energetici. Il Progetto sarebbe perfettamente in linea con l’aquis urbano europeo, fortemente orientato ai temi della sostenibilità ambientale ed energetica e interverrebbe a colmare il grave deficit di energie rinnovabili che caratterizza l’intera Campania e la sua principale conurbazione. Secondo i dati dell’ENEA, nella regione Campania nel 2008 a fronte di un consumo di 7,5 milioni di Tonnellate Equivalenti di Petrolio (TEP), la produzione da Fonti di Energia Rinnovabile (FER) è stata di appena 0,5 milioni (circa il 15%). Una percentuale largamente insoddisfacente per una regione con condizioni ambientali e climatiche così favorevoli. Napoli e tutti i Campi Flegrei hanno il più alto potenziale geotermico d’Italia ed uno dei principali del Mondo. Questo potenziale offre un’importantissima opportunità di sviluppo industriale, sociale e ambientale. Un progetto per Napoli può avere una dimensione metropolitana, considerato che le maggiori potenzialità geotermiche interessano ampi tratti della fascia costiera del Golfo. Le sorgenti geotermiche sono localizzate a profondità variabile ma comunque superficiale e con la produzione diffusa si azzererebbero anche i costi di trasporto e i relativi impatti sull’ambiente urbano. Moltissime delle eccellenze napoletane e campane potrebbero trarre grande vantaggio dall’uso della risorsa geotermica (allevamento, serricoltura, florovivaismo, acquacoltura, ecc.). Un’intera filiera industriale potrebbe costruirsi su questo scenario per la produzione, installazione e gestione degli impianti. Molte attività turistiche e sportive potrebbero diventare più competitive. La stessa Pubblica Amministrazione beneficerebbe di minori costi gestionali a tutto vantaggio per la collettività. In definitiva un progetto integrato di riqualificazione urbanistica ed energetica avrebbe quelle caratteristiche di leva anticongiunturale e di importanza strategica che in passato è stato difficile riscontrare sia nella miriade di interventi a pioggia finanziati con i Fondi strutturali, sia nei grandi progetti per infrastrutture che, pur se definite strategiche, esaurita la fase di cantiere sono rapidamente entrate in una condizione di sottoutilizzazione, o addirittura di abbandono.
8.2. Il rilancio delle aree interne
Le aree interne sono state individuate dal DPS nel 2012 esaminando le condizioni di marginalità dei territori rispetto a un insieme di servizi che conferiscono ai comuni un carattere di centralità. Ma le aree interne costituiscono nel loro insieme un patrimonio territoriale di grandissima rilevanza sotto il profilo ambientale e culturale. Una politica per il loro sviluppo rappresenta dunque un’azione necessaria a garantire la conservazione e gestione di tale patrimonio di interesse nazionale ed europeo oltre che un intervento doveroso per assicurare condizioni di vita civile ad un’ampia porzione della popolazione italiana, in gran parte situata nel Mezzogiorno. Del totale di 13,5 milioni di residenti nelle aree interne italiane, infatti, oltre la metà, il 52%, vive nel Mezzogiorno, rispetto alla cui popolazione totale rappresenta una componente numericamente assai rilevante, sia in assoluto, sia in termini relativi, rispetto al Centro-Nord. L’insieme delle aree interne versione DPS del Centro-Nord ospita il 16,8% della popolazione dell’intera ripartizione e il 44,3% del numero dei comuni. Nelle regioni del Mezzogiorno le aree interne DPS ospitano il 34,1% della popolazione totale o il 70,7% dei comuni. Il dato è particolarmente marcato in alcune regioni: in Basilicata si collocano nelle aree interne DPS il 74,7% della popolazione e il 96,2% dei comuni; in Sardegna, rispettivamente il 52,3% della popolazione e l’84,4% dei comuni. Nelle regioni dello Stretto abbiamo, rispettivamente, in Sicilia il 52,3% della popolazione e l’84,4% dei comuni e in Calabria il 50,8% e il 77,8%. I dati confermano che la “Questione aree interne” è una parte non secondaria della “Questione meridionale”, come Rossi Doria aveva a suo tempo evidenziato. Le aree interne del Mezzogiorno sono però, al contempo, anche uno scrigno di biodiversità e beni culturali. La presenza dei parchi raggiunge la percentuale del 67,1% del territorio, con oltre un milione di ettari, rispetto al 31,9% delle aree interne del Nord-Ovest (116 mila ha), il 62,5% del Nord-Est (311 mila ha), il 35,3% del Centro (203 mila ha). In molti ambiti territoriali gli edifici ante 1945 presenti nelle aree interne rappresentano una quota rilevantissima, spesso prevalente, degli edifici esistenti. Le architetture storiche e gli antichi borghi delle aree interne rappresentano, dunque, un capitale fisso sociale e un patrimonio culturale di valore sovranazionale su cui deve essere sviluppata una politica pubblica specifica di messa in sicurezza antisismica e di rigenerazione edilizia ed energetica. Le aree interne sono anche un ingentissimo serbatoio di aree agricole e forestali e di risorse idriche significative. Il documento tecnico Strategia nazionale per le Aree interne: definizioni, obiettivi, strumenti e governante del 2013, collegato alla sottoscrizione dell’Accordo di Partenariato con la Commissione Europea, costituisce il riferimento guida di livello nazionale per il perseguimento degli obiettivi di mantenimento del presidio umano e di promozione dello sviluppo locale per le aree interne. La Strategia nazionale intende rispettare una giusta distinzione tra intervento pubblico e mercato, ma rischia, però, di certificare una rinuncia a una vera politica industriale per le aree interne. Nel Documento guida si afferma, infatti, che la politica di supporto alla competitività e alla capacità adattativa delle realtà produttive esistenti nei propri mercati di riferimento “esula dalla missione della Strategia per le Aree interne, che invece guarda a questi presidi per la forza modernizzatrice che essi rappresentano a livello locale”. Ma la fiducia nella forza modernizzatrice delle realtà produttive esistenti e nello sviluppo endogeno non tiene conto delle difficoltà di far leva su territori già molto indeboliti! Per la SVIMEZ un progetto strategico per le aree interne non può prescindere da un intervento pubblico organico di sviluppo economico nei settori industriali decisivi (driver), che costruisca, ad esempio, le condizioni per la rigenerazione dei borghi attraverso idonei investimenti e attraverso una sistematica azione di attrazione di persone e capitali che faccia leva anche su agevolazioni fiscali e contributive. Occorre anche una politica industriale per assicurare economicità e stabilità delle forniture energetiche e per promuovere la creazione di filiere energetiche locali che offrano, insieme alla qualità del servizio, anche opportunità di lavoro. La politica energetica per le aree interne può rappresentare un punta avanzata di applicazione della Strategia Energetica Nazionale, contribuendo al raggiungimento degli obiettivi 2020: la riduzione delle emissioni di CO2, la diminuzione dei costi dell’energia, il rilancio della crescita, la sicurezza degli approvvigionamenti. Per i borghi in più avanzato stato di abbandono, o completamente abbandonati, occorre integrare la strategia energetica con un progetto complessivo di rigenerazione con il coinvolgimento di capitali privati, da reperire anche a livello internazionale e fornendo pertanto idonee garanzie di affidabilità e stabilità delle prospettive di investimento. La Strategia nazionale indica inoltre il settore della valorizzazione energetica delle biomasse vegetali e forestali quale una delle vocazioni specifiche delle aree interne. Su questo fronte si sconta un forte ritardo: molte aree boschive dell’Appennino, ad esempio, anche a causa dell’inefficacia delle politiche regionali, versano in uno stato di abbandono o di gestione impropria e irrazionale. Tale ritardo si auspica possa essere superato anche con il varo del Programma operativo nazionale per il settore boschivo. E’ anche da promuovere il rinnovamento tecnologico della rete energetica delle aree interne, secondo il paradigma delle reti intelligenti (smart grid) e dell’immagazzinaggio decentrato di energia (decentralized Energy storage). Qui siamo nel pieno di politiche di investimento che difficilmente possono essere affidate allo sviluppo endogeno, ma richiedono la presenza di imprese strutturate che operano in campo energetico in modo più ampio e siano in grado di gestire sistemi energetici integrati. Analogo richiamo può essere fatto nel settore della gestione idrica. A questo proposito, il contesto di riferimento per pianificare un corretto utilizzo delle risorse idriche può essere rappresentato dallo strumento del “Piano di Gestione Acque” relativo al Distretto Idrografico dell’Appennino Meridionale. Il Distretto include i territori delle regioni Abruzzo in parte, Basilicata, Calabria, Campania, Lazio in parte, Molise in parte e Puglia. Il Piano, redatto e approvato nel 2013, in attuazione della Direttiva 2000/60/CEE, che ha istituito un quadro generale per l’azione comunitaria in materia di acque, è finalizzato a preservare il capitale naturale delle risorse idriche per le generazioni future (sostenibilità ecologica), allocare in termini efficienti una risorsa scarsa come l’acqua (sostenibilità economica), garantire l’equa condivisione e accessibilità per tutti ad una risorsa fondamentale per la vita e la qualità dello sviluppo economico (sostenibilità etico-sociale). D’intesa con le Regioni del Distretto e in considerazione delle risorse finanziarie disponibili, sono stati individuati gli interventi prioritari raggruppati in tre tipologie, preservando comunque sistematicità e organicità degli stessi a scala di distretto:
- interventi finalizzati alla manutenzione e al potenziamento delle infrastrutture esistenti, quali ad esempio il completamento di opere di accumulo, il potenziamento degli impianti di trattamento reflui comprensoriali;
- interventi per la realizzazione di nuove infrastrutture, quali ad esempio l’interconnessione degli schemi acquedottistici, l’individuazione di nuove fonti di approvvigionamento, la realizzazione di impianti di trattamento comprensoriali e di reti duali;
- interventi per l’attuazione del programma di monitoraggio, al fine di definire lo stato qualiquantitativo dei corpi idrici, nonché la disponibilità di risorsa idrica, anche al fine di fronteggiare situazioni di emergenza e criticità derivanti da crisi idriche.
Il tema delle acque, particolarmente per le aree interne del Mezzogiorno, rappresenta un settore rilevante nell’ambito di una più generale strategia volta a favorire lo sviluppo della green economy, sia per garantire in modo efficiente e qualitativo un servizio essenziale, sia per migliorare la qualità dell’ambiente attraverso il mantenimento in buono stato di conservazione degli ecosistemi fluviali. Per il turismo, come per l’attrazione di capitali, manca un’azione coordinata a livello sovraregionale, per la quale occorrono servizi, infrastrutture immateriali e materiali, politiche fiscali e contributive pensate su misura per la condizione specifica dei territori marginali, cioè, in definitiva un’organica politica industriale. Anche l’agricoltura, intesa nella sua funzione ampia di produttrice di beni e servizi, può svolgere un ruolo ancora importante per uno sviluppo più ampio e diffuso della green economy delle aree interne: puntando sulla diversificazione delle attività aziendali, sulla produzione di servizi ambientali, sull’integrazione delle fasi di trasformazione e sulla produzione di energia. Resta, tuttavia, il fatto che qualunque strategia di diversificazione o valorizzazione rischia di non avere successo in assenza di opportuni interventi che mirino a superare alcune difficoltà strutturali che si incontrano nelle aree interne: l’invecchiamento della popolazione e dei conduttori delle aziende, la patologica dimensione aziendale che non consente di raggiungere risultati economici minimi, la frammentazione della produzione e la scarsa capacità/volontà di organizzazione in forme associate, relazioni di mercato tradizionali, difficoltà di collegamento con i mercati nazionali. Se è vero, infatti, che nelle aree interne sono presenti prodotti di eccellenza o paesaggi di alto pregio, è pur vero che quelle condizioni di base impediscono che essi diventino leve di sviluppo: molto spesso le eccellenze non superano i confini locali o regionali e non vanno al di là di un mercato di nicchia. Né, d’altra parte, si può pensare che la valorizzazione di produzioni eccellenti, ma con una dimensione economica modesta, o la diversificazione delle attività possano essere da sole, senza una forte funzione produttiva dell’azienda, motore di sviluppo per le aree interne. Per l'agricoltura e la promozione di filiere agroalimentari di qualità nelle aree interne del Mezzogiorno occorre una politica organica che affronti i temi dell’integrazione organizzativa di filiera attraverso idonei investimenti in tecnologie, processi, e in generale la logistica come infrastruttura per le filiere territoriali. Fondamentale è anche lo stimolo all’imprenditoria giovanile, da ottenere valorizzando e incentivando le start-up di giovani imprenditori agricoli e della filiera agro-alimentare. Per lo sviluppo c’è, dunque, bisogno di un più ampio disegno strategico che si basi sull’integrazione degli interventi che rientrano nell’ambito della politica di sviluppo rurale, da un lato, e sull’integrazione tra politiche per il settore agricolo e politiche strutturali, in un’ottica di sviluppo complessivo dei territori, dall’altro lato. Il ruolo delle istituzioni in questo processo è fondamentale. L’integrazione delle politiche richiede capacità di dialogo interistituzionale, ma forse soprattutto intraistituzionale (si pensi alla proliferazione delle autorità di gestione dei programmi anche in contesti territoriali uniformi e di piccole dimensioni), così come ai vari livelli di governo è necessaria una capacità di programmazione non frammentata e di coerente attuazione che, in un contesto di risorse decrescenti, siano in grado di finalizzare gli investimenti e di ottimizzare l’efficacia della spesa. Con riferimento alle aree interne non può non essere notata l’assenza di un’azione di sistema di adeguata portata per la principale catena montuosa italiana: l’Appennino sconta come fattore negativo, proprio per la debolezza delle politiche nazionali, la sua dimensione geografica sovraregionale. Le Alpi, invece, grazie anche a un marcato carattere internazionale, sostenuto dalla Convenzione per le Alpi e da specifici programmi di finanziamento per l’Alpine Space, hanno potuto aggirare la debolezza delle politiche nazionali. Una dimensione programmatica sovraregionale appare, dunque, necessaria per l’Appennino. Per quanto riguarda la più estesa catena montuosa italiana, lo sviluppo del turismo, anche per valorizzare la straordinarie dotazioni di borghi storici e di aree naturali protette, ad esempio, non può prescindere da un’azione di sistema ad essa dedicata, che comprenda, sotto il profilo dell’offerta, una robusta azione di promozione della qualità dell’accoglienza e dei prodotti offerti, e sotto il profilo della domanda una politica sistematica e sovralocale di incoming. Occorre, in definitiva, un’azione di sistema di livello nazionale e interregionale dedicata alla più grande catena montuosa italiana, nella quale possa riconoscersi anche un’azione sistematica per lo sviluppo delle aree interne del Mezzogiorno. La Strategia nazionale per le aree interne rappresenta, in conclusione, un passo significativo e importante che si deve inquadrare nel processo di superamento dei gravi limiti evidenziati dal sistema Italia nell’ultimo ventennio. Vi è stata spesso, infatti (questo vale per le aree interne, come per le aree urbane), una vera rinuncia delle politiche pubbliche nazionali a fronte di un pervasivo aumento delle competenze e dell’autoreferenzialità delle Regioni, anche in settori – ad esempio per la montagna italiana il turismo, la politica energetica, la difesa del suolo – dove è invece necessario un forte presidio nazionale: per assicurare la necessaria visione di larga scala, per garantire il necessario coordinamento intersettoriale e con le politiche fiscali, per una politica di sostegno alle regioni meno avanzate, e al Mezzogiorno nel suo complesso. Ma si tratta di un primo passo. A molte indicazioni strategiche, che appaiono corrette, coerenti con la visione europea dello sviluppo sostenibile, occorre affiancare una più solida visione economica che sappia fare i conti con i temi specifici di politica industriale dei vari settori, affrontando il tema degli investimenti: in dotazioni e infrastrutture, materiali e immateriali, per le filiere logistiche per le aree interne, per gli impianti e le reti energetiche, per il turismo, per la valorizzazione immobiliare del patrimonio esistente, per le grandi operazioni di rigenerazione dei borghi; per le infrastrutture e le tecnologie per una gestione idrica efficiente.
8.3. La creazione di una rete logistica in un’ottica euro-mediterranea
L’Italia, per posizione geografica, numero di porti e tradizione armatoriale, è nelle condizioni di ambire ad un ruolo preminente nel sistema economico delle relazioni euromediterranee per attività logistiche strettamente legate agli scambi internazionali. E il Mezzogiorno si candida a svolgere una funzione centrale, come snodo dal punto di vista logistico tra traffici marittimi asiatici, nord-africani ed europei. Attualmente, infatti, un terzo del commercio mondiale transita nel Mediterraneo; le esportazioni asiatiche, soprattutto cinesi, raggiungono i mercati europei e americani in prevalenza attraverso le rotte che passano da Suez e poi da Gibilterra. L’area euro-mediterranea si va configurando come una zona di libero scambio, e al tempo stesso come uno “spazio unico di produzione” per le imprese orientate all’esportazione, nel quale ottimizzare i punti di complementarità e ridurre i margini di concorrenza interna e quindi attivare accordi di filiera per la destinazione internazionale. Gli obiettivi da raggiungere sono di acquisire una posizione migliore sui mercati internazionali e competere con le grandi produzioni delle aree emergenti, anche facilitando il rientro di filiere produttive a più elevato contenuto tecnologico in precedenza delocalizzate o attraendo nuovi investimenti da parte di imprese globalizzate e di connesse catene del valore. L’Italia in generale e con particolare forza il Mezzogiorno presentano caratteristiche tali da offrire agli operatori di logistica globale ottimali condizioni di localizzazione. In una fase come l’attuale, nella quale l’economia italiana stenta a uscire da una lunga fase di recessione anche a causa della riduzione dello sbocco sul mercato interno delle produzioni manifatturiere e dei servizi, è necessario dar vita a una vera e propria rivoluzione logistica del sistema produttivo, basata sull’incentivazione dei fattori di sviluppo sui mercati internazionali, assumendo come linea di azione strategica l’opzione euromediterranea. In quest’ottica la Filiera Territoriale rappresenta un fattore di radicamento e al contempo di fluidificazione delle potenzialità di accedere al mercato di specifici territori. In particolare, la Filiera Territoriale Logistica (FTL), uno strumento ampiamente illustrato nei precedenti Rapporti, rappresenta una configurazione delineata dalla SVIMEZ nel quadro delle analisi che essa ha condotto sui possibili sviluppi della logistica nel Mezzogiorno a supporto del Piano Nazionale della Logistica e delle Linee Guida del Piano Generale Mobilità del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. Essa è identificabile in: “una rete di imprese, soggetti ed attività economiche appartenenti ad una determinata area vasta, verticalmente legate e connesse da funzioni logistiche avanzate materiali ed immateriali, avente come obiettivo prioritario l’esportazione, prevalentemente via mare, di produzioni di eccellenza e la importazione e lavorazione a valore di parti e beni intermedi per la successiva riesportazione di prodotti finiti” . A livello delle “Aree Vaste” in cui sono presenti specializzazioni produttive, l’innovazione di processo nelle filiere del Mezzogiorno, in particolare quelle agroalimentari, unita alla consapevolezza di quanto sia necessario conservare e tutelare le conoscenze “tradizionali”, gli aspetti socio-culturali e la valorizzazione delle produzioni tipiche dei diversi territori, costituiscono un elemento fondamentale per consolidare e rafforzare la posizione di leadership a livello internazionale in campo agroalimentare. Le prospettive di crescita del sistema agroalimentare italiano, infatti, dipendono anche da un continuo processo di aggiustamento dell’allocazione dei fattori produttivi e delle produzioni ai fini del mantenimento di adeguati livelli di produttività e competitività sui mercati internazionali. L'export di prodotti agroalimentari italiani continua a crescere e nel 2013 ha raggiunto il massimo di sempre, arrivando a quota 33 miliardi di euro (+6% rispetto al 2012). Con riferimento al settore agroalimentare si può citare l’esperienza di Eataly, attività di distribuzione e ristorazione agroalimentare, basata principalmente sulla logistica che coinvolge diversi attori delle filiere agroalimentari che è un buon caso di presenza compatibile del made in Italy nel mondo. Secondo una ricognizione delle funzioni e delle caratteristiche economico-territoriali effettuata nei suoi studi, la SVIMEZ ha individuato alcune Aree Vaste del Mezzogiorno che mostrano notevoli potenziali di sviluppo attraverso la loro trasformazione in Filiere Territoriali Logistiche con funzione prevalente di valorizzazione di produzioni di eccellenza: l’Area Vasta Torrese-Stabiese-Nocerina, l’Area Vasta Catanese (Sicilia orientale), l’Abruzzo meridionale, il Basso Lazio Alto Casertano, l’Area pugliese, la Piana di Sibari e del Metapontino, la Sardegna settentrionale e la Sardegna meridionale. Tali Aree Vaste sono accumunate dalla presenza di alcuni importanti potenziali di sviluppo, che possono essere oggetto di specifiche politiche di intervento, al fine di migliorare le prestazioni logistiche complessive del territorio. Molteplici sono i potenziali punti di forza, da coordinare e mettere a regime: la presenza di porti commerciali (anche minori ma non congestionati), di aree retroportuali industriali dismesse e di terminali all’interno del territorio; la sufficiente dotazione infrastrutturale di trasporto multimodale terrestre; la buona accessibilità interna e possibilità di inserimento in reti di trasporto internazionale, principalmente marittime; la presenza di filiere produttive di eccellenza orientate all’esportazione; la possibilità di fruire di agevolazioni speciali ed incentivi per l’insediamento di attività logistiche (Zone Franche, Fondi strutturali europei, Contratti di Sviluppo e di Rete, Progetti di filiera, ecc.); l’esistenza di contesti deindustrializzati da riqualificare (aree dismesse) in senso produttivo per incrementare l’occupazione. In particolare, il riuso delle aree produttive dismesse consentirebbe non solo di restituire agli usi urbani porzioni significative del territorio urbanizzato, ma di farle concorrere alla realizzazione di nodi ambientali e corridoi “verdi” urbani di interscambio che concorrono alla realizzazione del più articolato sistema logistico-trasportistico. Più in generale, un ruolo centrale può essere svolto dalle Zone Economiche Speciali (ZES), aree prevalentemente caratterizzate dalla presenza di un porto e di un’area retroportuale all'interno di una nazione in cui sono adottate specifiche leggi finanziarie ed economiche costruite con l'obiettivo di attrarre investitori stranieri con un trattamento di favore. Nel Mezzogiorno, esistono le condizioni ideali per l’istituzione di Zone Economiche Speciali in diverse aree ma in particolare in regioni in cui sono situati porti di transhipment, come la Calabria (Gioia Tauro) o la Puglia (Taranto) e la Sicilia (Catania). Gioia Tauro, porto dotato di grande disponibilità di aree retro portuali, ha avviato le procedure per l’istituzione di una Zona Economica Speciale. A sua volta Taranto ha di recente ricevuto l’autorizzazione alla costituzione di una ZES, la seconda in Italia dopo quella di Trieste. Mentre, però, nelle regioni del Nord le carenze funzionali e infrastrutturali del sistema logistico territoriale sono state, almeno parzialmente, colmate da un sistema interportuale fortemente variegato per volumi movimentati, dimensione degli spazi e tipologia dei servizi offerti, in quelle meridionali è mancato del tutto un disegno di policy dei trasporti e della logistica, orientato specificamente all’incentivazione degli investimenti in poli logistici retro portuali aderenti ai porti. Nel Mezzogiorno mancano strategie di sviluppo basate su piattaforme logistiche di filiera nelle quali offrire servizi completi di cui necessitano le attività produttive e distributive per incrementare l’export sul mercato globale. Laddove, tali filiere di attività manifatturiere e dei servizi, integrate in un processo logistico che conferisce valore alle produzioni locali, sarebbero in grado di “produttivizzare” i territori dell’Italia meridionale che già dispongono di porti commerciali, spazi retroportuali ed attività economiche ma che sono caratterizzati dal debole orientamento all’export. E’ perciò quanto mai opportuno, con riferimento all’assetto normativo, che la logica d’impostazione sistemica territoriale sia recepita anche a livello di regolamentazione, specialmente alla vigilia della riforma delle leggi per i porti (legge 84/1994) e interporti (legge 240/1990): la SVIMEZ auspica, a tal proposito, una riforma di legge sinergica delle due, in grado di mettere a sistema e valorizzare queste due componenti del sistema logistico nazionale nel suo insieme, prevedendone uno sviluppo tarato sulle esigenze specifiche del territorio e del contesto internazionale di riferimento. La valorizzazione dei porti e degli interporti rappresenta, infatti, una scelta strategica inevitabile per il rilancio del Mezzogiorno, un vero e proprio driver per lo sviluppo del Sud e un concreto apporto alla realizzazione di una efficace valorizzazione dell’opzione euromediterranea (Southern range) da sviluppare rispetto all’alternativa dell’attuale dominio logistico del Northern range. E’ del tutto evidente (e altrettanto carente) l’opportunità di avviare una “azione mediterranea” che coordini le molteplici presenze dell’Unione Europea interessate a questo sviluppo, ponendo in tutta evidenza come per una quota rilevante dei traffici che oggi approdano al Northern range sia del tutto più razionale un accesso all’UE da Sud, in particolare se si considera il problema in termini di costi e di sostenibilità energetica e ambientale.
8.4. La valorizzazione del patrimonio culturale
Una prospettiva di sviluppo innovativa, durevole e sostenibile – per “invertire” il declino dell’intero sistema produttivo nazionale e procedere a sostanziali modifiche del modello di specializzazione – non può che puntare sul capitale umano delle nuove generazioni. La massa di giovani laureati e formati rappresenta la principale risorsa – oggi largamente sottoutilizzata o sprecata – per il rilancio dell’economia nazionale, e specialmente del Mezzogiorno che, per questa via può tornare in gioco da protagonista attivo di un disegno strategico complessivo. Il mancato superamento dei vincoli costituiti da un apparato produttivo debole e da un sistema sociale bloccato, nonostante i progressi nella formazione scolastica universitaria, condanna il Mezzogiorno al ruolo di fornitore di risorse umane qualificate al resto del Paese (e, sempre più spesso, all’estero) e i suoi migliori giovani a cercare altrove le modalità per mettere a frutto le proprie competenze e realizzare i propri sogni. La prospettiva di un’economia sostenibile e competitiva, secondo le direttrici appena illustrate, rappresenta un fondamentale ingrediente per la valorizzazione del patrimonio storicopaesaggistico meridionale, fornendo specifici elementi catalizzatori della catena di connessione ricerca-innovazione-produzione, e per dare così piena espressione alle potenzialità del sistema universitario e di ricerca e all’enorme potenziale del patrimonio territoriale e culturale del Mezzogiorno. In questo contesto, il settore culturale può rappresentare una delle componenti chiave nello sviluppo di un territorio quando, accanto alla presenza di attrattori quali musei e beni storico-culturali, si predisponga un’adeguata offerta di strutture e di servizi destinati all’accoglienza e la possibilità di integrare il soggiorno culturale con altre attività che spaziano dall’enogastronomia al folklore. E’ un’opzione strategica che deve in tempi relativamente contenuti trasformarsi in indicazioni progettuali concrete per entrare a pieno titolo nel quadro della politica europea per la cultura che fa perno sul programma Europa creativa varato alla fine del 2013 e che potrà contare su circa 1,5 miliardi di euro. Altri benefici concreti per i progetti e le imprese culturali verranno anche dall'avvio di un importante strumento finanziario: un Fondo di garanzia europea che affiancherà i contributi europei ai progetti e che assisterà i prestiti nazionali alle micro, piccole e medie imprese culturali e creative, che potranno finalmente vedere agevolate le loro possibilità di accesso al credito. E’, tuttavia, necessario riorientare la spesa pubblica nel settore della cultura e dei servizi ricreativi, contrattasi negli ultimi anni a livello nazionale e, soprattutto nel Mezzogiorno, dove tra il 2000 e il 2011, ha subito una riduzione di oltre il 30%. Consistenza e dinamica del settore culturale, come definito dalla SVIMEZ, in linea con uno studio dell’Eurostat, evidenziano un sottodimensionamento dell’Italia e, soprattutto, delle regioni del Mezzogiorno rispetto alla media dell’Unione europea. In Italia il settore culturale “in senso stretto” contava nella media del 2013 circa 269 mila unità lavorative, pari all’1,2% dell’occupazione totale, a fronte dell’1,7% della UE, un divario sorprendente se si considera l’ineguagliabile dotazione di capitale culturale accumulato nei secoli di storia. Divario che incide pesantemente su alcuni nodi critici del mercato del lavoro nazionale, l’occupazione femminile e l’occupazione ad alta qualificazione, se si considera che tale settore si caratterizza per una quota più ampia di occupazione femminile (43,1% a fronte del 41,6% del totale dell’economia) e per un’incidenza dei laureati occupati nel settore più che doppia rispetto al sistema economico nel suo complesso, raggiungendo il 42% a fronte del quasi 20% degli altri settori. Il dato medio nazionale sottende marcate differenziazioni a livello territoriale. L’occupazione del settore è al Centro-Nord – dove si contano circa 224 mila unità – pari all’1,4% dell’occupazione totale e di appena 45 mila occupati, pari allo 0,8%, nel Mezzogiorno. Appare evidente la sottoutilizzazione nelle regioni meridionali di uno straordinario potenziale di crescita derivante dal patrimonio di beni culturali presenti sul territorio. La disponibilità di capitale umano ad elevata scolarizzazione, potrebbe rappresentare, soprattutto in questo settore, un asset dello sviluppo assai importante. Non va inoltre trascurato che anche nella crisi, si è registrata una crescita della popolazione occupata in questi settori, in conseguenza di una crescita della domanda culturale delle famiglie. Tale crescita potrebbe essere particolarmente ampia proprio nelle regioni meridionali, dove si parte da livelli inferiori e, al tempo stesso, i progressi di scolarizzazione nell’ultimo decennio sono stati più intensi. Un tendenziale allineamento del Mezzogiorno al resto del Paese in termini di incidenza dell’occupazione nel settore consentirebbe di creare nel Mezzogiorno circa 40 mila posti di lavoro aggiuntivi nel settore dell’industria culturale, di cui circa 15 mila unità interesserebbero figure professionali con elevati livelli di istruzione. Opportunità ancora maggiori emergono dalla considerazione del settore “culturale allargato” in ottica di filiera, comprendente, cioè, sia i settori industriali e terziari che contribuiscono alla realizzazione dei prodotti culturali, sia i settori che comprendono figure professionali ad alto contenuto di conoscenza e creatività. Nel 2013 in Italia il settore culturale “allargato” conta circa 1,6 milioni di unità pari al 7,1% dell’occupazione totale. Il dato medio nazionale, sostanzialmente in linea con la media europea, nasconde anche in questo caso una forte differenziazione territoriale: più concentrata al Centro-Nord, con circa un milione 300 mila unità pari al 7,8% dell’occupazione totale, a fronte del 4,9% del Mezzogiorno. Al Sud, peraltro, si conferma una più elevata quota di occupazione con alti livelli di istruzione, che si attesta intorno al 43%, rispetto al 39% circa del Centro-Nord. Il sottodimensionamento del settore nel Sud appare nel caso dell’accezione allargata del settore culturale ancora più ampio. Indicazioni positive per le regioni meridionali emergono comunque dall’andamento recente del settore decisamente positivo, a fronte di una contrazione nel resto d’Italia. Dato confortante perché evidenzia buone performances in settori ad alto contenuto di conoscenza nelle regioni meridionali che, pur incidendo solo in piccola parte sull’andamento complessivo dell’economia, individuano potenzialità di crescita significative per accogliere un’offerta di manodopera con elevati livelli di istruzione. Alla politica regionale volta alla valorizzazione del patrimonio artistico-culturale dovrebbero affiancarsi quegli interventi di politica industriale orientati ad attivare comparti di produzioni di beni e servizi ad essa connessi.

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7 aprile 2015

Eugenio Caruso


Tratto da Rapporto SVIMEZ 2014

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