Sopportiamo, dunque, copn animo generoso tutto ciò che per legge dell'Universo ci tocca patire.
Seneca, Lettere a Lucilio
4. EMERGENZA PRODUTTIVA: SI AGGRAVA LA DESERTIFICAZIONE INDUSTRIALE
Nel 2013, per il secondo anno consecutivo, la dinamica del valore aggiunto dell’industria
in senso stretto dell’Italia è stata largamente negativa: pari al -3,2%, dopo il -3,0% del 2012. La
flessione dell’attività industriale nel nostro Paese è stata molto più ampia rispetto a quella che si
è registrata negli altri paesi dell’Unione europea, che nel loro insieme hanno invece evidenziato
un leggero miglioramento rispetto all’anno precedente (dal -1,1% del 2012 al -0,2% del 2013).
Il dato complessivo italiano riflette una forte divaricazione tra gli andamenti territoriali:
nel Centro-Nord si conferma una dinamica recessiva del prodotto industriale, ma più contenuta
rispetto al 2012 (-2,6% nel 2013, contro il -3,9% dell’anno precedente); di converso, nel
Mezzogiorno la variazione tendenziale è stata del -6,7%, in deciso peggioramento rispetto alla
modesta flessione dell’anno precedente (-0,7%). A Sud il prolungarsi della crisi economica
colpisce maggiormente l’apparato manifatturiero, rendendo sempre più estesi e profondi i
fenomeni di desertificazione industriale.
Considerando tutto il periodo 2008-2013, si rileva che mentre nelle regioni centrosettentrionali
l’andamento del valore aggiunto dell’industria in senso stretto è notevolmente
correlato a quello complessivo dei paesi dell’UE a 27 – seppure con un divario che è andato
decisamente allargandosi nell’ultimo biennio –, nel Mezzogiorno la caduta del prodotto
industriale ha assunto un’intensità e una persistenza che sembrano ormai prescindere dal ciclo
europeo. In prospettiva, è dunque sempre più forte il rischio che l’industria del Sud non riesca ad
agganciare il treno di un’eventuale ripresa europea.
Da un’analisi che ha preso in considerazione le dinamiche del settore industriale nelle
aree della Competitività e della Convergenza della UE a 27, il dato del Mezzogiorno appare
particolarmente preoccupante. Nel periodo della crisi 2007-2011, le aree Convergenza dell’Italia
– tutte meridionali – hanno fanno registrare una caduta del valore aggiunto dell’industria in
senso stretto (a prezzi costanti) pari al 6% in media d’anno, a fronte di un incremento dell’1,5%
per il complesso delle aree della Convergenza dell’UE a 27. Non solo, mentre queste ultime
hanno mantenuto, prima e dopo la crisi, un differenziale di crescita positivo rispetto all’insieme
delle aree Competitività, in Italia, al contrario, si osserva un divario negativo a svantaggio delle
aree meno sviluppate: piuttosto contenuto negli anni 2000-2007 (-0,8% contro -0,3%), ma che
con la crisi si è fortemente ampliato (-6% contro -2,5%).
Il maggiore dinamismo complessivo delle aree Convergenza europee è riconducibile
principalmente ai processi di catching up che hanno caratterizzato le regioni meno sviluppate dei
12 paesi entrati nell’UE nel 2004 (quasi tutti appartenenti all’ex blocco sovietico): durante il
periodo 2007-2011 queste ultime hanno infatti fatto registrare una crescita media annua del
valore aggiunto industriale pari al 4,6%, contro il +0,7% delle rispettive aree Competitività. Più
specificatamente, tale elevata performance è dovuta essenzialmente al sottogruppo dei 7 paesi
non aderenti all’Euro (tra cui la Polonia, la Romania e l’Ungheria), che nel loro insieme
segnano, per le aree Convergenza, una crescita del 5,2%; nello stesso periodo, il tasso di
incremento nelle aree meno sviluppate dei paesi aderenti all’Euro è stato, invece, molto più
debole, pari allo 0,9%.
In definitiva, osservando gli andamenti del valore aggiunto dell’industria in senso stretto
nei diversi aggregati europei, nell’arco di oltre un decennio, emergono chiaramente le difficoltà
specifiche del Mezzogiorno non solo nel recuperare il ritardo strutturale nei confronti delle
regioni del Centro-Nord, ma più in generale nel competere con le altre regioni europee meno
avanzate, tra le quali brillano per dinamicità le aree Convergenza dei paesi dell’Europa dell’Est
non ancora aderenti all’Euro, che oltre ad essere avvantaggiati da un più basso costo del lavoro,
possono utilizzare liberamente i maggiori margini di libertà delle leve fiscale e monetaria.
La maggiore debolezza dell’industria del Sud rispecchia un’evoluzione più sfavorevole
non solo della componente interna della domanda, ma anche di quella estera. In concomitanza
con la crisi economica, in particolare, si è accentuato il calo tendenziale della quota delle
esportazioni di beni del Mezzogiorno (al netto dei prodotti energetici), anche rispetto a una quota
dell’export italiano a sua volta declinante.
Nell’area meridionale, infatti, la capacità di operare sui mercati internazionali appare
circoscritta a un numero esiguo di imprese. Inoltre, il confronto tra le quote del Mezzogiorno sul
valore delle esportazioni e sul numero delle imprese esportatrici rivela che la dimensione media
degli esportatori meridionali è minore che nel resto d’Italia. Nel Sud, dunque, assume maggiore
gravità rispetto al Centro-Nord il problema della relativa scarsità di imprese di medie e grandi
dimensioni, capaci di superare più agevolmente i costi e i rischi aggiuntivi connessi all’accesso
ai mercati internazionali. Le difficoltà delle imprese manifatturiere meridionali ad adeguarsi ai
cambiamenti dello scenario competitivo internazionale, che inizialmente hanno interessato
principalmente i sistemi locali di piccole e medie imprese, con il prolungarsi e l’acuirsi della
crisi hanno colpito anche una parte rilevante delle grandi imprese a controllo esterno –
relativamente concentrate in settori ad alta intensità di lavoro qualificato, eredità preziosa delle
politiche regionali passate –, tanto da far temere che alcune di esse possano scegliere di
abbandonare l’area, in cerca di localizzazioni più competitive.
In tale scenario, un segnale positivo può tuttavia essere colto nella recente dinamica del
numero degli esportatori, che è tornato a crescere nel Mezzogiorno più rapidamente che a livello
nazionale, interrompendo la tendenza negativa che era emersa nella prima fase della crisi (tra il
2008 e il 2011). Il crollo della domanda interna, più pesante che nel resto d’Italia, ha
probabilmente spinto molte piccole imprese meridionali a cercare nei mercati esteri nuovi
sbocchi per le proprie produzioni. Un compito importante delle politiche industriali, al cui
interno vanno inquadrate le misure di sostegno all’internazionalizzazione delle imprese, sarebbe
proprio quello di assistere tale ampio gruppo di imprese, che si affacciano per la prima volta sui
mercati esteri, al fine di rafforzare la loro competitività e fare in modo che la loro proiezione
esterna si consolidi progressivamente.
La caduta del valore aggiunto industriale si è trasmessa alle dinamiche dell’occupazione
e degli investimenti. Complessivamente, come già richiamato, nel periodo 2008-2013 il settore
manifatturiero del Mezzogiorno ha ridotto di oltre un quarto il proprio prodotto (-27%), di poco
meno gli addetti (-24,8%) e inoltre ha più che dimezzato gli investimenti (-53,4%). Si tratta di
flessioni nettamente superiori a quelle del Centro-Nord, dove il valore aggiunto e gli addetti
manifatturieri sono diminuiti di circa il 16% e gli investimenti del 24,6%.
A livello nazionale, l’unico per il quale si dispone di dati, tra il 2007 e il 2013 lo stock di
capitale netto del settore manifatturiero si è ridotto in termini nominali del 5%: considerata la più
forte caduta degli investimenti fissi lordi nel Mezzogiorno, va da sé che anche la diminuzione
del capitale netto sia stata nettamente più marcata nell’area. Non essendo rinnovato, lo stock di
capitale diventa sempre più obsoleto e determina una progressiva perdita di competitività. Il
processo di accumulazione dell’industria meridionale aveva peraltro già vissuto una tendenza
alla riduzione anche nel periodo precedente la crisi (-5,9% tra il 2001 e il 2007) in presenza,
invece, di un andamento positivo nel Centro-Nord (+8,3%). Un così massiccio fenomeno di
disinvestimento ha ulteriormente aggravato la già scarsa competitività dell’area e ha comportato
un forte ridimensionamento dell’estensione e delle dimensioni dell’apparato produttivo,
favorendo nella sostanza un processo di downsizing e al tempo stesso di desertificazione dei
territori meridionali.
Il ridimensionamento della base industriale del Mezzogiorno è particolarmente evidente
considerando che il peso dell’industria sul valore aggiunto del totale economia è sceso, nell’area,
dal 13,7% del 2007 all’11,8% del 2013, valore di gran lunga inferiore al 20,7% del Centro-Nord
e sempre più distante dall’obiettivo del 20% fissato dalla Commissione europea nella nuova
strategia di politica industriale. Un dato che, per il Sud, è sintesi di valori che in alcune regioni,
come la Sicilia e la Calabria, si attestano appena all’8,2% e al 7,6% e che, in Campania, in
passato la regione più industrializzata del Sud, non arriva al 12%. La riduzione del peso del
settore industriale nel Mezzogiorno è altrettanto palese se si considera la caduta del suo tasso di
industrializzazione, che dai 43,6 addetti nell’industria in senso stretto per 1.000 abitanti del 2008
è sceso ai 37,4 del 2013 (nel Centro-Nord, nello stesso periodo di tempo si è passati da 106,2 a
93,9).
La crisi degli ultimi anni ha accentuato le maggiori fragilità strutturali delle imprese
manifatturiere meridionali, in particolare sul fronte delle tecnologie e della capacità innovativa
che – insieme al grado di internazionalizzazione – costituiscono i principali fattori che
determinano la capacità di competere con successo sui mercati. Bassa capacità innovativa e
limitata internazionalizzazione sono strettamente correlate all’inefficienza dinamica del modello
di specializzazione prevalente nel Mezzogiorno, sbilanciato su produzioni a basso valore
aggiunto, maggiormente esposte alla concorrenza dei paesi emergenti, ma soprattutto alla
maggiore frammentazione del suo sistema industriale.
Sotto quest’ultimo aspetto, da uno specifico approfondimento condotto nel Rapporto di
quest’anno sui dati del Censimento dell’Industria e dei Servizi, emerge come, nel 2011, le micro
imprese (ovvero le unità locali con meno di 10 addetti) localizzate al Sud impieghino una quota
di addetti di poco inferiore al 38% del totale degli occupati del settore manifatturiero, contro il
24% del Centro-Nord. Confrontando i dati più recenti con quelli del Censimento del 2001, si
conferma inoltre, nel quadro di un calo generalizzato dell’occupazione manifatturiera (-19,2%
nel Centro-Nord e -20,2% nel Mezzogiorno), il progredire di un processo di downsizing. La
dimensione caratteristica delle unità locali (misurata con la media entropica), pari nel 2001 a 28
addetti (il 77% di quella del Nord), è scesa nel 2011 a 25 addetti (il 67% del Nord), a fronte
invece di un sia pur limitato incremento della dimensione media dell’apparato manifatturiero del
Nord.
A livello settoriale, i decrementi occupazionali che si sono registrati tra il 2001 e il 2011
non sembrano aver modificato in maniera sostanziale il modello di specializzazione del settore
manifatturiero meridionale, che anzi sembra aver accentuato il suo sbilanciamento, rispetto al
resto del Paese, verso i settori produttivi meno avanzati. In particolare, sebbene alcuni segmenti
rilevanti del made in Italy abbiano subito un forte ridimensionamento – hanno registrato una
vera e propria emorragia di addetti sia il settore del “Tessile e abbigliamento” (-45% degli
occupati), sia il comparto dei “Mobili” (-39%) –, la manifattura meridionale ha infatti
notevolmente rafforzato la sua specializzazione nei prodotti “Alimentari”, nei “Prodotti non
metalliferi” e nei “Mezzi di trasporto”. Quest’ultimo settore, in particolare, nel passato si è
caratterizzato per le elevate economie di scala e un livello medio di innovazione, elementi tipici
delle attività industriali cosiddette “mature”. Negli ultimi anni a livello internazionale il settore è
stato interessato da forti spinte verso un sostanziale upgrading tecnologico, che richiederebbe
però elevati investimenti, di cui finora si è avuta scarsa traccia in Italia (v. le controverse vicende
degli impianti FIAT). Al momento è dunque difficile valutare se l’elevata specializzazione nei
“Mezzi di trasporto” potrà rappresentare un elemento di forza per il Mezzogiorno, o se invece si
trasformerà nell’ennesimo fattore di debolezza. Infine, si conferma il deciso
sottodimensionamento del Sud nell’ambito della “Meccanica”, tradizionale punta del sistema
industriale del Centro-Nord.
I dati censuari, inoltre, nel porre in luce il persistente forte peso dei grandi impianti
manifatturieri localizzati nel Mezzogiorno in alcuni dei settori più importanti per l’economia
nazionale, – il cui insediamento può essere fatto risalire alla fase di industrializzazione degli anni
’60 e ’70 – mostrano altresì come la numerosità degli impianti di grande dimensione presenti
nell’area si sia fortemente ridotta nell’ultimo decennio. Tra il 2001 e il 2011, il numero delle
unità locali con oltre 249 addetti presenti al Sud è sceso da 203 a 134 (-34%). Il calo è stato
ancora più netto nella classe dimensionale più elevata, quella degli impianti con oltre 1.000
addetti, che si sono pressoché dimezzati (dai 27 del 2001, ai 14 del 2011). E’ dunque evidente
che la crisi economica, a causa della sua persistenza, continuità e ampiezza, sta producendo,
soprattutto nel Sud, effetti strutturali di ridimensionamento della base industriale – sia in termini
di numerosità degli impianti, sia di addetti in essi impiegati – che richiederebbero urgenti misure
di policy.
7 aprile 2015
Eugenio Caruso