Dopo aver commentato di PLATONE il Timeo, il Simposio, lo Ione, il Critone, l'Apologia di Socrate, il Fedone, l'Eutifrone, il Carmide, il Lachete, il Liside, l'Alcibiade Maggiore, l'Alcibiade minore, l'Ipparco, gli Amanti, il Teage, l'Eutidemo, il Protagora, il Gorgia, il Cratilo, il Menone, l'Ippia Maggiore, l'Ippia minore, il Menesseno, il Clitofonte, il primo libro della Repubblica, il Crizia, il Teeteto, il Sofista, il Politico, il Parmenide, il Filebo, il Fedro, il Minosse, mi dedico ora a Le leggi.
Il grammatico Trasillo, nel I secolo d.C., seguendo un'affinità di argomento, ordinò le opere platoniche in gruppi di quattro:
1. Eutifrone, Apologia di Socrate, Critone, Fedone
2. Cratilo, Teeteto, Sofista, Politico
3. Parmenide, Filebo, Simposio, Fedro
4. Alcibiade primo, Alcibiade secondo, Ipparco, Amanti
5. Teage, Carmide, Lachete, Liside
6. Eutidemo, Protagora, Gorgia, Menone
7. I ppia maggiore, Ippia minore, Ione, Menesseno
8. Clitofonte, La Repubblica, Timeo, Crizia
9. Minosse, Leggi, Epinomide, Lettere
Altre opere spurie sono:
Definizioni, Sulla giustizia, Sulla virtù, Demodoco, Sisifo, Erissia, Assioco, Alcione, Epigrammi.
PREMESSA A LE LEGGI
Le Leggi furono scritte alcuni anni prima che la morte cogliesse il grande filosofo ateniese e costituiscono la fase
finale della sua lunga riflessione politica sullo stato. E' impossibile riassumere il dibattito che la critica, sin dall'antichita,
ha sviluppato intorno al problema della cronologia e dell'autenticità dell'opera, sicché in questa sede ci limiteremo ad
alcune considerazioni di carattere generale.
Innanzitutto la data del 353 a.C., anno in cui avvenne verosimilmente la vittoria dei Siracusani sui Locresi ricordata
nel libro 1, appare come il termine di riferimento cronologico più sicuro per datare la composizione del dialogo.
In secondo luogo, un'attenta analisi dell'opera ha messo in luce alcune imperfezioni stilistiche
(frequenti ripetizioni e omissioni, ad esempio) che hanno fatto pensare a un'opera non pienamente compiuta, ma forse
ancora in fase di elaborazione e in attesa di revisione.
Si può allora concludere che dopo la morte del filosofo, avvenuta presumibilmente nel 348 a.C. - e quindi qualche
anno dopo la composizione delle Leggi -, spettò al segretario del maestro, Filippo di Opunte, provvedere a una
sistemazione, peraltro sommaria, dell'opera, nonché all'attuale divisione in dodici libri.
Le Leggi dunque, come si è appena detto, rappresentano la fase finale del pensiero politico di Platone ma è stato
anche osservato che, prima ancora che indagine filosofica pura, possono essere quasi considerate come una specie di
trattato storico sulla legislazione ateniese, spartana, e cretese del tempo.
Ed è forse proprio in questa storicità delle
Leggi che si scorge un elemento di rottura rispetto ai dialoghi precedenti che avevano affrontato il problema, dello stato
e delle costituzioni: nella Repubblica, ad esempio, si dovevano creare le fondamenta di uno stato che sarebbe peraltro
esistito soltanto su di un piano ideale, razionale (dove la ricerca della Giustizia e le speculazioni sul Sommo Bene
coincidevano con le fondamenta dello stato ideale), mentre l'intento delle Leggi è quello di tradurre nella realtà storica,
mediante l'attività del legislatore e il suo sforzo normativo, lo stato ideale delineato in precedenza.
Si spiegano così
l'analisi e la critica nei confronti delle legislazioni e delle costituzioni spartane e cretesi, le riflessioni storico-politiche
sui fallimenti dell'impero persiano (determinato da un eccesso di dispotismo) e su quelli dello stato ateniese (determinati
da un eccesso di libertà), il confronto, rigoroso e serrato, con il diritto positivo dell'epoca. Platone dichiara apertamente
l'intento "pratico" del dialogo al termine del libro terzo, ricorrendo a un semplice espediente: Clinia, uno dei
personaggi del dialogo, è stato incaricato dalla città di Cnosso di emanare quelle leggi che ritiene migliori per una
colonia che i Cretesi hanno intenzione di fondare, ragion per cui rivolge un appello ai suoi due interlocutori, ovvero
quello di fondare "con la parola", il nuovo stato. In altri termini, la riflessione puramente teorica sulle leggi dovrà ogni
volta adattarsi alle esigenze pratiche della nuova colonia cretese.
I primi tre libri costituiscono dunque una lunga introduzione al vero e proprio trattato sulle leggi: il libro 1 si apre
con la splendida descrizione della campagna cretese nelle prime ore del mattino di una calda giornata estiva. Tre vecchi
prendono parte al dialogo: l'Ateniese, identificato sin dall'antichità con Platone stesso, il cretese Clinia e lo spartano
Megillo.
L'Ateniese propone ai suoi compagni di discutere di costituzioni e di leggi lungo la strada che da Cnosso
conduce all'antro di Zeus: essi incontreranno molti ed alti alberi che con la loro frescura permetteranno loro di sfuggire
alla canicola estiva.
La discussione entra subito nel vivo: il cretese Clinia, dopo aver constatato che a Creta le
consuetudini (l'uso dei pasti in comune, ad esempio) e la legislazione si ispirano alla guerra, a causa della
conformazione geografica del luogo che è aspra ed accidentata, sostiene che il legislatore dovrebbe legiferare soltanto in
vista della guerra, dal momento che la condizione umana si trova in uno stato di guerra permanente.
Ma l'Ateniese non è
d'accordo con le posizioni del cretese: la guerra rappresenta senz'altro un evento necessario nel complesso delle
relazioni umane, ma non costituisce certamente la norma, e dunque il legislatore non deve legiferare solo in vista della
guerra, ma anche in vista della pace, realizzando le virtù della giustizia, della saggezza, e dell'intelligenza.
Di qui sorge la critica verso l'eccessiva severità delle legislazioni spartane e cretesi: esse non sono solo carenti
perché legiferano unicamente in vista del coraggio che si manifesta in guerra, ma si caratterizzano anche per la loro
eccessiva severità di costumi.
L'Ateniese dimostra ad esempio che il divieto di bere vino imposto dalla legislazione spartana non ha un
fondamento logico: se la consuetudine del bere vino viene regolata all'interno dei simposi, così come accade ad Atene,
essa non è affatto da respingere, ma, anzi, si rivela utile ai fini dell'educazione, in quanto, rendendo temporaneamente
impudenti, contribuisce in seguito a contrastare l'impudenza stessa e ad acquistare di conseguenza la virtù del pudore.
Il libro 2 affronta il tema dell'educazione che verrà ripreso nel 7. L'educazione si raggiunge attraverso i cori, le
danze, e la musica che ad essi è connessa. A questo proposito l'Ateniese avverte che le belle danze, i bei cori, e l'arte in
genere non possono essere sottoposti al giudizio dei poeti perché fondano la loro arte sulla mimesi, e quindi il loro
giudizio non sarebbe attendibile: l'arte infatti non dev'essere giudicata soltanto in base al piacere che essa procura, ma
anche in base ai fini educativi che è in grado di realizzare. Tenendo conto di questi princìpi, il legislatore ordinerà tre
tipi di cori, ovvero quello dei fanciulli, quello dei giovani sino ai trent'anni, ed infine quello degli uomini fra i trenta e i
sessant'anni. Il terzo coro è quello dei cantori che cantano in onore di Dioniso: seguono così alcune pagine in cui
Platone si abbandona ad una appassionata difesa del dionisismo, affermando che i cori di Dioniso, se sono guidati da
persone sobrie, si rivelano vantaggiosi per l'educazione e per lo stato in generale.
Nel libro 3 si affronta la questione riguardante l'origine dello stato in una chiave che potremo definire storica:
Platone ripercorre la storia del genere umano tornando ai suoi albori, quando un diluvio universale ciclicamente
annientava uomini e cose. Ogni volta si salvavano soltanto quegli uomini che abitavano i luoghi più alti, i quali però,
come in una sorta di età dell'oro, non avevano bisogno né di leggi né di legislatori, perché vivevano nella concordia
reciproca.
In un secondo momento le famiglie scesero nelle pianure e presero a radunarsi: si innalzarono mura di siepi per
delimitare e separare una proprietà dall'altra e vennero fondati i primi organismi politici. Seguì la fase delle costituzioni
delle città che coincise con la fondazione e la distruzione di Troia. Dopo di che si apre una prima parentesi sull'analisi
dei fallimenti delle esperienze politiche di Argo e di Micene: l'ignoranza degli affari umani e l'assenza di un potere
moderato hanno causato la rovina di quegli stati.
Nel corso della seconda digressione storica si prendono invece in
esame i mali della costituzione persiana e di quella ateniese: quando i Persiani raggiunsero, sotto Ciro, il giusto mezzo
fra servitù e libertà, lo stato prosperava e dominava sugli altri popoli, ma in seguito una malvagia educazione, unita
all'accentuato dispotismo di sovrani come Cambise, segnò il definitivo declino della potenza persiana; quanto alla
costituzione ateniese, i poeti ingenerarono con le loro opere una temeraria trasgressione nel campo artistico che ben
presto si estese ad ogni altro aspetto dello stato determinando la nascita dell'illegalità e della licenza.
Conclusa dunque la lunga introduzione delle Leggi, si gettano le basi della costituzione del nuovo stato che verrà
discussa dal libro 4 all'8.
Il libro 4 si apre con l'elenco dei requisiti che la geografia del nuovo stato deve possedere:
oltre alla capitale situata nell'interno, esso deve avere abbondanza di porti, benché convenga in ogni caso limitare il più
possibile i rapporti commerciali con gli altri stati, dato che il commercio rende infidi i cittadini e la gran quantità d'oro e
d'argento corrompe i loro animi. Per quanto riguarda la scelta della costituzione, le varie forme di costituzioni
storicamente esistenti (democrazia, oligarchia, aristocrazia, monarchia) presentano aspetti positivi e negativi che
difficilmente si combinano in una costituzione ideale. Ci si deve dunque appellare alla divinità che indicherà i criteri di
giustizia che si devono seguire nella realizzazione dello stato e delle leggi. Le ultime pagine del libro 4 sono infine
dedicate all'esposizione del metodo con cui verranno redatte le leggi: in primo luogo esse non devono apparire soltanto
minacciose, ma anche persuasive, e in secondo luogo occorre fornire ogni legge di un proemio che introduce alla legge
vera e propria.
All'inizio del libro 5 troviamo ancora un proemio dal carattere squisitamente etico: dopo gli dèi si deve onorare
l'anima, e dopo l'anima il corpo. L'uomo virtuoso deve conformarsi alla temperanza, all'intelligenza, e al coraggio, e
deve combattere contro gli egoismi e gli eccessi delle gioie e dei dolori. Si entra quindi nel vivo della costituzione del
nuovo stato: si fissano le norme relative alla distribuzione delle terre e il numero dei 5.040 cittadini che parteciperanno
di diritto a questa distribuzione. I cittadini vengono divisi in quattro classi censuarie e tutta la popolazione dello stato
viene ripartita in dodici tribù.
La materia trattata nel libro 6 è meramente tecnica e riguarda la nomina e l'istituzione dei magistrati. Innanzitutto
vengono istituiti i custodi delle leggi che rivestono un'importanza fondamentale all'interno del nuovo stato. Quindi si
procede all'elezione degli strateghi, dei tassiarchi, dei filarchi, e dei pritani. Seguono le magistrature degli astinomi (per
gli affari interni alla città), degli agoranomi (per quel che accade sull'agorà), dei sacerdoti, ed infine degli agronomi (per
la custodia e la sorveglianza delle campagne). Assai importanti sono i due ministri dell'educazione, uno per la musica ed
un altro per la ginnastica.
Ed è proprio il libro 7 che riprende e sviluppa il tema dell'educazione di cui s'era fatto un rapido cenno nel libro 2: si
affrontano i problemi relativi alla prima infanzia, e quindi quelli dei bambini dai tre ai sei anni. Dodici donne, una per
tribù, si occuperanno dell'educazione. Ma l'educazione si ottiene anche grazie alla ginnastica per il corpo e alla musica
per l'anima. La questione si sposta quindi sul problema dell'istruzione e della scuola: essa dev'essere obbligatoria tanto
per le donne quanto per gli uomini, e a scuola si devono studiare le lettere e i componimenti dei poeti. Fra le altre
discipline che si devono apprendere vi sono la matematica, la geometria, e l'astronomia.
Con il libro 8 ci avviamo ormai verso la parte finale delle Leggi.
Gettate le fondamenta del nuovo stato bisogna ora dotarlo di un vero e proprio codice di leggi che siano in grado di
rispondere alle esigenze più diverse che sorgono in uno stato. Si stabiliscono innanzitutto le festività del nuovo stato, e
le varie esercitazioni che si devono compiere in tempo di pace e di guerra. Vi sono poi alcune pagine interessanti sulle
norme che regolano i costumi sessuali dei cittadini in cui Platone condanna esplicitamente l'omosessualità, pratica assai
diffusa nel suo tempo, e fissa una legge che regola i rapporti eterosessuali e l'astinenza. L'ultima parte del libro 8 passa
in rassegna i problemi legati all'agricoltura e alle attività degli artigiani.
Nel libro 9, dopo l'esame dei casi di spoliazione dei beni, si apre un'interessante digressione sull'origine del male che
si genera all'interno di una società umana: viene ribadito in questo caso il vecchio principio socratico secondo il quale
nessuno compie il male volontariamente, ma per ignoranza del bene. Ed è proprio l'ignoranza del bene, insieme all'ira
e al piacere, che determina i crimini peggiori in uno stato. Si passano allora in rassegna le varie specie di omicidi - essi
possono essere commessi volontariamente ed involontariamente, e i moventi possono essere l'ira, o la passione, o
ancora la legittima difesa -, e analogamente i casi di ferimenti e di violenze.
Il libro 10 è una lunga riflessione filosofica sull'ateismo che interrompe la dettagliata esposizione del codice di leggi:
Platone condanna fermamente l'ateismo e confuta le tesi di chi sostiene che gli dèi non esistono, o esistono ma non si
prendono cura degli affari umani, o, ancora, crede che essi si possano corrompere con doni votivi. A questo proposito
non soltanto si può adeguatamente dimostrare l'esistenza degli dèi attraverso l'esistenza dell'anima, ma si può anche
affermare l'esistenza della provvidenza divina. Seguono le pene relative ai reati commessi per empietà e per ateismo.
Nel libro 11 riprende l'esposizione delle leggi, in gran parte dedicata alle norme relative ai contratti che i cittadini
stipulano fra loro.
La materia è assai vasta e complessa e spazia dalla normativa riguardante gli schiavi e i liberti a quella che regola il
commercio degli artigiani, dalla spinosa questione dei testamenti al divorzio dei coniugi, per citare soltanto i casi più
significativi.
L'esposizione del codice delle leggi prosegue ancora in tutta la prima parte del libro 12, e fra queste leggi possiamo
ricordare, a titolo di esempio, la diserzione dei soldati, l'istituzione dei magistrati inquisitori, le leggi sul giuramento, le
normative sulle mallevadorie.
Il dialogo giunge così alle sue battute finali. Nelle ultime pagine Platone, per bocca dell'Ateniese, avverte l'esigenza
di ribadire il fine cui mira tutto il corpo delle leggi oggetto della lunga esposizione, vale a dire quello di realizzare il
complesso delle virtù nello stato.
Un'intelligenza superiore a tutte le altre istituzioni dello stato dovrà quindi essere in grado di cogliere la ragion
d'essere di ogni legge, e come la testa è a capo del corpo, così un consiglio n otturno, supremo organo politico composto
dai dieci più anziani custodi delle leggi - custodi-filosofi, dunque, che hanno appreso l'arte della politica attraverso la
dialettica - dovrà sorvegliare e presiedere le leggi e la costituzione del nuovo stato.
ENRICO PEGONE
LIBRO UNDICESIMO
ATENIESE: Dopo queste cose, bisognerebbe ordinare convenientemente ciò che ha attinenza con i nostri contratti reciproci.
Una semplice formula è la seguente: nessuno tocchi, nei limiti del possibile, le mie sostanze, e non modifichi neppure la più piccola cosa, se non ha ricevuto la mia autorizzazione; allo stesso modo anch'io dovrò comportarmi con le sostanze degli altri, se sono assennato.
Parliamo innanzitutto, nell'ambito di questa materia, di un tesoro che un tale che non sia un discendente dei miei padri abbia conservato con cura per sé e per i suoi: non dovrò far voto agli dèi di trovarlo, e se lo trovo non dovrò rimuoverlo, e neppure dovrò comunicarne il ritrovamento ai cosiddetti indovini che in qualche modo mi consiglierebbero di portar via ciò che è stato consegnato alla terra.
Non mi arricchirei di tanto prendendo quel tesoro, di quanto invece potrei incrementare la virtù dell'anima e della giustizia, se non lo prendessi, acquistando così un bene migliore in luogo di un altro bene in una parte migliore, e preferendo appunto essere ricco di giustizia nell'anima piuttosto che arricchirsi nel proprio patrimonio: quel che si dice nella maggior parte dei casi, e cioè che non bisogna muovere ciò che è immobile, vale anche per questo caso, che è uno di quelli.
Conviene inoltre prestare fede a quei miti che vengono raccontati a tal proposito, secondo i quali tali errori non sono vantaggiosi per la procreazione dei figli.
Chi non si dà pensiero dei figli, e, trascurando anche chi ha fissato la legge, sottrae senza alcuna autorizzazione ciò che né egli stesso, né il padre dei suoi padri ha riposto, distruggendo così la più bella e la più semplice delle leggi, legge stabilita da un uomo non privo di nobiltà - ed essa dice: non devi portar via ciò che non hai riposto - colui che dunque non rispetta le prescrizioni di questi due legislatori e porta via ciò che non ha riposto, e non porta via piccola cosa, ma una quantità enorme di tesoro, quale pena dovrà subire? La divinità conosce quali sono le pene che deve subire da parte degli dèi: e chi per primo lo vede, lo denunci agli astinomi se il fatto avviene in città, agli agoranomi, se avviene nella piazza della città, agli agronomi e ai loro capi se avviene ne resto della regione.
Dopo le denunce, lo stato mandi a consultare l'oracolo di Delfi: e quel che il dio risponderà intorno alle ricchezze e a chi le ha spostate, a questo responso, dunque, lo stato obbedisca, e faccia così come il dio ha prescritto.
Se colui che sporge denuncia è un uomo libero, acquisti una fama virtuosa, se non sporge denuncia, una fama malvagia: se il delatore è uno schiavo, sia giustamente liberato dallo stato, e si offra un risarcimento al suo padrone, ma se non denuncia il fatto, sia punito con la morte.
A questa legge segue e si accompagna una norma che vale sia per i reati di scarsa importanza, sia per quelli più importanti.
Se un tale abbandona da qualche parte un suo oggetto volontariamente o involontariamente, chi vi s'imbatte lo lasci stare dov'è, pensando che un demone delle strade custodisce questi oggetti che per legge sono consacrati a questa dea.
Se un tale, muovendosi contro queste norme, disobbedisce prendendo l'oggetto trovato e portandoselo a casa, nel caso in cui l'oggetto sia di scarso valore e quel tale sia uno schiavo, sia percosso con molte sferzate da chi lo incontri, purché non abbia meno di trent'anni: se invece si tratta di un uomo libero, oltre ad essere ritenuto illiberale ed incapace di prendere parte delle leggi, paghi a chi ha abbandonato l'oggetto il decuplo del valore dell'oggetto rimosso.
Se un tale accusa un altro di detenere le proprie ricchezze in quantità più o meno grande, e quello ammette di possederle, anche se non ritiene che siano dell'accusatore, nel caso in cui il bene sia stato registrato presso i magistrati come prevede la legge, l'uno inviti chi detiene questi beni a comparire dinanzi al magistrato, e l'altro si presenti.
Chiarita la questione, se nei registri risulta scritto quale dei due contendenti è il possessore, costui se ne vada: se invece risulta essere di qualche altra persona che non è presente, nel caso in cui uno dei due sia in grado di presentare un mallevadore sicuro, lo porti via in nome dell'assente per poi consegnarglielo, sulla base del diritto che l'assente avrebbe avuto di portarselo via.
Se l'oggetto che è al centro della controversia non è stato registrato presso i magistrati, rimanga nelle mani dei tre magistrati più vecchi sino al processo, e se il bene sequestrato è un animale, chi perde la causa deve pagare ai magistrati il nutrimento: entro tre giorni i magistrati devono concludere la causa.
Chiunque lo vuole e sia assennato si regoli con il proprio schiavo facendo ciò che vuole, purché si mantenga entro i limiti del lecito: si regoli anche con lo schiavo che fugge, in nome di un altro dei familiari o degli amici, al fine di conservarlo al padrone.
Se qualcuno rivendica la libertà di chi viene condotto come schiavo, il padrone dovrà accordarla, ma chi rivendica la libertà presenti tre mallevadori sicuri, e in questo modo potrà rivendicare la libertà, e in nessun altro: se qualcuno rivendica la libertà contravvenendo a queste norme, sia accusato di violenza e paghi a chi ha sottratto lo schiavo una somma pari al doppio del danno che è stato registrato.
Il padrone può anche condurre in condizione servile lo schiavo che ha liberato, se non si è preso cura di chi lo ha liberato, o se non lo ha fatto in modo adeguato: la cura nei confronti del padrone consiste nel fatto che il liberto deve frequentare tre volte al mese la dimora di chi lo ha liberato, annunciandogli che si comporterà come si deve comportare, purché nei limiti del giusto e del possibile, e che per quanto riguarda le nozze agirà come sembrerà opportuno al suo padrone.
Non può arricchirsi di più di chi lo ha liberato: ciò che è in eccedenza sia considerato del padrone.
Il liberto non rimanga più di vent'anni nello stato, ma come avviene anche per gli stranieri, se ne vada prendendo le proprie cose, se non ottiene l'autorizzazione a rimanere da parte dei magistrati e di chi lo ha liberato.
Se il patrimonio del liberto o anche degli altri stranieri è superiore al censo della terza classe, entro trenta giorni dal giorno in cui è avvenuta tale eccedenza prenda la sua roba e se ne vada, e non gli sia consentito di presentare ulteriore richiesta presso i magistrati per rimanere: e se qualcuno, disubbidendo a queste regole, viene condotto dinanzi al tribunale e riconosciuto colpevole, sia punito con la morte e le sue ricchezze siano confiscate.
I processi riguardanti questi reati siano celebrati nei tribunali delle tribù, se le accuse reciproche non vengono risolte prima nei tribunali dei vicini e in quelli scelti dalle due parti in causa.
Se un tale si appropria di un animale come se fosse suo, o di un qualsiasi altro bene che non sia suo, chi lo detiene lo restituisca al venditore o a chi gliel'ha dato, e la consegna avvenga tramite delle garanzie e in modo legittimo, e in ogni caso secondo qualsiasi altra procedura che abbia validità, ed entro trenta giorni se è un cittadino o uno straniero residente nello stato, se invece la cessione riguarda uno straniero, entro cinque mesi, di cui il mese centrale è quello in cui il sole estivo si volge verso la stagione invernale.
Tutti gli scambi che riguardano la compravendita che uno fa con un altro avvengano in un luogo prestabilito per ciascuna merce, all'interno della piazza, e il danaro si dia e si riceva immediatamente.
In tal modo avvenga lo scambio, e in nessun altro luogo, e non si venda né si comperi a credito: se uno scambia una qualsiasi merce con un altro secondo una diversa modalità, o in altri luoghi, fidandosi della persona con cui fa lo scambio, faccia pure tale scambio, considerando che la legge non prevede azioni giudiziarie per ciò che non viene venduto secondo le modalità esposte ora.
Per quanto riguarda le contribuzioni gratuite, l'amico che vuole raccogliere danaro lo raccolga presso gli amici: ma se sorgono delle divergenze riguardanti la contribuzione, agisca nella consapevolezza che non vi sarà a tal proposito nessun genere di azioni giudiziarie.
Chi cede un oggetto e ricava un prezzo non inferiore a cinquanta dracme, è obbligato a rimanere in città per dieci giorni, e il compratore deve conoscere la casa del venditore, e questo per i soliti reclami che in tali casi possono avvenire e per le rescissioni previste dalle leggi.
La rescissione, secondo la legge, può avvenire o meno in questo modo.
Se un tale ha venduto uno schiavo malato di tisi, o di calcoli, o di stranguria, o del cosiddetto morbo sacro, o anche di qualche altra malattia ignota ai molti, malattia grave e incurabile che colpisce il corpo o la mente, e se l'acquirente è un medico o un maestro di ginnastica, non vi sia in tal caso rescissione, e non vi sia neppure se è stato venduto ad un altro acquirente, avvertendolo prima della verità.
Se un artigiano vende uno schiavo del genere ad un privato cittadino, l'acquirente lo restituisca entro sei mesi, a meno che si tratti di morbo sacro; per questa malattia è consentito fare la rescissione entro un anno.
Queste cause siano giudicate da alcuni medici scelti in comune dalle parti che li propongono: e chi viene riconosciuto colpevole paghi il doppio del prezzo per cui ha ceduto lo schiavo.
Se lo scambio è avvenuto fra due privati cittadini, vi sia la rescissione come si è detto adesso, e si discuta la causa, e il colpevole paghi semplicemente la somma corrispondente al prezzo.
Se un tale vende uno schiavo omicida, e le due parti sono consapevoli di questa cosa, non vi sia rescissione da tale vendita, ma se l'acquirente non conosce la cosa, vi sia allora rescissione non appena lo viene a sapere, e il giudizio in tal caso spetti ai cinque custodi delle leggi più giovani: se viene rilevato durante il processo che il venditore conosceva il fatto, purifichi la casa dell'acquirente secondo la legge degli interpreti, e paghi all'acquirente il triplo del prezzo dello schiavo.
Chi scambia danaro con danaro, o anche qualsiasi altro animale o ancora altra cosa che non sia animale, dia o riceva danaro, in ogni scambio, che non sia falsificato, conformandosi alla legge: accogliamo dunque, come per le altre leggi, il proemio riguardante questo genere di malvagità.
Conviene che ogni uomo consideri la falsità, la menzogna, e l'inganno come un unico genere, e a questo proposito conviene riferire quella diceria che solitamente si trova in bocca a molte persone, le quali, facendo un'affermazione sbagliata, sostengono che ogni volta che questo inganno avviene in un momento opportuno può ritenersi giusto, ma poi lasciano indefiniti ed indeterminati la circostanza opportuna, e il dove e il quando, e così con questo modo di dire sono assai danneggiati e danneggiano gli altri.
Al legislatore non è consentito di lasciare indeterminata questa materia, ma deve sempre mostrarne chiaramente i limiti più e meno ampi; e così ora questi limiti siano fissati.
Nessuno sia la causa, né con la parola né co n i fatti, della menzogna, dell'inganno, o della falsità, chiamando per giunta a testimone il genere degli dèi, se non vuole essere l'uomo più odiato dagli dèi: costui è quella persona che presta falsi giuramenti, e non si dà pensiero degli dèì, ed è in secondo luogo colui che mente dinanzi ai suoi superiori.
I migliori sono superiori ai peggiori, come ad esempio, per parlare in generale, i vecchi sono superiori ai giovani, i genitori ai figli, gli uomini alle donne e ai bambini, i governanti ai governati: sarebbe allora opportuno che chiunque rispettasse tutte queste persone nell'esercizio della loro carica, e soprattutto in quelle politiche, donde è partito il nostro presente discorso.
Ogni persona che sulla piazza falsifica la merce, e mente ed inganna, e chiamando a testimone gli dèi giura secondo le leggi e gli ammonimenti degli agoranomi, manca di rispetto verso gli uomini e si macchia di empietà nei confronti degli dèi.
è assolutamente buona quella consuetudine di non profanare facilmente il nome degli dèi, e di mantenere, come per lo più fa la maggior parte di noi, purezza e santità nei loro confronti.
E se uno non obbedisce, questa sia la legge: chi vende qualsiasi merce sulla piazza non dica mai due prezzi di ciò che vende, ma sempre uno solo, e se non ottiene quel prezzo, farà bene a riportare quella roba a casa per ripresentarla un'altra volta, e per quel giorno non alzi e non abbassi il prezzo, e si astenga pure dalla lode o dal giurare sulla buona qualità di ogni merce che vende; e se uno disobbedisce a queste norme, quel cittadino che abbia assistito al fatto e non abbia meno di trent'anni punisca impunemente colui che giura e lo batta, ma se trascura di farlo e disubbidisce sia accusato e biasimato di tradire le leggi.
Se uno vende merce falsificata e non è in grado di prestare fede ai nostri attuali discorsi, colui che si trova presente, ed è uno di quelli che se ne intendono, sempre che sia in grado di dimostrare che si tratta di un falso, lo dimostri dinanzi ai magistrati: lo schiavo e lo straniero residente portino via la merce falsificata, mentre se è un cittadino e non riesce a provare che si tratta di un falso, sia accusato di essere malvagio in quanto priva gli dèi di qualcosa, se invece riesce a dare dimostrazione, consacri quella merce agli dèi della piazza.
Colui che è risultato vendere una tale merce, oltre ad essere privato della merce falsificata, a seconda del prezzo della merce venduta, per ogni dracma sia battuto con un colpo di frusta dall'araldo che sulla piazza annuncerà i motivi per cui sta per essere battuto.
Gli agoranomi e i custodi delle leggi, informandosi presso gli esperti di ciascun settore sulle falsificazioni e sulle frodi dei commercianti, redigano delle norme scritte su ciò che il venditore può fare e su ciò che non può fare, e le scrivano su di una stele collocata dinanzi alla sede degli agoranomi: esse avranno valore di leggi e indicheranno chiaramente che cosa devono fare coloro che si servono del mercato.
Circa le mansioni degli astinomi si è già detto abbondantemente in precedenza.
Se però sembrerà loro opportuno aggiungere qualche cosa, ne diano comunicazione ai custodi delle leggi e scrivano ciò che sembra loro mancare: collocheranno quindi su di una stele posta dinanzi alla sede degli astinomi i primi regolamenti riguardanti la loro magistratura e i secondi stabiliti direttamente da loro.
Alle consuetudini della falsificazioni seguono subito dopo le pratiche riguardanti il commercio al minuto: riguardo a tutta questa parte prima daremo i nostri consigli ragionando al riguardo, e in secondo luogo stabiliremo la legge.
Tutto il commercio al minuto che si pratica nello stato non è per sua natura nato per danneggiare, ma proprio al contrario: come infatti non potrebbe essere un benefattore chiunque conferisce omogeneità e proporzione a qualsiasi genere di beni, il quale è appunto privo di ordine e di omogeneità? Dobbiamo dire che questo è realizzato anche dal potere della moneta, ed inoltre conviene affermare che il mercante è proprio designato per questo incarico.
E il salariato, l'albergatore, e altri mestieri ancora che possono essere più o meno dignitosi possiedono tutti questa facoltà, vale a dire quella di venire incontro alle esigenze di tutti e di conferire omogeneità alla merce.
Vediamo allora perché mai questo genere di mestieri non è ritenuto onorevole e dignitoso, e che cosa sia biasimato, in modo che si possa attuare con la legge un'opera di risanamento la quale, anche se non è totale, sia almeno parziale.
Non è un'impresa di poco conto, a quanto pare, e non richiede certamente scarso valore.
CLINIA: Come dici?
ATENIESE: Amico Clinia, soltanto un piccolo gruppo di uomini, ristretto per natura e allevato secondo la migliore educazione, quando si presenta la necessità o il desiderio di qualche cosa, è in grado di trattenersi entro i limiti della moderazione, e quando avrebbe la possibilità di acquistare molti beni, sa contenersi e al molto preferisce ciò che ha in sé moderazione.
Ma la maggior parte degli uomini si comporta esattamente al contrario di costoro, ed esige senza moderazione ciò di cui ha bisogno, e se ha la possibilità di fare guadagni onesti, preferisce guadagnare in modo insaziabile: per questa ragione, allora, tutta la categoria dei commercianti al minuto, di quelli all'ingrosso, e degli albergatori è screditata ed è al centro dì critiche vergognose.
Perché se uno costringesse, anche se è una cosa che non è mai accaduta e non accadrà mai, costringesse dunque - e anche se è ridicolo a dirsi, tuttavia bisognerà dirlo ugualmente - gli uomini migliori che vi sono in ogni luogo a fare per un certo tempo gli albergatori, o i commercianti al minuto, o a svolgere qualche altra simile attività, e anche le donne fossero obbligate da una necessità fatale a prendere parte di tale costume di vita, potremmo allora riconoscere che ognuna di queste attività può essere cara e desiderabile, e se esse diventassero incorrotte secondo ragione, sarebbero tutte quante degne di onori come fossero una madre o una nutrice: ora invece l'albergatore, costruendo edifici per fini commerciali in luoghi solitari che occupano in ogni direzione tutta la lunghezza delle strade, e accogliendo in confortevoli alloggi quelli che si trovano in difficoltà o sono stati sospinti dalla violenza di terribili tempeste, offrendo inoltre una tranquilla serenità o un fresco sollievo alla calura insopportabile, dopo tutti questi servizi non offre però, come se accogliesse dei compagni, quelle amichevoli attenzioni che si riservano agli ospiti e che sono connesse con l'ospitalità, ma, come se avesse fatto prigionieri dei nemici, li libera dietro un altissimo, ingiusto, ed impuro riscatto.
Grazie dunque a tutti i casi di questo genere, tutti questi errori ed altri simili attirano giustamente le accuse calunniose verso questa attività che viene in aiuto a chi si trova in difficoltà.
Bisogna che il legislatore prepari sempre un rimedio per questi mali.
Un antico e saggio proverbio dice che è difficile combattere contro due cose e per giunta contrarie, come avviene nelle malattie e in molte altre cose: e anche adesso la battaglia che riguarda costoro e questi mali si combatte su due fronti opposti, povertà e ricchezza, poiché l'una corrompe l'animo degli uomini con la lussuria, e l'altra, con i suoi dolori, la trascina verso l'impudenza.
Quale rimedio a questa malattia si potrebbe trovare in uno stato assennato? In primo luogo bisognerà avere a che fare il meno possibile con la categoria dei commercianti, in secondo luogo bisogna affidare queste attività a quelle persone le quali, anche se si corrompono, non causerebbero un grande danno per lo stato, in terzo luogo bisogna trovare un modo per impedire proprio a quelli che prendono parte di queste occupazioni che le loro indoli prendano facilmente parte dell'impudenza e che diventino servili nell'animo.
Dopo quanto ora detto, ecco la nostra legge in materia, sperando che sia accompagnata dalla buona sorte: nessuno di tutti quei Magneti che il dio, risollevandone la sorte, stabilisce nel nuovo stato, quelli che fra le cinquemilaquaranta famiglie sono i proprietari di un lotto, nessuno dunque sia volontariamente o meno commerciante al minuto o all'ingrosso, e non presti alcun tipo di servizio a privati che non siano della sua stessa condizione, a meno che non si tratti del padre, della madre, di chi viene ancora prima nella discendenza, e di tutti quelli più vecchi che, in quanto liberi, liberamente serve.
Non è facile stabilire con esattezza per legge ciò che è proprio o non è proprio di un uomo libero, ma giudichino tale questione quelli che prendono parte della suprema virtù, in base all'odio o alla predilezione nei confronti di queste cose.
Se qualcuno all'interno di una qualche arte partecipa di un commercio al minuto che è servile, chiunque vuole, lo accusi dinanzi a quelli che sono giudicati primi per virtù di disonorare la sua stirpe, e se risulta contaminare con una pratica indegna il focolare dei suoi padri, sia incarcerato per un anno e tenuto lontano da tale pratica, e se recidivo, sia condannato ad altri due anni di carcere, e ogni volta che viene preso non verrà scarcerato se non ha raddoppiato la pena precedente.
Ed ecco la seconda legge: chi vuole fare il commerciante al minuto dev'essere straniero residente o straniero di passaggio.
In terzo luogo, terza legge: perché tali persone che vivono con noi nello stato siano le migliori possibili e in ogni caso le meno malvagie, i custodi delle leggi devono pensare dì essere non solo custodi di quelli che è facile sorvegliare perché non agiscano contro la legge e non diventino malvagi, e alludo a quanti per stirpe ed educazione sono stati ben allevati, ma devono soprattutto sorvegliare chi non è tale e si dedica ad occupazioni che hanno un peso rilevante nello spingerli a diventare malvagi.
Poiché il commercio al minuto si presenta sotto varie forme e contiene in sé molti generi di occupazioni, bisognerà mantenere le occupazioni che sembrano essere assai necessarie allo stato, e a tal proposito i custodi delle leggi dovranno riunirsi insieme agli esperti di ogni settore commerciale, come abbiamo precedentemente stabilito per il problema della falsificazione, questione affine a questa, e una volta riuniti dovranno vedere, in relazione alle entrate e alle spese, qual è mai il guadagno conveniente che deriva al commerciante, e stabiliranno per iscritto le spese e le entrate che risultano, e ne affideranno la sorveglianza agli agoranomi, agli astinomi, e agli agronomi.
In questo modo si può dire che il commercio al minuto potrà giovare ai singoli, e i danni saranno assai ridotti per chi nello stato se ne serve.
Se un tale, dopo aver preso certi accordi, non realizza ciò che secondo gli accordi doveva fare, a meno che non sia stato impedito da leggi o decreti, o sia stato costretto da un'ingiusta violenza a stipulare il contratto, o, ancora, sia stato ostacolato da una sorte imprevista contro la sua volontà, per tutti gli altri casi vi siano azioni giudiziarie per inadempienza di contratto, presso i tribunali delle tribù, se prima non si sia riusciti a risolvere la vertenza per arbitrato o nei tribunali dei vicini.
La categoria di quegli artigiani che con le loro arti ci procurano i mezzi per vivere è sacra ad Efesto e ad Atena, mentre quelli che con altre arti che sono adatte a difendere salvaguardano le opere degli artigiani sono sacri ad Ares e ad Atena: giustamente la loro classe è consacrata a questi dèi.
Tutte queste persone vivono al servizio della regione e del popolo, gli uni avendo una funzione di primaria importanza nelle gare della guerra, gli altri realizzando strumenti e opere in genere per la guerra: ad essi, dunque, non conviene mentire a tal proposito, se nutrono rispetto nei confronti degli dèi da cui discendono.
Se un artigiano a causa della sua malvagità non realizza l'opera entro i termini di tempo stabiliti, senza alcun rispetto per il dio che gli ha dato i mezzi per guadagnarsi la vita, pensando, grazie alla sua cecità mentale, che il dio userà indulgenza verso di lui per la sua affinità, in primo luogo subisca la punizione divina, in secondo luogo si stabilisca la seguente legge che si conforma a lui: sia condannato a pagare il prezzo delle opere per le quali ha ingannato il committente, e un'altra volta dal principio, nel tempo precedentemente stabilito, realizzi gratuitamente l'opera.
A chi si assume l'onere di un lavoro la legge fornisce gli stessi consigli che aveva già fornito al commerciante, e cioè di non cercare di fissare un prezzo più alto del valore effettivo, ma di seguire assai semplicemente il suo valore: la stessa cosa ora ordina anche a chi si assume l'onere di un lavoro, e l'artigiano conosce il valore del suo lavoro.
Negli stati in cui vi siano uomini liberi lo stesso artigiano non può ingannare i privati cittadini con la sua arte, che per sua natura è limpida e non conosce menzogna, e dunque per tali questioni vi siano azioni giudiziarie da parte di chi subisce ingiustizie verso chi le commette.
Se a sua volta chi ha commissionato il lavoro all'artigiano non lo paga come dovrebbe, secondo gli accordi stabiliti per legge, e manca di rispetto nei confronti di Zeus protettore dello stato e di Atena che prende parte della costituzione, per desiderio di un piccolo guadagno, e così diventa responsabile della dissoluzione di grandi comunità, la legge venga in aiuto alla compagine dello stato insieme agli dèi: chi ha ricevuto il lavoro in anticipo, ma non corrisponde il compenso pattuito nei tempi fissati dal contratto, sia condannato a pagare il doppio; e se trascorre un anno, pur essendo proibito trarre interessi dalle ricchezze date a prestito, costui sia condannato a sborsare ogni mese un obolo di interesse per ogni dracma.
Le azioni giudiziarie per tali questioni si risolvano nei tribunali delle tribù.
Se a questo punto si vuole fare un'appendice, poiché abbiamo citato gli artigiani, è giusto parlare di quegli artigiani che in guerra realizzano la salvezza, vale a dire gli strateghi, e quanti sono esperti nell'arte di tali cose: quel tale che a costoro, come a quelli di prima, quasi fossero altri artigiani, corrisponde un giusto compenso, ovvero gli onori che costituiscono il compenso per gli uomini impegnati in guerra, nel caso in cui uno di loro, assumendosi il compito di realizzare un'impresa per lo stato, sia di sua spontanea volontà, sia in base ad un ordine ricevuto, la realizza onorevolmente, la legge non si stanchi di elogiarlo; ma se, pur ricevendo anticipatamente una gloriosa impresa di guerra, non lo paga, sia biasimato.
Sia così stabilita questa nostra legge che si combina con l'elogio per costoro, la quale fornisce consigli, senza essere costrittiva, alla maggior parte dei cittadini, ed esorta a rendere onori a quegli uomini valorosi che si sono impegnati nella salvezza dello stato intero, tanto con il coraggio quanto con espedienti guerreschi, ma al secondo posto: il premio più importante sia invece assegnato a quelli che per primi hanno saputo rendere particolare onore alle leggi scritte da parte di valenti legislatori.
Abbiamo regolamentato quasi tutti i contratti più importanti che gli uomini stringono fra di loro, tranne quelli riguardanti gli orfani, e la cura degli orfani da parte dei tutori.
Ed è proprio questa la materia che è necessario regolamentare dopo quel che ora si è detto.
I princìpi di tutta questa materia sono da un lato costituiti dai desideri di coloro che sono sul punto di morte di redigere il testamento, e dall'altro dai destini che spesso impediscono di redigere il testamento: ho detto “necessario”, Clinia, considerando quel che vi è di molesto e di difficile in questa materia.
Non è possibile lasciare priva di ordine questa materia: ciascuno infatti stabilirebbe molte disposizioni testamentarie, ed esse non sarebbero soltanto discordanti fra di loro e contrarie alle leggi e ai costumi dei viventi, ma anche opposte ai propri costumi precedenti alla stesura del testamento, se venisse semplicemente concessa facoltà di rendere valido il testamento che uno redige prima di morte, quali che siano le condizioni in cui si trova.
La maggior parte di noi si trova in un certo senso in una condizione di stoltezza e di sfinimento morale, quando ormai crede vicina la morte.
CLINIA: Come puoi dire questo, straniero?
ATENIESE: è un essere difficile, Clinia, l'uomo che si accinge a morire, e la sua parola diventa temibile e molesta per i legislatori.
CLINIA: In che senso?
ATENIESE: Sforzandosi di essere padrone incontrastato di tutti i suoi beni, egli, adirandosi, è solito dire …
CLINIA: Che cosa?
ATENIESE: Dice: «è terribile, o dèi, se non mi è possibile dare a chi voglio e a chi no le mie cose, dando ad uno di più e ad un altro di meno, in proporzione alla loro malvagità o alla loro bontà manifestata nei miei confronti, dandone sufficiente prova nelle malattie, nella vecchiaia, e in tutte le altre circostanze del genere».
CLINIA: E dunque, straniero, non ti sembra che dicano bene?
ATENIESE: Mi sembra, Clinia, che gli antichi legislatori siano stati troppo morbidi, e che per legiferare abbiano rivolto le loro attenzioni e abbiano considerato solo una piccola parte delle faccende umane.
CLINIA: Come dici?
ATENIESE: Per paura di quel discorso pronunciato dal moribondo, carissimo, essi stabilirono la legge che dava facoltà di disporre delle proprie cose nel modo più semplice, così come uno vuole.
Ma tu ed io daremo una risposta più conveniente a chi nel tuo stato sta per morire.
Amici, diremo, uomini che vivete senz'altro per un giorno soltanto, è difficile per voi in questo momento conoscere i beni che vi appartengono, ed inoltre conoscere voi stessi, come recita anche l'iscrizione della Pizia.
Io che sono un legislatore stabilisco che né voi appartenete a voi stessi, né questo patrimonio vi appartiene, ma appartiene a tutta la vostra famiglia che vi ha preceduti e che verrà dopo di voi, e così tutta la vostra stirpe e il patrimonio appartiene a maggior ragione allo stato: stando le cose in questi termini, se qualcuno cerca con adulazioni di conquistarvi mentre vi trovate in una situazione di debolezza a causa di malattie o della vecchiaia, convincendovi a redigere testamenti e ad andare contro quello che è il supremo bene, non posso darvi spontaneamente il mio assenso, ma dovrò legiferare in vista di tutto ciò che è meglio per lo stato e la stirpe, assegnando giustamente una parte minore agli interessi del singolo.
Quanto a voi, con animo lieto e ben disposto nei nostri confronti procedete verso quella mèta in direzione della quale state procedendo, così come prevede la natura umana: noi ci prenderemo cura di tutte le altre vostre cose, dandoci assolutamente pensiero di tutte quante, nei limiti del possibile, e non di alcune sì, e di altre no.
Queste parole dunque valgano come avvertimento e come proemio per i viventi, Clinia, e per i morti, e questa invece sia la legge: chi scrive un testamento disponendo dei suoi beni, se è padre con dei figli, per prima cosa scriva quale dei suoi figli ritiene che sia degno di essere erede, e, riguardo agli altri figli, scriva quale vuole dare in adozione ad un altro che sia disposto ad accoglierlo.
Se gli rimane uno dei figli che non è stato adottato non avendo l'eredità, e per il quale, secondo la legge, vi sono buone probabilità che venga inviato nella colonia, sia concesso al padre di lasciargli tutti gli altri beni che vuole, fatta eccezione per il lotto paterno e tutti gli utensili che servono ad esso; e se i figli sono di più di uno, il padre divida i beni eccedenti il lotto ereditario dividendolo in parti come più gli piace.
Al figlio che possiede una casa non assegni alcun bene, e allo stesso modo non assegni nulla alla figlia alla quale è già stato promesso il futuro marito, ma in caso contrario assegni pure dei beni: se uno dei figli o delle figlie risulti possedere un lotto ereditario, dopo che è stato redatto il testamento, lasci la sua parte all'erede designato dal testatore.
Se il testatore non lascia figli maschi, ma femmine, scriva nel testamento il nome del marito di una delle figlie, come meglio preferisce, e lo lasci come figlio: se a qualcuno muore il figlio ancora bambino, prima che abbia potuto diventare uomo, sia esso figlio suo o adottato, chi redige il testamento scriva anche in tale circostanza quale ragazzo deve diventare per lui come un secondo figlio con miglior fortuna.
Se qualcuno non ha assolutamente figli e redige un testamento, prenda la decima parte dei suoi beni in eccedenza e la doni, se ha intenzione di donarla a qualcuno: ma il resto dovrà completamente assegnarlo al figlio adottivo, e senza attirarsi rimproveri e con l'aiuto della legge renderà il figlio benevolo.
Se uno lascia figli che necessitano di tutori, e muore dopo aver redatto il testamento e aver scritto quali e quanti tutori vuole per i suoi figli, tutori che accettino volentieri e siano d'accordo di prendersi dei piccoli, la scelta dei tutori sia valida in base a queste disposizioni scritte: se uno muore senza lasciare affatto testamento o tralasciando di nominare i tutori, abbiano l'autorità di tutori i parenti più stretti per parte paterna e materna, e cioè due per parte paterna e due per parte materna, ed uno scelto fra gli amici del morto, e i custodi delle leggi li nomineranno tutori per quegli orfani che ne hanno bisogno.
I quindici più anziani custodi delle leggi si prendano cura di tutto ciò che riguarda la tutela e gli orfani, i quali si divideranno sempre secondo l'anzianità per gruppi di tre, vale a dire tre un anno, e altri tre un altro anno, finché non si completi il ciclo dei cinque turni: e quest'ordine non venga trascurato, nel limite del possibile.
Se uno muore senza aver fatto assolutamente testamento, lasciando dei figli che hanno bisogno di tutela, la necessità dei suoi figli richieda l'intervento di queste stesse leggi: se uno muore improvvisamente lasciando delle figlie, usi comprensione nei confronti del legislatore se quello sposa le figlie tenendo conto soltanto di due dei tre doveri del padre, e cioè dell'affinità della parentela e della salvaguardia del lotto; quanto alla terza cosa che un padre esaminerebbe, considerando fra tutti i cittadini quello che per costumi di vita ed indole sia più adatto a diventare suo figlio nonché lo sposo di sua figlia, bene, questa cosa la lasci perdere, per l'impossibilità di condurre questo esame.
Ed ecco la legge che per quanto è possibile si può stabilire riguardo a questa materia: se un cittadino muore senza fare testamento e lascia delle figlie, morto costui, il fratello del morto, nato dallo stesso padre o dalla stessa madre e privo dei lotti, sposi la figlia e abbia il lotto del morto; se non c'è un fratello, la stessa regola valga per il figlio del fratello, sempre che fra di loro vi sia la stessa proporzione d'età.
Se non vi è neppure una di queste persone, ma c'è il figlio di una sorella, valga ancora lo stesso discorso, e poi quarto sarà lo zio paterno del morto, quinto il figlio di questi, sesto il figlio della zia paterna.
In questo modo allora si proceda sempre attraverso l'affinità della parentela all'interno della stirpe, se qualcuno lascia delle figlie femmine, partendo dai fratelli e arrivando ai nipoti, e dando la precedenza ai maschi rispetto alle femmine all'interno della stirpe.
Il giudice giudichi se vi è o no proporzione d'età fra gli sposi, esaminando i maschi nudi, e le femmine nude sino all'ombelico: se nella famiglia vi è mancanza di parenti sino ai nipoti del fratello del morto, e così sino ai nipoti dei figli del nonno, erede del morto e marito della figlia divenga quel cittadino che appartiene ad altra stirpe e che la figlia sceglie insieme ai tutori, con il consenso di entrambi.
Ma in uno stato vi può essere in molti casi una mancanza ancora più accentuata di tali persone: se dunque una giovane, avendo difficoltà a trovare marito fra quelli del luogo, vede un tale che viene inviato in colonia, e ha intenzione di farlo diventare erede dei beni paterni, se appartiene alla sua stirpe, venga ad impossessarsi del lotto come prevede l'ordinamento della legge; e se non è della stessa stirpe e se nessuno di quelli che si trova nello stato è della sua stirpe, sia autorizzato a sposarla, accettando la scelta dei tutori e della figlia del morto, e, una volta rientrato in patria, a ricevere il lotto del padre della sposa, morto senza aver fatto testamento.
Per colui che muore senza fare testamento, e non ha né figli maschi né figlie femmine, valga per il resto la legge di prima, e una femmina e un maschio della stessa stirpe, in qualità di conviventi, vadano ad abitare la casa rimasta deserta, e il lotto diventi di loro proprietà, in primo luogo della sorella del morto, e poi per seconda la figlia del fratello, terza la figlia della sorella, quarta la sorella del padre, quinta la figlia del fratello del padre, sesta la figlia della sorella del padre: queste andranno ad abitare insieme a quelli sulla base dell'affinità della parentela e del diritto, come abbiamo legiferato in precedenza.
Non dobbiamo ignorare la gravità di leggi come queste, quando con una certa asprezza impongono al parente del morto di sposare una sua parente, e sembra che non tengano conto di tutta una serie di ostacoli che sorgono fra gli uomini dinanzi ad ordini come questi, per cui non vogliono affatto obbedire, ma, anzi, sopporterebbero piuttosto qualsiasi cosa, quando, ad esempio, fra quelli che secondo gli ordini prestabiliti bisogna prendere per marito o per moglie vi sono alcuni che presentano malattie o mutilazioni del corpo e della mente.
Forse alcuni penseranno che il legislatore non si dia pensiero di tutto questo, ma non è giusto pensare così.
Dunque un preludio accomuni tanto il legislatore quanto chi è oggetto delle leggi, e si chieda a coloro che sono oggetto di queste prescrizioni di avere indulgenza nei confronti del legislatore, perché, dovendo badare ai pubblici affari, non può contemporaneamente amministrare anche le disgrazie che interessano i singoli, e così si chieda anche di avere indulgenza nei confronti di quelli che ricevono tali ordini, dato che talvolta non possono naturalmente eseguire gli ordini del legislatore il quale, quando impartisce ordini.
non può essere a conoscenza di ogni singolo caso.
CLINIA: Qual è allora il comportamento più adatto da tenere in questi casi, straniero?
ATENIESE: Bisogna scegliere degli arbitri, Clinia, per tali leggi e per chi è oggetto di queste leggi.
CLINIA: Come dici?
ATENIESE: Può talvolta avvenire che il nipote del morto, figlio di un padre ricco, non voglia sposare volentieri la figlia dello zio, e, vivendo nei lussi, aspiri a nozze migliori: e può anche capitare che, avendo il legislatore prescritto la più grande disgrazia, costringendo ad esempio a sposare dei parenti pazzi o infliggendo altre terribili disgrazie nei corpi o nelle anime che rendono invivibile la vita di chi le possiede, uno sia costretto a disubbidire alla legge.
E ora il discorso intorno a tali questioni sia costituito dalla seguente legge: se vi è qualcuno che protesta contro le leggi che sono state stabilite e che riguardano il testamento, e qualsiasi altra norma, e le nozze in particolare, sostenendo che se lo stesso legislatore, se fosse vivo e presente non potrebbe costringere a comportarsi così, ovvero a sposare una donna o a farsi sposare, coloro che ora sono costretti a fare l'una e l'altra cosa, e se uno dei familiari o dei tutori dirà invece di fare così, conviene affermare che il legislatore ha lasciato come arbitri e padri per gli orfani e le orfane i quindici custodi delle leggi; a questi dunque si rivolgano quelli che sono in lite fra di loro per tali questioni, ed essi giudichino e la loro sentenza avrà valore definitivo.
Se a qualcuno sembrerà che si affidi troppo potere ai custodi delle leggi, si conducano le due parti in causa dinanzi al tribunale dei giudici scelti per merito e così la vertenza sia giudicata in via definitiva: chi perde la causa sia biasimato e criticato dal legislatore, e per un uomo che possiede intelligenza tale danno è ben più grave di un'ingente somma pecuniaria.
Ora per tutti gli orfani vi sarà quasi una seconda nascita.
Dell'allevamento e dell'educazione dopo la loro prima nascita si è già detto.
Dopo la seconda, che si verifica quando si rimane senza padri, bisogna escogitare un modo perché la sorte di quelli che stanno diventando orfani rappresenti una disgrazia che sia il meno pietosa possibile.
Innanzitutto, diciamo, legiferiamo in modo che i custodi delle leggi siano padri in luogo dei veri genitori, e naturalmente non peggiori di quelli, e inoltre ordiniamo che essi ogni anno si prendano cura di quelli come se si trattasse di familiari, premettendo però un proemio per costoro, come per i tutori, riguardante l'allevamento degli orfani.
Mi sembra che con una certa opportunità abbiamo sostenuto nei discorsi precedenti che le anime dei morti hanno potere, quando sono morte, di occuparsi delle cose umane: questo è vero, ma i discorsi che comprendono questa materia sono lunghi, ed è necessario prestare fede ad altre tradizioni che si raccontano a tal proposito, che sono numerose ed assai antiche, ed inoltre si deve prestare fede a quelli che per legge stabiliscono che le cose stanno in questi termini, sempre che non appaiano del tutto insensati.
Se dunque tali cose stanno secondo natura in quei termini, in primo luogo si abbia timore degli dèi celesti, che sono attenti e sensibili alla solitudine degli orfani; in secondo luogo si abbia timore delle anime dei morti, alle quali per natura spetta interessarsi in modo particolare dei propri figli, e sono benevoli con quelli che li onorano ed ostili verso quelli che li disonorano; ed inoltre si abbia timore delle anime dei viventi, quando raggiungono la vecchiaia e sono assai onorate, dovunque vi sia uno stato che vive felice nel rispetto delle leggi e in cui i figli dei figli possano teneramente amarle e vivere così serenamente: intorno a tali questioni questi vecchi hanno udito e vista acuta, e sono benevoli verso quelli che in queste cose si dimostrano giusti, e disapprovano nel modo più assoluto quelli che invece maltrattano gli orfani abbandonati, ritenendo che gli orfani sono il tesoro più grande e più sacro.
Bisogna che tutori e magistrati, anche quelli che hanno scarse capacità, rivolgano verso tutti quelli la loro attenzione, e si comportino con cautela nei confronti dell'allevamento e dell'educazione degli orfani, beneficandoli, per quanto è possibile, in ogni modo, come se apportassero un beneficio a se stessi e ai loro familiari.
Chi obbedirà a questo discorso che viene prima della legge e non maltratterà affatto gli orfani non conoscerà evidentemente l'ira del legislatore che si scatena a tal proposito, ma chi disubbidirà e commetterà ingiustizia verso chi è rimasto senza padre o senza madre paghi l'intero danno arrecato in misura doppia che se avesse maltrattato chi ha ancora entrambi i genitori.
Quanto al resto della legislazione che riguarda i doveri dei tutori verso gli orfani, e quelli dei magistrati nella sorveglianza dei tutori, se non disponessero di un modello di educazione per i figli dei liberi, allevando essi stessi i propri figli ed amministrando i loro patrimoni, e se anche avessero leggi esposte convenientemente intorno a tali questioni, bisognerebbe stabilire leggi particolari ed assai diverse, che varierebbero a seconda delle diverse pratiche che riguardano la vita degli orfani e quella di chi invece non è orfano.
Ora, presso di noi, considerando tutti questi aspetti, la condizione dell'orfano non è poi così diversa da chi si trova sotto l'influenza dell'autorità paterna, anche se onori, disonori, e attenzioni solitamente non si equivalgono affatto.
Perciò, proprio su questo punto della legislazione riguardante gli orfani, la legge si è presa particolare cura nell'ammonire e nel minacciare.
Ed ecco una minaccia assai opportuna: chi abbia sotto la propria tutela una bambina o un bambino, e chi, fra i custodi delle leggi, abbia il compito di vigilare sul tutore, non dia meno amore di quel che dà ai suoi figli a chi prende parte della sfortunata condizione di orfano, e non si prenda meno cura dei beni dell'orfano che alleva di quanto farebbe con le proprie ricchezze, ma anzi il suo impegno sia maggiore che se si trattasse del proprio patrimonio.
Grazie a questa sola legge sugli orfani, ognuno svolga il proprio compito di tutore: se uno in tali circostanze si comporta diversamente, andando contro questa legge, il magistrato punisca il tutore, e se invece si tratta del magistrato, il tutore trascini il magistrato dinanzi al tribunale dei giudici scelti per merito, e lo si condanni a pagare il doppio della multa stabilita dal tribunale.
Se ai parenti o a qualche altro cittadino sembra che il tutore trascuri o faccia del male al bambino che gli è stato affidato, lo si trascini dinanzi allo stesso tribunale: paghi allora il quadruplo del danno di cui è stato riconosciuto colpevole, di cui metà andrà al bambino e metà a chi ha intentato la causa.
Quando un orfano giunge alla pubertà, se ritiene di essere stato tutelato male, sino a cinque anni dallo scadere della tutela abbia facoltà di intentare un processo per tutela: se uno dei tutori viene riconosciuto colpevole, decida il tribunale la pena che deve subire e la multa che deve pagare; e se si tratta dì un magistrato che si ritiene che abbia fatto del male all'orfano per negligenza, il tribunale decida quale multa deve pagare al ragazzo, e se è colpevole di ingiustizia, oltre alla multa, sia allontanato dalla magistratura dei custodi delle leggi, e la comunità dello stato elegga un altro custode delle leggi al suo posto per la regione e per lo stato.
Vi sono talvolta dei contrasti fra i padri e i propri figli, e fra i figli e i propri genitori che sono più gravi di quel che dovrebbero essere: nel corso di questi contrasti i padri riterrebbero che il legislatore dovrebbe stabilire delle leggi secondo cui si concede loro la possibilità, qualora lo desiderino, di ripudiare il figlio davanti a tutti per bocca dell'araldo, potendo così affermare ch'egli non è più figlio suo per legge, mentre i figli riterrebbero di dover avere facoltà di sporgere denuncia scritta per demenza per i loro padri che a causa di malattie o della vecchiaia siano in cattive condizioni.
Queste cose, in realtà, sono solite scaturire da uomini che hanno un'indole assai malvagia: se la cattiveria è dimezzata, se ad esempio il padre non è cattivo, ma soltanto il figlio, o viceversa, non avvengono eventi così sciagurati che scaturiscono da un'ostilità tanto grave.
Mentre in un'altra costituzione il figlio che viene pubblicamente ripudiato non perde necessariamente il diritto di cittadinanza, in questa, alla quale apparteranno queste leggi, vi è la necessità che chi è senza padre emigri in un'altra regione - non si può aggiungere neppure una unità alle cinquemilaquaranta dimore -; ed è per questo che chi subirà secondo giustizia questa condanna deve essere ripudiato non da un solo padre, ma da tutta la stirpe.
In tal caso ci si deve comportare secondo la seguente legge: chi è invaso da uno stato d'animo, nient'affatto felice, che lo spinga ad avere il desiderio di allontanare, giustamente o meno, dalla sua famiglia quel figlio che ha generato e ha allevato, non potrà fare questo così, alla buona, direttamente, ma prima dovrà riunire i suoi parenti sino ai cugini, e così i parenti del figlio per parte materna, e davanti a costoro lo accusi, mostrando le ragioni per le quali dovrebbe meritare di essere scacciato, con decisione unanime di tutti, dalla sua stirpe, e dia anche al figlio la possibilità di fare discorsi equivalenti e di dichiarare le ragioni per cui non è degno di subire alcuna di queste cose.
E se il padre risulta convincente e ottiene più della metà dei voti di tutti i suoi parenti, escludendo però dal voto il padre stesso, la madre, e il figlio imputato, e partecipando invece alla votazione tutti gli altri, uomini e donne, che abbiano raggiunto l'età adatta, così e a queste condizioni sia concesso al padre di bandire il figlio, ma per nulla al mondo se la cosa avviene in altro modo.
Se un cittadino vuole adottare come figlio colui che è stato ripudiato, nessuna legge glielo impedisca - i caratteri dei giovani subiscono infatti per natura molti mutamenti nel corso della loro vita -, ma se nessuno vuole adottare il figlio ripudiato, e questo bambino abbia ormai dieci anni, allora coloro che si occupano dei figli non primogeniti per inviarli in colonia si prendano cura anche di costoro, perché anch'essi possano prendere convenientemente parte della colonia.
Se una malattia, o la vecchiaia, o la durezza di carattere, o anche tutte queste cose insieme, rendono un tale più dissennato di quanto lo sia la maggior parte delle persone, e ciò rimane ignoto agli altri, ma non a quelli che vivono con lui, e se, essendo padrone assoluto del suo patrimonio, lo manda in rovina, e il figlio d'altra parte non sa come fare ed esita a sporgere denuncia per demenza, vi sia una legge che gli consigli, per prima cosa, di recarsi dai più anziani custodi delle leggi e di esporre la disgrazia che ha colpito il padre; e quindi, esaminata dettagliatamente la questione, essi decidano se si deve o meno sporgere denuncia, e se gli consigliano di sporgerla, siano testimoni ed avvocati insieme a colui che sporge denuncia.
Se il padre viene riconosciuto demente, sia spogliato per il tempo che gli rimane della facoltà di disporre anche della parte più piccola dei suoi beni, e viva nella sua casa il resto della sua vita come un bambino.
Se marito e moglie non vanno assolutamente d'accordo per una sfortunata combinazione di caratteri, dieci uomini scelti fra i custodi delle leggi, di età media, devono di continuo occuparsi di tali questioni, e allo stesso modo dieci donne fra quelle che si occupano del matrimonio: se riescono a riconciliarli, abbia valore questa riconciliazione, ma se i loro animi sono più irrequieti del necessario, cerchino, nei limiti del possibile, di trovare quelle persone che si adattino all'uno e all'altra.
è naturale che individui simili non hanno caratteri dolci, ed è per questo che si deve cercare di accordare a queste persone caratteri e costumi di vita, che, in base ad una certa affinità, siano più seri e più tranquilli.
Se marito e moglie sono in contrasto fra di loro perché non hanno figli o ne hanno pochi, si faccia la nuova unione pensando anche ai figli: quelli che invece hanno un numero sufficiente di figli devono separarsi e costituire una nuova unione con lo scopo di invecchiare insieme e prendersi vicendevole cura.
Se la moglie muore e lascia figli maschi e femmine, la legge che stabiliamo consiglierà, senza peraltro obbligare, di allevare i figli senza assumere una matrigna: se invece non ci sono figli, il marito dovrà necessariamente risposarsi, finché generi figli in numero sufficiente per la casa e lo stato.
Se l'uomo muore lasciando figli in numero sufficiente, la madre dei suoi figli che rimane li allevi: se pare troppo giovane per vivere in salute senza un uomo, i parenti, di comune accordo con le donne che si occupano dei matrimoni, si consultino e agiscano secondo quel che in tal caso sembra più opportuno fare a loro e a quelle donne.
Se non vi sono figli, anche per i figli la moglie si risposi, e un maschio e una femmina devono costituire un numero sufficiente ed esatto previsto dalla legge.
Quando si è d'accordo che il figlio, una volta generato, sia di coloro che lo hanno concepito, e bisogna decidere chi deve seguire, e se dunque una schiava si è unita con uno schiavo, un uomo libero, o un liberto, il figlio generato sia assolutamente del padrone della schiava; e se una donna libera si unisce con uno schiavo, il figlio generato appartenga al padrone dello schiavo; se poi il padrone ha un figlio dalla propria schiava o la padrona dal proprio schiavo, e la cosa è risaputa, le donne invieranno il figlio della donna con il padre in un'altra regione, e i custodi delle leggi il figlio dell'uomo con la madre.
Né un dio, né un uomo che abbia un po' di intelligenza potrà mai consigliare qualcuno di trascurare i genitori: conviene considerare che un proemio come quello che segue sul rispetto degli dèi si potrebbe adattare perfettamente agli onori e ai disonori che si devono tributare ai genitori.
Le antiche leggi sugli dèi che sono state stabilite presso tutti i popoli si dividono in due parti.
Fra gli dèi, infatti, alcuni li onoriamo vedendoli con chiarezza, di altri, invece, veneriamo le immagini, fabbricandone le statue, e li veneriamo anche se sono senza vita, ritenendo che gli dèi viventi, proprio per questa ragione nutrono molta benevolenza e gratitudine nei nostri confronti.
Chi ha nella sua casa, come un tesoro, un padre e una madre, e padri e madri di costoro, consumati ormai dalla vecchiaia, non pensi di avere alcun'altra immagine che abbia più valore di quella statua domestica che ha in casa, se egli che la possiede è capace di venerarla convenientemente, nel modo più giusto.
CLINIA: E ci puoi spiegare qual è il modo giusto?
ATENIESE: Lo dirò: infatti, amici, tali cose meritano di essere ascoltate.
CLINIA: Parla!
ATENIESE: Edipo, come noi raccontiamo, disprezzato dai figli, lanciò contro di loro delle imprecazioni, che, come ognuno dice, vennero mandate a compimento ed ascoltate dagli dèi; e lo stesso si dice di Amintore che pieno di ira maledì suo figlio Fenicio, e di Teseo con Ippolito, e di infiniti altri contro infiniti altri, e da questi fatti risulta chiaro che gli dèi ascoltano i voti che i genitori fanno contro i figli: funesto è infatti il genitore che si scaglia contro il figlio come nessun altro contro altri, ed è cosa giustissima. Non si pensi allora che un dio per natura ascolta le preghiere di un padre e di una madre, quando sono offesi e disonorati, in modo differente da quel genitore che, essendo invece onorato e ricevendo molte gioie, per queste ragioni invoca insistentemente gli dèi per chiedere loro ogni sorta di beni per i figli: non dovremo allora ritenere che il dio ascolterà ugualmente anche simili preghiere, assegnandoci ciò che abbiamo richiesto? In caso contrario non si comporterebbero giustamente nella distribuzione dei beni, ma questo, noi diciamo, non si adatta affatto agli dèi.
CLINIA: Certamente.
ATENIESE: Dunque noi dobbiamo pensare, come abbiamo detto poco fa, che non possediamo alcuna statua più onorata per gli dèi di un padre e di un avo estenuati dalla vecchiaia, e di madri che sono nella stessa condizione, e se qualcuno li onora, il dio si rallegra, mentre, in caso contrario, non li ascolterebbe. Sono per noi straordinarie le statue dei progenitori, assolutamente diverse da quelle inanimate: quando infatti quelle statue viventi sono da noi venerate, esse ogni volta si uniscono nella preghiera, quando invece sono disonorate, accade il contrario; mentre le altre non fanno né l'una, né l'altra cosa, sicché, se uno riserva un trattamento corretto nei confronti del padre, dell'avo, e di tutti i parenti, di conseguenza ha a disposizione le statue più potenti di tutte per domandare un destino caro al dio.
CLINIA: Benissimo.
ATENIESE: Chiunque abbia un po' di intelligenza teme e onora le preghiere dei genitori, sapendo che per molti e spesso sono state esaudite: poiché allora le cose sono ordinate in questo modo, per i buoni sono un vero e proprio tesoro i genitori anziani che vivono sino al termine della vita, e se muoiono giovani, suscitano un grande rimpianto, e nei malvagi tremende paure.
Ognuno veneri i propri genitori con tutti gli onori previsti dalla legge, prestando fede alle parole che ora abbiamo detto.
Se però lo invade una voce sorda a tali proemi, ecco la legge che è stata giustamente stabilita per questi casi: se un tale in questo stato trascura i genitori più di quel che dovrebbe, e non presta attenzione e non soddisfa tutte le loro richieste più di quanto esaudisce i desideri dei figli, di tutti i discendenti, e di se stesso, chi subisce un tale torto, lo denunci - sia che lo faccia l'interessato in persona, sia che invii qualcun altro - ai tre più anziani custodi delle leggi, e alle tre donne che si occupano dei matrimoni.
Costoro si occupino della faccenda, punendo quelli che commettono ingiustizia con le frustate e il carcere, se sono ancora giovani, vale a dire sino ai trent'anni, se sono uomini, mentre le donne siano punite con le stesse punizioni, anche se hanno dieci anni di più.
Se queste persone, oltrepassati questi limiti di età, non rinunciano tuttavia a trascurare i genitori, e alcuni faranno loro del male, siano condotti in un tribunale composto di cento cittadini più uno, che siano i più anziani di tutti: se uno viene riconosciuto colpevole, il tribunale decida quale multa deve pagare e quale pena deve subire, senza porre limitazioni alle pene o alle multe che un uomo deve pagare.
Se uno dei genitori che subisce maltrattamenti non può sporgere denuncia, quel libero cittadino che viene informato del fatto lo denunci ai magistrati, in caso contrario sia ritenuto malvagio, e chi vuole lo accusi di danneggiamento.
Se il delatore è uno schiavo, ottenga la libertà, e se è lo schiavo di coloro che hanno arrecato o subito il maltrattamento, sia liberato dai magistrati stessi, mentre se è lo schiavo di un altro cittadino, la comunità versi la somma corrispondente al suo prezzo al padrone.
I magistrati devono poi sorvegliare che nessuno faccia del male a quel tale per vendicarsi della denuncia.
Per quanto riguarda i danni causati dal veleno, si è già detto a proposito di quelli che portano alla morte, mentre gli altri, che sono fonte di danni, e sono procurati mediante bevande, cibi, unguenti, volontariamente o con premeditazione, non sono ancora stati trattati.
Bisogna dunque distinguere due specie di veleni che sono in uso presso il genere umano.
L'una, ed è quella di cui abbiamo parlato ora in modo esplicito, danneggia i corpi con l'azione naturale dei corpi: ma l'altra, che agisce mediante magie, incantesimi, e i cosiddetti nodi magici, convince quelli che hanno lo sfrontato coraggio di arrecare danni di poterlo fare grazie alla magia, mentre coloro che subiscono i danni sono convinti di subire terribili danni da parte di queste persone che sono in grado di operare degli incantesimi.
Non è facile sapere come avvengono in natura tutte queste cose ed altre simili, né, se uno ne fosse a conoscenza, sarebbe agevole persuadere altri: e non servirebbe a nulla il tentativo di persuadere le anime degli uomini, che in queste cose si guardano l'un l'altro sospettosamente, invitandoli, se vedono delle statuette riprodotte in cera poste sulle porte delle case, o presso i trivi, o vicino alle tombe dei genitori, a non darsi pensiero di simili cose, poiché non hanno al riguardo alcuna chiara opinione.
Distinguendo in due parti la legge sul veneficio, a seconda di quale dei due modi si cerca di attuarlo, prima di tutto si preghi, sì consigli, e si esorti perché non si debba mai cercare di compiere tali azioni, né di seminare terrore fra la moltitudine degli uomini che hanno paura come i bambini, né di costringere il legislatore o il giudice a trovare un rimedio per simili paure degli uomini, pensando che in primo luogo chi compie questi venefici non sa quello che fa, sia per quanto riguarda il loro effetto sui corpi, a meno che non sia esperto di medicina, sia per quanto riguarda gli effetti della magia, a meno che non sia un indovino o un interprete dei segni divini.
Sia detto questo discorso il quale valga come legge sui venefici: chi opera venefici contro qualcuno per arrecare un danno non mortale né alla sua persona, né ai suoi, anche se procura un altro danno mortale per il suo bestiame e per le sue api, se è un medico e viene riconosciuto colpevole di veneficio, sia punito con la morte, se è un privato cittadino, il tribunale decida quale pena egli deve subire o quale multa deve pagare.
Chi risulta compiere danni con nodi magici, evocazioni, incantesimi, ed ogni altro simile veneficio, se è un indovino o un interprete di segni divini, sia condannato a morte, se invece è riconosciuto colpevole di veneficio anche senza l'arte divinatoria, si proceda anche per lui secondo la stessa procedura: anche per questi il tribunale decida quale pena deve subire o quale multa deve pagare.
Per quanto riguarda quei danni che uno arreca all'altro mediante il furto o la violenza, nella misura in cui esso è più grave, sia maggiore il risarcimento che deve pagare al danneggiato, minore se il danno è più piccolo, e in ogni caso risulti proporzionato al danno che ogni volta uno arreca, finché tale danno non sia risanato: ciascuno, in relazione ad ogni azione malvagia, subisca inoltre un'altra pena che serva di ammonimento per il colpevole, e questa pena sia più lieve per chi ha commesso l'azione malvagia a causa dell'altrui stoltezza, o per l'imprudenza dovuta alla giovane età, o per qualsiasi altro fattore; sia invece più pesante se la malvagità è dovuta alla propria stoltezza, o all'intemperanza di fronte ai piaceri e ai dolori, o se si trovi immerso in vili paure, passioni, invidie, e rancori incurabili; e sia punito non per il male compiuto - il male compiuto, ormai, è compiuto -, ma perché in futuro lui stesso e quelli che osservano la sua punizione detestino l'ingiustizia, o almeno si liberino da buona parte di quella sventura.
Per tutte queste ragioni bisogna che le leggi, tenendo conto di tutti i casi di questo genere, come un abile arciere, mirino alla gravità della pena da infliggere in ciascun caso, assegnando assolutamente quella più adatta: e bisogna che il giudice collabori con il legislatore, facendo la stessa cosa, quando la legge gli affida la facoltà di decidere quale pena deve subire o quale multa deve pagare colui che è stato giudicato, mentre il legislatore, come un pittore, deve fare uno schizzo della sua opera, conformandosi a ciò che è stato tratteggiato.
E questo è ciò che noi ora dobbiamo fare, Megillo e Clinia, nel modo più bello e migliore possibile: dobbiamo dire quali devono essere le pene relative ai furti e agli atti violenti, nei termini in cui gli dèi e i figli degli dèi ci concedono di legiferare.
Chi è affetto da pazzia non si mostri in giro per la città: i parenti custodiscano ciascuna di queste persone in casa, a seconda di come sono capaci di farlo, o paghino una multa di cento dracme per chi appartiene alla prima classe, sia che venga lasciato in giro uno schiavo o un uomo libero, di quattro quinti di una mina, se appartiene alla seconda classe, di tre per chi è della terza, di due se è della quarta.
Molti impazziscono in molti modi: quelli di cui abbiamo parlato adesso impazziscono per malattia, poi vi sono quelli che hanno l'anima irascibile a causa di una malvagia natura unita ad una cattiva educazione.
Questi ultimi per la più piccola inimicizia, gridano a gran voce e si insultano pesantemente l'un l'altro, e questo fatto non si adatta in alcun modo ad uno stato dì cittadini che siano ben governati.
Questa sia l'unica legge stabilita a proposito delle accuse calunniose che tutti si lanciano: nessuno accusi nessuno.
Colui che in un qualche discorso si trovi ad avere una controversia con un altro mostri le proprie posizioni e apprenda quelle di chi è in controversia con lui e degli altri presenti alla discussione, e si astenga nel modo più assoluto dal lanciare accuse calunniose.
Dalle imprecazioni e dalle maledizioni che ci si lancia reciprocamente, e dai turpi nomi che ci si scambia e che provengono da dicerie tipiche di donne, dalle parole, in un primo tempo, che sono poca cosa, si passa, in pratica, all'odio e a pesanti inimicizie: e chi parla compiacendosi di una cosa così spiacevole come l'ira, saziando la propria collera con alimenti malvagi, nella misura in cui un tempo era stato addolcito dall'educazione, rende nuovamente selvaggia la propria anima e vive come una fiera in una condizione di scontentezza, ricevendo l'amara gratitudine della sua ira.
Tutti sono soliti, in casi del genere, passare a pronunciare delle parole per deridere l'avversario, e non c'è nessuno che, abituato a comportarsi così, non abbia finito per pregiudicare la serietà dei propri costumi e non abbia annientato in gran parte la propria nobiltà d'animo.
Per queste ragioni nessuno gridi mai simili parole in un luogo sacro, né in certi sacrifici pubblici, né durante le gare, né sulla piazza, né in tribunale, né in alcuna pubblica adunanza: ogni magistrato che si occupa di queste cose punisca impunemente questi individui, in caso contrario non prenda parte alle gare per il primo premio della virtù, come se non si prendesse a cuore delle leggi e non eseguisse gli ordini impartiti dal legislatore.
Se in altri luoghi, attaccando o difendendosi, un tale copre un altro di oltraggi e non si astiene da tali discorsi, chi è presente al fatto, ed è più vecchio, difenda la legge, respingendo chi si abbandona alla collera, altro male, o sia condannato ad una pena determinata.
Noi ora diciamo che chi attacca brighe in modo oltraggioso non può parlare senza usare espressioni ridicole, e questo fatto lo condanniamo, quando esso avvenga per l'ira.
Ebbene? Possiamo approvare l'impegno dei comici nel dire cose ridicole agli uomini, se senza ira cominciano a dire tali cose, ridicolizzando i nostri concittadini? Oppure dobbiamo distinguere il caso in cui si scherza e quello in cui non si scherza, e a chi scherza dev'essere permesso di dire cose ridicole su qualcuno, ma senza ira, mentre non dev'essere permesso a nessuno che, come dicevamo, lo faccia intenzionalmente e con ira? Questo punto non dev'essere affatto modificato, e così dobbiamo stabilire per legge a chi è lecito e a chi non è lecito far questo.
Al poeta comico, a chi compone giambi o canti lirici non sia permesso né con parole, né con immagini, né con ira, né senza ira, mettere in ridicolo alcuno dei cittadini: se qualcuno disobbedisce, coloro che stabiliscono le gare lo caccino dalla regione il giorno stesso, o sia multato con una multa di tre mine da consacrarsi al dio della gara.
Per quanto riguarda quelli di cui prima si è detto che hanno facoltà di ridicolizzare qualcuno, a costoro sia lecito farlo fra di loro, senza ira e per gioco, mentre non sia lecito farlo seriamente e con l'animo rigonfio d'ira.
La valutazione di questo fatto sia affidata al magistrato che sovrintende l'intera educazione dei giovani: sia lecito dunque all'autore di tali opere renderle pubbliche, se il magistrato darà il suo giudizio di approvazione; se invece le respingerà, l'autore non potrà mostrarle a nessuno, e non risulterà insegnarlo a nessuno, né schiavo, né libero, oppure sia ritenuto malvagio e trasgressore delle leggi.
Non è degno di pietà chi ha fame o è afflitto da qualche altro male simile, ma lo è la persona temperante o quella che possiede una qualche virtù o parte di essa, la quale acquista una tremenda sventura: perciò sarebbe cosa singolare se uno, essendo tale, fosse del tutto abbandonato, sicché giungesse in una condizione di povertà, schiavo o anche libero, in una costituzione e in uno stato amministrati mediocremente.
Perciò il legislatore potrebbe sicuramente stabilire per queste persone una legge simile: nel nostro stato non ci sia alcun mendicante, e se uno tenta di compiere un simile gesto guadagnandosi la vita con incessanti preghiere, gli agoranomi lo caccino dalla piazza, la magistratura degli astinomi lo cacci dalla città, gli agronomi lo spediscano fuori dalla regione, oltre i confini, perché la regione sia del tutto purificata dalla presenza di un simile essere.
Se uno schiavo o una schiava danneggia un qualsiasi bene altrui, senza alcuna complicità da parte del danneggiato, per inesperienza o anche per un suo impiego non corretto, il padrone di colui che ha arrecato il danno risarcisca completamente il danno, o consegni lo schiavo stesso a chi ha subito il danno: se il padrone li accusa affermando che chi ha arrecato il danno e chi lo ha subito hanno commesso il fatto tendendo di comune accordo un'insidia per sottrargli lo schiavo, intenti un'azione giudiziaria per truffa contro chi sostiene di essere stato danneggiato, e se vince, riceva una somma corrispondente al doppio del valore dello schiavo stimato dal tribunale, mentre se perde, risarcisca il danno e consegni lo schiavo.
Se un animale da tiro, un cavallo, un cane, o qualche altro animale da allevamento danneggiano un bene dei vicini, allo stesso modo paghi il danno.
Se un tale non vuole testimoniare di sua spontanea volontà, sia citato da chi ha bisogno della sua deposizione, e quello, invitato a presentarsi, si presenti al processo; e se conosce i fatti e vuole testimoniare, renda la sua testimonianza, se invece dice di non sapere, dopo aver giurato per i tre dèi, Zeus, Apollo, e Temi, di non sapere, lasci il processo: chi viene invitato a rendere la sua testimonianza ma non si presenta dinanzi a colui che lo ha invitato, sia perseguito per danni contro la legge.
Se uno chiama un giudice in qualità di testimone, quel giudice che ha testimoniato non potrà più esprimere il suo giudizio per quella causa.
Sia concesso ad una donna libera di testimoniare e di parlare in difesa dell'imputato, se ha oltrepassato i quarant'anni, e di intentare un'azione giudiziaria, se è vedova; ma se suo marito è vivo, le sia concesso soltanto di testimoniare.
Alla schiava, allo schiavo, e ad un bambino sia soltanto concesso di testimoniare e di parlare in difesa nei processi per omicidio, purché uno presenti un mallevadore sicuro che garantisca la loro presenza sino al termine del processo, se sono accusati di falsa testimonianza.
Sia concesso ad una delle due parti in causa di accusare di falsa testimonianza, se sostiene appunto che è stata resa, per intero o solo in parte, falsa testimonianza, prima che sia espressa la sentenza definitiva: i magistrati custodiscano le accuse sigillate da entrambi e le presentino al processo per falsa testimonianza.
Se uno è condannato due volte per falsa testimonianza, nessuna legge lo obblighi a testimoniare ancora; se tre volte, non gli sia data facoltà di testimoniare: se uno poi ha il coraggio di testimoniare dopo che è stato condannato per la terza volta, chiunque voglia lo accusi dinanzi al magistrato, e il magistrato lo consegni al tribunale, e se viene ritenuto colpevole, lo si condanni a morte.
Quanto alle testimonianze che sono state condannate nel processo, poiché sono risultate essere false testimonianze e hanno procurato la vittoria a colui che ha vinto la causa, nel caso in cui siano state condannate più della metà di tali testimonianze, la causa, perduta sulla base di queste testimonianze, sia nuovamente giudicata, e si discuta e si valuti se quella causa è stata giudicata sulla base di quelle testimonianze o no, e comunque si decida, la nuova decisione ponga fine ai precedenti processi.
Vi sono molti aspetti belli nella vita degli uomini, ma nella maggior parte di essi nascono e si sviluppano come delle sciagure che li contaminano e li insozzano: e anche a proposito della giustizia fra gli uomini, come non dire che essa non è un bene, dal momento che ha civilizzato ogni questione umana? Essendo dunque bella questa giustizia, come non dovrebbe essere bella per noi anche l'avvocatura? Stando queste cose in questi termini, un vizio le rende odiose, anche se gli è stato posto il bel nome di arte.
In primo luogo si dice che vi sia un espediente da usare nei processi - ed è il medesimo sia che si intenti una causa, sia che uno difenda un altro - per vincere la causa, sia che le procedure di ciascun processo siano giuste, sia che non lo siano: e si dice inoltre che il dono della stessa arte e dei discorsi che nascono dall'arte venga fornito, se qualcuno in cambio offre delle ricchezze.
La cosa migliore sarebbe che questo espediente, si tratti di un'arte o di un esercizio affinato dall'esperienza e privo di arte, non si generasse affatto nel nostro stato; e il legislatore deve cercare di convincere l'avvocato a non pronunciare parole contrarie alla giustizia, o di andarsene in un'altra regione.
E se la legge tace per chi obbedisce, questa sia la sua voce per chi non obbedisce: se risulta che qualcuno cerca di volgere la potenza della giustizia che alberga nelle anime dei giudici in direzione contraria, o cerca di intentare molte azioni giudiziarie, o anche di intervenire in esse in qualità di avvocato in modo inopportuno, sia denunciato da parte di chi vuole di intentare malvagie azioni giudiziarie o di difendere in modo malvagio, e sia giudicato nel tribunale composto da giudici scelti.
Se viene ritenuto colpevole, il tribunale valuti se egli compie tali gesti per avidità di ricchezza o per ambizione: e se è per ambizione, il tribunale decida per quanto tempo una persona del genere non potrà più intentare cause né difendere; se è per ricchezza, lo straniero se ne vada dalla regione e non ritorni mai più, se non vuole essere condannato a morte, mentre il cittadino sia condannato a morte a causa di questa brama di danaro considerata da quello al di sopra di ogni cosa.
Se qualcuno per ambizione si è comportato così per due volte, sia condannato a morte.
Eugenio Caruso ... 25 - 01-2020