Sopportiamo, dunque, copn animo generoso tutto ciò che per legge dell'Universo ci tocca patire.
Seneca, Lettere a Lucilio
6. LE POLITICHE PER IL SUD NEL CONTESTO NAZIONALE ED EUROPEO
6.1. Un rinnovato contesto europeo per favorire lo sviluppo
La crisi che ancora attraversa l’UE – e in particolare la sua periferia – ha riportato alla
luce i limiti di un progetto di integrazione che viene ormai comunemente definito “incompiuto”.
L’allargamento del mercato unico e l’introduzione dell’euro in 18 dei 28 attuali paesi membri
non hanno saputo in definitiva garantire né una crescita complessiva di medio termine
paragonabile a quella degli altri blocchi economici continentali, né una distribuzione uniforme
dei benefici – che pure sono stati rilevanti – del processo di integrazione economica e monetaria
tra centro e periferia dell’Unione. Da un lato, la relativa solidità delle politiche di bilancio
nazionali non ha creato l’attesa convergenza delle finanze pubbliche degli Stati membri.
Dall’altro, le politiche di svalutazione reale che hanno progressivamente sostituito le
svalutazioni esterne, hanno finito per inasprire i divari competitivi interni all’Unione. La crisi
iniziata nel 2008 ha infine riportato alla luce tutte le criticità dei divari strutturali tra economie
nazionali, a suo tempo sottovalutate, determinando l’attuale situazione di «asimmetrie
sistematiche» tra centro e periferia.
L’attuale contesto delle politiche europee è improntato al modello delle svalutazioni reali
e delle riforme strutturali, in primo luogo nel mercato del lavoro, proposto come via maestra al
riequilibrio delle economie reali degli Stati membri. Al di là dei piani di investimenti pubblici
comunitari annunciati di recente, il coordinamento delle politiche fiscali si limita ancora al
rispetto del dogma dalla stabilità e del rigore, mentre si continua a ignorare la necessità di
meccanismi di aggiustamento fiscale finanziati da un budget federale comunitario, di ben diversa
entità. È questo il segno più evidente della continuità di una visione che, fin dalla nascita del
progetto europeista, ha conferito all’autorità fiscale un mero ruolo di regolatore,
disconoscendogli il ruolo di regista nel raggiungere l’obiettivo della piena e buona occupazione.
In questo quadro, l’Unione resta strutturalmente votata alla divergenza, si sottovalutano i costi
sociali associati alle moderazioni salariali sottese alle politiche di svalutazione reale, e si affida
la ripresa ai tempi lunghi del dispiegarsi degli effetti delle riforme strutturali.
È in tale contesto europeo che l’economia italiana vive il paradosso di economia
nazionale ancora «forte» che trova i suoi competitors naturali nelle economie maggiori, con al
suo interno un Mezzogiorno che si trova invece a competere con le aree «marginali»
dell’Unione. Il che colloca la nostra economia all’intersezione tra centro e periferia, con il
rischio, ormai concreto, di scivolare «unitariamente» ai margini dell’Unione.
Le politiche per il Sud devono essere necessariamente collocate nel contesto europeo, ma
le politiche di coesione intervengono in una cornice di politiche «ordinarie» caratterizzate dalla
mancanza di armonizzazione dei sistemi fiscali nazionali e dalla convivenza tra paesi
dell’Eurozona ed economie che hanno conservato la propria sovranità monetaria. Entrambe le
circostanze creano rilevanti asimmetrie interne alle regioni periferiche dell’Unione, a tutto
vantaggio di quelle appartenenti a paesi con sistemi fiscali più leggeri e/o nella condizione di
utilizzare lo strumento del cambio. Questo stato di cose si è venuto a creare a partire dal 2004
con l’allargamento ad Est dell’Unione, passaggio che ha significato l’introduzione di
un’ulteriore forma di «asimmetrie strutturali», questa volta interne alla sua periferia, che acuisce
il problema della non ottimalità dell’area. Da quel momento il Mezzogiorno ha sofferto in
misura crescente la concorrenza del dumping fiscale e della mancanza degli obblighi valutari dei
nuovi Stati membri.
Tutto ciò incide sulla possibilità di riuscita delle politiche di coesione e, più in generale,
delle politiche nazionali per il Sud. Del resto, la dinamica del PIL reale e della produzione
industriale negli anni della crisi mostrano come la competizione impari interna alla periferia
dell’Unione abbia già determinato andamenti differenziati favorevoli ai nuovi paesi nuovi
entranti dell’Est non aderenti all’Euro come Polonia, Bulgaria, Lituania e Romania. A queste
performances fanno da contraltare la depressione economica e il processo di desertificazione
industriale nel Mezzogiorno.
Un aspetto non secondario che spiega la migliore performance delle economie dell’Est è
il ruolo svolto dalle politiche di coesione nel contenere gli effetti recessivi indotti dall’austerità.
Per paesi come Polonia, Bulgaria, Repubblica Ceca, Estonia, Lettonia, Lituania, Ungheria,
Polonia e Romania, le risorse europee rappresentano a tutti gli effetti risorse aggiuntive conferite
ai bilanci nazionali. Ciascuno di questi paesi, ricevendo i Fondi strutturali perché nel suo
complesso viene considerato in ritardo di sviluppo, ha potuto usare questo canale di
finanziamento per attenuare la caduta degli investimenti pubblici indotta dalle politiche di
austerità. Diverso è il caso italiano, dove è una parte del Paese, il Mezzogiorno, a soffrire del
ritardo di sviluppo per cui, in base al principio di addizionalità, lo Stato è chiamato a garantire
uno sforzo finanziario nazionale. Ma, come si vedrà più avanti, nella scorsa programmazione
2007-2013, il principio di addizionalità è stato sistematicamente disatteso, e il Mezzogiorno è
stato sostanzialmente affidato alla “tutela” dei soli Fondi strutturali, mentre le risorse nazionali
per la coesione sono state dirottate su altri capitoli di emergenza. Tutto ciò si è inserito nel
generale trend decrescente degli investimenti pubblici, pesando negativamente sulla congiuntura.
Non è difficile prevedere che gli effetti sfavorevoli per il Mezzogiorno di un eventuale mancato
rispetto del principio di addizionalità nel periodo di programmazione 2014-2020 saranno ancor
più gravi. Ciò in considerazione del fatto che la distribuzione delle risorse comunitarie è
sbilanciata a favore dei 10 paesi non aderenti all’Euro (53,3% del totale contro il 49,5% del
2007-2013), e di un’economia dell’area in particolare, la Polonia (22% contro il 19,8% del 2007-
2013).
In definitiva, l’Unione si trova di fronte alla necessità di invertire la rotta tanto sulle
politiche ordinarie, abbandonando l’illusione che si possa tornare a crescere perseguendo la
logica dell’austerità, quanto sulle politiche della coesione rispetto alle quali va aperto un
confronto sui necessari meccanismi “compensativi” degli squilibri interni alla sua periferia. Una
prospettiva di questo tipo, pur rimanendo ambiziosa nel quadro dell’equilibrio dei diversi
interessi nazionali, dovrebbe essere costruita intorno a tre proposte.
La prima riguarda la predisposizione di adeguati strumenti di fiscalità di compensazione
da attuare in attesa di un’armonizzazione delle politiche fiscali che non è prevedibile arriverà a
breve. Del resto, la competizione fiscale al ribasso è da ritenere sia addirittura auspicabile da
Istituzioni Europee affezionate al dogma dell’austerità, nella logica che il contenimento del
gettito fiscale porti con sé necessarie politiche di riduzione di spesa.
In secondo luogo, va intrapresa la strada del rilancio degli investimenti pubblici e di
quelli privati, depressi, rispettivamente, dalle politiche di consolidamento fiscale, e da condizioni
del credito e aspettative di crescita della domanda ancora non favorevoli. Tra il 2009 e il 2013,
gli investimenti pubblici sono caduti del 20% in termini reali nell’UE, mentre crescevano in
maniera consistente negli Stati Uniti. In Italia, il rapporto tra investimenti lordi e PIL è sceso di 4
punti percentuali dal 2007 al 2013, raggiungendo il 17%, record negativo dal dopoguerra.
Da questo punto vista, diventa cruciale che la annunciata nuova stagione di investimenti
pubblici europei, con i 300 miliardi promessi dal nuovo Presidente della Commissione europea,
Jean-Claude Juncker, partano al più presto, con una destinazione territoriale che miri a ridurre gli
squilibri e compensare le diverse forme di “asimmetrie” regionali; pertanto, dovrà trattarsi di
risorse davvero aggiuntive rispetto all’attuale esiguo budget UE, e non di un semplice
rimescolamento delle poste di bilancio. In assenza di una politica di questa genere, infatti, il
rispetto dei vincoli europei e dei rapporti di forza ancora condizionati dalla posizione rigorista
dei paesi del Nord Europa, lascerebbero molti dubbi sulla possibilità di intraprendere un
percorso di ripresa dell’economia nel quale la ripresa degli investimenti pubblici faccia
efficacemente da traino alla ripresa di quelli privati, potendo contare sostanzialmente sull’unica
leva di spesa dei Fondi strutturali.
In terzo luogo, è auspicabile che tutti i margini di flessibilità sui rapporti di finanza
pubblica concessi dai Trattati europei vengano utilizzati per consentire il rilancio degli
investimenti. Infatti, le politiche nazionali sono attualmente orientate all’introduzione di riforme
coerenti con il modello suggerito dalle Istituzioni Europee di recupero della competitività dal
lato dell’offerta, mentre le misure di sostegno ai consumi interni non sembrano aver sortito gli
effetti attesi: il nodo fondamentale da sciogliere resta l’arresto del crollo degli investimenti
pubblici e privati particolarmente intenso al Sud. In questa direzione andrebbe la proposta di
escludere dal computo del rapporto deficit/PIL il cofinanziamento nazionale per le spese di
investimenti.
In definitiva, se è vero che non si può prescindere dal contesto delle politiche
comunitarie e dal rispetto dei vincoli esterni dati, vista la peculiarità del dualismo italiano è
auspicabile che la flessibilità concessa dai Trattati Europei insieme alle occasioni offerte dal
prossimo periodo di programmazione delle Politiche di Coesione siano sfruttate appieno e nel
rispetto del presupposto che il Paese crescerà se la sua parte più debole si ricollocherà su un
sentiero di sviluppo. In assenza di una visione di questo tipo, il Mezzogiorno sarà destinato a
soffrire ancora a lungo del limitato raggio di azione delle politiche economiche nazionali
imposto dall’austerità europea, trovandosi nell’impossibilità di competere ad armi pari con la
straordinaria dinamicità delle aree emergenti dell’Est Europa. Il che non potrà che condizionare
la crescita del sistema Paese, avvicinandolo ancor di più alla sua periferia.
6.2. La spesa e le politiche ordinarie al Sud: garantire i diritti e porre le basi per lo sviluppo
6.2.1. Il crollo della spesa in conto capitale, a danno del Sud
I dati relativi alla spesa pubblica nel nostro Paese mostrano che il contenimento del
disavanzo è stato ottenuto attraverso una progressiva compromissione del conto capitale, di
particolare intensità nel Mezzogiorno.
L’importo della spesa pubblica complessiva, corrente e in conto capitale, per gli anni dal
2007 al 2013, varia, complessivamente, da 748 a 799 miliardi (+6,8%). Dal 2012 al 2013
l’importo in questione si riduce all’incirca di 2 miliardi (-0,2%). Sul lato delle entrate risulta, nei
sei anni, un incremento del 4% (da 723 a 752 miliardi): nell’ultimo anno considerato, la
riduzione è dello 0,1%. Persiste, dunque, una situazione di disavanzo, che è peraltro mostrata
dall’incremento del debito, di poco inferiore al 5% per anno. Se, sulla base dei dati Banca
d’Italia, prendiamo a riferimento soltanto la parte corrente dei bilanci delle Amministrazioni
pubbliche, risulta per gli anni dal 2007 al 2013 un incremento della spesa del 10,4% (da 685 a
756 miliardi), a fronte di un incremento delle entrate correnti del 3,3% (da 719 a 743 miliardi).
Dal 2012 al 2013 le spese correnti crescono del 0,4%, allorché le entrate correnti si riducono
dello 0,5%.
Tutto ciò è accaduto malgrado il forte contenimento delle spese per interessi delle
Amministrazioni pubbliche prodotto dagli interventi della BCE e che ampiamente ha
compensato l’incremento – assoluto e relativo – del debito. Questo incremento è pari, nei sei
anni dal 2007 al 2013, complessivamente al 29,2%; rispetto al PIL, risulta un valore di 103,1%
nel 2007 e di 132,6% nel 2013. Ciò nonostante, l’importo degli interessi è pari a 77 miliardi nel
2007 (11,2% della spesa corrente) e ad 82 miliardi nel 2013 (10,8% delle spese correnti). Al
netto degli interessi, la spesa corrente cresce da 608 miliardi del 2007 a 674 miliardi di euro del
2013 (+10,9%).
E’ la spesa in conto capitale a subire una straordinaria contrazione. Rispetto al totale
consolidato delle spese delle Amministrazione pubbliche – pari, come detto, a 748 miliardi nel
2007 ed a 799 nel 2013 – le spese in conto capitale valgono l’8,4% nel primo anno e il 5,4% nel
secondo. Tra i due anni, le spese correnti crescono del 10,4% e le spese in conto capitale si
riducono del 31,7%.
Questa contrazione si è particolarmente concentrata al Sud. I dati dei Conti Pubblici
Territoriali forniti dal DPS ci dicono che la spesa complessiva in conto capitale per l’Italia in
rapporto al PIL è passata dal 4,1% del 2001 al 3,1% del 2012. Un calo che si è realizzato quasi
interamente a danno del Mezzogiorno che, infatti, passa nello stesso periodo dall’1,7% all’1,1%.
Negli anni della crisi, si è registrato un crollo della spesa in conto capitale nell’intero
Paese, ma con un’accentuazione relativamente più marcata nel Mezzogiorno, che, infatti, sempre
sulla base dei dati dei C.P.T., perde il 33,5% a fronte del 30,2% del Centro-Nord.
In particolare si registra una drammatica caduta della spesa in conto capitale aggiuntiva
(comprensiva delle erogazioni dell’ex FAS e di quelle della programmazione comunitaria e
relativo cofinanziamento nazionale). L’importo di essa, nel Mezzogiorno, per cassa e in euro a
valore costante, passa dai 13,3 miliardi del 2007 (era 16,5 miliardi del 2001) ai 6,9 del 2012. Un
calo largamente ascrivibile al minore apporto del cofinanziamento nazionale e alla drastica
caduta delle spese a valere sul FSC (ex FAS).
La quota di spesa in conto capitale del Mezzogiorno, in percentuale dell’Italia, nel
quadro di peggioramento complessivo di cui abbiamo detto, resta nell’ultimo biennio intorno al
35% (dopo aver toccato appena il 33% nel 2010): una percentuale assai distante da quella soglia
del 45% a suo tempo individuata come essenziale per garantire un impatto addizionale destinato
a innescare una dinamica di convergenza, e che ormai è del tutto scomparsa da ogni documento
di programmazione pubblica. Una quota, va ricordato, che scenderebbe di molto se si
considerasse il settore pubblico allargato.
In termini di valori pro capite, nel 2012, le spese in conto capitale nel Mezzogiorno sono
pari a 847 euro per abitante; esse sono finanziate per 330 euro da fondi aggiuntivi specificamente
destinati. Al netto di questi fondi, pertanto, la spesa ordinaria in conto capitale è pari a 517 euro
nel Mezzogiorno, a fronte di 705 euro per abitante nel Centro-Nord.
Tale sperequazione rivela, con ogni evidenza, l’ampio effetto di sostitutività dei fondi
cosiddetti aggiuntivi. Una sostitutività, va detto, comunque insufficiente, oltre che del tutto
illegittima: è ben noto, infatti, che ben prima delle norme europee sulle politiche di coesione, a
sancire la natura addizionale e aggiuntiva, e non sostitutiva, delle risorse destinate alle aree
meno sviluppate, vi sia l’art. 119, comma 5, della Costituzione. Vi è, dunque, anzitutto, per il
Mezzogiorno e per il resto d’Italia, la necessità urgente di recuperare livelli degli investimenti
del tutto essenziali
D’altro canto, nel Rapporto è ampiamente mostrato che l’“importo” di capitale di cui si
tratta riguarda per parte largamente prevalente prestazioni ascrivibili ai livelli essenziali dei
servizi “che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”. Tutto ciò induce a ritenere,
come la SVIMEZ ha negli anni documentato, che il c.d. “federalismo fiscale” (non per caso del
tutto inattuato nella sua codificazione della legge 44 del 2009) si sia risolto ampiamente in una
vera e propria frode, a danno dei cittadini del Mezzogiorno.
Tale considerazione risulta ancor più evidente per quanto concerne il livello territoriale
dei Comuni. Nel 2001, all’inizio della storia del c.d. federalismo fiscale, le entrate correnti dei
Comuni del Centro-Nord erano pari a 944 euro per abitante, mentre quelle dei Comuni del
Mezzogiorno ammontavano ad 815 euro (- 13,7%): al 2013 i valori corrispondenti sono 1.018
euro per i primi e 756 euro per i secondi (- 25,7%). Questo tracollo è prodotto da scelte in
materia di tributi comunali; dall’assenza di meccanismi plausibili di effettiva perequazione e
dall’andamento dei trasferimenti erariali. Ricordiamo ancora una volta, al riguardo, che la
Costituzione della Repubblica, vorrebbe che i trasferimenti siano soggetti a una “perequazione”
a fronte della minore capacità fiscale dei territori (art. 119, comma 3, che si somma alle risorse
aggiuntive o interventi dell’art. 119, comma 5): è perciò difficile capire quale ragione
“federalistica” giustifichi un maggiore importo pro capite dei trasferimenti erariali nelle zone
forti d’Italia.
La conseguenza di questo quadro è che fatto pari a 100 il fabbisogno standard riferito al
finanziamento dei servizi LEP – fabbisogno stimato con criteri analoghi a quelli impiegati per la
sanità – i valori riscontrati per i Comuni meridionali sono non superiori a 50.
6.2.2. Una rinnovata azione pubblica per garantire servizi adeguati ai bisogni dei cittadini e
delle imprese
L’analisi condotta nel Rapporto su domanda e offerta di servizi della PA evidenzia il
generale divario dell’Italia rispetto all’UE a 27 paesi nell’erogazione di servizi di assistenza
sanitaria e socio-sanitaria, istruzione, formazione e capitale umano, protezione ambientale e
servizi pubblici locali, cui si sommano le inefficienze proprie del Mezzogiorno. Il risultato è che
in Italia la qualità dei servizi sociali non è sempre adeguata alla domanda e, in particolare, il
Mezzogiorno permane (per il doppio motivo del taglio differenziato dei fondi e per la specifica
inefficienza propria) in una situazione peggiore rispetto al resto del Paese.
Più in generale, nonostante lo sforzo sinora prodotto, la situazione rilevata dal Rapporto
Doing Business 2014 della Banca Mondiale segnala un persistente ritardo competitivo dell’Italia
rispetto al resto del Mondo. In particolare, l’Italia è segnalata al 23° posto su 28 tra i paesi UE.
In questo quadro d'analisi obiettivamente sconfortante, ancora una volta la questione
della riforma della Pubblica Amministrazione è tornata al centro dell’Agenda politica del
Governo. L'approccio adottato mostra segni di discontinuità rispetto al passato; si è voluto
evitare una nuova riforma monolitica e onnicomprensiva della PA privilegiando, al contrario, un
approccio progressivo e puntiforme che mira a intervenire in settori specifici con obiettivi
facilmente documentabili. Altro carattere originale della nuova riforma è l'esplicito intento di
voler coinvolgere tutti i livelli di governo nel processo di riforma, con l'obiettivo ultimo di
semplificare il generale rapporto tra amministrazione pubblica e cittadini e imprese. Non
mancano naturalmente le criticità, e i tempi di attuazione risultano piuttosto vaghi. Il decretolegge
90/2014 è stato convertito in legge solo ad agosto e il disegno di legge delega per la
riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche presentato in Consiglio dei Ministri il 10 luglio
2014 non ha ancora visto una effettiva attuazione.
Dal nostro punto di vista, il tentativo di riforma sconta un difetto originario. Ancora una
volta non si sono volute tenere nella giusta considerazione le specificità, e quindi le criticità,
proprie di ogni territorio, in particolare del Mezzogiorno. I dati presentati nel Rapporto
evidenziano una qualità dei servizi erogati eterogenea nelle diverse Regioni. Adottare un
approccio unico getta seri dubbi sulla reale efficacia degli interventi proposti: sarebbe stato forse
più opportuno attuare un effettivo coinvolgimento dei territori e dei diversi livelli di governo già
nella fase di disegno della riforma e non solo nella fase di attuazione. Diversamente il rischio è
che, ancora una volta, il coinvolgimento tanto pubblicizzato possa tradursi in una operazione
poco incisiva. Gli strumenti a disposizione per muoversi in questa direzione ci sono, manca,
probabilmente una reale volontà.
L'immagine di una PA italiana "elefantiaca" non trova riscontro nei dati. Infatti, secondo
quanto rilevato dall'OCSE, la presenza della PA, misurata come quota dei dipendenti pubblici
sul totale delle forze lavoro, in Italia è largamente più modesta (13,7% nel 2011) di quella dei
maggiori paesi europei (tra il 26% della Svezia e il 18,3% del Regno Unito), ad eccezione della
Germania (10,6%). Nel corso dell'ultimo decennio, poi, contrariamente a quanto avvenuto nei
principali paesi europei, tale quota è diminuita sensibilmente (era il 15,4% nel 2001). Una
tendenza al ridimensionamento è del resto desumibile dai risultati del Censimento 2011, dai
quali emerge, rispetto al Censimento 2001, una PA “dimagrita” in termini di personale negli enti
locali e nelle aziende erogatrici di servizi del 6,1% nel Mezzogiorno e del 14% nel Centro-Nord.
In aggiunta, diversamente da quanto spesso si crede, la presenza della PA, se rapportata
alla popolazione, resta comunque significativamente più elevata nel Centro-Nord: 31 addetti
ogni 1.000 abitanti, contro i 26 del Mezzogiorno (dieci anni prima erano rispettivamente 38 e
28).
Nel valutare la qualità e l'efficienza dei servizi pubblici nelle due aree del Paese è
opportuno tener presente, oltre ad una struttura e ad una dimensione della PA più modesta che
nei paesi più avanzati dell’UE, un più contenuto livello della spesa. Nel Mezzogiorno, ad
esempio, la spesa relativa agli interventi nell’ambito della protezione sociale registra negli ultimi
undici anni una quota pro capite che non supera il 70% di quella del Centro-Nord, un livello che
non consente a questo importante strumento della politica di welfare di supportare
adeguatamente la fragile realtà socio-economica delle famiglie e dei lavoratori più deboli del
Sud.
Tra i servizi erogati dalla PA, una particolare sensibilità è accordata a quelli per la tutela
e la salvaguardia della salute. L'efficienza dei servizi socio-assistenziali nel Mezzogiorno è
valutata negativamente dagli utenti; infatti, poco meno di un quinto di essi si dichiara molto
soddisfatto dei servizi offerti a fronte di quasi la metà nel Centro-Nord, un giudizio che nel
Mezzogiorno è venuto peggiorando nel corso del decennio. La poca fiducia nei servizi
ospedalieri nel Sud è posta in luce anche dal tasso di emigrazione ospedaliera del meridionali
verso le strutture delle altre ripartizioni, riferito ai casi di ricovero per interventi chirurgici acuti,
che mostra una chiara tendenza all’aumento.
Il divario storico Nord-Sud tende ad affermarsi e consolidarsi anche in altri servizi che,
oltre a rilevare per i diritti di cittadinanza, hanno anche una diretta attinenza con la vita delle
imprese e l’attrattività di un territorio, quali la sicurezza e la giustizia, nonché i “nuovi” servizi
che la Pubblica Amministrazione eroga sulla base delle innovazioni informatiche e tecnologiche
intervenute nel corso dell’ultimo decennio.
Il quadro della digitalizzazione del Paese mostra, sia per i tempi di attuazione che per le
metodologie adottate, notevoli differenze tra regioni ed aree: a fine 2012 le regioni del Centro-
Nord risultano decisamente in vantaggio rispetto al raggiungimento degli obiettivi europei,
mentre le regioni del Sud si trovano in coda. Con riferimento allo Sportello Unico per le Attività
Produttive (SUAP), un progetto fortemente ambizioso se riferito alla attuale potenzialità della
nostra PA, esso ancora risente della scarsa integrazione funzionale con forti difformità nei
processi di erogazione dei servizi, una debole integrazione verticale e una incompleta
digitalizzazione delle attività; pertanto, non può fornire una risposta soddisfacente alle
aspettative delle imprese, in generale per l’intero Paese ma in special modo per le regioni
meridionali.
D’altra parte, la minor presenza della PA nel Mezzogiorno non risulta compensata dal
settore non profit, che – laddove è maggiormente presente – sempre più sta assumendo un ruolo
sussidiario rispetto al sistema del welfare pubblico nell’erogazione di servizi sociali ai cittadini,
contribuendo a soddisfare i diritti di cittadinanza costituzionalmente previsti. La presenza del
terzo settore, infatti, è storicamente diffusa nelle aree del Centro-Nord, rispetto a quelle
meridionali, e nel corso del decennio è aumentata sensibilmente (53,8% nel Centro-Nord contro
il 22,1% nel Mezzogiorno), e ciò anche in virtù della “capacità finanziaria” che il settore del
cosiddetto “privato sociale” trae dal sostegno decisivo delle risorse ad esso garantite da
istituzioni private quali le fondazioni di matrice bancaria, che, come noto, in termini di capacità
finanziaria sono quasi del tutto assenti e comunque marginali nel Sud del Paese.
Basta analizzare il numero degli addetti per rendersi conto della solidità del fenomeno
nel Centro-Nord rispetto al Mezzogiorno: circa 555 mila, contro circa 126 mila al Sud, appena il
18,5% del totale, largamente inferiore al peso della popolazione meridionale. I finanziamenti al
Terzo Settore nel Sud sono poi oltre sei volte in meno rispetto a quelli dell’altra parte del Paese:
se il raffronto lo si fa in termini di attribuzione pro capite delle risorse, se ne ricava che ciascuna
istituzione meridionale impegnata nel settore riceve al massimo 97 mila euro, mentre una
operante nel Centro-Nord può contare su ben 252 mila euro, due volte e mezzo in più.
Ciò rappresenta un ulteriore elemento del divario tra le due aree del Paese, che si va ad
aggiungere agli altri più strutturali, influenzando non poco la creazione di quella rete di capitale
sociale che, laddove c’è ed è forte, contribuisce in modo significativo alla crescita economica e
sociale.
La forza del Terzo Settore al Nord gli consente di svolgere un importante ruolo di
supplenza della Pubblica Amministrazione nell’erogazione di decisivi servizi alla persona. A
differenza di quanto accade nelle regioni meridionali dove, spesso, questi servizi, quando non
sono svolti dal pubblico, vengono di fatto a mancare totalmente, con grave danno per quanti ne
potrebbero usufruire. Mentre, insomma, nel Centro-Nord il welfare privato-sociale già oggi è in
grado di affiancare in misura significativa e innovativa il welfare pubblico, compensando la forte
contrazione di addetti della PA verificatasi nell’ultimo decennio, nel Mezzogiorno la garanzia
della parità dei diritti di cittadinanza non può che continuare ad essere assicurata soprattutto dal
welfare pubblico.
6.3. L’importanza di una politica del lavoro, della formazione e del welfare per il Sud
6.3.1. Un nuovo investimento formativo a tutte le età e la garanzia dell’accesso al mercato del
lavoro
Una questione di diritti di cittadinanza, seppure in senso lato, sta diventando quella del
cittadino di fronte al livello di deterioramento del mercato del lavoro in tutto il territorio
nazionale, ma con un’accentuazione tale nelle regioni del Mezzogiorno che, combinato con il
rischio di depauperamento del capitale umano, potrebbe determinare un nuovo “equilibrio”
strutturale di inoccupazione e dequalificazione del lavoro.
Giovani e donne – spesso qualificati – che non accedono a un’occupazione, adulti che
hanno perso il lavoro e hanno difficoltà a ricollocarsi, e individui meno qualificati ai limiti
dell’emarginazione, sono le emergenze che la crisi ci restituisce e che corrispondono ad
altrettanti diritti sociali frustati: diritto a un accesso trasparente al mercato del lavoro, diritto a
una formazione pubblica di qualità.
I “senza lavoro” sono una fascia sempre più ampia fascia della società italiana – circa 7
milioni nel 2014 (3,5 milioni di disoccupati e 3,4 milioni di inattivi ma disponibili a lavorare), di
cui circa 3,7 nel Mezzogiorno – a cui bisogna guardare, con interventi che vadano ben oltre la
modifica delle regole del mercato del lavoro, cercando di favorire il percorso di “ritorno” ad
essere parte attiva nel mercato del lavoro, nonché ad accedere ad una formazione di qualità e a
servizi adeguati e mirati alle loro esigenze.
La priorità per il lavoro, e dunque per il Mezzogiorno, come emerge in generale nel
Rapporto, resta una politica economica complessiva che favorisca l’aumento della domanda e il
miglioramento del modello di specializzazione del nostro sistema produttivo, con un impegno
specifico per le regioni del Mezzogiorno. Tuttavia, a fronte di questo enorme “bacino” di
persone in ricerca attuale e potenziale di lavoro, e di un mercato del lavoro tutt’altro che statico,
ma fluido e con irrisolti problemi di disallineamento tra domanda e offerta, una rinnovata
strategia di politiche “attive” del lavoro e della formazione si rende necessaria.
Per i giovani, che restano la prima e vera emergenza, è evidente che occorre mettere in
campo un coerente insieme di politiche di istruzione e formazione, occupazione e sicurezza
sociale, industriali e di sviluppo regionale per mitigare i costi sociali della problematica
dell’inoccupazione giovanile. Non si può affrontare il problema soltanto con la flessibilità delle
regole, che si è rivelata un rimedio non valido a ridurre strutturalmente la disoccupazione.
In ogni caso, sarà essenziale accompagnare questo genere di interventi con l’offerta di
un’istruzione di qualità e un sistema evoluto di formazione professionale, sottoposto a una
continua valutazione di efficacia. In questo quadro, occorre rendere operative, sulla scorta delle
migliori prassi europee, le misure per una efficace ed efficiente alternanza scuola-lavoro. Se,
infatti, la principale causa della difficile situazione giovanile sui mercati del lavoro è costituita
dalla mancanza di esperienza, il rimedio potrebbe essere quello di permettere loro di acquisire il
più rapidamente possibile quelle esperienze lavorative in grado di chiudere il gap che li separa
dagli adulti, specie ai più qualificati che possono apportare nel sistema quelle conoscenze di cui
esso stesso ha bisogno per produrre innovazione.
Cruciale, poi, resta il tema di fornire servizi pubblici e privati di intermediazione tra
domanda e offerta di lavoro più adeguati, per configurare la garanzia di un vero e proprio diritto
all’accesso al mercato del lavoro, in particolare per i giovani e le donne che ne sono fuori.
L’impressione che i servizi per l'impiego (SPI) non abbiano in Italia l'attenzione che
ricevono in altri paesi è confermata da una disamina dei dati OCSE: la spesa pubblica italiana (in
percentuale del PIL) per le politiche del lavoro è sostanzialmente in linea con il resto dei paesi
OCSE nel suo insieme (si nota comunque una sensibile preferenza per le spese passive
relativamente a quelle attive); tuttavia, in materia di SPI, essa è sotto alla media OCSE, e molto
al di sotto del valore di queste spese per alcuni importanti paesi (Francia, Germania, Regno
Unito). Di conseguenza la spesa media per il collocamento di una persona in Italia è pari a 8.673
euro, cifra molto distante dai 21.593 della Francia e 15.833 della Germania. Parimenti, gli
addetti dei centri per l’impiego non arrivano a 9.000 in Italia, contro gli 11.000 della Spagna, i
115.000 della Germania e i 49.000 della Francia.
Il compito delle politiche del lavoro è quello di creare le migliori condizioni, non solo
normative, ma anche funzionali, per favorire l'incontro domanda/offerta, così da cogliere tutte le
opportunità per trasformare la (auspicata) ripresa economica in ripresa occupazionale.
I dati allarmanti citati sopra, infatti, non devono far pensare ad un mercato del lavoro
statico: anche in presenza di uno stock simile di anno in anno, o addirittura in sensibile declino,
il mercato del lavoro si caratterizza per flussi in entrata e in uscita molto consistenti: in base ai
dati degli ultimi anni, ogni trimestre mediamente avvengono 2,5 milioni di attivazioni e 2,5
milioni di cessazioni di rapporti di lavoro con saldi positivi o negativi a volte di poche migliaia
(dati del Ministero del Lavoro). D’altro canto, come richiamato, si registrano problemi
considerevoli di disallineamento tra domanda e offerta e il sistema produttivo denuncia una
difficoltà di reperimento di figure adeguate alle proprie esigenze. L’indagine Excelsior, condotta
dall’Unioncamere, evidenzia che, nonostante la crisi e l’eccesso di offerta, le difficoltà di
reperimento hanno riguardano in complesso circa il 17% delle assunzioni previste per l’Italia nel
2013 (le difficoltà di reperimento sono più accentuate nell’industria dove arrivano al 18,5% del
totale mentre nei servizi la quota scende al 17%; a livello territoriale, nel Nord sono più elevate,
il 19% circa, mentre si riducono al 13,6% al Sud e nelle Isole).
A rendere più problematica l’applicazione delle politiche attive, in verità, contribuisce la
struttura del nostro sistema produttivo, caratterizzato generalmente da un livello dimensionale
molto basso e, specialmente al Sud, da condizioni normative e retributive talvolta degradate che
allontanano le piccole e piccolissime imprese dai luoghi “istituzionali” di incontro tra domanda e
offerta e di formazione delle competenze e delle capacità. Luoghi e istituzioni che, a loro volta,
presentano problemi di eccessiva burocratizzazione e di mancata corrispondenza alle esigenze
del sistema produttivo.
Diverse, dunque, sono le priorità per far fronte alla pluralità di problematiche
evidenziate. Molto sommariamente, per quanto riguarda l’emergenza dell’occupazione
giovanile, occorre intervenire sui seguenti fronti: a) migliorare e agevolare la transizione
scuola-lavoro, favorendo una visione più integrata della promozione delle competenze dei
giovani ampliando le opportunità di acquisire esperienze di lavoro durante la fase formativa; b)
rilanciare l’istruzione tecnico-professionale, anche superiore, per ridurre l’attuale carenza,
nell’offerta di lavoro giovanile, di profili tecnici e professionali intermedi e superiori; c)
rilanciare i contratti di tirocinio formativo e di apprendistato, nell’ottica di una migliore
integrazione fra sistema educativo/formativo e mercato del lavoro, puntando ad una vera
alternanza tra formazione e lavoro (in Italia i giovani o studiano con la possibilità di seguire dei
tirocini che si dimostrano essere quasi del tutto inefficaci, o intraprendono un percorso di
apprendistato che non offre quasi nessuna opportunità di apprendimento in aula ed è il più delle
volte segnato dall’obiettivo di ridurre i costi del lavoro piuttosto che di formare il capitale
umano; d) completare e rendere effettivo il processo di riforma dei servizi pubblici per l'impiego
(SPI) su tutto il territorio nazionale, e il tentativo di una loro conversione in un sistema orientato
in linea di principio alla fornitura di politiche attive del lavoro (informazione, orientamento e
riqualificazione delle persone in cerca di lavoro), favorendo la loro integrazione, venuta meno la
condizione di monopolio, con i servizi privati di intermediazione.
Questi obiettivi vanno perseguiti con uno sforzo attuativo e di coordinamento tra i diversi
livelli di governo che hanno la competenza sul settore, rendendo il più possibile omogenei gli
strumenti e più efficaci i momenti di coinvolgimento degli attori economici, provando a superare
il consueto paradosso, che si verifica nel Mezzogiorno, di una maggiore debolezza delle
politiche e delle istituzioni preposte ad implementarle in presenza di un maggiore bisogno
sociale.
A questa funzione potrebbe corrispondere la costituenda “Agenzia nazionale per
l’occupazione”, prevista dalla “Delega Lavoro”: se, però, non si limiterà al monitoraggio e alla
verifica della tutela dei livelli essenziali delle prestazioni, ma se davvero sarà lo strumento di
diffusione delle migliori pratiche; e se saprà promuovere su tutto il territorio nazionale
l’operatività degli strumenti normativi, la circolazione delle informazioni su competenze e
fabbisogni, e il coinvolgimento delle parti sociali nell’implementazione delle politiche “attive”
del lavoro.
La mancanza o l’inefficacia delle politiche del lavoro, come spesso accade, ha avuto un
riflesso specifico sulla componente femminile, per la carenza di politiche di conciliazione:
l’unico strumento di conciliazione, infatti, è diventato il part-time che, non a caso, per il
peggioramento delle condizioni occupazionali complessive, per l’aumento dei casi in cui è sulla
donna che grava il mantenimento del nucleo familiare, è diventato sempre più involontario. Nel
quadro di estrema penalizzazione delle donne, è ben nota la carenza, specie al Sud, dei servizi di
asilo per l’infanzia e di cura degli anziani.
Le attuali misure presenti in Italia a sostegno del lavoro femminile consistono in una
corrispondenza di reddito in caso di assenza per maternità. C’è, tuttavia, poca attenzione al
rientro graduale in azienda e soprattutto alla flessibilità oraria e alla possibilità del telelavoro per
una serie di professioni che lo consentono. In questo senso, i principi e i criteri direttivi della
“Delega lavoro” sono molto condivisibili, l’auspicio è che vengano attuati senza riserve e ritardi.
Bisogna infine richiamare un ulteriore aspetto cruciale che nel dibattito pubblico viene
spesso trascurato: la formazione degli adulti. Sebbene l’inoccupazione giovanile costituisca la
priorità su cui concentrare maggiore attenzione, connotati altrettanto drammatici, pur in quadro
complessivo relativamente meno preoccupante, assume il problema della disoccupazione adulta.
Pur nel complessivo processo di riequilibrio, a vantaggio della popolazione adulta, della
composizione occupazionale, non si deve infatti dimenticare il crescente numero di adulti che
hanno perso il lavoro e i tempi sempre più lunghi di reinserimento nel mondo del lavoro:
questioni che hanno una forte accentuazione territoriale.
Questi andamenti aggravano una delle principali debolezze del capitale umano in Italia, e
cioè skill orientati verso le professioni a bassa specializzazione. Diverse indagini internazionali,
segnalano come il complesso di conoscenze e competenze acquisito dai lavoratori adulti sul
posto di lavoro sia spesso inadeguato rispetto alle nuove esigenze tecnologiche e organizzative
delle imprese italiane. È stato rilevato che i lavoratori italiani, di età superiore ai trent’anni, non
solo presentano modesti livelli di istruzione, ma tendono ad essere portatori di un capitale di
conoscenze e esperienze che è fortemente legato al posto di lavoro (tipo di lavoro svolto, luogo
dove l’impresa opera, ecc.). Se questo ha determinato un vantaggio competitivo sui giovani, non
ha certo contribuito al rafforzamento della performance complessiva della nostra economia, in
termini di capacità di innovazione e competitività.
Per questo motivo, diventano necessarie politiche che da un lato favoriscano la ripresa
della partecipazione al lavoro degli adulti e, dall’altro, il rafforzamento della loro la capacità
lavorativa, che potrebbero accrescersi in misura rilevante attraverso strumenti di formazione
continua in grado di favorire un significativo innalzamento delle competenze.
6.3.2. Sostenere i redditi dal rischio povertà ed esclusione sociale
Altro discorso meriterebbe la questione delle politiche “passive” del lavoro, alla luce
dell’individuazione di nuove forme di sostegno al reddito, per garantire un maggiore livello di
universalità e, dunque, un riequilibrio anche territoriale delle forme di tutela del reddito, a
beneficio del Mezzogiorno che ne è sostanzialmente privo.
Quasi tutti i paesi europei hanno adottato misure universali di protezione del reddito
delle famiglie dal rischio di povertà ed esclusione sociale. In Italia il sistema di protezione
sociale prevede solo interventi in favore di alcune categorie, manca, come del resto nella sola
Grecia, uno strumento nazionale e universale di contrasto alla povertà.
Il sistema di protezione sociale italiano è ancorato ad una logica “assicurativa”, gli
ammortizzatori sociali, che non consente una protezione dal rischio di povertà ed esclusione
sociale estesa alla generalità dei cittadini. Restano infatti escluse dal sistema di protezione i
lavoratori parasubordinati, i disoccupati di lunga durata che hanno esaurito gli ammortizzatori
sociali, i lavoratori "poveri" per i quali il reddito da lavoro non è sufficiente a garantire un
minimo tenore di vita alla propria famiglia. A costoro si aggiungono tutti gli individui in cerca di
prima occupazione, che non hanno mai avuto accesso al mercato del lavoro e i lavoratori
autonomi.
Le misure di contrasto alla povertà presenti in Italia, come l'integrazione al minimo
pensionistico, la pensione sociale, la social card, sono limitate ai cittadini ultra 65-enni, mentre è
del tutto trascurato il rischio di povertà per le fasce di popolazione attiva senza lavoro o in
condizioni lavorative precarie. Un rischio questo che, negli anni della crisi, è sensibilmente
aumentato.
Sulla necessità di adottare strumenti di sostegno al reddito familiare è difficile trovare
opinioni contrarie; forti perplessità sorgono tuttavia nella capacità del sistema nazionale di
reperire le non trascurabili risorse finanziarie necessarie per l’avvio di un sistema universale di
protezione. Del resto, il forte impatto negativo della recessione sull’economia e le politiche di
bilancio necessarie per far fronte alla gestione del rilevante debito pubblico nazionale non
rendono certamente agevole l’iniziativa.
Nel 2013 il gruppo di lavoro costituito presso il Ministero del Lavoro ha proposto il
Sostegno di Inclusione Attiva (SIA) come strumento universale di contrasto alla povertà. Il SIA
dovrebbe integrare il reddito delle famiglie inferiore a quello della soglia di povertà con le
risorse necessarie per raggiungere tale soglia.
La SVIMEZ ha effettuato una valutazione del costo del SIA utilizzando il modello di
microsimulazione fiscale dell’IRPET, MicroReg, costruito sull’indagine campionaria sul reddito
e le condizioni di vita delle famiglie EU-SILC. I benefici previsti in questo caso sono
determinati dalla differenza tra le risorse economiche a disposizione delle famiglie e la soglia di
povertà. Le risorse economiche sono costituite dal reddito disponibile delle famiglie, al netto
delle indennità di accompagnamento e, solo per le famiglie che risiedono in una casa di
proprietà, maggiorato del fitto figurativo che dovrebbero pagare se fossero in affitto.
Il SIA, secondo tale simulazione, interesserebbe 1,3 milioni di famiglie in Italia, il 5,6%
del totale, con un costo complessivo, nell’ipotesi di coprire l'intera soglia di povertà, di circa 5,6
miliardi di euro all’anno. Le famiglie interessate risiedono in maggioranza nel Centro-Nord
(52,4%) e assorbono oltre la metà della spesa totale stimata. Nel Mezzogiorno si avrebbe una
maggiore frequenza di utilizzo, con l’8,3% di famiglie beneficiarie.
Nelle regioni meridionali, le famiglie che beneficerebbero di più dell’intervento sono
quelle con capofamiglia disoccupato: il 37% di queste otterrebbe un trasferimento medio di circa
5.400 euro annui e circa il 20% degli interventi totali ricadrebbe su di loro. Il SIA si farebbe
pertanto carico di quel disagio sociale dovuto alla mancanza di lavoro, che in questi anni di crisi
si è rafforzato. Ma anche le famiglie in cui il lavoro c’è sarebbero agevolate dall’intervento
nell’integrazione del loro reddito fino alla soglia di povertà. Si tratta di quei nuclei familiari in
cui la condizione di disagio economico è data da bassi redditi da lavoro e/o dalla presenza di
carichi familiari, che abbiamo visto essere molto frequenti nel Sud.
6.4. Una politica sistemica dell’assetto infrastrutturale per cogliere le potenzialità del Sud nel
nuovo contesto geopolitico
L’ambito in cui maggiormente si può verificare la dimensione del “crollo” degli
investimenti pubblici nel nostro Paese e il disimpegno verso una politica di sviluppo che
puntasse al superamento degli squilibri in un’ottica di sistema, è senz’altro quello delle
infrastrutture.
Negli ultimi 40 anni gli investimenti in opere pubbliche in Italia si sono dimezzati: in
particolare, nel 2013 si è realizzato il più basso livello di investimenti nel nostro Paese mai
avutosi dal 1970. Ma, in un contesto di generale compressione della spesa pubblica in conto
capitale, mentre nel Centro-Nord la dinamica di crescita della spesa si è interrotta solo nella
seconda metà degli anni Duemila, in conseguenza della crisi finanziaria ed economica che ha
contribuito in modo significativo alla caduta di investimenti in opere pubbliche, nel
Mezzogiorno risultano particolarmente preoccupanti i tagli effettuati agli investimenti in
infrastrutture, che oggi al Sud valgono poco più di un quinto rispetto agli anni ’70.
Per le politiche infrastrutturali, come per le politiche di coesione e sviluppo nel loro
complesso, il 2013 avrebbe dovuto rappresentare un anno di consuntivo degli impegni
programmatici e di accelerazione della spesa.
Invece, ad appena 15 mesi dal 31 dicembre 2015, data entro la quale dovranno essere
stati integralmente spesi i Fondi strutturali e della politica nazionale di coesione relativi al
periodo 2007-2013, si continuano ad accumulare notevoli ritardi attuativi, dovuti in gran parte a
irrisolti problemi di governance, soprattutto per quel che attiene agli interventi infrastrutturali
previsti nelle regioni meridionali. E questo accade nonostante le riprogrammazioni di fondi fatte
per evitare di perdere risorse significative di provenienza comunitaria e per impiegare la quota di
cofinanziamento nazionale del Fondo Sviluppo Coesione.
Il livello comunitario incide, e in misura non irrilevante, sulla politica infrastrutturale: a
tal proposito è da rilevare che i nuovi progetti TEN disegnano una rete integrata europea nella
quale larga parte del Mezzogiorno sembra destinata a giocare un ruolo del tutto secondario, nella
migliore delle ipotesi solo da comprimario. Ciò perché i TEN assecondano ma non modificano la
minore accessibilità territoriale delle regioni meridionali, che incide negativamente sulla
complessiva competitività logistica del nostro Paese.
Non meraviglia, pertanto, che l’armatura infrastrutturale meridionale si presenti ancora
oggi come un “non sistema” periferico rispetto al centro economico dell’Europa, peraltro
scarsamente accessibile al suo interno.
Se si esamina lo stato di attuazione della Legge Obiettivo a fine ottobre 2013, si nota
come gli investimenti nel Centro-Nord siano aumentati rispetto a un anno prima di quasi 7
miliardi, da oltre 225 miliardi a più di 232, con un incremento del 3%. Mentre nel Sud sono
calati quasi della stessa entità, da 147 a 140 miliardi circa (-5%). Tale tendenza mostra come le
relazioni infrastrutturali alla base delle scelte di investimento comunque poste in essere negli
ultimi anni escano definitivamente da una logica che, comunque, faceva riferimento alla
unificazione del Paese e alla tendenziale parificazione almeno delle opportunità di sviluppo a
livello territoriale, per essere sostituite da un approccio fortemente orientato al mercato, alle aree
già sviluppate (caratterizzate da non pochi problemi di congestione e obsolescenza), non a quelle
con ancora amplissimi margini di sviluppo del Mezzogiorno, come dimostrano la densità e
l’entità degli investimenti (ferroviari, autostradali, portali e aeroportuali) in corso e previsti nel
Nord del Paese.
Appare quanto mai necessario un nuovo orientamento nella pianificazione delle
infrastrutture e dei trasporti, che aggiorni le esigenze della mobilità delle persone e delle merci e
che sia strutturalmente operativo, superando così la cronica genericità dei piani varati ma mai
completamente attuati. Ma, soprattutto, che riporti il Mezzogiorno al centro della strategia
nazionale. Questa esigenza è posta con forza anche dalla Commissione Europea in vista
dell’approvazione dei piani di intervento per il periodo 2014-2020. Sarebbe auspicabile che la
risposta italiana sia adeguata alla gravità del problema e superi, per una volta, l’approccio
formalistico a tale adempimento.
Nel Mezzogiorno, dunque, nel corso degli anni, l’attività infrastrutturale si è limitata a
interventi di dimensione modesta, che per loro natura non sono in grado né di infittire la rete
infrastrutturale, né di consolidare i nodi logistici.
La scarsa dimensione finanziaria della quota attribuita al Sud è soprattutto il frutto di una
programmazione che, col passare del tempo, non è stata integrata e adeguata, oltre che di una
pianificazione delle risorse che vede nelle aree meridionali una netta prevalenza di quelle
pubbliche: infatti, su poco meno di 26 miliardi e mezzo di finanziamenti privati, circa l’87% è
destinato a opere CIPE nel Centro-Nord, mentre nel Mezzogiorno è appena il 12,4%.
I rilevanti fabbisogni di investimento infrastrutturale non possono però certamente essere
soddisfatti interamente dalla finanza pubblica, tanto più in situazioni di ristrettezze di bilancio e
di crisi economiche difficili e complesse come l’attuale. Orientarsi, perciò, al coinvolgimento dei
privati, con i vari strumenti disponibili, come il Partenariato Pubblico Privato, il Project
Financing e altre forme più o meno strutturate di compartecipazione, è determinante.
La SVIMEZ valuta positivamente le misure assunte recentemente dal Governo, a partire
dal decreto legge “Sblocca Italia” del 2014, in quanto sono orientate alla più rapida attivazione
di strumenti che possono favorire l’apertura dei cantieri o l’avanzamento di grandi opere
pubbliche.
Lo “Sblocca Italia” prevede, infatti, di riallocare 840 milioni di revoche e di destinare
oltre 3 miliardi del Fondo Sviluppo Coesione 2014-2020, per un totale di poco meno di 4
miliardi di euro, tutti immediatamente impegnabili, anche se la disponibilità effettiva nel breve
periodo è di soli 300 milioni fino al 2015.
Tali risorse potranno essere destinate a tre gruppi di opere del Programma Infrastrutturale
Strategico, con diversi vincoli temporali di appaltabilità e di cantierabilità entro il prossimo
anno: si tratta di 28 interventi specifici, di cui 18 nel Centro-Nord e 10 nel Mezzogiorno e di 3
piani di piccoli interventi. L’assegnazione delle risorse dovrebbe avvenire entro la fine del 2014,
per cui solo allora sarà possibile capire la loro destinazione territoriale, ma già dalla numerosità
degli interventi è presumibile che la maggior parte dei finanziamenti non sia destinata al Sud.
In questo contesto, è comprensibile il commissariamento di due grandi infrastrutture
ferroviarie del Mezzogiorno, la Napoli-Bari e la Messina-Catania-Palermo, che potrebbe
accelerare l’impiego complessivo dei 3,8 miliardi di euro già disponibili.
Infine, pur se appare coerente con la difficoltà di mantenere in equilibrio il traballante
bilancio pubblico, la scelta di ridurre il cofinanziamento nazionale dei programmi comunitari,
non solo quelli in essere e in ritardo di attuazione, ma anche dei nuovi, come ipotizzato per il
PON Infrastrutture e Reti 2014-2020, è, come vedremo in seguito, piuttosto discutibile. Si tratta,
infatti, di una sostanziale rinuncia anticipata a sviluppare una programmazione su nuove basi e
su più rigorosi criteri di efficienza.
Nel Rapporto di quest’anno vengono presentati i risultati di un esercizio, curato
dall’UVER-DPS teso a valutare i tempi e l’andamento della spesa nella realizzazione delle opere
pubbliche. Dall’analisi risulta che in media non vi sono differenze sostanziali nei tempi di
attuazione delle opere finanziate con la politica di coesione guardando alle macro aree del Paese:
la media nazionale è pari a quattro anni e mezzo ed esiste una differenza di pochi mesi tra le aree
del Centro-Nord e del Sud. La fase di progettazione risulta la parte preponderante dell’attuazione
di un’opera ed è omogenea in termini di durata per tutto il Paese. La fase di affidamento dei
lavori è generalmente pari a 6 mesi (0,5 anni); solo nel Sud i tempi si allungano seppur di poco
(poco più di 7 mesi).
Maggiori differenze tra le aree si notano nella fase dei lavori, la più influenzata dalla
composizione settoriale delle opere a livello territoriale. La minore durata della fase nel Sud
deriva infatti dalla dimensione media più contenuta delle opere in termini di costo (2,5 milioni di
euro) rispetto al Centro-Nord (3,5 milioni di euro circa).
Si pone in evidenza che questi sono i tempi di attuazione in media degli interventi
finanziati nell’ambito di una specifica politica, in questo caso quella di coesione; tempi medi che
risentono in modo sensibile del mix di interventi ammissibili dalla stessa e quindi finanziati, ed
in particolare modo della loro dimensione economica, che evidentemente è concentrata su valori
bassi. Va inoltre sottolineato che dal semplice confronto tra valori medi non è possibile trarre
conclusioni circa la diversa capacità dei territori di realizzare le opere pubbliche in tempi
adeguati, laddove i comportamenti osservati dipendono esclusivamente dal mix di interventi
operato da ciascun territorio.
Con riferimento alle classi di costo e quindi alla dimensione presunta dell’opera si può
notare invece come gli interventi localizzati nel Nord si caratterizzino per durate mediamente più
brevi rispetto al Centro e al Sud, un fenomeno rilevato in quasi tutte le macrofasi (progettazione,
affidamento e esecuzione dei lavori). Sebbene tali differenze siano generalmente comprese
nell’ordine di pochi mesi, spiccano i più lunghi tempi di attuazione delle opere di importo
superiore ai 100 milioni di euro osservabili nel Sud d’Italia: in questo caso la differenza con il
Centro-Nord sale a circa un anno e mezzo: rispettivamente, 15,3 anni e 13,7 anni.
Nel complesso, a parità di mix di interventi tra Centro-Nord e Sud Italia, quest’ultimo fa
registrare una durata complessiva mediamente più lunga che nel resto d’Italia, indice di una
minore efficienza nella progettazione e realizzazione delle opere pubbliche.
6.5. Il Mezzogiorno e le politiche di coesione a un passaggio cruciale
Mai come negli ultimi anni, le politiche di coesione sono diventate – per il venir meno
delle politiche ordinarie e la forte compromissione delle aggiuntive nazionali – l’unico strumento
di politica di sviluppo per il Mezzogiorno. E ora, l’insieme – o meglio, ciò che dovrebbe essere
l’insieme – delle politiche di coesione, europee e nazionali, si trovano a un passaggio molto
stretto, ma cruciale.
Tra la fine del 2013, e in particolare nei primi mesi del 2014,si è giunti nella fase,
caratteristica dei cicli di programmazione delle politiche di coesione comunitaria, in cui la
conclusione del periodo in corso (2007-2013) si sovrappone con l'avvio effettivo del ciclo
successivo, segnatamente il periodo 2014-2020.
Il biennio 2014-2015, a fronte della crisi economica e sociale del Sud emersa in queste
pagine, e del quadro previsionale assai poco confortante, avrebbe potuto rappresentare
un’occasione preziosa. Potenzialmente, nel periodo si sarebbero potute attivare diverse leve per
gli interventi di riequilibrio territoriale: la “coda”, assai sostanziosa, delle risorse europee
contenute nei Programmi operativi; l’avvio del Piano di Azione Coesione (PAC) finanziato con
le risorse “liberate” dalla riduzione del cofinanziamento nazionale; la “coda”, anche questa
rilevante, del già falcidiato Fondo per lo sviluppo e la coesione (FSC); e l’avvio, che si
auspicava più rapido rispetto al vecchio ciclo di programmazione delle risorse per il 2014-2020.
Tuttavia, nella migliore delle ipotesi, questa condizione particolare si potrebbe realizzare
solo per il 2015, perché nonostante gli sforzi di accelerazione della spesa a finalità strutturale, il
quadro ad oggi è assai poco soddisfacente.
6.5.1. La chiusura del ciclo 2007-2013: la spinta all’accelerazione si è esaurita?
La riduzione del cofinanziamento nazionale ai Programmi operativi (e dunque della loro
dotazione finanziaria complessiva), insieme a nuovi meccanismi di sorveglianza sulle
amministrazioni più deficitarie, hanno comportato negli ultimi due anni una accelerazione del
ritmo di spesa delle risorse comunitarie. In larga misura, però, si è trattato di un effetto statistico.
Svanito il quale, l’avanzamento della spesa è proceduto nuovamente a rilento.
La situazione più critica riguarda i Programmi dell'Obiettivo Convergenza, dal momento
che la spesa certificata nel complesso ammonta al 51% del contributo assegnato (una percentuale
che non trova riscontri in Europa se non in Malta, Bulgaria e Romania). Nel complesso, nel
2014-2015, nella macroarea Convergenza dovranno essere ancora spesi circa 16 miliardi di euro.
Questo dato, alla luce della performance storica di alcune Regioni (in particolare Campania e Sicilia),
evidenzia il rischio di perdita di risorse nella fase conclusiva del ciclo di programmazione.
Per evitare di correre questo rischio, alcune Regioni stanno chiedendo alle proprie
amministrazioni locali una sorta di “lista della spesa” per provare a impegnare la maggior parte
della dotazione finanziaria dei programmi operativi. Tutto ciò contraddice le finalità dei processi
di riprogrammazione e accelerazione che dovevano puntare alla “concentrazione delle attività su
tematiche di interesse strategico”. Invece, stiamo assistendo in chiusura del ciclo a una
sostanziale dispersione degli interventi, che verosimilmente produrrà uno scarso impatto
macroeconomico sullo sviluppo dei territori e sulla crescita occupazionale.
D’altra parte, anche l’attuazione del Piano di Azione Coesione (il PAC, la
“programmazione parallela” finanziata con le risorse “liberate” in seguito alla riduzione del
cofinanziamento nazionale) prosegue molto a rilento. Al 2013, siamo soltanto all’8%
dell’attuazione dei programmi di spesa, una cifra di 728 milioni di euro a fronte degli oltre 9
miliardi (la parte monitorata al 31 dicembre 2013, su un totale ormai di quasi di oltre 15 miliardi,
comprese le rimodulazioni interne ai Programmi Operativi).
Se pure le risorse confluite nel PAC mantengono la destinazione territoriale e non sono
sottoposte ai vincoli temporali stringenti della programmazione europea, l’effetto di
un’attuazione così lenta è comunque quello di una minore intensità dell’intervento pubblico per
lo sviluppo del Mezzogiorno.
6.5.2. Il nuovo ciclo di programmazione 2014-2020: un avvio lento e problematico
È ancora in corso di approvazione, in significativo ritardo sui tempi previsti, a causa di
un negoziato con la Commissione che si è rivelato meno semplice del previsto, l’Accordo di
Partenariato, il documento strategico fondamentale che segnerà per il prossimo ciclo le linee
della programmazione europea e nazionale per lo sviluppo e la coesione. Questo ritardo si riflette
in primo luogo sulla fase di perfezionamento dei Programmi operativi. Per la parte nazionale,
d’altronde, il Fondo di Sviluppo e Coesione (FSC) 2014-2020 è ancora privo di una
programmazione, e le scarse risorse previste nel bilancio dello Stato 2014-2016 sono state
“preallocate” con provvedimenti normativi, al di fuori da un quadro strategico ben definito.
In relazione ai contenuti dell'Accordo è evidente come il documento rifletta la
preoccupazione per gli effetti della profonda crisi socio-economica sulla società, con la
previsione espressa di utilizzare risorse per investimento per il finanziamento di azioni di natura
anticiclica, in particolare sulla struttura produttiva, e come strumento di contrasto al crescente
disagio sociale e alla povertà. Continuano a destare fortissime perplessità, in questo contesto,
l’operatività delle condizionalità macroeconomiche stabilite nei regolamenti per il nuovo ciclo di
programmazione, in quanto finirebbero per sanzionare proprio le aree che, a causa del ritardo di
sviluppo per la riduzione del quale le politiche di coesione sarebbero orientate, possono far
registrare performances economiche più problematiche.
L’impianto strategico dell’Accordo di Partenariato prevede di indirizzare il più possibile
le risorse della programmazione comunitaria 2014-2020 verso interventi che contribuiscano al
rafforzamento della capacità dei territori di esprimere attività economica di mercato,
contribuendo alla creazione di occupazione. Risultano ridimensionati, per espressa scelta
programmatica europea, gli investimenti infrastrutturali di varia natura (reti infrastrutturali,
trasporti, opere pubbliche di taglia medio grande), in considerazione dei tempi lunghi necessari
alla loro progettazione e realizzazione, incompatibili con la durata del ciclo di programmazione
comunitaria. La realizzazione degli interventi in campo infrastrutturale è, infatti, demandata al
Fondo di Sviluppo e Coesione. Questa scelta può avere risvolti preoccupanti. Nel permanere
delle difficoltà di bilancio, se il FSC, analogamente a quanto accaduto in passato per il FAS, si
trasformasse da strumento per le politiche di sviluppo in un bacino di risorse cui attingere per
emergenze o esigenze contingenti, la rinuncia alla realizzazione di opere infrastrutturali – che
non disporrebbero di altre fondi di finanziamento almeno nell'ambito della politica di coesione –
sarebbe una grave sconfitta, soprattutto alla luce degli effetti che queste opere più di altre
possono dispiegare sullo sviluppo dei territori in un orizzonte di medio-lungo termine.
Ancora nel merito delle scelte dell’Accordo, da una prospettiva meridionalistica risulta
incomprensibile che non sia previsto un Programma nazionale né multiregionale per l’Energia,
nonostante l'importanza del tema che riveste nella prospettiva comunitaria e la prospettiva della
ricentralizzazione delle competenze prevista dalla riforma costituzionale. Combinato con quello
dell’ambiente, a cui gli orientamenti comunitari riservano una straordinaria enfasi, il tema
dell’energia avrebbe potuto persino tradursi in un programma specifico finalizzato alla transizione
verso la green economy; invece, soltanto una quota ridotta di risorse ed un numero limitato di azioni
destinate all'efficientamento energetico sono inserite nel PON Imprese e competitività.
Nelle more della definizione del quadro programmatico definitivo e della conclusione del
negoziato, si può dire che l'attuale stesura dell'Accordo di Partenariato non sembra raggiungere
l'iniziale obiettivo di concentrazione degli interventi enunciato nei documenti metodologici alla
base del nuovo ciclo di programmazione. Sebbene rivisto rispetto alla versione di dicembre 2013
su impulso delle osservazioni della Commissione europea per assicurare una maggiore
concentrazione delle scelte di intervento su un numero limitato di grandi obiettivi e per la
definizione della strategia a livello di categorie di regioni, l'Accordo di Partenariato articola gli
11 obiettivi tematici in circa 70 risultati attesi, che saranno realizzati attraverso una gamma
ampia e diversificata di oltre 300 azioni, che potrebbe prefigurare, anche in questo caso, una
sorta di "lista della spesa".
Al momento, il processo di programmazione 2014-2020 ha accumulato un ritardo
analogo a quello dell'analoga fase del ciclo 2007-2013, con elementi di debolezza anche
superiori. Alla domanda se dall'Accordo di Partenariato emerga chiaramente la strategia di
sviluppo che l’Italia intende darsi nei prossimi sette anni è difficile dare risposta positiva. Inoltre,
dopo così tanti cicli di programmazione (siamo alla conclusione del 4° ciclo di programmazione
comunitaria), in una fase di così profonda crisi economica, è avvilente che la discussione su
quale futuro di sviluppo disegnare per il nostro Paese con una dotazione di decine di miliardi di
euro venga considerata dal Governo, dalla stampa e dai cittadini una questione per addetti ai
lavori, e che la formulazione di tale strategia sia caratterizzata da un sistema burocratico e
autoreferenziale in relazione alle responsabilità e alle scelte di programmazione.
D'altro canto, la "svolta" di concretezza annunciata a fine 2012 con l'organizzazione della
programmazione in risultati attesi e quantificati rimane fortemente influenzata da un approccio
astratto e metodologico, legato alla stesura di documenti e piani più che all'avvio di cantieri di
progetto.
Ciò è ancora più evidente per le proposte di Programmi operativi, specie quelli regionali
che abbiamo avuto modo di visionare, in quanto pubblicate sui siti internet ai fini della
pubblicità necessaria al percorso partenariale. Anche in questo caso, pur ad una veloce analisi (le
bozze dei documenti sono state rese pubbliche a fine luglio), i testi appaiono redatti secondo un
approccio burocratico e compilativo, il che solleva molti dubbi sul sistema delle assistenze
tecniche nelle Regioni. Il tentativo è quello di adattarsi agli schemi, peraltro un po’ astratti,
dell’Accordo di Partenariato più a livello “formale”, senza un’individuazione compiuta dei piani
di intervento concreti che dessero “sostanza” all’articolazione in obiettivi e risultati attesi.
Per una maggiore efficienza ed efficacia nell’attuazione del nuovo ciclo 2014-2020,
sarebbe cruciale un impegno straordinario per la costruzione, da subito, di un parco di progetti
efficace rispetto agli obiettivi strategici ed ai risultati che si intendono perseguire. Queste attività
tuttavia richiedono tempi lunghi, pragmatismo, capacità progettuale, spirito manageriale, e reale
innovazione da parte di chi ha responsabilità di programmazione e di gestione (e forse passa anche
dal rinnovare i gruppi dirigenti che, in sostanziale continuità, da anni gestiscono queste politiche).
Per venire agli aspetti più “quantitativi”, la “dote” finanziaria per le politiche di sviluppo
dei prossimi sette anni in Italia nel complesso appare ricca. A fronte dell'importo complessivo di
32,2 miliardi di euro stanziati in favore dell'Italia, per le 5 regioni meno sviluppate (Basilicata,
Calabria, Campania, Puglia e Sicilia) sono disponibili complessivamente 22,3 miliardi di euro
(69,3% del totale), un importo pressoché pari a quello disponibile nel precedente ciclo di
programmazione; le cosiddette regioni in transizione (Abruzzo, Molise e Sardegna) possono
contare su circa 1,1 miliardi di euro (3,4% del totale); un sostanzioso incremento della dotazione
finanziaria rispetto al 2007-2013 si registra in favore delle risorse destinate alle regioni più
sviluppate del Centro-Nord che possono beneficiare di circa 7,7 miliardi di euro (a fronte dei 5,3
del ciclo precedente). Infine alla quota non territorializzata dell'obiettivo Cooperazione
territoriale sono destinati 1,1 miliardi di euro.
Tuttavia gli importi stanziati sulla carta per i prossimi sette anni potrebbero essere
rivisti a breve in relazione alle più recenti notizie della stampa. Sul nuovo ciclo, infatti, al di là
delle riserve di merito sulla natura strategica sull’Accordo di Partenariato e sulla traduzione di
esso nei Programmi operativi sia nazionale che regionali, in particolare per le aree meno
sviluppate, c’è un elemento “quantitativo” che desta grande preoccupazione. Nelle ultime
settimane è stata avanzata da parte del Governo l’ipotesi di una riduzione del cofinanziamento
nazionale dei Programmi operativi (in particolare di Campania, Sicilia e Calabria), per
consentire la costituzione e il finanziamento di una programmazione parallela, in analogia a
quanto effettuato con il PAC.
Questa operazione, che anche per questo ciclo dovrebbe valere circa 12 miliardi,
corrispondeva negli anni scorsi ad una logica emergenziale. È preoccupante che si discuta di questa
ipotesi prima dell’avvio del ciclo di programmazione, trasformando un meccanismo da emergenziale
in strutturale, testimoniando nei fatti la rinuncia a riformare la governance delle politiche superando i
vincoli, i limiti e le inefficienze che rendono debole l’avanzamento della spesa.
La preoccupazione maggiore, tuttavia, sta proprio nell’analogia con il PAC, la cui
attuazione sta procedendo troppo a rilento, comportando, dunque, un ulteriore indebolimento
della politica di coesione per il Sud. Una riduzione del cofinanziamento sarebbe accettabile
soltanto qualora vi fosse una previa programmazione, non astratta ma in grado di identificare,
invece, un insieme di progetti immediatamente cantierabili, che possano anche porsi obiettivi di
“più lungo periodo”, come è stato detto dal Governo, ma che partano immediatamente per
esplicare da subito i loro effetti sull’economia e il lavoro.
Non lascia ben sperare, da questo punto di vista, non solo quanto avvenuto con il PAC,
ma quanto sta avvenendo con il FSC 2014-2020.
È davvero “magra” l’eredità del passato di questo Fondo, che ha subito nel 2011 una
profonda trasformazione nella governance e nelle regole di utilizzo ma non ha smesso di essere
utilizzato, se non per scopi gravemente impropri, come dal 2008, comunque come strumento di
consolidamento dei conti in quasi tutte le manovre di finanza pubblica.
Complessivamente, il servizio studi della Camera dei Deputati ha segnalato che le
riduzioni del Fondo intervenute negli anni dal 2008 al 2012, sulle risorse stanziate per gli
esercizi finanziari 2008-2013, ammontano a 31,8 miliardi. Si tratta di un dimezzamento rispetto
alla dotazione iniziale, che mostra quanto poco di questo fondo è stato speso per lo sviluppo.
Basti considerare, infatti, che le risorse ancora disponibili del vecchio ciclo sarebbero di circa 5
miliardi per il 2014 e di 7 miliardi per il 2015. Insomma, per le finalità di riequilibrio e
convergenza proprie del Fondo nazionale per lo sviluppo e la coesione, nel 2007-2013, sono
state utilizzate solo poco più di un quarto delle risorse, e non tutte nel Mezzogiorno.
Il FSC 2014-2020 doveva essere improntato pertanto alla massima discontinuità nella
gestione rispetto alle famigerate vicende del ciclo precedente. Un’esigenza tanto più vitale per le
precipue finalità strategiche attribuite al FSC nel nuovo ciclo, in cui diventerà lo strumento
elettivo se non l’unico per il finanziamento delle infrastrutture prioritarie, come le grandi reti di
trasporto stradale, ferroviario, marittimo ed aereo, la banda larga e ultra larga, le emergenze
ambientali, inopinatamente uscite dal novero delle priorità strategiche della politica di coesione
europea e su cui le regioni meridionali fanno registrare deficit ancora marcati.
Va detto che la dotazione del Fondo è alquanto ridotta rispetto a quella, via via falcidiata,
del ciclo precedente. La stessa Legge di Stabilità 2014 l’ha determinata nella misura complessiva
di 54,8 miliardi e tuttavia ne è stata iscritta in bilancio soltanto una quota dell’80%, per un totale
di circa 43,8 miliardi. Per il triennio, comunque, ne è stata resa disponibile una quota molto
limitata: 50 milioni per l'anno 2014, 500 milioni per l'anno 2015, 1.000 milioni per l'anno 2016.
La nuova chiave di riparto territoriale, poi, è alquanto discutibile: in precedenza l’85% veniva
destinato al Sud e il 15% al Centro-Nord; nel nuovo ciclo le risorse FSC per il Mezzogiorno
saranno soltanto l’80% del totale.
Più che questi dati, non certo secondari, qui si vorrebbe stigmatizzare il fatto che il FSC
2014-2020 sia ancora privo, come accennato, di un quadro programmatorio certo e definito, in
mancanza del quale è assai difficile scongiurare il rischio che le risorse vengano distratte dagli
obiettivi e dalle finalità proprie, secondo le pessime prassi delle “preallocazione” e della
“rimodulazioni” che abbiamo conosciuto nel recente passato.
6.5.3. La previsione di impatto: un’occasione sprecata
La sovrapposizione tra i due cicli nel biennio 2014-2015, che poteva essere per molti
aspetti virtuosa, rischia di non essere più tale, se alla dispersione delle risorse in chiusura del
2007-2013 si somma il lento avvio del nuovo ciclo di programmazione.
L’occasione sprecata è evidente se si considerano le previsioni di impatto effettuate con
il modello econometrico SVIMEZ-IRPET. Se si fossero spese tutte le risorse teoricamente
disponibili per la coesione (non solo FS, ma anche FSC e PAC) nel biennio 2014-2015, si
sarebbero prodotti effetti significativi sulla crescita e l’occupazione non solo del Mezzogiorno,
ma dell’intero Paese. Il contributo di crescita sarebbe stato pari a oltre l’1,3% di PIL dell’area
nel 2014 e dello 0,8% nel 2015 (per l’Italia, rispettivamente, lo 0,4% e lo 0,2%), mentre le unità
di lavoro attivate avrebbero superato nel 2014 le 34 mila unità nel Mezzogiorno (oltre 82 mila
nel 2015, considerando in termini cumulati) e le 43 mila unità in tutta Italia.
Tuttavia, come anticipato, questo scenario, ormai, per i ritardi accumulati e per una serie
di altri problemi, è alquanto irrealistico, in entrambi gli anni, per diverse ragioni, ma senza
dubbio ormai irrealizzabile per il 2014, in cui la spesa strutturale è sostanzialmente allineata con
la spesa storica per investimenti, e pertanto il suo effetto macroeconomico è pressoché nullo
rispetto al quadro previsionale tratteggiato nelle previsioni riportate nel par. 2.2.
A fronte della drammaticità della crisi nell’area, aver sprecato l’occasione di spendere il
massimo volume di risorse potenzialmente attivabile è stato un gravissimo danno. Tuttavia, va
evidenziato che anche lo scenario più ottimistico di impatto delle risorse attivabili, che stavolta
non si è verificato e che difficilmente mai si verificherà se non risolvendo tutti i vincoli, i limiti e
le inefficienze nell’attuazione degli interventi della coesione, è comunque del tutto insufficiente
a fronteggiare i drammatici effetti che, sul piano sociale ed economico, si sono scaricati nel
Mezzogiorno dal 2008 a oggi.
Anche un esercizio di ottimistica simulazione dimostra dunque che una politica per il
Mezzogiorno, che voglia affrontare nel profondo la situazione per riprendere un processo di
sviluppo e fronteggiare la sofferenza sociale, non può essere delegata esclusivamente alle risorse
per la coesione, che possono rappresentare un tassello – utilissimo e fondamentale, ma
comunque soltanto aggiuntivo – di una necessariamente più ampia e importante strategia di
sviluppo per l’area.
6.5.4. L’Agenzia e l’esigenza di un rinnovato impegno nazionale
Su uno scenario tanto insoddisfacente, nonostante gli sforzi compiuti, avrebbe dovuto
intervenire l’Agenzia per Coesione territoriale, la cui istituzione nel 2013 abbiamo accolto con
grandissimo favore. Tuttavia, l’Agenzia per la Coesione, di cui finalmente (nell’agosto di
quest’anno, in ritardo di diversi mesi rispetto a quanto previsto) è stato pubblicato lo Statuto e
nominato il Direttore, non sarà operativa prima della nomina degli altri organi e della definizione
della pianta organica. La nuova governance delle politiche, su cui tanto si è puntato – anche in
fase di negoziato con Bruxelles – per imprimere quella discontinuità con il passato che avrebbe
dovuto operare anche per la cruciale chiusura del ciclo 2007-2013 e l’implementazione del PAC,
non entrerà a regime prima del 2015.
Si auspicava che a chiarire il complesso delle competenze attribuite, definendo meglio i
confini di azione rispetto alle eventuali sovrapposizioni, e specificando meglio la portata – che, a
nostro avviso, sarebbe dovuta essere assai più ampia – delle previsione delle funzioni di autorità
di gestione, intervenisse lo Statuto. Quest’ultimo, invece, si limita a riportare, di fatto senza
specificazioni, le competenze attribuite dalla legge istitutiva, non sciogliendo i nodi via via
emersi. E, in qualche misura, rispondendo “al minimo” alle aspettative suscitate dall’istituzione
dell’Agenzia, che sono a un tempo troppo ampie (per evitare la sovrapposizione con altri
soggetti istituzionali incaricati di compiti simili, si pensi al monitoraggio) e troppo limitate,
perché sarebbe stato opportuno affidare all’Agenzia la gestione di programmi su assi cruciali
che, nell’attuale ciclo, non hanno funzionato.
L’esigenza di maggiore definizione dei compiti e dei limiti di azione è ancora più forte
alla luce del fatto che essa dovrà operare in una prospettiva multi-livello. Da questo punto di
vista, assai interessante sarà capire se davvero e in che misura l’Agenzia possa diventare lo
strumento per l’attivazione non solo di provvedimenti di accelerazione nell’attuazione dei
programmi e nell’avanzamento della spesa, ma soprattutto di esercizio dei poteri sostitutivi. Una
recentissima novità normativa contenuta nel cosiddetto decreto “Sblocca Italia” interviene a
disciplinare il potere sostitutivo nell’utilizzo dei fondi europei; tuttavia essa non menziona l’Agenzia
bensì le modalità consuete di utilizzo di un potere che è in capo al Presidente del Consiglio. Ciò non
significa, ovviamente, che l’Agenzia non possa essere chiamata in causa, ma specie in questo caso,
forse, sarebbe stato opportuno specificare una delle mission fondamentali del nuovo ente.
L’altro grande tema attiene alla compatibilità tra gli obiettivi che si pone l’Agenzia e le
risorse strumentali all’espletamento delle funzioni che è chiamata a svolgere. Obiettivi e funzioni
che peraltro, a nostro avviso, sono “minimali” rispetto alla mission che servirebbe per imprimere
una reale discontinuità nell’utilizzo dei fondi di coesione. Va detto senza infingimenti che, anche
solo per svolgere al meglio quelle funzioni previste dalla normativa e richiamate dallo Statuto,
un contingente di 200 unità è assolutamente insufficiente e incomparabile con le altre esperienze
di successo di Agenzie di sviluppo.
A questo proposito, un nodo rilevante da sciogliere riguarda il rapporto tra la nascente
Agenzia per la Coesione e INVITALIA, l’Agenzia nazionale per l'attrazione degli investimenti e lo
sviluppo d'impresa, nata con la mission specifica di attrarre investimenti esteri ma che nel corso
degli anni, con esiti non sempre soddisfacenti, ha assunto sempre più le caratteristiche di
un’agenzia di sviluppo tout court. La sovrapposizione di funzioni e, nei fatti, anche di obiettivi,
con la nascente Agenzia per la Coesione è evidente. Francamente, una visione più strategica
della nuova governance dello sviluppo avrebbe potuto risolvere, in maniera più chiara e
semplificata, il nodo dei rapporti tra le due Agenzie, a cominciare dal fatto di capire se fosse
davvero necessario la presenza di due Agenzie con funzioni così sovrapponibili, in mancanza di
una più precisa definizione della mission della nuova Agenzia.
Infine, al di là delle questioni relative alla mission e alla sua organizzazione, si vuole qui
richiamare il Governo a superare il problema della ritardata operatività dell’Agenzia, che rende i
tempi previsti davvero incompatibili con la missione fondamentale di orientare, con un presidio
centrale molto forte, l’avvio del nuovo ciclo di programmazione 2014-2020.
Sia l’Accordo di Partenariato, infatti, ma soprattutto i Programmi operativi verranno
approvati entro il 2014. L’avvio dell’attuazione, dunque, salvo che anche qui si accumulino
ritardi ancora più gravi, dovrebbe partire prima che l’Agenzia diventi operativa, contravvenendo
in questo modo anche alle ultime osservazioni della Commissione sull’Accordo di Partenariato
che chiedevano, appunto, di rendere operativa l’Agenzia prima dell’adozione dei Programmi
operativi, al fine di svolgere a pieno quel ruolo di forte coordinamento già in fase di
programmazione per cui era stata pensata. Sono ritardi, con ogni evidenza, ancora più gravi di
fronte all’urgenza economica e sociale rappresentata dal Mezzogiorno.
L’insieme di queste ultime notazioni richiama direttamente la responsabilità delle
autorità centrali, nel dare quell’impulso necessario a marcare la più netta discontinuità con la
largamente deficitaria gestione delle politiche di coesione nel passato, di cui ovviamente anche
la “periferia” porta la responsabilità.
Va certamente ribadito che, da un lato, senza la revisione degli assetti macroeconomico
europei, senza ad esempio l’ottenimento della golden rule che “liberi” gli investimenti dalla
camicia di forza del Fiscal compact, e dall’altro, senza la considerazione delle asimmetrie (ad
esempio, far parte o meno dell’Eurozona) tra le varie aree meno sviluppate, ogni sforzo
nazionale non rappresenterebbe comunque una garanzia sufficiente per il riavvio di una politica
efficace di sviluppo nel nostro Paese, tanto più necessaria se si vuole far fronte al perdurare della
recessione. Inoltre, in casi come quello dell’Agenzia o del FSC non si può non richiamare lo
Stato a svolgere con coerenza il ruolo di responsabile ultimo delle politiche e degli interventi per
il riequilibrio territoriale. La questione delle inefficienze locali non va certo taciuta, ma non può
nemmeno diventare un alibi. E anzi, nell’affrontarla, serve un “forte presidio centrale” che sia
capace anche di corrispondere a un dovere di sostitutività (piuttosto che nuove riduzioni di
cofinanziamento), per non far ricadere sulle popolazioni meridionali, già colpite sul piano
economico e sociale dalla crisi peggiore della nostra storia, gli effetti nefasti delle deficienze
delle rispettive Amministrazioni locali.
7 aprile 2015
Eugenio Caruso