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Platone le LEGGI. Legislazioni e costituzioni


Dopo aver commentato di PLATONE il Timeo, il Simposio, lo Ione, il Critone, l'Apologia di Socrate, il Fedone, l'Eutifrone, il Carmide, il Lachete, il Liside, l'Alcibiade Maggiore, l'Alcibiade minore, l'Ipparco, gli Amanti, il Teage, l'Eutidemo, il Protagora, il Gorgia, il Cratilo, il Menone, l'Ippia Maggiore, l'Ippia minore, il Menesseno, il Clitofonte, il primo libro della Repubblica, il Crizia, il Teeteto, il Sofista, il Politico, il Parmenide, il Filebo, il Fedro, il Minosse, mi dedico ora a Le leggi.

Il grammatico Trasillo, nel I secolo d.C., seguendo un'affinità di argomento, ordinò le opere platoniche in gruppi di quattro:

1. Eutifrone, Apologia di Socrate, Critone, Fedone
2. Cratilo, Teeteto, Sofista, Politico
3. Parmenide, Filebo, Simposio, Fedro
4. Alcibiade primo, Alcibiade secondo, Ipparco, Amanti
5. Teage, Carmide, Lachete, Liside
6. Eutidemo, Protagora, Gorgia, Menone
7. I ppia maggiore, Ippia minore, Ione, Menesseno
8. Clitofonte, La Repubblica, Timeo, Crizia
9. Minosse, Leggi, Epinomide, Lettere
Altre opere spurie sono:
Definizioni, Sulla giustizia, Sulla virtù, Demodoco, Sisifo, Erissia, Assioco, Alcione, Epigrammi.

PREMESSA A LE LEGGI

Le Leggi furono scritte alcuni anni prima che la morte cogliesse il grande filosofo ateniese e costituiscono la fase finale della sua lunga riflessione politica sullo stato. E' impossibile riassumere il dibattito che la critica, sin dall'antichita, ha sviluppato intorno al problema della cronologia e dell'autenticità dell'opera, sicché in questa sede ci limiteremo ad alcune considerazioni di carattere generale.
Innanzitutto la data del 353 a.C., anno in cui avvenne verosimilmente la vittoria dei Siracusani sui Locresi ricordata nel libro 1, appare come il termine di riferimento cronologico più sicuro per datare la composizione del dialogo. In secondo luogo, un'attenta analisi dell'opera ha messo in luce alcune imperfezioni stilistiche (frequenti ripetizioni e omissioni, ad esempio) che hanno fatto pensare a un'opera non pienamente compiuta, ma forse ancora in fase di elaborazione e in attesa di revisione.
Si può allora concludere che dopo la morte del filosofo, avvenuta presumibilmente nel 348 a.C. - e quindi qualche anno dopo la composizione delle Leggi -, spettò al segretario del maestro, Filippo di Opunte, provvedere a una sistemazione, peraltro sommaria, dell'opera, nonché all'attuale divisione in dodici libri.
Le Leggi dunque, come si è appena detto, rappresentano la fase finale del pensiero politico di Platone ma è stato anche osservato che, prima ancora che indagine filosofica pura, possono essere quasi considerate come una specie di trattato storico sulla legislazione ateniese, spartana, e cretese del tempo.
Ed è forse proprio in questa storicità delle Leggi che si scorge un elemento di rottura rispetto ai dialoghi precedenti che avevano affrontato il problema, dello stato e delle costituzioni: nella Repubblica, ad esempio, si dovevano creare le fondamenta di uno stato che sarebbe peraltro esistito soltanto su di un piano ideale, razionale (dove la ricerca della Giustizia e le speculazioni sul Sommo Bene coincidevano con le fondamenta dello stato ideale), mentre l'intento delle Leggi è quello di tradurre nella realtà storica, mediante l'attività del legislatore e il suo sforzo normativo, lo stato ideale delineato in precedenza.
Si spiegano così l'analisi e la critica nei confronti delle legislazioni e delle costituzioni spartane e cretesi, le riflessioni storico-politiche sui fallimenti dell'impero persiano (determinato da un eccesso di dispotismo) e su quelli dello stato ateniese (determinati da un eccesso di libertà), il confronto, rigoroso e serrato, con il diritto positivo dell'epoca. Platone dichiara apertamente l'intento "pratico" del dialogo al termine del libro terzo, ricorrendo a un semplice espediente: Clinia, uno dei personaggi del dialogo, è stato incaricato dalla città di Cnosso di emanare quelle leggi che ritiene migliori per una colonia che i Cretesi hanno intenzione di fondare, ragion per cui rivolge un appello ai suoi due interlocutori, ovvero quello di fondare "con la parola", il nuovo stato. In altri termini, la riflessione puramente teorica sulle leggi dovrà ogni volta adattarsi alle esigenze pratiche della nuova colonia cretese.
I primi tre libri costituiscono dunque una lunga introduzione al vero e proprio trattato sulle leggi: il libro 1 si apre con la splendida descrizione della campagna cretese nelle prime ore del mattino di una calda giornata estiva. Tre vecchi prendono parte al dialogo: l'Ateniese, identificato sin dall'antichità con Platone stesso, il cretese Clinia e lo spartano Megillo.
L'Ateniese propone ai suoi compagni di discutere di costituzioni e di leggi lungo la strada che da Cnosso conduce all'antro di Zeus: essi incontreranno molti ed alti alberi che con la loro frescura permetteranno loro di sfuggire alla canicola estiva.
La discussione entra subito nel vivo: il cretese Clinia, dopo aver constatato che a Creta le consuetudini (l'uso dei pasti in comune, ad esempio) e la legislazione si ispirano alla guerra, a causa della conformazione geografica del luogo che è aspra ed accidentata, sostiene che il legislatore dovrebbe legiferare soltanto in vista della guerra, dal momento che la condizione umana si trova in uno stato di guerra permanente.
Ma l'Ateniese non è d'accordo con le posizioni del cretese: la guerra rappresenta senz'altro un evento necessario nel complesso delle relazioni umane, ma non costituisce certamente la norma, e dunque il legislatore non deve legiferare solo in vista della guerra, ma anche in vista della pace, realizzando le virtù della giustizia, della saggezza, e dell'intelligenza. Di qui sorge la critica verso l'eccessiva severità delle legislazioni spartane e cretesi: esse non sono solo carenti perché legiferano unicamente in vista del coraggio che si manifesta in guerra, ma si caratterizzano anche per la loro eccessiva severità di costumi.
L'Ateniese dimostra ad esempio che il divieto di bere vino imposto dalla legislazione spartana non ha un fondamento logico: se la consuetudine del bere vino viene regolata all'interno dei simposi, così come accade ad Atene, essa non è affatto da respingere, ma, anzi, si rivela utile ai fini dell'educazione, in quanto, rendendo temporaneamente impudenti, contribuisce in seguito a contrastare l'impudenza stessa e ad acquistare di conseguenza la virtù del pudore.
Il libro 2 affronta il tema dell'educazione che verrà ripreso nel 7. L'educazione si raggiunge attraverso i cori, le danze, e la musica che ad essi è connessa. A questo proposito l'Ateniese avverte che le belle danze, i bei cori, e l'arte in genere non possono essere sottoposti al giudizio dei poeti perché fondano la loro arte sulla mimesi, e quindi il loro giudizio non sarebbe attendibile: l'arte infatti non dev'essere giudicata soltanto in base al piacere che essa procura, ma anche in base ai fini educativi che è in grado di realizzare. Tenendo conto di questi princìpi, il legislatore ordinerà tre tipi di cori, ovvero quello dei fanciulli, quello dei giovani sino ai trent'anni, ed infine quello degli uomini fra i trenta e i sessant'anni. Il terzo coro è quello dei cantori che cantano in onore di Dioniso: seguono così alcune pagine in cui Platone si abbandona ad una appassionata difesa del dionisismo, affermando che i cori di Dioniso, se sono guidati da persone sobrie, si rivelano vantaggiosi per l'educazione e per lo stato in generale.
Nel libro 3 si affronta la questione riguardante l'origine dello stato in una chiave che potremo definire storica: Platone ripercorre la storia del genere umano tornando ai suoi albori, quando un diluvio universale ciclicamente annientava uomini e cose. Ogni volta si salvavano soltanto quegli uomini che abitavano i luoghi più alti, i quali però, come in una sorta di età dell'oro, non avevano bisogno né di leggi né di legislatori, perché vivevano nella concordia reciproca.
In un secondo momento le famiglie scesero nelle pianure e presero a radunarsi: si innalzarono mura di siepi per delimitare e separare una proprietà dall'altra e vennero fondati i primi organismi politici. Seguì la fase delle costituzioni delle città che coincise con la fondazione e la distruzione di Troia. Dopo di che si apre una prima parentesi sull'analisi dei fallimenti delle esperienze politiche di Argo e di Micene: l'ignoranza degli affari umani e l'assenza di un potere moderato hanno causato la rovina di quegli stati.
Nel corso della seconda digressione storica si prendono invece in esame i mali della costituzione persiana e di quella ateniese: quando i Persiani raggiunsero, sotto Ciro, il giusto mezzo fra servitù e libertà, lo stato prosperava e dominava sugli altri popoli, ma in seguito una malvagia educazione, unita all'accentuato dispotismo di sovrani come Cambise, segnò il definitivo declino della potenza persiana; quanto alla costituzione ateniese, i poeti ingenerarono con le loro opere una temeraria trasgressione nel campo artistico che ben presto si estese ad ogni altro aspetto dello stato determinando la nascita dell'illegalità e della licenza. Conclusa dunque la lunga introduzione delle Leggi, si gettano le basi della costituzione del nuovo stato che verrà discussa dal libro 4 all'8.
Il libro 4 si apre con l'elenco dei requisiti che la geografia del nuovo stato deve possedere: oltre alla capitale situata nell'interno, esso deve avere abbondanza di porti, benché convenga in ogni caso limitare il più possibile i rapporti commerciali con gli altri stati, dato che il commercio rende infidi i cittadini e la gran quantità d'oro e d'argento corrompe i loro animi. Per quanto riguarda la scelta della costituzione, le varie forme di costituzioni storicamente esistenti (democrazia, oligarchia, aristocrazia, monarchia) presentano aspetti positivi e negativi che difficilmente si combinano in una costituzione ideale. Ci si deve dunque appellare alla divinità che indicherà i criteri di giustizia che si devono seguire nella realizzazione dello stato e delle leggi. Le ultime pagine del libro 4 sono infine dedicate all'esposizione del metodo con cui verranno redatte le leggi: in primo luogo esse non devono apparire soltanto minacciose, ma anche persuasive, e in secondo luogo occorre fornire ogni legge di un proemio che introduce alla legge vera e propria.
All'inizio del libro 5 troviamo ancora un proemio dal carattere squisitamente etico: dopo gli dèi si deve onorare l'anima, e dopo l'anima il corpo. L'uomo virtuoso deve conformarsi alla temperanza, all'intelligenza, e al coraggio, e deve combattere contro gli egoismi e gli eccessi delle gioie e dei dolori. Si entra quindi nel vivo della costituzione del nuovo stato: si fissano le norme relative alla distribuzione delle terre e il numero dei 5.040 cittadini che parteciperanno di diritto a questa distribuzione. I cittadini vengono divisi in quattro classi censuarie e tutta la popolazione dello stato viene ripartita in dodici tribù.
La materia trattata nel libro 6 è meramente tecnica e riguarda la nomina e l'istituzione dei magistrati. Innanzitutto vengono istituiti i custodi delle leggi che rivestono un'importanza fondamentale all'interno del nuovo stato. Quindi si procede all'elezione degli strateghi, dei tassiarchi, dei filarchi, e dei pritani. Seguono le magistrature degli astinomi (per gli affari interni alla città), degli agoranomi (per quel che accade sull'agorà), dei sacerdoti, ed infine degli agronomi (per la custodia e la sorveglianza delle campagne). Assai importanti sono i due ministri dell'educazione, uno per la musica ed un altro per la ginnastica.
Ed è proprio il libro 7 che riprende e sviluppa il tema dell'educazione di cui s'era fatto un rapido cenno nel libro 2: si affrontano i problemi relativi alla prima infanzia, e quindi quelli dei bambini dai tre ai sei anni. Dodici donne, una per tribù, si occuperanno dell'educazione. Ma l'educazione si ottiene anche grazie alla ginnastica per il corpo e alla musica per l'anima. La questione si sposta quindi sul problema dell'istruzione e della scuola: essa dev'essere obbligatoria tanto per le donne quanto per gli uomini, e a scuola si devono studiare le lettere e i componimenti dei poeti. Fra le altre discipline che si devono apprendere vi sono la matematica, la geometria, e l'astronomia.
Con il libro 8 ci avviamo ormai verso la parte finale delle Leggi. Gettate le fondamenta del nuovo stato bisogna ora dotarlo di un vero e proprio codice di leggi che siano in grado di rispondere alle esigenze più diverse che sorgono in uno stato. Si stabiliscono innanzitutto le festività del nuovo stato, e le varie esercitazioni che si devono compiere in tempo di pace e di guerra. Vi sono poi alcune pagine interessanti sulle norme che regolano i costumi sessuali dei cittadini in cui Platone condanna esplicitamente l'omosessualità, pratica assai diffusa nel suo tempo, e fissa una legge che regola i rapporti eterosessuali e l'astinenza. L'ultima parte del libro 8 passa in rassegna i problemi legati all'agricoltura e alle attività degli artigiani.
Nel libro 9, dopo l'esame dei casi di spoliazione dei beni, si apre un'interessante digressione sull'origine del male che si genera all'interno di una società umana: viene ribadito in questo caso il vecchio principio socratico secondo il quale nessuno compie il male volontariamente, ma per ignoranza del bene. Ed è proprio l'ignoranza del bene, insieme all'ira e al piacere, che determina i crimini peggiori in uno stato. Si passano allora in rassegna le varie specie di omicidi - essi possono essere commessi volontariamente ed involontariamente, e i moventi possono essere l'ira, o la passione, o ancora la legittima difesa -, e analogamente i casi di ferimenti e di violenze.
Il libro 10 è una lunga riflessione filosofica sull'ateismo che interrompe la dettagliata esposizione del codice di leggi: Platone condanna fermamente l'ateismo e confuta le tesi di chi sostiene che gli dèi non esistono, o esistono ma non si prendono cura degli affari umani, o, ancora, crede che essi si possano corrompere con doni votivi. A questo proposito non soltanto si può adeguatamente dimostrare l'esistenza degli dèi attraverso l'esistenza dell'anima, ma si può anche affermare l'esistenza della provvidenza divina. Seguono le pene relative ai reati commessi per empietà e per ateismo.
Nel libro 11 riprende l'esposizione delle leggi, in gran parte dedicata alle norme relative ai contratti che i cittadini stipulano fra loro. La materia è assai vasta e complessa e spazia dalla normativa riguardante gli schiavi e i liberti a quella che regola il commercio degli artigiani, dalla spinosa questione dei testamenti al divorzio dei coniugi, per citare soltanto i casi più significativi.
L'esposizione del codice delle leggi prosegue ancora in tutta la prima parte del libro 12, e fra queste leggi possiamo ricordare, a titolo di esempio, la diserzione dei soldati, l'istituzione dei magistrati inquisitori, le leggi sul giuramento, le normative sulle mallevadorie. Il dialogo giunge così alle sue battute finali. Nelle ultime pagine Platone, per bocca dell'Ateniese, avverte l'esigenza di ribadire il fine cui mira tutto il corpo delle leggi oggetto della lunga esposizione, vale a dire quello di realizzare il complesso delle virtù nello stato. Un'intelligenza superiore a tutte le altre istituzioni dello stato dovrà quindi essere in grado di cogliere la ragion d'essere di ogni legge, e come la testa è a capo del corpo, così un consiglio n otturno, supremo organo politico composto dai dieci più anziani custodi delle leggi - custodi-filosofi, dunque, che hanno appreso l'arte della politica attraverso la dialettica - dovrà sorvegliare e presiedere le leggi e la costituzione del nuovo stato.
ENRICO PEGONE

LIBRO DODICESIMO
ATENIESE: Se uno, fingendosi ambasciatore o araldo dello stato, compie una falsa ambasceria presso uno stato, o se, inviato come ambasciatore, non riferisce la vera ambasciata per cui è stato inviato, o se risulta con evidenza che non riporta correttamente le ambascerie e i messaggi provenienti da nemici o anche da amici, sia accusato, insieme a tutti quelli come lui, di profanare empiamente contro la legge i messaggi e gli ordini di Ermes e di Zeus, e si valuti quale pena deve subire o quale multa deve pagare, se risulta colpevole. Il furto di beni è un atto illiberale, e compiere rapine è cosa vergognosa: nessuno dei figli di Zeus, si è mai compiaciuto né degli inganni né della violenza, né sì è mai occupato dì nessuna di queste due attività. Nessuno dunque, ingannato da poeti o altrimenti da cattivi narratori di miti, presti loro fede, né creda, rubando o facendo violenze, di non fare nulla di turpe, ma semplicemente ciò che fanno gli stessi dèi: questo infatti non è né vero, né verosimile, ma chi compie un simile gesto andando contro la legge, non è né un dio, né un figlio degli dèi. Spetta al legislatore, più che a tutti gli altri poeti, conoscere queste cose. Chi dunque obbedisce al nostro discorso, è felice, e lo sarà per tutto il tempo futuro, ma chi disobbedisce, dopo queste cose, combatta con la seguente legge: se uno ruba un qualche grande o piccolo bene, sia sottoposto alla medesima pena. Chi ruba una piccola quantità ha infatti rubato spinto dalla stessa brama, ma con una minore capacità, e chi rimuove una quantità maggiore che non ha deposto, compie interamente ingiustizia: la legge, allora, non ritiene giusto punire nessuno dei due ladri con una pena minore o maggiore in base all'entità del furto compiuto, ma in base al fatto che ci sia o meno la possibilità di guarire. Se dunque uno accusa in tribunale uno straniero o uno schiavo di aver rubato un qualche bene appartenente allo stato, come se si trattasse di una persona verosimilmente curabile, si valuti la pena che deve subire e la multa che deve pagare: ma il cittadino educato come sarà educato, se è condannato per aver commesso rapine ai danni della patria con la violenza, colto o no in flagrante, essendo considerato alla stregua di una persona incurabile, sia condannato a morte. Per quanto riguarda la disciplina degli eserciti, si danno molti consigli, molte leggi, in modo conveniente, ma il monito più importante è che nessuno sia senza una guida, né maschio, né femmina, né l'anima di alcuno prenda l'abitudine, sul serio o per scherzo, di agire da sola o di propria iniziativa, ma in guerra e durante tutto il periodo di pace si viva con lo sguardo sempre rivolto al comandante e ci si conformi ad esso, e ci si lasci guidare da lui anche nelle cose meno importanti, come ad esempio quando ordina di fermarsi, di marciare, di esercitarsi, di lavarsi, di mangiare, di svegliarsi di notte per montar di guardia e per portare messaggi; e nei momenti stessi di pericolo non si insegua nessuno, né si indietreggi davanti ad un altro, senza l'indicazione dei comandanti; in una sola parola si insegni all'anima con le varie abitudini a non conoscere e a non sapere affatto che cosa significhi l'agire separatamente dagli altri, ma la vita di tutti sia sempre insieme e il più possibile in comune con tutti: di questa cosa, infatti, non c'è e non ci sarà mai nulla di superiore, né di migliore, né di più ingegnoso in vista della salvezza e della vittoria in guerra. Bisogna immediatamente, sin da ragazzi, esercitarsi a fare questo in tempo di pace, e cioè a comandare gli altri e ad essere comandati dagli altri: bisogna inoltre sradicare completamente dalla vita di tutti gli uomini e dalle fiere sottoposte agli uomini l'anarchia. E si danzino tutte le danze corali che abbiano come scopo la nobiltà della guerra, e per gli stessi fini si pratichino quegli esercizi che sono caratterizzati da agilità e destrezza, e gli esercizi che insegnano a sopportare la fame e la sete, il freddo e il caldo, e il duro giaciglio, e, cosa più importante, non si deve annientare il potere della testa e dei piedi avvolgendoli con ripari estranei e bloccando la generazione e la formazione di quei calzari che sono i nostri peli: poiché queste sono le nostre estremità, se sono ben conservate, conservano la massima potenza di tutto il corpo, e in caso contrario, agiscono al contrario; e mentre i piedi sono i servitori più importanti di tutto il corpo, la testa svolge un ruolo di grandissima rilevanza nel comandarlo, controllando per natura tutti i suoi sensi dirigenti. è opportuno che il giovane ascolti questo elogio della vita guerresca, mentre le leggi siano le seguenti: presti servizio militare chiunque sia stato arruolato o abbia ricevuto l'ordine di svolgere una particolare missione. Chi per una qualche viltà si allontana senza il permesso degli strateghi, sia accusato di diserzione dinanzi ai magistrati militari non appena ritorna dalla campagna militare, e lo giudichi singolarmente ogni soldato che ha preso parte alla campagna, opliti, cavalieri, e ogni altro corpo militare, allo stesso modo, e quindi gli opliti saranno condotti dinanzi agli opliti, i cavalieri dinanzi ai cavalieri, e allo stesso modo gli altri dinanzi ai loro compagni: se uno viene riconosciuto colpevole, sia escluso dalla gara per conseguire la virtù militare nel suo complesso, e non possa più accusare un altro di diserzione, né possa essere l'accusatore in tali cause, ed inoltre il tribunale valuti la pena che deve subire o la multa che deve pagare. Dopo queste cose, terminati i processi per diserzione, i comandanti di ogni corpo dovranno stabilire una nuova riunione, e chi vuole potrà giudicare quali sono le azioni che meritano un premio senza presentare nulla che abbia a che fare con la guerra precedente, e senza fornire alcuna prova né garanzia attraverso i discorsi dei testimoni, ma solo ciò che riguarda quella campagna militare che allora essi hanno svolto. Il premio della vittoria sia costituito da una corona di ulivo per ciascuno: e il vincitore la appenda nei templi degli dèi della guerra, di quel dio che egli preferisce, e vi aggiunga un'iscrizione che testimonierà per tutta la vita che gli è stato aggiudicato il primo premio, e così per il secondo e per il terzo. Se un tale parteciperà ad una campagna militare, ma torna a casa prima del tempo, senza che glielo abbiano ordinato i comandanti, sia accusato di abbandono del proprio posto da quegli stessi giudici che giudicano la diserzione, e ai colpevoli siano inflitte le stesse pene stabilite in precedenza per i disertori. Bisogna che ogni uomo, quando intenta una causa contro un altro uomo, abbia timore di infliggere, nei limiti del possibile, un'ingiusta punizione, volontariamente o meno - si dice, ed è realmente vero che la Giustizia è figlia del Pudore, e la menzogna per natura è odiosa al pudore e alla giustizia -; e dunque, se in tutti gli altri casi bisogna fare attenzione a non sbagliarsi contro la giustizia, bisogna prestare particolare attenzione anche per quanto riguarda la perdita delle armi, perché qualcuno, sbagliandosi a proposito di quei casi in cui inevitabilmente si perdono le armi, e considerandoli vergognosi come se fossero realmente turpi, non intenti una causa indegna contro chi non la merita. Non è affatto facile distinguere l'uno e l'altro caso, ma tuttavia bisogna che la legge cerchi di distinguerli suddividendoli in parti. Servendoci del mito, possiamo dire che se Patroclo, portato alla sua tenda, fosse tornato a respirare, come accadde a molti altri, senza quelle armi che, come dice il poeta, furono consegnate a Peleo come dono nuziale degli dèi a Teti, armi di cui Ettore si era impadronito, i malvagi di allora avrebbero potuto rimproverare il figlio di Menezio per la perdita delle armi. E, inoltre, vi sono quelli che persero le armi precipitando da rive scoscese, o per mare, o nei travagli delle tempeste, o sorpresi e travolti all'improvviso da una violenta corrente d'acqua, o in altre innumerevoli circostanze che si potrebbero cantare per consolazione, se si vuole abbellire un male che è facilmente esposto alla calunnia: bisognerebbe distinguere, nei limiti del possibile, ciò che costituisce un male più grave e più penoso dal suo contrario. Credo che proprio l'imposizione dei nomi che si danno a queste cose, nelle espressioni oltraggiose, comporti una certa distinzione: con l'espressione “gettare via lo scudo”, infatti, non si possono definire tutti quei casi in cui avviene la perdita delle armi. Non è certamente simile il caso di chi getta le armi in quanto ne è stato privato con verosimile violenza e quello di chi le ha deposte volontariamente, ma anzi vi è una totale differenza. E questa sia la legge: se un soldato, sorpreso dai nemici, ed essendo armato, non si rivolta contro e non si difende, ma volontariamente le depone o le getta, preferendo vivere vergognosamente in compagnia del vizio piuttosto che affrontare una nobile e felice morte insieme al coraggio, sia intentata a suo carico un'azione giudiziaria per aver gettato le armi, avendole perse in tal modo, ma il giudice non trascuri di valutare i casi che abbiamo prima esposto. Bisogna sempre punire il malvagio, perché diventi migliore, non lo sventurato: non si può ottenere nulla di più contro la sventura. Ma qual è la punizione che si adatta a chi getta via una potenza simile delle armi da difesa trasformandola nell'opposto? Non è infatti possibile all'uomo fare l'opposto di quanto dicono che un giorno abbia fatto il dio, il quale trasformò Ceneo il Tessalo dalla natura di donna a quella di uomo: per un uomo che ha gettato via le armi, la generazione contraria a quella ricordata, vale a dire la trasformazione della natura di uomo in quella di donna, sarebbe la punizione più conveniente di tutte. Ora, accostandoci maggiormente a ciò, in virtù dell'attaccamento alla vita, perché uno viva senza correre rischi per la vita che gli rimane da vivere, e viva la maggior parte del suo tempo nella malvagità e oppresso dalla vergogna, per individui come questi vi sia questa legge: l'uomo che nel processo viene riconosciuto colpevole di aver gettato le armi da guerra in modo vergognoso, di costui nessuno stratega, né nessun altro di quelli che comandano in guerra si serva come di un soldato, e non lo collochino in nessuna schiera. In caso contrario l'investigatore gliene chieda conto, e se chi ha collocato il malvagio nelle schiere appartiene alla prima classe lo punisca con una multa di mille dracme, se è della seconda di cinque mine, se è della terza di tre mine, se è della quarta di una mina. Chi viene riconosciuto colpevole, oltre ad essere escluso, per la sua natura, dai rischi che corrono gli individui coraggiosi, sia condannato a pagare una multa di mille dracme se appartiene alla prima classe, di cinque se è della seconda, di tre se è della terza, di una mina, come nei casi precedenti, se è della quarta. Quale sarà dunque il criterio adatto che noi potremmo adottare per la nomina degli inquisitori, se vi sono magistrati che vengono estratti a sorte e durano in carica un anno, mentre altri durano in carica per un numero maggiore di anni e sono eletti da una rosa di magistrati prescelti? E chi sarà in grado di fare l'inquisitore di tali magistrati, valutando chi di essi ha parlato e che cosa ha detto di contorto, piegato dal peso della sua carica, o per una mancanza di capacità personale che sia adeguata alla sua stessa carica? Non è affatto facile trovare quel magistrato che superi tutti gli altri in virtù, e tuttavia bisogna cercare di trovare alcuni censori che siano divini. Le cose stanno appunto così. Vi sono molte occasioni per cui una costituzione si può dissolvere, come gli elementi che vi sono in una nave o in un qualche animale che, pur avendo una sola natura, sono disseminati dappertutto e chiamiamo con molti termini, come “corde”, “fasciature”, “nervi” e “tendini”: e la mansione degli inquisitori costituisce una fra le più importanti occasioni di salvezza o di dissolvimento della costituzione. Se coloro che chiedono conto del loro operato ai magistrati sono migliori di quelli e svolgono questo compito secondo una giustizia irreprensibile e in modo irreprensibile, tutta quanta la regione e lo stato prosperano e sono felici: se invece l'inquisizione dei magistrati segue procedure diverse, allora vien meno il legame della giustizia che unisce insieme tutte le strutture dello stato, e in questo modo ogni magistratura viene separata e strappata dall'altra, e non essendo più rivolte allo stesso fine, dividono lo stato in molte unità, da uno che era, e riempiendolo di discordie, in breve tempo lo distruggono. Perciò bisogna assolutamente che gli inquisitori siano davvero straordinari, per quanto riguarda il complesso della virtù. Escogitiamo allora in qualche modo una loro genesi. Ogni anno, dopo che il sole volge dalla stagione estiva a quella invernale, tutto lo stato deve riunirsi nel recinto sacro e comune al Sole e ad Apollo, e indicare al dio tre suoi uomini i quali mostreranno quello che ciascuno di essi ritiene in assoluto il migliore, escluso se stesso, e che non abbia meno di cinquant'anni. Fra i prescelti si dia la preferenza a quelli che hanno ottenuto la maggioranza dei voti sino alla metà, se sono pari, e se sono dispari, si escluda quello che ha ottenuto meno voti; si lasci da parte la metà di quelli che ha riportato meno voti, e se alcuni hanno numero pari di voti, e fanno in modo che il numero superi la metà, si elimini il di più escludendo il più giovane, e approvando gli altri, si facciano nuove votazioni finché ne restino tre con numero disuguale di voti. Se tutti e tre o due di essi avranno un pari numero di voti, ci si affidi alla buona fortuna e alla sorte, e con la sorte sia sorteggiato il vincitore, e il secondo e il terzo saranno incoronati con una corona d'ulivo: dopo aver assegnato ad essi i premi della vittoria, a tutti si proclamerà che lo stato dei Magneti, salvato nuovamente dagli dèi, ha presentato al Sole i suoi tre uomini migliori, e li consacra, come prevede l'antica legge, come primizie in comune ad Apollo e al Sole per tutto quel tempo in cui essi si conformeranno a questa scelta. Il primo anno si devono nominare dodici inquisitori che resteranno in carica sino a settantacinque anni, per il futuro, se ne aggiungano sempre tre ogni anno: questi, dopo aver diviso tutte le magistrature in dodici parti, mettano alla prova i magistrati, ricorrendo a tutte quelle forme di investigazione che si addicono agli uomini liberi. Essi abitino, per tutto il periodo di tempo in cui esercitano la loro carica di inquisitori, nel recinto sacro ad Apollo e al Sole in cui è avvenuta la loro elezione: giudicando i magistrati usciti di carica, sia ciascuno singolarmente, sia in comune insieme agli altri, rendano pubblico il giudizio, esponendo il decreto scritto sulla piazza in cui si dirà, per ogni magistratura, quale pena deve subire o quale multa deve pagare, secondo appunto la sentenza degli inquisitori. E se uno dei magistrati non riconosce di essere stato giudicato secondo giustizia, conduca gli inquisitori dinanzi ai magistrati scelti per merito, e se uno viene assolto relativamente alle inquisizioni, accusi gli inquisitori stessi, se lo vuole: se invece è condannato, se sia già stato condannato a morte dagli stessi inquisitori, come è necessario, deve semplicemente morire, ma per tutte le altre pene che si possono scontare raddoppiate, le sconti raddoppiate. Bisogna ora stare ad ascoltare quali saranno e in che modo avverranno i rendiconti degli inquisitori. A costoro, i quali sono stati giudicati da tutto lo stato degni dei primi premi, quando sono in vita sono riservati i primi posti in tutte le solenni adunanze, e inoltre nei sacrifici comuni a tutti i Greci, nelle sacre ambascerie, e in tutti gli altri riti sacri cui prendono parte; fra loro vengano scelti quelli che saranno inviati come capi in ogni sacra ambasceria, ed essi soli fra tutti coloro che abitano nello stato siano adornati con una corona d'alloro. Tutti saranno sacerdoti di Apollo e del Sole, e ogni anno sarà primo sacerdote quello che sia giudicato primo fra i sacerdoti che vi sono in quell'anno, e ogni anno il suo nome venga registrato, perché diventi misura del tempo, finché lo stato continuerà a vivere. Quando moriranno, l'esposizione della salma, il funerale, e le tombe saranno superiori agli altri cittadini. Avranno tutti una bianca veste, e non vi saranno pianti e lamentazioni; un coro di quindici ragazze e un altro di quindici ragazzi, intorno al letto, gli uni da un lato, gli altri dall'altro, canteranno a turno un elogio composto come un inno in onore dei sacerdoti, proclamando la sua felicità per tutto il giorno con il loro canto. All'alba, il giorno seguente, cento giovani dei ginnasi scelti dai parenti del morto porteranno il feretro alla tomba: per primi procederanno i celibi, rivestiti ciascuno con l'armatura di guerra, i cavalieri con i cavalli, gli opliti con le armi, e allo stesso modo tutti gli altri; e i bambini davanti al feretro innalzeranno il canto della patria, mentre dietro al feretro seguiranno le fanciulle e le donne che hanno superato l'età dell'avere figli, quindi i sacerdoti e le sacerdotesse, che seguiranno questo funerale in quanto purificatore, anche se sono esclusi da tutte le altre sepolture, purché la Pizia sia d'accordo in questo senso. La loro tomba sia costruita sotto terra, a volta oblunga, di pietre porose e resistenti il più possibile al tempo, e con nicchie di pietra collocate l'una vicino all'altra, in cui verrà posto il beato defunto. Quindi si costruisca un terrapieno di forma circolare, e tutt'intorno si pianti un bosco sacro, fatta eccezione per un lato, perché la tomba abbia modo di ingrandirsi verso quella parte per tutto il tempo futuro, e, mancando il terrapieno, possa accogliere coloro che saranno sepolti: saranno stabiliti ogni anno agoni musicali, ginnici, ed equestri. E questi siano i privilegi che verranno tributati a chi ha superato indenne l'inquisizione: ma se uno di loro, fidandosi dell'avvenuta elezione, mostra la sua natura umana e diviene malvagio dopo l'elezione, la legge comanderà a chi vuole di accusarlo, e quello, condotto in tribunale, sia giudicato in questo modo. Appartengano prima di tutto a questo tribunale i custodi delle leggi, poi gli stessi inquisitori in vita, ed inoltre il tribunale dei giudici scelti per merito; l'accusatore sostenga nel suo atto di accusa che il tale o il tal altro è indegno del premio della virtù e della carica: se l'imputato viene condannato, sia privato della magistratura, della tomba, e di tutti gli altri onori che gli vengono tributati, ma se l'accusatore non ottiene la quinta parte dei voti, paghi dodici mine se appartiene alla prima classe, otto se è della seconda, sei se è della terza, due se è della quarta. Degno di ammirazione è il modo con cui si dice che Radamanto giudicasse le cause, perché egli aveva osservato che gli uomini di allora credevano chiaramente all'esistenza degli dèi, ed è cosa verosimile, dato che in quel tempo molti erano figli degli dèi, ed uno di questi era Radamanto stesso, come narra la tradizione. A quanto pare, egli pensava di non doversi rivolgere a nessun giudice umano, ma direttamente agli dèi, ed è per questo che le decisioni delle cause erano semplici e rapide: dando infatti la possibilità alle parti in causa di giurare su ogni punto della controversia, le lasciava andare rapidamente e in modo sicuro. Ma ora che, come abbiamo detto, una parte degli uomini non crede affatto all'esistenza degli dèi, mentre altri pensano che essi non si occupino di noi, e, secondo l'opinione della maggior parte delle persone e senz'altro di quelle più malvagie, gli dèi, accettando piccoli sacrifici e qualche adulazione, li aiutano a rubare un gran numero di ricchezze, e li liberano in molti casi da gravi punizioni, l'arte di Radamanto non si adatterebbe più nei processi agli uomini contemporanei. Mutate negli uomini le opinioni riguardanti gli dèi, bisogna mutare anche le leggi: bisogna che le leggi stabilite con intelligenza, eliminino, negli atti d'accusa, i giuramenti che le due parti in causa prestavano, e chi intenta causa contro qualcuno dovrà deporre la sua accusa scritta, senza prestare giuramento, e allo stesso modo l'accusato, presenti per iscritto il suo diniego, senza prestare giuramento. Sarebbe terribile sapere con certezza che, essendo molti i processi che vengono celebrati nello stato, quasi la metà dei cittadini ha spergiurato, riunendosi insieme l'un con l'altro senza problemi nei pasti in comune, e nelle altre adunanze e nelle riunioni private di ciascuna categoria. Sia stabilita la legge per cui il giudice che è in procinto di giudicare presti giuramento, e così sempre presti giuramento chi istituisce le pubbliche magistrature, sia attraverso giuramenti, sia mediante votazione con sassolini preso dai templi, e giuri il giudice dei cori e di tutta la musica, gli organizzatori e gli arbitri delle gare ginniche ed ippiche, e di tutte quelle attività che, secondo l'opinione umana, non comportano guadagno alcuno a chi spergiura: ma quando sembra assai evidente che negando con il giuramento si trae un grosso guadagno, si giudichino tutte le persone che si accusano l'una con l'altra, attraverso processi ordinari e senza giuramenti. E nel processo i presidenti del tribunale non permettano a chi parla di giurare, per rendere più plausibili le proprie argomentazioni, né di imprecare contro se stessi e la propria stirpe, né di ricorrere a suppliche indecenti e a lamenti tipici di donne, ma facciano in modo che sempre e sino alla fine si apprendano e si espongano le giuste ragioni con parole di buon augurio, e, in caso contrario, come se andasse fuori del discorso, i magistrati lo invitino a riportare sempre il discorso sulla questione proposta. Allo straniero nei suoi rapporti con gli altri stranieri sia consentito di accettare i giuramenti, come si usa fare oggi, se lo vuole, e di darli con piena validità - essi non invecchieranno nello stato e non facendovi il nido non procureranno generalmente altri padroni della regione allevati come loro -; per quanto riguarda gli atti d'accusa dei processi reciproci valga per tutti la stessa procedura per giungere alla sentenza. Se un libero cittadino disobbedisce allo stato, ma non è degno di percosse, né del carcere, né della morte - e queste disobbedienze riguardano la frequenza ad alcune danze corali, o a processioni, o ad altre cerimonie pubbliche dello stesso genere, o a incarichi pubblici che hanno attinenza con i sacrifici che vengono organizzati in tempo di pace o con le contribuzioni in tempo di guerra - in tutti questi casi bisogna in primo luogo risanare il danno; per chi non obbedisce sia fatto un pignoramento che sarà riscosso da quelle persone indicate dallo stato e dalla legge, e se si rifiutano ancora di obbedire, si proceda alla vendita dei beni pignorati, e il danaro vada allo stato: se occorre una punizione maggiore, le singole magistrature che applicano le punizioni adatte ai disubbidienti, conducano i trasgressori dinanzi al tribunale, finché si decidano ad eseguire gli ordini. Al nostro stato, che non ha altra fonte dì ricchezza se non quella che proviene dai prodotti de l proprio suolo, né ha rapporti commerciali con l'estero, è necessario fornire consigli su come si deve regolare riguardo ai viaggi dei suoi cittadini fuori dai confini della regione e all'accoglienza degli stranieri che giungono da fuori: il legislatore deve innanzitutto fornire dei consigli mediante la persuasione, se è possibile. Per natura, la mescolanza di stati con altri stati comporta una combinazione assai varia di costumi di vita dovuta alle novità che gli stranieri introducono gli uni con gli altri: questo fatto determina il danno più grave di tutti per quegli stati ben governati mediante leggi giuste, mentre per la maggioranza degli stati, poiché non sono affatto ben governati, non ha alcuna importanza se i cittadini si mescolano accogliendo gli stranieri, o se essi stessi partono alla volta di altri stati, desiderando fare un viaggio, dove e quando vogliono, giovani o vecchi che siano. D'altronde non è possibile vietare l'accoglienza agli stranieri o la partenza dei nostri concittadini alla volta di altri luoghi, senza contare che daremmo l'impressione di essere rozzi e scortesi presso gli altri uomini, ricorrendo a termini duri come ai cosiddetti bandi agli stranieri, e a costumi di vita prepotenti e inesorabili: non dobbiamo pensare che sia un fatto di scarsa importanza la buona o la cattiva fama presso gli altri. Non di quanto la maggior parte delle persone fallisce nel conseguimento dell'essenza della virtù, di tanto anche fallisce nel giudicare se gli altri siano malvagi o buoni. Questo acume, che in un certo senso è divino, è presente anche nei cattivi, sicché moltissime persone, e anche quelle assolutamente malvagie, con le parole e con le opinioni riescono a distinguere gli uomini migliori da quelli peggiori. Perciò è bella quella massima che presso molti stati consiglia di tenere in conto la buona fama che si gode presso la maggioranza. La cosa più giusta e più importante, se si è realmente buoni, è quella di mirare ad una vita accompagnata dalla buona reputazione, ma questa non deve affatto essere separata dalla virtù, se un uomo vuole essere perfetto; per cui, anche a proposito dello stato che viene fondato a Creta, sarebbe opportuno che si procurasse la fama più bella e migliore, in relazione alla virtù, presso gli altri uomini. Nutriamo allora l'assoluta e verosimile speranza che, se esso corrisponderà a quanto abbiamo delineato nel nostro discorso, insieme a pochi altri, il sole e gli altri dèi lo vedranno fra gli stati e le regioni ben governate. In questo modo, dunque, ci si deve regolare a proposito dei viaggi in altre regioni e in altri luoghi e riguardo all'accoglienza degli stranieri. Prima di tutto non sarà assolutamente possibile compiere un viaggio in alcun luogo a chi abbia meno di quarant'anni, e a nessuno inoltre sia concesso di viaggiare privatamente, mentre per quanto riguarda i viaggi per conto dello stato, sia consentito di viaggiare all'estero ad araldi, ambasciatori, o anche ad alcuni che compiono sacre ambascerie: per quanto riguarda i viaggi che si compiono per motivi di guerra o a causa di spedizioni militari, essi non meritano di essere considerati fra i viaggi di carattere politico, come se vi facessero parte. A Pito per Apollo, ad Olimpia per Zeus, a Nemea, e a Istmo bisogna inviare quei cittadini perché prendano parte ai sacrifici e agli agoni che vengono organizzati in onore di questi dèi, e, nei limiti del possibile, bisogna inviarne il maggior numero, e i più belli e i migliori, i quali faranno in modo di rendere onorato il nostro stato nei sacri e pacifici incontri, procurando una fama corrispondente a quella che ci guadagneremo in guerra. Tornati a casa, insegneranno ai giovani che il complesso delle norme che regolano la costituzione negli altri stati occupa il secondo posto rispetto alla nostra. Bisognerà inviare altri osservatori di questo genere all'estero, sempre che vi sia l'autorizzazione dei custodi delle leggi: e se alcuni cittadini desiderano osservare le usanze degli altri uomini per un periodo di tempo più lungo, nessuna legge li trattenga. Uno stato infatti che sia inesperto di uomini malvagi e buoni non potrà mai, se vive senza instaurare relazioni, essere sufficientemente civilizzato e perfetto, né conservare le leggi mantenendole non soltanto con la forza delle abitudini, ma anche con la forza della mente. Vi sono in molti luoghi uomini divini, non molti per la verità, che vale davvero la pena di incontrare, uomini che nascono non soltanto negli stati retti da buone leggi ma anche in quelli che non lo sono, di cui occorre sempre che chi vive negli stati retti da buone leggi, purché sia incorruttibile, ricerchi le tracce, andando per mare e per terra, sia per consolidare quelle usanze che erano state ben stabilite, sia per correggerle, se in qualche punto sono inefficienti. Senza questo tipo di osservazione e di ricerca, uno stato non potrà mai mantenersi perfetto, e neppure può esserlo se l'osservazione viene mal condotta. CLINIA: Come dunque potranno avvenire queste due cose? ATENIESE: In questo modo. In primo luogo un osservatore come questo deve avere, per noi, più di cinquant'anni, e in secondo luogo dev'essere fra quelli che godono buona reputazione nelle altre cose e soprattutto in guerra, se deve introdurre negli altri stati l'esempio dei custodi delle leggi: non sia più un osservatore una volta che avrà oltrepassato i sessant'anni. Trascorra di questi dieci anni quelli che vuole a svolgere osservazioni, e giunto in patria, si rechi al consiglio dei magistrati che studiano le leggi: questo consiglio sia misto di giovani e di più vecchi, e ogni giorno si riunisca dall'alba al nascere del sole. Esso sia composto innanzitutto dai sacerdoti che hanno ottenuto il primo premio della virtù, quindi dai dieci più anziani custodi delle leggi, ed infine dal nuovo sovrintendente all'educazione e da coloro che l'hanno preceduto e hanno ormai abbandonato questa carica. Ognuna di queste persone non si rechi da sola al consiglio, ma vada insieme ad un giovane fra i trenta e i quarant'anni, e prenda con sé quello che preferisce. Oggetto della loro riunione e dei loro discorsi siano sempre le leggi e l'amministrazione dello stato, e anche l'eventuale notizia che altrove vi sia qualcosa di superiore riguardo a tali cose, nonché, infine, quelle discipline che in questa ricerca risultano utili a rendere più chiare le opinioni di chi le apprende, e che, se non si apprendessero, renderebbero i problemi relativi alle leggi più oscuri e incerti. E quegli argomenti che i più vecchi sceglieranno, i giovani dovranno apprendere con ogni sforzo, e se qualcuno degli invitati risulterà indegno, l'intero consiglio criticherà chi lo ha invitato: tutto il resto dello stato vigili su quei giovani che godono di buona reputazione, rivolgendo loro lo sguardo e osservandoli con particolare attenzione, e li onori se si comportano bene, ma li disonori più degli altri, se diventano peggiori dei molti. Si rechi allora a questo consiglio, non appena ritorna in patria, colui che ha osservato le istituzioni presso altre genti, e se ha trovato qualcuno che avesse delle notizie da riferire intorno alla legislazione, o all'educazione, o all'allevamento, le riferisca, oppure se anche lui stesso venga dopo aver formulato alcune riflessioni, le comunichi a tutto il consiglio. Se quest'uomo ritornerà in patria né peggiore né migliore, sia elogiato per il suo grande zelo, ma se ritorna assai migliore, sia elogiato ancora di più finché vive, e, quando muore, i consiglieri, grazie al loro potere, gli rendano gli onori che gli spettano. Se invece quando ritorna risulterà corrotto, non incontri più nessuno, né giovane né vecchio, anche se si darà arie di persona sapiente: e se obbedisce ai magistrati, viva come un privato cittadino, in caso contrario, sia condannato a morte se viene accusato di intromettersi indebitamente nelle questioni riguardanti l'educazione e le leggi. E se, pur meritando di presentarsi in tribunale, nessuno dei magistrati lo conduce, sia questo un motivo di biasimo per i magistrati, quando si deciderà di assegnare i primi premi della virtù. Tale sia dunque colui che viaggia fuori dello stato e in questo modo effettui le sue trasferte. Dopo di che dobbiamo accogliere benevolmente chi giunge dall'estero. Quattro sono allora le classi di stranieri di cui bisogna parlare: la prima è costituita da quelli che si muovono continuamente d'estate e trascorrono per lo più il loro tempo a frequentare ora un luogo ora un altro, come fanno gli uccelli migratori, e in effetti la maggior parte di questi, come se volasse realmente sul mare per fare guadagni con le loro attività commerciali, vola nella bella stagione verso gli altri stati. I magistrati preposti a questo compito devono ricevere questi stranieri nelle piazze, nei porti, nei pubblici edifici, all'esterno della città, ma in ogni caso in prossimità di essa; e i magistrati stessi dovranno sorvegliare che nessuno di questi stranieri apporti una qualche innovazione, e correttamente amministreranno per loro la giustizia, soltanto per quel che è necessario, limitando al minimo la loro azione. La seconda classe è costituita da quelli che vengono ad assistere dal vivo a quegli spettacoli artistici che possono essere visti ed ascoltati: per tutto questo genere di persone bisogna che vi siano, presso i templi, degli alberghi allestiti per l'ospitale accoglienza; e bisogna che i sacerdoti e i custodi del tempio si prendano cura e si diano pensiero di queste persone finché, dopo che si sono fermate per un giusto periodo di tempo, e abbiano visto ed ascoltato lo spettacolo per cui sono venuti, se ne vadano senza compiere o subire danni. Per questi siano giudici i sacerdoti, nel caso in cui uno di loro commette un'ingiustizia nei confronti di qualcuno o qualcuno la commette a danno di qualcun altro di questi, e se il danno si limita alle cinquanta dracme, ma se l'accusa nei loro confronti risulta più grave, per costoro bisogna celebrare il processo dinanzi agli agoranomi. La terza classe di stranieri dev'essere accolta a spese dello stato, in quanto giunge da un'altra regione per conto dello stato: li devono accogliere soltanto gli strateghi, gli ipparchi, i tassiarchi, e dovrà prendersi cura di costoro, insieme ai pritani, quel cittadino presso il quale uno di essi, in qualità di ospite, sarà alloggiato. La quarta classe, se mai giunge, giungerà raramente; e se in ogni caso qualcuno venga mai da un'altra regione, con un incarico che corrisponde a quello dei nostri osservatori, per prima cosa non abbia meno di cinquant'anni, e inoltre richieda di voler vedere qualcosa di bello nel nostro stato, qualcosa che si distingue per bellezza da ciò che si vede negli altri stati, o mostri anche quell'elemento che allo stesso modo si distingue in un altro stato. Vada ognuno di questi, presentandosi senza invito, a bussare le porte dei ricchi e dei saggi, essendo anch'egli tale: si rechi infatti alla dimora di colui che sovrintende il complesso dell'educazione, confidando di essere adeguato ospite per un tale ospite, oppure alla dimora di chi ha riportato il premio per la virtù, e dopo essere stato insieme a costoro, ora insegnando, ora apprendendo, se ne vada, come un amico onorato da amici, con doni ed onori adeguati. Con queste leggi bisogna accogliere tutti gli stranieri e le straniere che provengono da un'altra regione, e inviare i nostri concittadini all'estero, onorando Zeus Ospitale, ed evitando di bandire gli stranieri dalle mense e dai sacrifici, come ora fanno i figli del Nilo, o di proclamare selvagge intimazioni. Se uno dà malleveria, la dia esplicitamente e notifichi per iscritto tutto quanto l'accordo, alla presenza di non meno di tre testimoni se si tratta di una somma compresa entro le mille dracme, e di non meno di cinque se la somma è superiore alle mille dracme. è mallevadore anche chi vende qualcosa in qualità di mediatore per conto di colui che vende illegalmente o anche di chi non può farsi garante della vendita: sia allora perseguibile anche il mediatore come il venditore. Chi vuole fare una perquisizione in casa di qualcuno, si presenti nudo, o con una corta tunica senza cintura, e dopo aver giurato, in nome degli dèi indicati dalla legge, ch'egli spera di trovare quello che cerca, compia così la perquisizione. Il padrone di casa conceda che la casa sia perquisita, con tutto ciò che è sigillato e ciò che non lo è. Se qualcuno non concede che venga fatta la perquisizione a chi vuole fare una ricerca, colui che è stato impedito lo citi in giudizio, e, dopo aver valutato l'oggetto ricercato, se risulta colpevole, risarcisca il danno, pagando il doppio del valore dell'oggetto stimato. Se il padrone di casa è partito per un viaggio, quelli che abitano nella casa concedano di fare ricerche fra gli oggetti non sigillati, mentre per quanto riguarda gli oggetti sigillati, chi compie la ricerca aggiunga i suoi sigilli, e vi lasci, se vuole, un custode per cinque giorni: se il padrone si assenta per un tempo più lungo, chi vuole compiere la perquisizione, prendendo con sé gli astinomi, compia in tal modo la perquisizione, sciogliendo anche i sigilli, e di nuovo, insieme ai familiari e agli astinomi, sigilli nuovamente tutto seguendo le stesse procedure. Vi sia un limite di tempo, per quanto riguarda i beni la cui proprietà viene contestata, oltre il quale, se uno possiede uno di quegli oggetti, non sia più possibile contestarne la proprietà. Non si può contestare la proprietà di terreni e di case, qui da noi: circa invece gli altri beni, qualsiasi bene uno possiede, se mostra di servirsene in città, o sulla piazza, o presso i templi, senza che nessuno li rivendichi, e un bel giorno salta fuori un tale che afferma di averlo cercato per tutto quel tempo, ed è chiaro che quell'altro non lo ha nascosto, se per un anno, dunque, uno ha posseduto in quel modo l'oggetto, e un altro così lo ha ricercato, non sia più consentito di rivendicarne la proprietà, una volta trascorso quell'anno. Se uno non fa uso di questi oggetti né in città, né sulla piazza, ma è evidente che se ne serve nei campi, ed entro cinque anni nessuno si presenta a reclamarli, una volta trascorsi i cinque anni, non sia più possibile a quest'ultimo rivendicarne il possesso per l'avvenire. Se uno se ne serve in città fra le pareti di casa sua, il diritto di contestazione abbia termine dopo tre anni; se ha esercitato il possesso in campagna, ma non apertamente, dopo dieci anni; se il diritto di possesso è stato esercitato in un altro stato, in ogni tempo, nel caso in cui qualcuno lo ritrovi, il diritto di rivendicarne la proprietà non abbia termine. Se uno con la violenza impedisce ad un altro di presentarsi in giudizio, sia alla stessa parte in causa, sia ai suoi testimoni, se si tratta di uno schiavo suo o di altri, il processo sia dichiarato imperfetto e privo di validità; se si tratta di un uomo libero, oltre a rendere nullo il processo, il colpevole sia condannato ad un anno di carcere, e chiunque vuole potrà accusarlo in giudizio per sequestro di persona. Se un tale impedisce con la violenza ad un avversario di gare ginniche o musicali o di qualche altra ancora di presentarsi alla gara, chi vuole lo denunci agli organizzatori delle gare, e quelli lascino libero chi vuole di partecipare alla gara. Se si trovano nell'impossibilità di farlo, e se colui che impedisce di gareggiare vince la gara, il premio della vittoria sia assegnato a chi è stato impedito, e in qualità di vincitore scriva il suo nome nei templi in cui lo desidera, mentre a colui che ha impedito la partecipazione alla gara non sia concesso di porre alcun dono votivo, né iscrizione che testimoni tale gara, e sia anzi perseguito per danno, sia che nella gara abbia perso, sia anche che abbia vinto. Se un tale accetta consapevolmente un qualsiasi oggetto rubato, sia soggetto alla stessa pena del ladro: chi accoglie un fuggitivo, invece, sia condannato a morte. Ognuno ritenga amica e nemica a se stesso la stessa persona che è amica o nemica dello stato. Se qualcuno in privato fa pace o guerra con qualcun altro, senza tener conto della comunità, anche costui sia punito con la morte: se una parte dello stato fa pace o guerra con qualcuno da sola, gli strateghi conducano gli autori di questa azione in tribunale, e chi risulta colpevole sia condannato a morte. Chi presta un servizio alla patria lo deve prestare senza ricevere doni in cambio, e nessun pretesto, nessun discorso deve approvare il fatto che per le buone azioni si deve ricevere un compenso, e non per quelle cattive: non è cosa agevole riconoscere le azioni buone da quelle cattive, e una volta riconosciutele, perseverare in questa distinzione; è cosa più sicura ascoltare ed obbedire alla legge, e non prestare servizi per ricevere dei doni. Chi non obbedisce sia condannato a morte senza alcun'altra procedura, dopo essere stato condannato nel processo. Per quanto riguarda le tasse per la collettività, per molte ragioni bisognerebbe fare la stima del patrimonio di ciascuno, e i membri di ogni tribù dovrebbero denunciare per iscritto il loro reddito agli agronomi, perché, essendo due le specie di tasse, l'erario pubblico ricorra a quella imposta alla quale, fra le due, preferisce ricorrere, decidendo ogni anno di ricorrere ad una parte dell'intero patrimonio che è stato stimato, o ad una parte del reddito annuale, escludendo le spese relative ai pasti in comune. L'uomo moderato, quando offre doni votivi agli dèi, deve offrire doni moderati. Tutti i cittadini ritengono la terra e il focolare domestico sacri agli dèi, e quindi nessuno consacrerà due volte le cose sacre agli dèi. Negli altri stati l'oro e l'argento, posseduti privatamente o anche nei templi, sono un bene che provoca invidia; l'avorio preso da un corpo che abbia abbandonato la vita non costituisce un offerta pura; il ferro e il bronzo sono strumenti di guerra: si offrano allora come doni votivi per i templi oggetti di legno di un pezzo solo, come uno vuole, e, allo stesso modo, oggetti di pietra, o anche tessuti, ma che non richiedano più di un mese di lavoro ad una sola donna. Agli dèi si addice il colore bianco, non solo per gli altri doni, ma anche per i tessuti; mentre non si aggiungano altri colori se non per gli ornamenti di guerra. Sono doni assai divini gli uccelli, e anche quelle raffigurazioni che un pittore realizza in un solo giorno: e per il resto, tutti gli altri doni votivi siano fatti ad imitazione di questi. Ora che abbiamo distinto le parti di tutto quanto lo stato, dicendo quante e come devono essere, e si sono dette, nei limiti del possibile, le leggi riguardanti tutti i più importanti contratti stipulati dai cittadini, rimane da definire la questione dell'amministrazione della giustizia. Fra i tribunali, il primo sia composto da giudici scelti che l'accusato e l'accusatore sceglieranno insieme, e a costoro sarebbe più conveniente assegnare il nome di arbitri più che quello di giudici. I giudici di secondo grado provengano dai villaggi o dalle tribù, e siano distribuiti nelle dodici parti dello stato: dinanzi a questi si presentino le parti in causa, se la causa non è stata giudicata presso i giudici del primo tribunale, e si gareggi per una pena maggiore, e se l'accusato perderà per la seconda volta, paghi la quinta parte della multa registrata nel corso del processo. Se un tale, muovendo delle critiche ai giudici, desidera ripetere per la terza volta il processo, porti la causa dinanzi ai giudici scelti, e se perde nuovamente per la terza volta, paghi una volta e mezzo la pena che era stata stabilita. Se l'accusatore, dopo aver perso la causa dinanzi ai primi giudici, non si dà per vinto e va dai giudici di secondo grado, nel caso in cui vinca, ottenga la quinta parte della multa, se invece perde, paghi la medesima parte della multa. Se al terzo tribunale ricorrono tutti quelli che hanno rifiutato le sentenze precedenti, nel caso in cui l'imputato perde, come si è detto, paghi una volta e mezzo la multa, se invece perde l'accusatore, paghi metà multa. Per quanto riguarda il sorteggio dei giudici e il loro numero, e l'istituzione di servizi per ogni singola magistratura, e i tempi in cui bisogna svolgere ciascuno di questi compiti, e le votazioni e gli aggiornamenti delle udienze, e tutte le altre simili operazioni che si devono necessariamente svolgere per i processi, e gli atti d'accusa presentati in prima e in seconda istanza, e la necessità della difesa e delle comparizioni al dibattito, e tutto quanto è simile a queste cose, abbiamo già parlato anche prima, ma ciò che è giusto vale la pena ripeterlo anche due e tre volte. Per quanto riguarda tutte quelle norme di scarsa importanza e facili da trovare, se il legislatore anziano le ha tralasciate, il legislatore giovane dovrà con la sua opera compensare questa mancanza. Se dunque i tribunali privati funzioneranno in questo modo, saranno ben regolati: per quanto riguarda i tribunali pubblici e statali, e tutto ciò di cui le magistrature si devono servire per amministrare ciò che spetta a ciascuna, vi sono in molti stati non poche disposizioni di legge per nulla sconvenienti, stabilite da uomini valenti; di qui bisogna che i custodi delle leggi prendano quelle che si possono adattare allo stato che ora sta nascendo, prendendole in considerazione e correggendole, e mettendole alla prova dell'esperienza, finché ciascuna di esse risulti adeguatamente stabilita. In quel momento, allora, terminata l'opera, pongano i sigilli rendendola così immutabile, e in tal modo uno se ne servi per tutta la vita. Per quanto riguarda il silenzio dei giudici, la convenienza del linguaggio, e il contrario di queste cose, e, ancora, per quel che riguarda ciò che differisce dalle molte cose che negli altri stati sono considerate giuste, buone, e belle, alcune di queste cose le abbiamo dette, altre dovranno essere ancora trattate alla fine del discorso. Chi vuole essere giudice imparziale secondo giustizia deve rivolgere lo sguardo a tutte queste cose e studiarle, dopo essersi procurato documenti scritti: e fra tutte le discipline che hanno maggior potere di rendere migliore chi le apprende vi sono quelle stabilite intorno alle leggi, sempre che siano correttamente stabilite; in caso contrario la legge, che per noi è cosa divina e meravigliosa, invano avrebbe quel nome che ha attinenza con il nome della mente. E di tutti gli altri discorsi, tanto quelli in versi e che sono un elogio o un biasimo di qualcuno, quanto quelli in prosa, siano essi scritti oppure tenuti ogni giorno in tutte le varie riunioni, nel corso dei quali si entra in controversia per ambizione o per trovare accordi che talvolta sono assolutamente vani, di tutti questi discorsi saranno un chiaro termine di paragone gli scritti del legislatore. Possedendo dentro di sé questi discorsi, come antidoto agli altri discorsi, il giudice buono deve guidare se stesso e lo stato, procurando ai buoni il mantenimento e lo sviluppo della giustizia, ai malvagi una trasformazione, nei limiti del possibile, dall'ignoranza, dall'indisciplina, dalla viltà, e in una parola, da ogni forma di malvagità, riferendomi naturalmente a quei malvagi che si possono curare: ma per quelli che sono effettivamente legati ad un destino malvagio, per le anime disposte in tali condizioni, quei giudici e quei capi dì giudici che assegneranno loro la morte come rimedio, come spesso giustamente si è detto, saranno degni di elogio da parte di tutto lo stato. Dopo che i processi dell'anno, emesse le sentenze, sono condotti a termine, bisogna che vi siano le seguenti leggi per le azioni disciplinari: innanzitutto la magistratura giudicante concederà al vincitore di prendere tutti i beni del condannato, eccetto che per quelle che è necessario possedere, e questo deve avvenire immediatamente dopo ogni lettura della sentenza da parte dell'araldo, mentre i giudici stanno ad ascoltare. Trascorso il mese successivo a quello in cui è stata pronunciata la sentenza, se chi ha perso la causa non ha ancora soddisfatto volontariamente il vincitore, la magistratura giudicante, seguendo le richieste del vincitore, consegni i beni del condannato: se non sanno dove prendere i soldi, e manca non meno di una dracma, il debitore non intenti causa contro un altro se prima non ha regolato completamente il debito con il vincitore della causa; gli altri invece siano autorizzati ad intentare azioni giudiziarie contro costui. Se uno, una volta condannato, impedisce l'azione della magistratura che lo ha condannato, coloro che ingiustamente sono stati impediti lo conducano dinanzi al tribunale dei custodi delle leggi, e se viene ritenuto colpevole di questa accusa, sia condannato a morte come se avesse distrutto l'intero stato e le leggi. Dopo di che, quando un uomo è stato generato ed allevato, e a sua volta ha generato ed allevato dei figli, quando ha stretto rapporti con altri uomini, com'è giusto che sia, e ha pagato il fio se ha commesso qualche ingiustizia, o è stato risarcito se l'ha ricevuta da un altro, ed è invecchiato insieme alle leggi seguendo il proprio destino, è naturale che ad un certo punto per costui sopraggiunga la fine. Riguardo ai morti, siano essi maschi o femmine, gli interpreti abbiano l'autorità di dichiarare quali consuetudini divine bisogna praticare, consuetudini che sono tipiche degli dèi sotterranei e degli dèi della terra: non si costruiscano affatto tombe su tutti quei terreni che sono coltivabili, e neppure monumenti funebri, grandi o piccoli che siano, ma si riempia quella parte di regione che per natura ha soltanto questa funzione, e cioè quella di accogliere e nascondere i corpi dei morti in modo indolore per i vivi; mentre nessun vivo e nessun morto privi chi di noi è ancora vivo di quelle regioni che la terra, come nostra madre, vuole che diano nutrimento agli uomini. Non si elevi un tumulo che sia più alto di quello che può essere realizzato da cinque uomini in cinque giorni di lavoro: non si faccia una stele sepolcrale in pietra che possa contenere più di quattro versi epici che costituiscano l'elogio della vita del morto. L'esposizione del morto in casa non sia innanzitutto più lunga del tempo necessario per dimostrare con evidenza chi è morto in apparenza da chi lo è realmente; considerando la natura umana, si può convenientemente trasportare un morto alla tomba il terzo giorno. Bisogna in ogni caso prestare fede al legislatore, non solo per tutte le altre cose, ma anche quando afferma che l'anima è totalmente diversa dal corpo, e che nella vita stessa ciò che offre a ciascuno di noi la possibilità di essere come siamo non è nient'altro che l'anima, mentre il corpo segue ognuno di noi come un'apparenza, e che è giusto dire che quando si muore i corpi dei morti sono come delle immagini, mentre la vera essenza di ciascuno di noi, che è immortale e chiamiamo anima, se ne va presso altri dèi a rendere conto, come recita la legge dei padri - e questo atto infonde coraggio nella persona onesta, e paura nei malvagi - e sostiene che nessun aiuto viene prestato a quest'ultimo quando muore. Bisognava infatti che tutti i parenti gli prestassero aiuto quand'era vivo, perché vivesse una vita in una maggiore giustizia e santità, e, una volta morto, non dovesse scontare le pene, nella vita che segue questa di qui, per i malvagi errori commessi. Se le cose stanno in questi termini, si capisce che non bisogna mai mandare in rovina la propria famiglia, ritenendo nel modo più assoluto che quella massa di carne che viene sepolta sia un proprio familiare, mentre si deve pensare che quel figlio o quel fratello, o chiunque sia quella persona che con grande rimpianto si ritiene nel modo più assoluto di seppellire, se ne va dopo aver percorso e terminato il suo destino, e che, nella circostanza presente, è bene spendere moderatamente, come se si spendesse per un altare inanimato di dèi inferi. In ogni caso il legislatore stabilisca come un oracolo una spesa conveniente che non sia indecorosa. E questa sia la legge: chi appartiene alla prima classe non spenda per la tomba più di cinque mine, se è della seconda non spenda più di tre mine, se è della terza più di due mine, se è della quarta più di una mina; queste verranno considerate spese giuste. I custodi delle leggi devono necessariamente fare molte altre cose ed occuparsi di molte questioni, e fra queste non sono meno importanti quelle che riguardano la cura dei ragazzi, degli uomini, e di persone di ogni età, quando essi vivono, e quel custode della legge presieda la fine di tutti, quel custode che i parenti del morto sceglieranno come sovrintendente, e sia per lui un onore se le esequie del morto si sono svolte in modo conveniente e sobrio, e turpe se invece si sono svolte in modo sconveniente. L'esposizione del morto e tutte le altre procedure si svolgano secondo le leggi relative a queste usanze, ma all'uomo politico che sta legiferando bisogna concedere di stabilire anche queste disposizioni: sarebbe sconveniente che ordinasse di piangere o meno il morto, ma deve in ogni caso vietare che lamenti e urla si diffondano fuori della casa, e così deve impedire che il morto sia pubblicamente esposto sulla strada, e che si urli nelle vie al passaggio del corteo funebre, e che prima del giorno sia fuori della città. Queste norme siano dunque stabilite in questo modo intorno a tali usanze, e chi obbedisce sia esente da pena, mentre chi non obbedisce ad uno dei custodi delle leggi sia punito da tutti i custodi con una pena che verrà decisa di comune accordo. Per quanto riguarda tutte le altre forme di esequie, nonché quei casi in cui non si ha diritto alla sepoltura, come per i parricidi, i ladri sacrileghi, e altri casi del genere, si è già detto precedentemente e si sono stabilite le relative leggi, sicché si potrebbe dire che la nostra legislazione è quasi giunta al termine. D'altronde la fine di ogni cosa non corrisponde ogni volta con ciò che si è fatto, acquistato, fondato, ma, piuttosto, quando si trova sempre e perfettamente un modo di conservare ciò che è stato generato, allora si può ritenere ormai che tutto quel che doveva essere compiuto è stato realizzato, mentre prima era interamente incompiuto. CLINIA: Hai detto bene, straniero: ma spiega ancor più chiaramente per quale ragione hai detto quel che hai detto. ATENIESE: Clinia, molte cose antiche sono state opportunamente magnificate, e non meno opportunamente i nomi dati alle Moire. CLINIA: E quali? ATENIESE: La prima è Lachesi, la seconda è Cloto, la terza è Atropo che è la salvezza di ciò che fu detto dal destino, e questi nomi sono ripresi ed assomigliano a ciò che viene tessuto e che è capace di realizzare una potenza irreversibile al fuoco; e queste cose non devono solo procurare allo stato e alla costituzione salute e salvezza per i corpi, ma anche buone leggi per le anime, e soprattutto la salvaguardia delle leggi. Mi sembra dunque che questo manchi ancora nelle nostre leggi, e cioè come si deve determinare in esse, secondo natura, quella potenza irreversibile. CLINIA: Non fai un'affermazione di scarsa importanza, se è vero che non è possibile trovare il modo in cui ogni legge possegga questa qualità. ATENIESE: No, è possibile, per quel che ora mi risulta. CLINIA: Non abbandoniamo in alcun modo la questione, prima di aver fornito proprio questa cosa alle leggi che si sono appena dette: sarebbe infatti ridicolo se avessimo speso invano le nostre fatiche intorno a qualsiasi cosa se poi lo si poggiasse su di una base che non sia affatto solida. ATENIESE: Giusta esortazione, e troverai in me un altro che la pensa anche allo stesso modo. CLINIA: Dici bene. Qual è dunque la salvezza di cui parli? E in che modo si potranno salvaguardare la costituzione e le nostre leggi? ATENIESE: Non abbiamo forse detto che nel nostro stato dev'esserci un consiglio simile? E dicevamo che i dieci più anziani custodi delle leggi devono riunirsi insieme a tutti quelli che hanno ottenuto i primi premi per la virtù, e che inoltre quelli che hanno compiuto un viaggio all'estero alla ricerca di un qualche elemento utile da apprendere per la salvaguardia delle leggi, tornati a casa sani e salvi, devono essere ritenuti degni di partecipare al consiglio, dopo essere stati messi alla prova: dicevamo anche che oltre a questi, ciascuno deve prendere con sé uno dei giovani che non abbia meno di trent'anni, giudicandolo innanzitutto degno di far parte del consiglio per natura ed educazione, e così deve presentarlo agli altri, e se anche agli altri risulterà tale, si potrà accettarlo nel consiglio, mentre in caso contrario, la decisione dovrà rimanere segreta agli altri e soprattutto al diretto interessato che è stato respinto. Il consiglio deve riunirsi all'alba, quando ognuno è più libero da tutte le altre occupazioni private e pubbliche. Non abbiamo detto una cosa del genere nei precedenti discorsi? CLINIA: Sì, proprio questo. ATENIESE: Vorrei allora tornare di nuovo a parlare di questo consiglio. Io dico che se gettassi questo consiglio come un'ancora per tutto lo stato, ed essa avesse ogni elemento conveniente a se stessa, sarebbe in grado di mettere in salvo tutto ciò che vogliamo. CLINIA: Come? ATENIESE: A questo punto si presenta allora la nostra buona occasione per fornire una spiegazione corretta, senza risparmiare nulla del nostro ardore. CLINIA: Dici benissimo, e allora agisci secondo le tue intenzioni. ATENIESE: Bisogna pensare per ogni cosa, Clinia, che vi è verosimilmente un salvatore in ciascuna opera, come nell'essere vivente l'anima e la testa sono appunto gli elementi più importanti generati per salvarci. CLINIA: Come dici? ATENIESE: La virtù di questi due elementi procura la salvezza ad ogni essere vivente. CLINIA: E come? ATENIESE: Nell'anima, oltre alle altre facoltà, è presente l'intelletto, e nella testa, oltre agli altri sensi, la vista e l'udito: in sintesi l'intelletto, combinandosi con i sensi più nobili e diventato una sola cosa, si può dire nel modo più giusto che rappresenta per ogni cosa la salvezza. CLINIA: Pare che sia così. ATENIESE: Pare proprio così infatti. Ma quale intelletto, combinandosi con i sensi, costituisce la salvezza delle navi nelle tempeste e nel bel tempo? In una nave non avviene che il pilota e i marinai, combinando insieme i sensi con l'intelletto allenato a pilotare, mettono in salvo se stessi e la nave? CLINIA: Certamente. ATENIESE: Non c'è bisogno di fare molti altri esempi a questo riguardo: ma pensiamo, a proposito degli eserciti, a quale sia lo scopo che gli strateghi si prefiggono, e quale quello di tutta l'arte medica al servizio quando correttamente mirano alla salvezza. Non è la vittoria e il dominio sui nemici per gli strateghi, mentre per i medici e i loro aiutanti il procurare la salute al corpo? CLINIA: Come no? ATENIESE: E se un medico non conosce, a proposito del corpo, che cosa sia quel che ora abbiamo chiamato salute, o uno stratega non sa che cosa sia la vittoria e tutte le altre cose che abbiamo passato in rassegna, come potrà risultare ch'essi abbiano intelletto relativamente a quelle cose che dovrebbero essere di loro competenza? CLINIA: Come, infatti? ATENIESE: E che dire dello stato? Se uno mostra di non conoscere lo scopo che il politico deve sempre tenere presente, si potrebbe innanzitutto chiamarlo ancora magistrato, e poi sarebbe in grado di salvare ciò di cui non conosce neppure lo scopo? CLINIA: Come potrebbe? ATENIESE: Bisogna anche adesso, a quanto pare, se vogliamo rendere perfetto lo stato che abbiamo fondato nella nostra regione, che esso abbia innanzitutto in sé la capacità di conoscere ciò di cui stiamo parlando, vale a dire lo scopo dello stato, che per noi non può essere che il politico; e in secondo luogo che conosca in qual modo si deve prendere parte di questo fine; e quali leggi innanzitutto, e poi quali uomini, possono decidere bene o no in vista di questo fine: se uno stato manca di un'istituzione del genere, non c'è da stupirsi se, essendo privo di intelletto e di senso, in ogni circostanza agisce ogni volta come capita. CLINIA: Quello che dici è vero. ATENIESE: Ora in quale parte del nostro stato, o in quale consuetudine, si può trovare una qualsiasi cosa che sia organizzata e abbia la funzione di un tale presidio? Siamo in grado di dirlo? CLINIA: No di certo, straniero, almeno con chiarezza: ma se bisogna fare delle congetture, mi sembra che questo discorso tenda verso il consiglio che tu hai appena detto che si deve riunire di notte. ATENIESE: Hai supposto benissimo, Clinia, e bisogna che questo consiglio, come il presente discorso ci sta indicando, sia fornito di tutta la virtù: e la caratteristica principale di questa virtù è quella di non errare di qua e di là, mirando a molteplici scopi, ma, prendendo in considerazione un unico scopo, scagliare tutte le frecce sempre in direzione di questo scopo. CLINIA: Assolutamente sì. ATENIESE: Ora capiremo che non c'è da meravigliarsi se le legislazioni degli altri stati vanno errando, poiché in ciascuno di questi stati le leggi mirano ora ad un fine ora ad un altro. E generalmente non c'è da meravigliarsi che per alcuni il criterio della giustizia consista nel fatto che alcune persone, siano esse migliori o peggiori, si impadroniscano del potere all'interno dello stato, mentre per altri consista nell'arricchirsi, sia che si sia schiavi o no di alcuni altri, ed infine, lo sforzo di alcuni altri sia proteso verso una vita all'insegna della libertà: e poi vi sono anche quelli che legiferano avendo due scopi alla volta e li tengono in considerazione ambedue, vale a dire quello di essere liberi e di diventare padroni degli altri stati; quindi vi sono i più sapienti, come pensano di essere, che mirano a questi e ad altri simili scopi, ma non sono in grado di spiegare quale preferirebbero in modo particolare, cui bisognerebbe, secondo loro, che anche tutti gli altri scopi mirassero. CLINIA: Dunque il nostro scopo, che è stato fissato già da molto tempo, è stato fissato correttamente? Abbiamo detto che tutto ciò che mira alle nostre leggi deve tendere ad un unico scopo, e ci siamo trovati assolutamente d'accordo nel dire che questo è la virtù. ATENIESE: Sì. CLINIA: Abbiamo stabilito quattro specie di virtù. ATENIESE: Certamente. CLINIA: E che l'intelletto è la guida di tutte queste specie, verso il quale tutto il resto e le altre tre virtù devono rivolgere il loro sguardo. ATENIESE: Segui benissimo, Clinia! E ascolta allora quel che rimane da dire. Abbiamo parlato dell'intelletto allenato a pilotare, e di quello medico, e di quell'altro proprio dello stratega, e di quell'unico scopo cui devono tendere; ed ora siamo arrivati a questo punto, dovendo esaminare l'intelletto del politico, e dunque, interrogandolo come un uomo, gli diciamo: «Straordinaria persona, tu, dove guardi? Che cos'è mai quell'unica cosa che con chiarezza l'intelletto del medico può indicare come proprio fine distintivo, e che tu che ti distingui da tutte le altre intelligenze, come dici, non puoi indicare con chiarezza per te?». O tu Megillo, e tu Clinia, sarete in grado di spiegarmi in sua vece che cosa mai dite che sia questo fine distintivo, così come di frequente, in altri casi, ho fornito a voi spiegazioni e chiarimenti? CLINIA: Proprio no, straniero! ATENIESE: Che cos'è che bisogna sforzarsi di vedere nel suo insieme, tanto in se stesso quanto in alcune sue manifestazioni? CLINIA: In quali manifestazioni dici? ATENIESE: Quando per esempio abbiamo detto che quattro sono le specie della virtù, è chiaro che se esse sono quattro, bisognerà dire che ciascuna di esse è una sola. CLINIA: Certamente. ATENIESE: E chiamiamo tutte queste specie con un unico nome. Diciamo infatti che il coraggio è virtù, e l'intelligenza è virtù, e così anche le altre due specie, come se non fossero molte ma una sola, le chiamiamo virtù. CLINIA: Certamente. ATENIESE: Il motivo per cui queste due differiscono fra loro e abbiano ricevuto due nomi diversi, e così le altre due, non è difficile a dirsi; quel che non è facile da spiegare è il motivo per cui diamo ad ambedue l'unico nome di virtù, e così alle altre. CLINIA: Come dici? ATENIESE: Non è difficile chiarire quello che dico. Distribuiamoci reciprocamente domanda e risposta. CLINIA: Che cosa vuoi dire? ATENIESE: Domandami perché mai denominiamo con l'unico termine di virtù l'una e l'altra cosa, per assegnare loro nuovamente due nomi, cioè quello di coraggio e di intelligenza. Ti dirò il motivo, e cioè che l'uno, il coraggio, ha attinenza con la paura e vi prendono parte le fiere e i caratteri dei bambini piccolissimi; senza la ragione, infatti, e anche solo per natura, l'anima può diventare coraggiosa, ma senza la ragione, d'altra parte, l'anima non divenne, non è, e non diventerà mai in futuro, assennata e dotata di intelletto, poiché l'intelligenza è diversa dal coraggio. CLINIA: Quello che dici è vero. ATENIESE: Tu hai appreso dal mio ragionamento i motivi per cui queste due specie sono differenti e sono due: tu ora dimmi perché sono un'unica e medesima cosa. Immagina di dover dire perché sono un'unica cosa, se sono quattro, e chiedimi, quando avrai dimostrato che sono uno, perché sono nuovamente quattro. Dopo di che esaminiamo se colui che conosce adeguatamente una cosa di cui vi è il nome e anche la definizione, deve conoscere soltanto il nome e non la definizione, oppure se non è vergognoso ignorare entrambe queste cose riguardo alle questioni di particolare rilevanza per grandezza e bellezza. CLINIA: Mi pare che sia così. ATENIESE: Per un legislatore, per un custode delle leggi, e per chi crede di essere superiore a tutti per virtù e ha ottenuto i premi della vittoria per queste cose, che cosa c'è di più importante di quelle realtà di cui ora parliamo, e cioè del coraggio, della temperanza, della giustizia, e dell'intelligenza? CLINIA: Nulla potrebbe essere più importante. ATENIESE: E a questo proposito gli interpreti, i maestri, i legislatori, i custodi delle altre cose non devono forse essere superiori agli altri, per chi ha bisogno di conoscere e di sapere, o per chi ha bisogno di essere punito e corretto perché sbaglia, insegnando e mostrando completamente quale forza ha il vizio e quale la virtù? Oppure un poeta giunto nel nostro stato o uno che dica di essere educatore dei giovani deve risultare migliore di chi ha vinto il premio della virtù? E poi, se in uno stato i custodi non sono sufficientemente preparati né in teoria né in pratica, e non conoscono in modo adeguato ciò che riguarda la virtù, perché ci si dovrebbe meravigliare se questo stato, lasciato senza custodia, subisce ciò che molti stati attuali subiscono? CLINIA: Non ci sarebbe nulla da meravigliarsi. ATENIESE: Ebbene? Dobbiamo fare o no quello che si è appena detto? Non dobbiamo preparare i nostri custodi perché siano più competenti di molti altri, in teoria e in pratica, intorno alla virtù? Oppure in che modo il nostro stato rassomiglierà alla testa e ai sensi degli uomini intelligenti, se al suo interno sarà fornito di una simile custodia? CLINIA: Come e in che modo, straniero, possiamo affermare di paragonare questo stato a qualcosa di simile? ATENIESE: è chiaro che se questo stato è simile ad un tronco, i custodì più giovani se ne staranno presso l'estrema sommità, scelti per la nobiltà della loro natura e per l'acutezza della loro anima, e getteranno il loro sguardo tutt'intorno sull'intero stato, e vigilando in questo modo trasmetteranno alla memoria le proprie sensazioni, e daranno notizia ai più anziani di tutto ciò che accade nello stato; e costoro, somigliando all'intelletto grazie alla loro eccellente capacità di riflettere intorno a molte questioni degne di considerazione, gli anziani in sostanza, prenderanno le decisioni, servendosi dell'aiuto dei giovani, insieme ai propri consigli, e così gli uni e gli altri insieme porteranno effettivamente in salvo lo stato. Forse è così che diciamo che lo stato si deve organizzare, o in quale altro modo? Forse che tutti i cittadini devono essere simili e non vi devono essere quelli che ricevono una formazione ed un'educazione perfette? CLINIA: Ma è impossibile, straordinario uomo! ATENIESE: Dobbiamo allora procedere verso un'educazione più accurata di quella che si è detta prima. CLINIA: Forse. ATENIESE: E non è proprio quella educazione che ora abbiamo preso in considerazione di cui abbiamo bisogno? CLINIA: Certamente. ATENIESE: E non dicevamo che l'artigiano che è valente in ogni cosa, e così il custode, non solo dev'essere in grado di mirare a tutti i molti e vari aspetti di una cosa, ma deve aspirare all'uno e conoscerlo, e una volta che ne ha preso conoscenza, deve ordinare tutto quanto in vista di quell'uno in modo che si possa abbracciare con uno sguardo d'insieme? CLINIA: Giusto. ATENIESE: E dunque quale indagine, quale osservazione che si possa fare di un oggetto qualsiasi può risultare più precisa di quella che è in grado di rivolgere il suo sguardo all'unico tratto distintivo dell'oggetto, partendo dal molteplice e dal dissimile? CLINIA: Nessuna forse. ATENIESE: Non “forse”, ma effettivamente, carissimo, nessun uomo possiede un metodo più chiaro di questo. CLINIA: Ti credo, straniero, e sono d'accordo con te, e allora procediamo con i nostri discorsi in questa direzione. ATENIESE: Bisogna costringere, a quanto pare, anche i custodi della nostra divina costituzione ad osservare innanzitutto con grande attenzione che cosa sia mai quell'elemento che rimane il medesimo in tutte e quattro le specie delle virtù, il quale noi diciamo che è uno nel coraggio, nella temperanza, nella giustizia, e nell'intelligenza, e che con un solo nome chiamiamo giustamente virtù. Questa cosa, amici, se vogliamo, ora che l'abbiamo messa alle strette, non lasciamocela scappare, prima di aver adeguatamente definito che cos'è mai questo cui bisogna rivolgere lo sguardo, sia che si tratti di un'unità, o di un tutto, o di tutte e due le cose insieme, a seconda della sua natura: oppure, se questo ci sfuggisse, riterremo di conoscere in modo adeguato ciò che rientra nell'ambito della virtù, della quale non saremo in grado di spiegare né se è molti, né se è quattro, né se è come una unità? Se allora presteremo fede ai nostri consigli, in un modo o in un altro escogiteremo un sistema per introdurre nel nostro stato questa conoscenza; altrimenti bisogna vedere se non ci sembrerà opportuno lasciar perdere tale questione. CLINIA: Non bisogna affatto accantonare, per il dio degli ospiti, tale problema, straniero, se è vero che a noi sembra che stai dicendo cose giustissime. Ma come si potrebbe escogitare, invece, un sistema per ottenere questo scopo? ATENIESE: Non parliamo ancora di quale mezzo si deve escogitare: dobbiamo innanzitutto confermare con un accordo fra di noi se questo scopo dev'essere perseguito o no. CLINIA: Bisogna senz'altro, se è possibile farlo. ATENIESE: Ebbene? Non facciamo le stesse considerazioni intorno al bello e al buono? I nostri custodi devono riconoscere soltanto la molteplicità di ciascuno di questi, o anche il modo in cui essi siano da considerarsi un'unità? CLINIA: A quanto pare, devono necessariamente pensarli anche come un'unità. ATENIESE: E allora? Pensarli soltanto, senza essere capace di fornire una dimostrazione razionale? CLINIA: E come si potrebbe? Quella di cui tu parli sarebbe una condizione propria da schiavo. ATENIESE: Ebbene? Lo stesso discorso che stiamo affrontando non vale per tutte le cose importanti, e cioè che coloro che saranno effettivamente custodi delle leggi devono realmente conoscere la verità concernente queste cose, essere capaci di fornire una dimostrazione razionale, e comportarsi di conseguenza nella pratica, giudicando ciò che è bene e ciò che non lo è secondo natura? CLINIA: E come no? ATENIESE: E non è una delle conoscenze più belle quella riguardante gli dèi, che noi abbiamo esposto con grande ardore e che consiste nel sapere se essi esistono, di quale potenza appaiono signori, e se è concesso all'uomo, nei limiti del possibile, di prendere conoscenza di queste cose? E non si deve essere indulgenti verso la maggior parte di quelli che vivono nello stato, se essi seguono soltanto la voce delle leggi, mentre a quelli che prenderanno parte della custodia dello stato non si deve affidare questa mansione, se non a colui che non si sia risparmiato nell'acquisire ogni conoscenza relativa alla fede negli dèi? E non ricevere quest'incarico non significa forse che chi non ha natura divina e non si è preso gran cura nella ricerca riguardante gli dèi non potrà mai essere scelto in qualità di custode delle leggi, e neppure potrà essere annoverato fra i cittadini che si distinguono per virtù? CLINIA: è giusto, come dici, che chi è pigro a proposito di tali cose, o è incapace, sia tenuto a debita distanza dalle onorificenze. ATENIESE: E non sappiamo che due sono le strade che conducono ad avere fede negli dèi, e che sono quelle di cui abbiamo già parlato anche prima? CLINIA: E quali sono? ATENIESE: La prima è quella che dicevamo a proposito dell'anima, in quanto è la realtà più antica e più divina di tutte quelle cui il moto, ricevuta la generazione, fornì l'eterna essenza: l'altra riguarda l'ordine che assume il movimento degli astri e di tutte le altre cose che è guidato dall'intelletto il quale ordina e amministra il tutto. Non vi è nessuno così ateo fra gli uomini che, avendo preso in considerazione queste cose non in modo superficiale e rozzo, non provi il contrario di quello che la maggior parte delle persone si attende. La massa pensa che quelli che si occupano di tali studi riguardanti l'astronomia e le altre arti che necessariamente si collegano a questa diventano atei, poiché osservano che le cose avvengono per necessità, e non per il pensiero di una volontà che desidera la realizzazione dei beni. CLINIA: In quali termini si definisce la questione? ATENIESE: Tutto all'opposto, come dicevo, ora e quando pensavano che gli astri fossero inanimati. D'altronde, anche allora un certo sentimento d'ammirazione si insinuava nell'animo umano alla vista degli astri, e quelli che studiavano con rigore queste cose nutrivano dei sospetti a proposito di ciò che ora è effettivamente appurato, e cioè che mai i corpi inanimati avrebbero fatto uso con così tanta precisione di calcoli tanto meravigliosi, non essendo forniti dell'intelligenza: e già allora alcuni avevano il coraggio di correre questo rischio, dicendo che l'intelletto aveva ordinato tutte le cose del cielo. Ma gli stessi, sbagliandosi di nuovo a proposito della natura dell'anima che è più antica dei corpi, e pensando che fosse più giovane, rovesciarono nuovamente tutto, per così dire, e soprattutto se stessi: tutto ciò che compariva dinanzi ai loro occhi e che si muoveva nel cielo, sembrava essere pieno di pietre, di terra, e di molti altri corpi inanimati, sicché essi assegnavano a queste cose le cause di tutto il cosmo. Queste teorie avevano allora fatto in modo che quelli venissero accusati di ateismo e che le stesse ricerche risultassero moleste; e non solo, ma giunsero anche i poeti con le loro ingiurie, i quali rappresentarono i filosofi simili a cani che abbaiano invano, e dicono altre cose insensate: ma ora, come si diceva, è tutto il contrario. CLINIA: E come? ATENIESE: Mai nessun mortale diventerà sicuramente pio, se non accoglierà quei due princìpi che sono stati appena enunciati, e cioè che l'anima è la realtà più antica di tutte quelle che hanno preso parte della generazione, ed è immortale, e guida tutti i corpi; e inoltre, come ora si è ripetuto più volte, che negli astri vi è l'intelletto delle cose che sono; e non è pio colui che non apprende le discipline che si devono apprendere prima di queste, e che, avendo osservato le relazioni fra la musica e queste, non se ne servirà per regolare armonicamente le consuetudini e le norme della propria indole, e per quanto esse abbiano una ragione, non sia in grado di assegnargliela. Chi non possiede queste nozioni oltre alle virtù civili, non potrà mai diventare un magistrato capace di reggere tutto lo stato, ma un servitore ed un aiutante di altri magistrati. Bisogna ora vedere, Clinia e Megillo, se oltre a tutte le leggi che abbiamo enunciato e che abbiamo passato in rassegna non sia il caso di aggiungere anche questa, cioè l'istituire un consiglio notturno formato dai magistrati, il quale vigili, secondo la legge, sulla salvezza dello stato, e partecipi di tutta l'educazione di cui abbiamo parlato. O come faremo? CLINIA: Ma, carissimo, come non potremmo aggiungere questa legge, anche se limitatamente alle nostre possibilità? ATENIESE: E allora scendiamo tutti in gara in vista di questo fine. Anch'io vi aiuterò volentieri in quest'impresa - oltre a me troverò forse altre persone - grazie all'esperienza che ho acquistato in proposito, e per la riflessione assai lunga che vi ho dedicato. CLINIA: Ma, straniero, più di ogni altra cosa dobbiamo procedere per quella strada lungo la quale anche il dio ci guida: ed ora dobbiamo dire e ricercare quale sia il modo per giungere correttamente al nostro fine. ATENIESE: Non si può legiferare, Megillo e Clinia, su tali questioni se prima non sono ancora state ordinate; solo allora si potrà stabilire per legge ciò su cui eserciteranno la loro autorità. Per il momento, la fase organizzativa di tali cose si limita ad uno studio che può avvenire in molti incontri, sempre che avvengano rettamente. CLINIA: E come? Che cosa stiamo dicendo? ATENIESE: In primo luogo bisogna fare una scelta di quanti saranno adatti per natura a vigilare sullo stato, per età, capacità di apprendere, indole, ed abitudini: dopo di che non è facile trovare le discipline che essi devono apprendere, e non è neppure facile diventare discepolo di un altro che le ha trovate. Ed inoltre sarebbe vano stabilire per iscritto i tempi durante i quali ed entro i quali bisogna apprendere ciascuna disciplina: infatti non risulta chiaro neppure agli stessi individui che apprendono una disciplina conoscere qual è il momento opportuno per apprendere, se non quando la conoscenza di ogni disciplina si sia formata nell'anima di ciascuno. E così non sarebbe giusto dire che non si deve parlare di tutte queste cose, ma non si deve parlarne prima per il fatto che, se se ne parlasse prima, non si chiarirebbe nulla. CLINIA: Se le cose stanno così, straniero, che cosa dobbiamo fare? ATENIESE: Come dice il proverbio, amici, la questione pare che stia in comune e in mezzo a noi, e se vogliamo rischiare intorno a tutta quanta la costituzione gettando i dadi, come dicono, per avere il tre volte sei, o soltanto il tre, bisogna fare così; io rischierò con voi, spiegando ed esponendo qual è il mio pensiero a proposito dell'educazione e dell'allevamento che ora abbiamo smosso con i nostri discorsi: non si tratta di un rischio di scarsa importanza, e non si può paragonare ad altri rischi. Io ti invito, Clinia, ad occuparti di questa faccenda: tu infatti, fondando rettamente lo stato dei Magneti, o come il dio vorrà chiamarlo, ti procurerai immensa gloria, e non potrai senz'altro evitare di essere considerato come il più coraggioso fra tutti quelli che verranno dopo di te in un'impresa del genere. E se questo nostro divino consiglio nascerà, cari amici, sia affidato ad esso lo stato, e non vi sarà alcuna contestazione, su questo punto, per così dire, da parte di nessuno degli attuali legislatori. Allora si realizzerà ed assumerà contorni reali quel sogno di cui abbiamo parlato poco fa nel corso del nostro ragionamento, quando con un'immagine abbiamo combinato insieme la testa con l'intelletto; e questo avverrà se noi sceglieremo con attenzione i nostri uomini, uomini convenientemente educati, e se, una volta educati, si collocheranno presso l'acropoli della regione, diventando così dei custodi perfetti come noi non abbiamo mai visto nella nostra vita passata, grazie alla loro virtù di salvaguardare lo stato. MEGILLO: Caro Clinia, dopo tutte le parole che ora noi abbiamo detto, o dobbiamo lasciar perdere la fondazione dello stato, o non dobbiamo lasciare andar via questo straniero, ma con preghiere e con ogni altro mezzo dobbiamo renderlo partecipe della sua fondazione. CLINIA: Quello che dici è verissimo, Megillo, e allora farò come dici tu, e tu aiutami. MEGILLO: Ti aiuterò.

Eugenio Caruso ... 25 - 01-2020

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