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Platone le LEGGI. Legislazioni e costituzioni


Dopo aver commentato di PLATONE il Timeo, il Simposio, lo Ione, il Critone, l'Apologia di Socrate, il Fedone, l'Eutifrone, il Carmide, il Lachete, il Liside, l'Alcibiade Maggiore, l'Alcibiade minore, l'Ipparco, gli Amanti, il Teage, l'Eutidemo, il Protagora, il Gorgia, il Cratilo, il Menone, l'Ippia Maggiore, l'Ippia minore, il Menesseno, il Clitofonte, il primo libro della Repubblica, il Crizia, il Teeteto, il Sofista, il Politico, il Parmenide, il Filebo, il Fedro, il Minosse, mi dedico ora a Le leggi.

Il grammatico Trasillo, nel I secolo d.C., seguendo un'affinità di argomento, ordinò le opere platoniche in gruppi di quattro:

1. Eutifrone, Apologia di Socrate, Critone, Fedone
2. Cratilo, Teeteto, Sofista, Politico
3. Parmenide, Filebo, Simposio, Fedro
4. Alcibiade primo, Alcibiade secondo, Ipparco, Amanti
5. Teage, Carmide, Lachete, Liside
6. Eutidemo, Protagora, Gorgia, Menone
7. I ppia maggiore, Ippia minore, Ione, Menesseno
8. Clitofonte, La Repubblica, Timeo, Crizia
9. Minosse, Leggi, Epinomide, Lettere
Altre opere spurie sono:
Definizioni, Sulla giustizia, Sulla virtù, Demodoco, Sisifo, Erissia, Assioco, Alcione, Epigrammi.

PREMESSA A LE LEGGI

Le Leggi furono scritte alcuni anni prima che la morte cogliesse il grande filosofo ateniese e costituiscono la fase finale della sua lunga riflessione politica sullo stato. E' impossibile riassumere il dibattito che la critica, sin dall'antichita, ha sviluppato intorno al problema della cronologia e dell'autenticità dell'opera, sicché in questa sede ci limiteremo ad alcune considerazioni di carattere generale.
Innanzitutto la data del 353 a.C., anno in cui avvenne verosimilmente la vittoria dei Siracusani sui Locresi ricordata nel libro 1, appare come il termine di riferimento cronologico più sicuro per datare la composizione del dialogo. In secondo luogo, un'attenta analisi dell'opera ha messo in luce alcune imperfezioni stilistiche (frequenti ripetizioni e omissioni, ad esempio) che hanno fatto pensare a un'opera non pienamente compiuta, ma forse ancora in fase di elaborazione e in attesa di revisione.
Si può allora concludere che dopo la morte del filosofo, avvenuta presumibilmente nel 348 a.C. - e quindi qualche anno dopo la composizione delle Leggi -, spettò al segretario del maestro, Filippo di Opunte, provvedere a una sistemazione, peraltro sommaria, dell'opera, nonché all'attuale divisione in dodici libri.
Le Leggi dunque, come si è appena detto, rappresentano la fase finale del pensiero politico di Platone ma è stato anche osservato che, prima ancora che indagine filosofica pura, possono essere quasi considerate come una specie di trattato storico sulla legislazione ateniese, spartana, e cretese del tempo.
Ed è forse proprio in questa storicità delle Leggi che si scorge un elemento di rottura rispetto ai dialoghi precedenti che avevano affrontato il problema, dello stato e delle costituzioni: nella Repubblica, ad esempio, si dovevano creare le fondamenta di uno stato che sarebbe peraltro esistito soltanto su di un piano ideale, razionale (dove la ricerca della Giustizia e le speculazioni sul Sommo Bene coincidevano con le fondamenta dello stato ideale), mentre l'intento delle Leggi è quello di tradurre nella realtà storica, mediante l'attività del legislatore e il suo sforzo normativo, lo stato ideale delineato in precedenza.
Si spiegano così l'analisi e la critica nei confronti delle legislazioni e delle costituzioni spartane e cretesi, le riflessioni storico-politiche sui fallimenti dell'impero persiano (determinato da un eccesso di dispotismo) e su quelli dello stato ateniese (determinati da un eccesso di libertà), il confronto, rigoroso e serrato, con il diritto positivo dell'epoca. Platone dichiara apertamente l'intento "pratico" del dialogo al termine del libro terzo, ricorrendo a un semplice espediente: Clinia, uno dei personaggi del dialogo, è stato incaricato dalla città di Cnosso di emanare quelle leggi che ritiene migliori per una colonia che i Cretesi hanno intenzione di fondare, ragion per cui rivolge un appello ai suoi due interlocutori, ovvero quello di fondare "con la parola", il nuovo stato. In altri termini, la riflessione puramente teorica sulle leggi dovrà ogni volta adattarsi alle esigenze pratiche della nuova colonia cretese.
I primi tre libri costituiscono dunque una lunga introduzione al vero e proprio trattato sulle leggi: il libro 1 si apre con la splendida descrizione della campagna cretese nelle prime ore del mattino di una calda giornata estiva. Tre vecchi prendono parte al dialogo: l'Ateniese, identificato sin dall'antichità con Platone stesso, il cretese Clinia e lo spartano Megillo.
L'Ateniese propone ai suoi compagni di discutere di costituzioni e di leggi lungo la strada che da Cnosso conduce all'antro di Zeus: essi incontreranno molti ed alti alberi che con la loro frescura permetteranno loro di sfuggire alla canicola estiva.
La discussione entra subito nel vivo: il cretese Clinia, dopo aver constatato che a Creta le consuetudini (l'uso dei pasti in comune, ad esempio) e la legislazione si ispirano alla guerra, a causa della conformazione geografica del luogo che è aspra ed accidentata, sostiene che il legislatore dovrebbe legiferare soltanto in vista della guerra, dal momento che la condizione umana si trova in uno stato di guerra permanente.
Ma l'Ateniese non è d'accordo con le posizioni del cretese: la guerra rappresenta senz'altro un evento necessario nel complesso delle relazioni umane, ma non costituisce certamente la norma, e dunque il legislatore non deve legiferare solo in vista della guerra, ma anche in vista della pace, realizzando le virtù della giustizia, della saggezza, e dell'intelligenza. Di qui sorge la critica verso l'eccessiva severità delle legislazioni spartane e cretesi: esse non sono solo carenti perché legiferano unicamente in vista del coraggio che si manifesta in guerra, ma si caratterizzano anche per la loro eccessiva severità di costumi.
L'Ateniese dimostra ad esempio che il divieto di bere vino imposto dalla legislazione spartana non ha un fondamento logico: se la consuetudine del bere vino viene regolata all'interno dei simposi, così come accade ad Atene, essa non è affatto da respingere, ma, anzi, si rivela utile ai fini dell'educazione, in quanto, rendendo temporaneamente impudenti, contribuisce in seguito a contrastare l'impudenza stessa e ad acquistare di conseguenza la virtù del pudore.
Il libro 2 affronta il tema dell'educazione che verrà ripreso nel 7. L'educazione si raggiunge attraverso i cori, le danze, e la musica che ad essi è connessa. A questo proposito l'Ateniese avverte che le belle danze, i bei cori, e l'arte in genere non possono essere sottoposti al giudizio dei poeti perché fondano la loro arte sulla mimesi, e quindi il loro giudizio non sarebbe attendibile: l'arte infatti non dev'essere giudicata soltanto in base al piacere che essa procura, ma anche in base ai fini educativi che è in grado di realizzare. Tenendo conto di questi princìpi, il legislatore ordinerà tre tipi di cori, ovvero quello dei fanciulli, quello dei giovani sino ai trent'anni, ed infine quello degli uomini fra i trenta e i sessant'anni. Il terzo coro è quello dei cantori che cantano in onore di Dioniso: seguono così alcune pagine in cui Platone si abbandona ad una appassionata difesa del dionisismo, affermando che i cori di Dioniso, se sono guidati da persone sobrie, si rivelano vantaggiosi per l'educazione e per lo stato in generale.
Nel libro 3 si affronta la questione riguardante l'origine dello stato in una chiave che potremo definire storica: Platone ripercorre la storia del genere umano tornando ai suoi albori, quando un diluvio universale ciclicamente annientava uomini e cose. Ogni volta si salvavano soltanto quegli uomini che abitavano i luoghi più alti, i quali però, come in una sorta di età dell'oro, non avevano bisogno né di leggi né di legislatori, perché vivevano nella concordia reciproca.
In un secondo momento le famiglie scesero nelle pianure e presero a radunarsi: si innalzarono mura di siepi per delimitare e separare una proprietà dall'altra e vennero fondati i primi organismi politici. Seguì la fase delle costituzioni delle città che coincise con la fondazione e la distruzione di Troia. Dopo di che si apre una prima parentesi sull'analisi dei fallimenti delle esperienze politiche di Argo e di Micene: l'ignoranza degli affari umani e l'assenza di un potere moderato hanno causato la rovina di quegli stati.
Nel corso della seconda digressione storica si prendono invece in esame i mali della costituzione persiana e di quella ateniese: quando i Persiani raggiunsero, sotto Ciro, il giusto mezzo fra servitù e libertà, lo stato prosperava e dominava sugli altri popoli, ma in seguito una malvagia educazione, unita all'accentuato dispotismo di sovrani come Cambise, segnò il definitivo declino della potenza persiana; quanto alla costituzione ateniese, i poeti ingenerarono con le loro opere una temeraria trasgressione nel campo artistico che ben presto si estese ad ogni altro aspetto dello stato determinando la nascita dell'illegalità e della licenza. Conclusa dunque la lunga introduzione delle Leggi, si gettano le basi della costituzione del nuovo stato che verrà discussa dal libro 4 all'8.
Il libro 4 si apre con l'elenco dei requisiti che la geografia del nuovo stato deve possedere: oltre alla capitale situata nell'interno, esso deve avere abbondanza di porti, benché convenga in ogni caso limitare il più possibile i rapporti commerciali con gli altri stati, dato che il commercio rende infidi i cittadini e la gran quantità d'oro e d'argento corrompe i loro animi. Per quanto riguarda la scelta della costituzione, le varie forme di costituzioni storicamente esistenti (democrazia, oligarchia, aristocrazia, monarchia) presentano aspetti positivi e negativi che difficilmente si combinano in una costituzione ideale. Ci si deve dunque appellare alla divinità che indicherà i criteri di giustizia che si devono seguire nella realizzazione dello stato e delle leggi. Le ultime pagine del libro 4 sono infine dedicate all'esposizione del metodo con cui verranno redatte le leggi: in primo luogo esse non devono apparire soltanto minacciose, ma anche persuasive, e in secondo luogo occorre fornire ogni legge di un proemio che introduce alla legge vera e propria.
All'inizio del libro 5 troviamo ancora un proemio dal carattere squisitamente etico: dopo gli dèi si deve onorare l'anima, e dopo l'anima il corpo. L'uomo virtuoso deve conformarsi alla temperanza, all'intelligenza, e al coraggio, e deve combattere contro gli egoismi e gli eccessi delle gioie e dei dolori. Si entra quindi nel vivo della costituzione del nuovo stato: si fissano le norme relative alla distribuzione delle terre e il numero dei 5.040 cittadini che parteciperanno di diritto a questa distribuzione. I cittadini vengono divisi in quattro classi censuarie e tutta la popolazione dello stato viene ripartita in dodici tribù.
La materia trattata nel libro 6 è meramente tecnica e riguarda la nomina e l'istituzione dei magistrati. Innanzitutto vengono istituiti i custodi delle leggi che rivestono un'importanza fondamentale all'interno del nuovo stato. Quindi si procede all'elezione degli strateghi, dei tassiarchi, dei filarchi, e dei pritani. Seguono le magistrature degli astinomi (per gli affari interni alla città), degli agoranomi (per quel che accade sull'agorà), dei sacerdoti, ed infine degli agronomi (per la custodia e la sorveglianza delle campagne). Assai importanti sono i due ministri dell'educazione, uno per la musica ed un altro per la ginnastica.
Ed è proprio il libro 7 che riprende e sviluppa il tema dell'educazione di cui s'era fatto un rapido cenno nel libro 2: si affrontano i problemi relativi alla prima infanzia, e quindi quelli dei bambini dai tre ai sei anni. Dodici donne, una per tribù, si occuperanno dell'educazione. Ma l'educazione si ottiene anche grazie alla ginnastica per il corpo e alla musica per l'anima. La questione si sposta quindi sul problema dell'istruzione e della scuola: essa dev'essere obbligatoria tanto per le donne quanto per gli uomini, e a scuola si devono studiare le lettere e i componimenti dei poeti. Fra le altre discipline che si devono apprendere vi sono la matematica, la geometria, e l'astronomia.
Con il libro 8 ci avviamo ormai verso la parte finale delle Leggi. Gettate le fondamenta del nuovo stato bisogna ora dotarlo di un vero e proprio codice di leggi che siano in grado di rispondere alle esigenze più diverse che sorgono in uno stato. Si stabiliscono innanzitutto le festività del nuovo stato, e le varie esercitazioni che si devono compiere in tempo di pace e di guerra. Vi sono poi alcune pagine interessanti sulle norme che regolano i costumi sessuali dei cittadini in cui Platone condanna esplicitamente l'omosessualità, pratica assai diffusa nel suo tempo, e fissa una legge che regola i rapporti eterosessuali e l'astinenza. L'ultima parte del libro 8 passa in rassegna i problemi legati all'agricoltura e alle attività degli artigiani.
Nel libro 9, dopo l'esame dei casi di spoliazione dei beni, si apre un'interessante digressione sull'origine del male che si genera all'interno di una società umana: viene ribadito in questo caso il vecchio principio socratico secondo il quale nessuno compie il male volontariamente, ma per ignoranza del bene. Ed è proprio l'ignoranza del bene, insieme all'ira e al piacere, che determina i crimini peggiori in uno stato. Si passano allora in rassegna le varie specie di omicidi - essi possono essere commessi volontariamente ed involontariamente, e i moventi possono essere l'ira, o la passione, o ancora la legittima difesa -, e analogamente i casi di ferimenti e di violenze.
Il libro 10 è una lunga riflessione filosofica sull'ateismo che interrompe la dettagliata esposizione del codice di leggi: Platone condanna fermamente l'ateismo e confuta le tesi di chi sostiene che gli dèi non esistono, o esistono ma non si prendono cura degli affari umani, o, ancora, crede che essi si possano corrompere con doni votivi. A questo proposito non soltanto si può adeguatamente dimostrare l'esistenza degli dèi attraverso l'esistenza dell'anima, ma si può anche affermare l'esistenza della provvidenza divina. Seguono le pene relative ai reati commessi per empietà e per ateismo.
Nel libro 11 riprende l'esposizione delle leggi, in gran parte dedicata alle norme relative ai contratti che i cittadini stipulano fra loro. La materia è assai vasta e complessa e spazia dalla normativa riguardante gli schiavi e i liberti a quella che regola il commercio degli artigiani, dalla spinosa questione dei testamenti al divorzio dei coniugi, per citare soltanto i casi più significativi.
L'esposizione del codice delle leggi prosegue ancora in tutta la prima parte del libro 12, e fra queste leggi possiamo ricordare, a titolo di esempio, la diserzione dei soldati, l'istituzione dei magistrati inquisitori, le leggi sul giuramento, le normative sulle mallevadorie. Il dialogo giunge così alle sue battute finali. Nelle ultime pagine Platone, per bocca dell'Ateniese, avverte l'esigenza di ribadire il fine cui mira tutto il corpo delle leggi oggetto della lunga esposizione, vale a dire quello di realizzare il complesso delle virtù nello stato. Un'intelligenza superiore a tutte le altre istituzioni dello stato dovrà quindi essere in grado di cogliere la ragion d'essere di ogni legge, e come la testa è a capo del corpo, così un consiglio n otturno, supremo organo politico composto dai dieci più anziani custodi delle leggi - custodi-filosofi, dunque, che hanno appreso l'arte della politica attraverso la dialettica - dovrà sorvegliare e presiedere le leggi e la costituzione del nuovo stato.
ENRICO PEGONE

LIBRO NONO
ATENIESE: Dopo di che si dovrebbero trattare i procedimenti giudiziari che, secondo l'ordine naturale delle nostre leggi, dovrebbero seguire tutti quei fatti di cui si è detto precedentemente. Riguardo ai fatti per cui devono aver luogo questi procedimenti, alcuni sono stati detti, e si tratta di quelli che riguardano l'agricoltura e quanto ad essa è connesso, mentre gli altri, quelli più importanti, non li abbiamo ancora trattati, e non abbiamo ancora parlato di essi singolarmente: e proprio questi bisogna allora trattare qui di seguito, stabilendo quale pena richiede ciascun fatto, e a quali giudici ci si debba rivolgere. CLINIA: Giusto. ATENIESE: è cosa in un certo senso vergognosa stabilire tutte queste leggi, come ora stiamo per fare, in uno stato che, come diciamo, dovrà essere ben governato, e fornito di ogni perfezione utile alla pratica della virtù: anche il credere che in un simile stato possa nascere qualcuno che prende parte di quelle degenerazioni più gravi della malvagità proprie degli altri stati, sicché bisogna legiferare facendo azione di prevenzione e di minaccia nei confronti di chi potrebbe diventar tale e si devono porre leggi per questi individui, come se fossero già nel nostro stato, per distoglierli dai delitti o per punirli, nel caso li abbiano già commessi, questo fatto, dunque, come dicevo, è in un certo senso vergognoso. Ma dato che non siamo più nelle condizioni in cui si trovavano gli antichi legislatori che legiferavano per gli eroi figli di dèi, come ora si dice, e provenendo essi stessi dagli dèi legiferavano per altri che similmente discendevano dagli dèi, ma siamo uomini e dobbiamo ora legiferare per stirpi di uomini, non deve dispiacerci se temiamo che qualcuno dei nostri cittadini sia duro come i semi toccati dalle corna di buoi e abbia una natura talmente inflessibile da non poterla ammorbidire: e come quei semi resistono al fuoco, ora temiamo che costoro non si lascino ammorbidire dalle leggi, anche se quelle hanno la stessa forza del fuoco. Per queste ragioni, mi toccherà l'ingrato compito di esporre per prima la legge riguardante il saccheggio dei luoghi sacri, se mai vi sia qualcuno che abbia il coraggio di compiere un tale delitto. Noi non vorremmo e non avremmo affatto motivo di sperare che uno dei cittadini che sono stati rettamente educati si ammalasse di tale malattia, mentre i loro servi, e gli stranieri, e i loro schiavi avranno molte possibilità di porre mano a tali delitti. Per queste persone soprattutto, pur essendo tuttavia vigile nei confronti della debolezza della natura umana nel suo complesso, formulerò la legge sui ladri sacrileghi, e su tutti gli altri crimini di questo genere che sono difficili a guarire e addirittura insanabili. A tutte queste leggi si deve premettere un brevissimo proemio, secondo gli accordi che abbiamo preso in precedenza. Conversando e nello stesso tempo consigliandolo, si potrebbe parlare in questo modo all'uomo che un malvagio desiderio di compiere furti sacrileghi nei luoghi sacri stimola di giorno e tiene sveglio di notte: «Straordinario uomo, non è un male umano, né divino ciò che ora ti muove e ti spinge a compiere un furto sacrilego, ma un assillo che si è generato in te a causa di antiche ed inespiate colpe degli uomini, e che funesto si aggira, e sul quale con ogni sforzo devi vigilare. Cerca di capire in che cosa consiste questa vigilanza. Quando ti capita di essere colto da questi pensieri, vai a compiere sacrifici espiatori, vai supplice presso i templi delle divinità tutelari, vai a cercare la compagnia di quelle persone che da voi sono dette oneste, ora ascoltandole, ora tentando di dire tu stesso che ogni uomo deve onorare ciò che è bello e giusto: e fuggi senza voltarti dalla compagnia di uomini malvagi. E se ti comporterai in questo modo, il male cesserà; altrimenti considera più onorevole la morte e abbandona la vita». Questo è il proemio che noi cantiamo per coloro che concepiscono di compiere tutte queste azioni empie e dannose allo stato, e se uno vi obbedisce bisogna che la legge stia in silenzio, ma se uno non obbedisce, dopo il proemio, bisogna cantare a gran voce così: chi è sorpreso a rubare nei templi, se schiavo o straniero, sia segnato con il segno della sventura sulla fronte e sulle mani, e sia frustato tante volte quanto sembrerà opportuno ai giudici, e quindi sia bandito, nudo, dai confini della regione. Forse, infliggendogli questa pena, diventerà migliore e avrà modo di rinsavire. Nessuna pena stabilita secondo la legge mira allo scopo di far del male, ma realizza semplicemente una di queste due condizioni: o rende migliore, o, se non altro, meno malvagio chi la subisce. Se invece è un cittadino che risulta compiere un tale delitto, compiendo gravi ingiustizie - di cui non si potrebbe neppure parlare - contro gli dèi, o i genitori, o lo stato, il giudice deve ritenerlo ormai incurabile, considerando il fatto che, nonostante l'educazione e la formazione ricevuta sin da bambino, non si è astenuto da questi gravissimi mali. Per lui la pena consisterà nella morte, il minore dei mali, e il suo esempio servirà a tutti gli altri, e senza onore sparirà al di fuori dei confini della regione: i suoi figli e la sua stirpe, se evitano i costumi del padre, conseguano gloria ed onore per il fatto che, allontanandosi dal male, si sono rivolti con onestà e coraggio verso il bene. Ad una costituzione come la nostra, che prevede di dover mantenere sempre identici ed uguali i lotti, non conviene confiscare i beni di queste persone. Quanto al pagamento delle multe, quando qualcuno risulti arrecare un danno che si può materialmente quantificare, paghi se ci sia un eccedenza rispetto al valore del lotto di cui ciascuno è stato dotato, e la multa rimanga in questi termini, e non paghi di più: i custodi delle leggi, esaminando con la dovuta precisione i registri, riferiscano sempre ai giudici il chiaro ammontare dei patrimoni, perché qualche lotto non sia lavorato per mancanza di ricchezze. E se si ritiene che uno debba meritare una multa maggiore, nel caso non vi sia qualche amico che voglia farsi garante per lui e così liberarlo, pagando la somma dovuta, lo si metta in carcere per lungo tempo e pubblicamente, e lo si punisca con alcuni alte oltraggiosi castighi, ma assolutamente nessuno sia mai privato dei diritti civili, né per una delle sue colpe, né se tenta la fuga oltre i confini dello stato: sia condannato a morte, o al carcere, o alle frustate, o a sedere o a stare in piedi in atteggiamenti sconvenienti, o all'allontanamento verso templi situati presso gli estremi confini della regione, o a pagare delle multe secondo le procedure indicate prima. Giudici della pena di morte siano i custodi delle leggi e un collegio di magistrati, scelti secondo il merito, fra quelli che erano in carica l'anno prima: per quanto riguarda le ammissioni di queste cause, le citazioni, e tutte le altre operazioni simili e il modo in cui debbono avvenire, spetta ai legislatori più giovani occuparsene, mentre nostro compito è quello di presentare la legge sulle modalità di voto. Il voto assegnato sia palese, ma prima di esso i nostri giudici seggano vicini, uno accanto all'altro secondo l'anzianità, di fronte all'accusatore e all'accusato, e tutti i cittadini che hanno tempo libero siano uditori attenti del processo. Parleranno a turno, prima l'accusatore, e dopo l'accusato: dopo questi discorsi, comincerà a interrogarli il giudice più anziano, procedendo a un attento esame dei fatti esposti; dopo il più anziano tutti, uno dopo l'altro, devono cercare di sapere dalle due parti in causa che cosa si desidera che sia detto o non sia detto. Chi non desidera sapere nulla, lasci ad un altro l'inchiesta. Fra le cose dette vengano secretati i punti che si ritengono di particolare importanza, e, suggellati da tutti i magistrati, siano deposti sull'altare di Estia. Il giorno dopo si riuniscano di nuovo nello stesso luogo, e interrogandoli allo stesso modo, porteranno avanti l'inchiesta, firmando le deposizioni rese: ripetute queste operazioni per tre volte, dopo che si è raccolto un numero sufficiente di prove e di testimonianze, ciascuno deponga il sacro voto, e prometta in nome di Estia di giudicare nei limiti del possibile secondo giustizia e verità, e così il processo abbia fine. Dopo i delitti contro gli dèi, vi sono quelli contro lo stato. Chi asservisce le leggi conducendole sotto il potere degli uomini, e rende lo stato suddito di una fazione politica, e si muove contro le leggi facendo tutto ciò in modo violento e risvegliando la sedizione, costui va considerato il nemico peggiore di tutto lo stato: bisogna che al secondo posto per malvagità sia considerato quel cittadino che, pur non prendendo parte ad alcuno di quei delitti, ma detenendo le più importanti cariche dello stato, sia che sia stato informato oppure che sia rimasto all'oscuro di questi fatti, per viltà non vendichi la patria stessa. Ogni uomo, anche se è scarso il vantaggio che arreca, denunci ai magistrati, conducendolo in tribunale, colui che trama una trasformazione violenta e illegale della costituzione: i giudici siano gli stessi che giudicavano i ladri sacrileghi, e tutto il processo avvenga secondo quelle stesse modalità, e si decreti la morte con la maggioranza dei voti. In una parola, conviene ripetere che il disonore e i castighi del padre non devono accompagnare nessuno dei figli, a meno che qualcuno non abbia il padre, il nonno, e il bisnonno che siano stati uno dopo l'altro condannati a morte: lo stato li mandi in esilio, rimandandoli alla loro antica patria, e conceda di portarsi via le loro sostanze, escludendo completamente tutto ciò che è stato fornito in sorte. E così, fra i cittadini che abbiano più di un figlio che non abbia meno di dieci anni si traggano a sorte dieci di questi bambini, e il padre o il nonno paterno o materno li presentino, e i nomi dei sorteggiati siano inviati a Delfi: quello che il dio sceglierà, sia stabilito, come erede, nella casa di coloro che sono andati via, e lo accompagni migliore fortuna. CLINIA: Bene. ATENIESE: Vi sia una terza legge comune ed uguale a quelle che precedono, sia riguardo ai giudici che devono emettere la sentenza, sia riguardo alle modalità dei processi, e questo valga per coloro che sono condotti in tribunale con un'accusa di tradimento: allo stesso modo vi sia un'unica legge per i discendenti di questi tre, il traditore, il ladro sacrilego, e colui che ha annientato con la violenza le leggi dello stato, la quale regola la permanenza o l'espulsione dalla patria. Per il ladro, sia che abbia commesso un grande o un piccolo furto, vi sia una sola legge e una sola pena valida per tutti: si deve innanzitutto pagare il doppio di quello che è stato rubato, se uno viene condannato in una causa come questa e dispone di un altro patrimonio, oltre il lotto che ha ricevuto in sorte, sufficiente a pagare la multa, altrimenti, sia incarcerato fino a quando non abbia pagato o non abbia convinto il suo avversario a concedergli il condono. Se un tale viene riconosciuto colpevole di aver rubato il patrimonio pubblico, dopo aver persuaso lo stato a concedergli il condono, o dopo aver pagato il doppio di ciò che ha rubato, venga scarcerato. CLINIA: Come possiamo dire, straniero, che non vi è differenza alcuna fra chi ha commesso un grande furto e chi porta via poche cose, e fra furti sacri e furti profani? E così per ogni altra differenza che riguardi l'intera materia del furto, alla cui varietà il legislatore deve adeguarsi, evitando di stabilire pene simili. ATENIESE: Benissimo, Clinia. Mi stavo lasciando trasportare, per così dire, dal discorso, quando tu, urtandomi, mi hai svegliato, richiamandomi alla memoria una riflessione già fatta anche prima, e cioè che la materia riguardante la formulazione delle leggi non ha mai richiesto, in alcun modo, uno sforzo così impegnativo come nell'argomento di cui ora ci è toccato di parlare. Che vogliamo dire con questo? Non era malvagia l'immagine che abbiamo trovato nel descrivere tutti coloro che sono governati dalla legge come schiavi curati da medici schiavi. Bisogna sapere con certezza che se uno di quei medici che pratica la medicina grazie alla sua esperienza, ma senza il supporto dello studio, sorprendesse un medico libero mentre discorre con un suo paziente, cittadino libero, usando un linguaggio assai vicino a quello filosofico, e tratta la malattia sin dall'origine risalendo alla natura del corpo, l'altro si farebbe subito una sonora risata, e non direbbe altre parole se non quelle che la maggior parte di questi cosiddetti medici ha sempre a portata di mano in questi casi: «Sciocco», direbbe, «tu non curi il malato, ma quasi pretendi di educarlo, come se volesse diventare medico, e non uomo sano». CLINIA: E parlando così non direbbe bene? ATENIESE: Forse sì, ma solo se pensasse che chiunque espone la materia concernente le leggi, così come noi ora stiamo facendo, educa i cittadini, e non vuole solo fissare delle leggi. E non avrebbe ragione se si esprimesse in questo modo? CLINIA: Forse. ATENIESE: Felice è in ogni caso la condizione in cui ora ci troviamo. CLINIA: Quale? ATENIESE: Essa consiste nel fatto che non siamo incalzati da alcuna urgenza di legiferare, per cui, trovandoci nella circostanza di esaminare una costituzione politica nel suo complesso, cerchiamo di scorgere in essa l'elemento migliore e quello assolutamente necessario, e in che modo potrebbero realizzarsi. E ci è anche possibile, a quanto pare, se lo vogliamo, esaminare l'elemento migliore e, se vogliamo, quello assolutamente necessario riguardo alle leggi: prendiamo quello dei due che preferiamo. CLINIA: Ma è ridicola, straniero, la scelta che ci proponiamo di fare, e saremmo senz'altro simili a quei legislatori che sono costretti da una grave necessità a legiferare immediatamente, come se l'indomani non fosse già più possibile: ma a noi è concesso, grazie a un dio, come a muratori o a chi comincia a mettere insieme qualsiasi altra cosa, di ammassare confusamente il materiale, da cui sceglieremo ciò che ci è utile per la costruzione che stiamo per realizzare, e di fare questa scelta in tutta tranquillità. Supponiamo allora di essere non come costruttori incalzati dalla necessità, ma come chi con tranquillità mette insieme una parte del materiale, e un'altra parte la sistema: sicché è giusto dire che ormai una parte delle leggi ha già avuto una sua sistemazione, mentre un'altra parte è in attesa di essere sistemata. ATENIESE: Dunque, Clinia, il nostro sguardo generale sulle leggi è sempre più conforme alla loro natura. Facciamo allora questa considerazione, per gli dèi, riguardo ai legislatori. CLINIA: Quale? ATENIESE: Negli stati vi sono opere scritte e discorsi scritti lasciati da molti altri scrittori, ma anche i discorsi del legislatore sono opere scritte. CLINIA: E come no? ATENIESE: Forse dobbiamo prestare attenzione agli scritti degli altri, sia dei poeti, sia di quanti, scrivendo in prosa o in versi, hanno deposto nella memoria i loro consigli di vita, e non dobbiamo invece rivolgere attenzione alle opere dei legislatori? Oppure dobbiamo prestare molta più attenzione a costoro? CLINIA: Molta di più a costoro. ATENIESE: Ma non dovrebbe essere soltanto il legislatore che, fra gli scrittori, fornisce consigli sulla bellezza, l'onestà, e la giustizia, insegnando in che cosa consistono, e come devono essere praticati da coloro che vogliono essere felici? CLINIA: E come no? ATENIESE: Ma sarebbe forse più turpe per Omero, Tirteo, e gli altri poeti fissare negli scritti consigli malvagi circa la vita e le consuetudini, e meno per Licurgo, Solone, e quanti, divenuti legislatori, lasciarono opere scritte? O non è giusto che, fra tutte le opere scritte che vi sono negli stati, quelle che svolgono la materia delle leggi appaiano come le più belle e le più nobili, mentre tutte le altre o devono adeguarsi a queste, o se sono discordi devono essere ridicole? Dobbiamo allora immaginarci, a proposito delle leggi scritte, che la loro redazione negli stati sia come un padre e una madre pieni di amore e di attenzione, o come un tiranno o un signore che scolpisce sui muri i suoi ordini minacciosi, e quindi se ne va? Vediamo anche noi ora se dobbiamo provare a parlare delle leggi immaginandole come in quel primo caso, e, sia che ne siamo capaci, sia che non lo siamo, mettiamoci d'impegno: e procedendo lungo questa strada, se anche ci fosse qualche difficoltà da affrontare, affrontiamola. Speriamo che così tutto vada bene, se anche il dio lo vorrà. CLINIA: Hai detto bene, e facciamo come dici. ATENIESE: Bisogna innanzitutto prendere accuratamente in esame, come già abbiamo cominciato a fare, la legge riguardante i furti sacrileghi, e il furto in genere, e tutte le ingiustizie che vengono compiute, e non dobbiamo infastidirci se nell'atto di legiferare, abbiamo già fissato alcune leggi, mentre altre attendono ancora di essere esaminate: infatti stiamo per diventare legislatori, ma non lo siamo ancora, e forse lo diventeremo. Se vi sembra allora opportuno che si prendano in esame le questioni di cui ho parlato, e nei termini in cui ne ho parlato, prendiamole in esame. CLINIA: Senza dubbio. ATENIESE: Riguardo alla bellezza ed alla giustizia nel loro complesso, cerchiamo di vedere dove ci troviamo ora d'accordo, e dove invece dissentiamo, noi che diciamo di sforzarci, se non altro, di distinguerci dalla maggior parte delle persone, proprio dove i più dissentono fra loro. CLINIA: A quali nostri dissensi intendi alludere? ATENIESE: Tenterò di spiegarvelo. Siamo tutti d'accordo nel sostenere che la giustizia in genere, e gli uomini giusti, e i fatti e le azioni giuste sono tutte cose belle, sicché, neppure se un tale affermasse con sicurezza che gli uomini giusti, anche se sono deformi nel corpo, sono assai belli proprio per il fatto di tenere una condotta all'insegna dell'assoluta giustizia, nessuno, per così dire, parlando così, penserebbe di dire qualcosa di stonato. CLINIA: E non è giusto? ATENIESE: Forse. Ma vediamo come, se tutto ciò che prende parte della giustizia è bello, anche i nostri stati d'animo appartengono a tutte queste cose, e in ugual misura alle nostre azioni. CLINIA: E allora? ATENIESE: Un'azione, se è giusta, nella misura in cui prende parte della giustizia, partecipa in altrettanta misura della bellezza. CLINIA: Certamente. ATENIESE: E dunque anche a proposito di uno stato d'animo che partecipa della giustizia. se ammettessimo che esso è tanto bello quanto è giusto, non faremmo un discorso discordante, non è vero? CLINIA: Vero. ATENIESE: Se ammettessimo che uno stato d'animo, pur essendo giusto, è turpe, forse metteremmo in contraddizione il giusto e il bello, dicendo appunto che ciò che giusto è assai turpe. CLINIA: Che senso ha quello che hai detto? ATENIESE: Non è difficile da capire: quelle leggi che abbiamo fissato poco fa sembrano dichiarare tutto il contrario di quello che ora stiamo dicendo. CLINIA: Quali cose? ATENIESE: Noi prima abbiamo considerato che il ladro sacrilego e il nemico delle leggi ben stabilite sono giustamente condannati a morte, ed essendo sul punto di stabilire altre norme simili, ci siamo fermati, vedendo che esse vengono a determinare infiniti stati d'animo per numero e grandezza, che sono i più giusti e nello stesso tempo i più turpi fra tutti gli stati d'animo. E così le cose giuste e belle non ci appariranno ora tutte la stessa cosa, ora del tutto opposte fra loro? CLINIA: Può darsi. ATENIESE: Così la maggior parte delle persone parla di queste cose in modo contraddittorio, separando il bello dal giusto. CLINIA: Pare di sì, straniero. ATENIESE: Per quanto ci riguarda, Clinia, vediamo di nuovo come possiamo stabilire un accordo intorno a questi problemi. CLINIA: Quale accordo e su quale problema? ATENIESE: Nei precedenti discorsi credo di aver parlato chiaramente, e se non l'ho fatto prima, lasciate che ve lo dica ora. CLINIA: Che cosa? ATENIESE: Che tutti i malvagi sono in ogni caso involontariamente malvagi: stando così la questione, è inevitabile che ad essa si accompagni il discorso che segue. CLINIA: Di quale discorso parli? ATENIESE: Alludo al fatto che l'uomo ingiusto è malvagio, e il malvagio è tale involontariamente. Non ha senso ritenere che chi agisce involontariamente compie un'azione volontaria: chi crede involontario il compiere ingiustizia, ritiene che l'ingiusto compie l'ingiustizia involontariamente, e anch'io ora concordo su questo punto. Affermo infatti che tutti compiono ingiustizia involontariamente, anche se qualcuno per amor di polemica o per ambizione sostenesse che, certo, gli ingiusti sono tali involontariamente, ma molti commettono volontariamente ingiustizia; e in ogni caso il mio discorso è quell'altro, non questo. Ma come potrò essere d'accordo con i miei discorsi? Se voi, Clinia e Megillo, mi chiedeste: «Straniero, stando le cose in questi termini, che ci consigli di fare circa la legislazione dello stato dei Magneti? Bisogna legiferare oppure no?» «Come no?», dirò. «Ma distinguerai per loro ingiustizie involontarie e volontarie, e stabiliremo punizioni maggiori per le colpe e le ingiustizie commesse volontariamente, e minori per le altre? Oppure saranno uguali per tutte, come se non ci fossero affatto ingiustizie volontarie?». CLINIA: Quello che dici è giusto, straniero: e come ci regoleremo con queste parole che ora hai detto? ATENIESE: Bella domanda. Prima di tutto regoliamoci così. CLINIA: Come? ATENIESE: Ricordiamoci che poco fa dicevamo bene che intorno al giusto vi è da parte nostra grande confusione e disaccordo. Riprendendo di nuovo questo punto, interroghiamo noi stessi così: «Se non diamo una soluzione a questa difficoltà, e non teniamo conto che queste cose sono distinte le une dalle altre, e in base a questa distinzione in tutti gli stati e da tutti i legislatori si ritiene vi siano due specie di ingiustizie, le une volontarie, le altre involontarie, e di conseguenza, in base ad essa si stabiliscono leggi, non è vero che il discorso che ora abbiamo pronunciato, come se fosse pronunciato da un dio, dopo aver detto solo questo avrà termine, e, non avendo dato spiegazione di quel che giustamente è stato detto, in un certo senso fisseremo leggi che vanno in senso contrario a quel che si è detto?». Non è possibile, ma è necessario che prima di legiferare si dimostri che queste sono due specie di ingiustizie e che vi sono altre differenze, così che, quando si stabiliscono le pene per l'una o per l'altra specie, ognuno possa seguire i nostri discorsi, e sia in grado di giudicare la pena che è stata convenientemente stabilita e quella che non lo è. CLINIA: Quel che dici ci pare giusto, straniero, e quindi, ora, delle due l'una: o non si deve affermare che tutte le ingiustizie sono involontarie, oppure, facendo prima la dovuta distinzione, si deve dimostrare che questa affermazione è corretta. ATENIESE: Di queste due affermazioni, non riesco assolutamente a tollerare che la prima abbia senso, non dire cioè quel che io credo sia il vero - poiché questo non sarebbe lecito né permesso. Dunque in che modo possiamo dire che vi sono due specie di ingiustizie, se non vale la distinzione in ingiustizie involontarie e volontarie? Ma in un modo o nell'altro dobbiamo dimostrare che vi è un altro criterio di distinzione. CLINIA: Assolutamente sì , straniero, noi non possiamo pensarla in modo diverso. ATENIESE: Sarà così. Ebbene, nei loro commerci e nelle loro relazioni sono molti i danni che i cittadini, a quanto pare, arrecano gli uni agli altri, e una grande quantità di essi sono volontari ed involontari. CLINIA: Come no? ATENIESE: Non si creda allora, considerando tutti i danni come delle ingiustizie, che anche nell'ambito dei danni le ingiustizie siano di due specie, alcune volontarie, altre involontarie: i danni involontari, infatti, non sono, in genere, inferiori né per numero né per importanza a quelli volontari. Vedete un po' se quello che sto per dire ha senso, o se non lo ha affatto. Non dico, Clinia e Megillo, che se un tale danneggia un altro senza volerlo, involontariamente, commette ingiustizia, involontaria certamente, e non farò una legge in base a questo principio, stabilendo una legge come se questa fosse una colpa involontaria, ma anzi non considererò affatto un'ingiustizia un simile danno, sia che abbia colpito qualcuno in misura maggiore sia minore: spesso noi diremo, se ho ragione, che commettere ingiustizia consiste nel determinare un vantaggio tale da non risultare un giusto vantaggio. Non bisogna, amici, affermare così, con semplicità, che è giusto o ingiusto ciò che uno dà o sottrae ad un altro, ma un legislatore deve osservare se un tale arreca vantaggio o danneggia un altro con un'indole e un comportamento ispirati a giustizia, e a questi due termini deve guardare, ingiustizia e danno: quanto al danno, deve risanarlo, nei limiti del possibile, con le leggi, salvando ciò che va in rovina, ristabilendo ciò che uno aveva fatto cadere, curando ciò che è condannato a morire o è ferito, e dopo aver conciliato con le ammende previste dalle leggi quelli che hanno compiuto e subito ciascun danno, deve sempre cercare di riportarli all'amicizia da una precedente condizione di discordia. CLINIA: Bene. ATENIESE: Per quanto riguarda i danni e i guadagni ingiusti, nel caso in cui, cioè, un tale, comportandosi ingiustamente, faccia guadagnare un altro, di questi mali, in quanto essi sono mali dell'anima, bisogna curare quelli curabili: e la guarigione dell'ingiustizia dobbiamo dire che si volge in questa direzione. CLINIA: Quale? ATENIESE: La legge dovrà istruire chiunque commette un'ingiustizia, grande o piccola che sia, e dovrà costringerlo a non avere neppure più il coraggio di commettere volontariamente una simile ingiustizia in avvenire, o comunque in misura molto minore, oltre al risarcimento del danno. Questo deve avvenire sia con i fatti, sia con le parole, con i piaceri o con i dolori, con gli onori o i disonori, con le multe o i doni, o anche in qualsiasi altro modo si dovrà far sì che si detesti l'ingiustizia, e si ami, o per lo meno non si detesti la natura del giusto, e questo è appunto compito delle leggi più belle. E se il legislatore si rende conto che uno è incurabile sotto questo aspetto, quale pena e quale legge stabilirà in questi casi? E sapendo che per tutti costoro sarebbe meglio non vivere, e che gioverebbero doppiamente agli altri se abbandonassero la vita, diventando da un lato un esempio per gli altri perché non commettano ingiustizie, e facendo in modo, dall'altro, che lo stato venga abbandonato dagli uomini malvagi, così, riguardo a questa gente, è necessario che il legislatore punisca le colpe commesse assegnando loro la morte, e non si comporti affatto in alcun altro modo. CLINIA: Mi pare che tu parli in modo assai conveniente, ma noi ascolteremmo con molto più piacere un'esposizione ancora più chiara che riguardi la differenza fra ingiustizia e danno, fra azioni volontarie e involontarie, e su come queste cose si compongono variamente fra loro. ATENIESE: Tenterò di agire e di parlare come mi consigliate. è chiaro che parlando fra di voi e sentendo parlare dell'anima, sapete che una sua proprietà e una parte della sua natura è costituita dall'ira, litigiosa e ribelle, suo naturale possesso, che insieme ad una violenza irrazionale determina molti sconvolgimenti. CLINIA: Come no? ATENIESE: Noi dunque diciamo che il piacere, che non lo si può proprio definire identico all'ira, esercitando il suo dominio con una forza contraria all'ira, riesce a far fare, con la persuasione unita ad una seducente violenza, tutto ciò che la sua volontà desidera. CLINIA: Certamente. ATENIESE: E se si dicesse che l'ignoranza è la terza causa dei delitti, non si direbbe una menzogna: a questo proposito sarebbe meglio che il legislatore la dividesse in due, ritenendo che di essa vi è una forma semplice che è causa di errori leggeri, e una forma doppia, quando non si è soltanto oppressi dall'ignoranza, ma anche da una certa credenza di saggezza, per cui si crede di essere pienamente sapienti riguardo a ciò che non si conosce affatto. Il legislatore considererà tali mali, accompagnati dal vigore e dalla forza, causa di gravi e di grossolani delitti, mentre se accompagnati dalla debolezza, li considererà errori propri dei bambini e dei vecchi, e pur tuttavia li considererà errori, e per essi stabilirà delle leggi, anche se più miti e più indulgenti. CLINIA: Quello che dici è naturale. ATENIESE: Noi tutti diciamo che il piacere e l'ira, per così dire, ora ci dominano, e ora li dominiamo: e in effetti le cose stanno così. CLINIA: Senza dubbio. ATENIESE: E invece non abbiamo mai sentito dire che l'ignoranza ora ci domina, e ora la dominiamo. CLINIA: Verissimo. ATENIESE: Noi diciamo che tutte queste forze, traendoci ciascuna al proprio volere, spesso ci spingono a compiere azioni contrarie a quelle che faremmo. CLINIA: Assai spesso. ATENIESE: Ora ti posso fornire una spiegazione chiara e senza troppi fronzoli circa la distinzione fra ciò che è giusto ed ingiusto, secondo la mia definizione. Definisco assolutamente ingiustizia la tirannide dell'ira, della paura, del piacere, del dolore, dell'invidia, e dei desideri, sia fonte o meno di danni, che ha luogo nell'anima: per quanto riguarda l'opinione dell'ottimo, dovunque uno stato o dei privati cittadini ritengano che possa essere, se essa, esercitando il suo potere sull'anima, mette in regola ogni uomo, anche se in qualcosa cade in errore, bisogna affermare che è giusto tutto ciò che viene compiuto in conformità con essa, ed è cosa ottima che ciascuno si pieghi a tale potere, anche nel corso di tutta la vita umana. Eppure, molti credono che un tale danno sia un'ingiustizia involontaria. Ora non possiamo discutere sui nomi, ma poiché abbiamo dimostrato che vi sono tre specie di errori, si potrebbero innanzitutto richiamare alla memoria. Vi è una specie di sofferenza che abbiamo chiamato ira e paura. CLINIA: Senza dubbio. ATENIESE: Una seconda specie è costituita dal piacere e dai desideri, un'altra ancora, la terza, dalla brama di speranze e della vera opinione intorno all'ottimo. Dividendo questa terza specie in tre parti per due sezioni, possiamo dire di aver ottenuto cinque specie: per queste cinque specie bisogna stabilire leggi fra loro differenti, divise in due generi. CLINIA: Quali sono questi? ATENIESE: L'uno è costituito da ciò che ogni volta viene compiuto violentemente e alla luce del sole, l'altro da ciò che avviene di nascosto con la complicità delle tenebre e dell'inganno. Talvolta, poi, si agisce in tutti e due i modi: in questo caso le leggi saranno durissime, se saranno fatte come conviene. CLINIA: Naturale. ATENIESE: Dopo di che, torniamo di nuovo al punto da cui siamo partiti per questa digressione, portando a termine questo nostro compito di stabilire le leggi. Abbiamo già stabilito leggi riguardanti i ladri sacrileghi, credo, e i traditori, ed inoltre quelli che corrompono le leggi per far cadere il governo in carica. Si possono compiere alcuni di questi delitti per follia, ovvero oppressi da malattie o dalla vecchiaia che avanza, o vivendo in modo infantile, e a questo proposito non vi sarebbe alcuna differenza con gli altri casi citati. E se uno di questi casi diventerà manifesto ai giudici che ogni volta sono scelti per questo incarico, grazie alla deposizione resa da chi ha commesso il fatto e di chi lo difende, e secondo il loro verdetto chi si sia comportato in tal modo è andato contro le leggi, l'imputato risarcisca assolutamente il semplice danno arrecato ad altri, e non sia soggetto ad altre pene, se non chi, avendo ucciso, abbia le mani impure per l'omicidio commesso: e così, partendo per un'altra regione, per un luogo straniero, abiti lontano dalla patria per un anno, e se vi fa ritorno prima del tempo prescritto dalla legge, o entra in qualsiasi luogo della terra patria, sia incarcerato nelle pubbliche carceri dai custodi delle leggi per due anni, e in seguito lo si liberi. Poiché abbiamo preso le mosse dall'omicidio, cerchiamo di stabilire in modo completo le leggi riguardanti ogni specie di omicidio, e parliamo prima di tutto di quelli violenti ed involontari. Se uno in una gara o nelle pubbliche competizioni uccide involontariamente un amico, sia che la morte giunga immediatamente, sia che giunga qualche tempo dopo in seguito alle ferite, o, allo stesso modo in guerra, o nelle esercitazioni finalizzate alla guerra, mentre compie esercitazioni a corpo libero, o con le armi simula l'attività bellica, sia ritenuto puro da ogni colpa, dopo essersi purificato secondo le leggi riguardanti questi delitti e provenienti da Delfi: per quanto riguarda i medici in generale, se chi viene curato da essi muore, senza però che vi sia una loro responsabilità, sia ritenuto puro secondo la legge. Se un tale uccide un altro di sua mano, involontariamente, sia disarmato, sia con uno strumento o un'arma, o con la somministrazione di bevande e di cibi, o esponendolo al fuoco o al gelo, o soffocandolo, mediante il suo corpo o altri corpi, sia considerato in ogni caso come assassino di sua mano, e condannato alle seguenti pene: se uccide uno schiavo, credendo di aver ucciso il proprio, risarcisca il danno e la perdita al padrone dello schiavo morto, oppure sia soggetto al pagamento di una multa doppia rispetto al valore del morto, e i giudici dovranno stimare l'entità della pena; inoltre dovrà compiere sacrifici espiatori più importanti e più numerosi di coloro che uccidono nelle gare, e di questi sacrifici saranno autorevoli interpreti coloro che verranno scelti dal dio. Se uno uccide il proprio schiavo, dopo essersi purificato, sia liberato dall'accusa di omicidio, come prevede la legge. Se involontariamente uccide un libero cittadino, si purifichi seguendo gli stessi riti di purificazione di chi uccide uno schiavo, e non disprezzi quel che nei tempi più remoti si dice negli antichi miti. Si dice infatti che chi viene ucciso di morte violenta, se abbia vissuto con animo libero ed elevato, appena morto si adira contro chi lo ha ucciso, e ancora pieno di paura e di terrore per la violenza avvenuta, vedendo il suo uccisore aggirarsi nei luoghi a lui familiari, è colto da paura, e, sconvolto, sconvolge l'autore del fatto, per quanto gli è possibile, lui e ogni sua azione, avendo la memoria come alleata. Perciò è necessario che chi ha commesso il fatto si allontani dalla tomba della vittima per tutte le stagioni che vi sono in un anno, e abbandoni tutti i luoghi familiari che vi sono in patria: e se l'ucciso è uno straniero, stia lontano anche dalla terra dello straniero, per lo stesso periodo di tempo. Se l'uccisore obbedisce di sua spontanea volontà a questa legge, il parente più prossimo al morto, sorvegliando che tutte queste cose avvengano come stabilito, usi indulgenza nei suoi confronti, e se farà addirittura la pace con lui si dimostrerà uomo assolutamente moderato: ma se non obbedisce, e in primo luogo, non essendo ancora purificato avrà il coraggio di recarsi nei templi per compiere sacrifici, e se inoltre non vuole trascorrere il tempo stabilito per l'esilio, il parente più prossimo del morto accusi l'uccisore di omicidio, e se viene riconosciuto colpevole, sia condannato al doppio di tutte le pene. Se il parente più prossimo non lo accusa per il male subito, come se la macchia del delitto ricadesse su di lui, chi ha subito il fatto si appella alla sua disgrazia, e chiunque vuole potrà portarlo in tribunale, e, secondo la legge, costringerlo ad allontanarlo dalla sua patria per cinque anni. Se uno straniero involontariamente uccide uno degli stranieri residenti nello stato, chiunque vuole lo denunci in base alle stesse leggi; se si tratta di straniero residente, sia condannato ad un anno di esilio, se invece è straniero a tutti gli effetti, nel caso in cui abbia ucciso un altro straniero, uno straniero residente, o un cittadino, oltre ai riti di purificazione, stia lontano per tutta la vita dalla regione dove queste leggi esercitano il loro potere: e se vi fa ritorno in modo illegale, i custodi delle leggi lo puniscano con la morte, e se possiede un patrimonio, sia esso assegnato al parente più prossimo della vittima. Se invece vi fa ritorno involontariamente, nel caso in cui andando per mare sia sbattuto sulle spiagge della regione, dopo aver piantato una tenda, metta i piedi a bagno nel mare e controlli la navigazione, e se uno con la violenza lo trascina sulla terra, il primo magistrato dello stato che incontra, lasciandolo andare libero, lo spedisca senza avergli fatto violenza fuori dei confini dello stato. Se uno di propria mano uccide un uomo libero, e il fatto avviene a causa dell'ira, bisogna innanzitutto distinguere il caso in due modi. Agiscono sotto l'impulso repentino dell'ira quanti, all'improvviso e senza la premeditazione di uccidere, uccidono con percosse o in altro modo, e subito giunge il pentimento di ciò che hanno compiuto; e agiscono per ira quanti, oltraggiati da parole o da fatti disonorevoli, perseguendo la vendetta, alla fine uccidono qualcuno con la chiara volontà di uccidere, e non provano alcun pentimento per il fatto compiuto. Bisogna allora stabilire che queste uccisioni sono di due specie, come appare, e direi che entrambe hanno la loro origine dall'ira, e assai giustamente si può dire che esse stanno a metà fra il delitto volontario e quello involontario. Ed una è l'immagine dell'altra: chi sorveglia la propria ira e non uccide sul momento, all'improvviso, ma con premeditazione, molto tempo dopo, persegue la sua vendetta, sembra agire volontariamente, mentre chi non controlla la propria ira, e all'improvviso, immediatamente, senza premeditazione agisce, è simile a chi agisce in modo involontario, anche se costui non agisce involontariamente, ma solo in apparenza è involontario. È perciò difficile distinguere gli omicidi che vengono compiuti sotto l'impulso dell'ira, e vedere se la legge li deve considerare volontari, o alcuni involontari. Sarebbe meglio e più corrispondente alla verità che si considerassero entrambi come immagini, e si dividessero secondo il criterio della premeditazione e della mancanza di premeditazione, e la legge dovrebbe stabilire pene più gravi per quelli che uccidono con premeditazione e con collera, e pene più miti per quelli che agiscono senza premeditazione e all'improvviso: ciò che è immagine di un male più grande si deve punire con una pena maggiore, mentre ciò che è immagine di una pena minore, con una pena minore. Devono fare così anche le nostre leggi. CLINIA: Senza dubbio. ATENIESE: Ritornando un poco indietro, ripetiamo di nuovo: se un tale di propria mano uccide un libero cittadino, e il fatto viene commesso senza premeditazione e sotto l'impulso dell'ira, subisca, oltre al resto, quella pena che deve subire chi ha ucciso senza ira, ma trascorra necessariamente due anni in esilio, mettendo così un freno alla propria ira. Chi ha ucciso con ira, e premeditatamente, oltre al resto, deve subire la stessa pena del precedente, ma starà in esilio tre anni, come l'altro se ne stava due anni, in quanto alla maggiore intensità dell'ira corrisponde un periodo di tempo più lungo. Ed ecco come deve avvenire il loro ritorno in patria. è difficile in proposito fissare leggi precise: infatti di questi due omicidi, quello che la legge considera come più grave potrebbe essere più mite, quello che considerato più mite potrebbe essere più grave, e uno può commettere l'omicidio in modo più feroce, un altro in modo più mite; e generalmente avviene come ora noi diciamo. I custodi delle leggi devono essere arbitri di tutti questi casi, e dopo che per gli uni e per gli altri condannati è trascorso il tempo dell'esilio, devono inviare dodici loro giudici ai confini della regione, i quali, dopo aver indagato, in questo periodo di tempo, in modo ancora più chiaro la condotta degli esiliati, dovranno giudicare se sono degni di compassione e se si possono accettare nello stato, e questi ultimi devono rimettersi alle decisioni di tali magistrati. E se uno di questi due assassini, tornato in patria, è vinto dall'ira e commette lo stesso fatto, vada in esilio e non faccia più ritorno, e se vi fa ritorno, subisca le stesse pene che subisce lo straniero che cerca di ritornare. Chi uccide per ira il proprio schiavo compia riti di purificazione, chi, sempre per ira, uccide lo schiavo di un altro, paghi il doppio del danno al proprietario. Se uno qualsiasi di tutti questi uccisori non obbedisce la legge, ma senza essersi purificato macchia con la sua colpa la piazza, le gare, e gli altri luoghi sacri, chiunque lo vuole faccia comparire in processo il parente del morto che lo permette e chi ha compiuto l'assassinio, e li costringa a pagare il doppio della multa in danaro, e anche a sostenere le altre spese, e l'ammenda sia ricevuta dall'accusatore stesso per sé, come prescrive la legge. Se uno schiavo, spinto dall'ira, uccide il suo padrone, i parenti del morto possono fare all'assassino ciò che vogliono ma in ogni caso non devono usare alcuna misericordia, e siano ugualmente puri: se un altro schiavo uccide per l'ira un cittadino libero, i padroni consegnino lo schiavo ai parenti del morto, e quelli dovranno necessariamente infliggergli la morte, nel modo m cui vorranno. Se un padre o una madre a causa dell'ira uccidono un figlio o una figlia con percosse, o con qualsiasi altra violenza - ed è una cosa possibile, anche se rara - si purifichino secondo gli stessi riti di purificazione previsti per gli altri omicidi, e siano esiliati per tre anni, e dopo il loro ritorno, la donna sia separata dall'uomo e l'uomo dalla donna, e non potranno più fare figli insieme, né vivere con coloro che essi hanno privato di un figlio o di un fratello, né prendere parte delle cose sacre: chi a tal proposito si comporta in modo empio e non obbedisce alle leggi, sia accusato di empietà da parte di chi lo vuole. Se il marito uccide per ira la moglie, o la moglie fa la stessa cosa uccidendo suo marito, compiano purificazioni seguendo le stesse forme di purificazione e trascorrano tre mesi in esilio. Dopo il loro ritorno, l'autore di questo fatto non partecipi più ai riti sacri con i propri figli, e non segga più con loro alla stessa tavola: e se il genitore o il figlio disobbedisce, sia accusato di empietà da parte di chi vuole. E se un fratello o una sorella per ira uccidono un fratello o una sorella, si dica che anche costoro devono compiere purificazioni e andare in esilio per un anno, così come si diceva per i genitori e per i figli, e non possano vivere insieme, né prendere parte dei sacrifici con i fratelli che abbiano privato di fratelli o con genitori che abbiano privato dei figli: e se uno disobbedisce, può essere a buon diritto e secondo giustizia sottoposto alla legge di cui si è detto, relativa a questi casi di empietà. Se uno si lascia a tal punto dominare dall'ira verso i genitori, da avere il coraggio di uccidere, folle per la collera, uno di essi, e se il genitore morente, prima di spirare, proscioglie volontariamente l'autore del tragico gesto dall'omicidio, dopo essersi purificato così come fa chi compie un omicidio involontario, e seguendo tutte le altre modalità di questo caso, sia alla fine puro, ma se non viene prosciolto, l'autore di un gesto simile sia sottoposto alle numerose leggi: e infatti dovrebbe essere sottoposto alle gravissime pene relative all'offesa personale e all'empietà allo stesso modo dell'accusa del furto sacrilego, poiché ha sottratto in modo sacrilego la vita al genitore, sicché se fosse possibile che la stessa persona morisse più volte, sarebbe assai giusto che il parricida o il matricida, che ha compiuto il gesto spinto dall'ira, morisse di molte morti. A lui solo, infatti, neppure se dovesse difendersi dalla morte, proprio mentre sta per morire ucciso dai genitori, nessuna legge procurerà un valido pretesto che giustifichi l'uccisione del padre e della madre, vale a dire quelle persone che hanno dato alla luce la sua natura, ma anzi la legge gli ordinerà di sopportare e di subire qualsiasi cosa, prima di compiere un gesto simile: e allora come sarebbe opportuno che costui per legge subisse una pena diversa? Per chi uccide il padre e la madre sotto l'impulso dell'ira vi sia la pena di morte. Se il fratello uccide il fratello nel corso di un combattimento sorto durante una sedizione o in un'altra circostanza del genere, dovendosi difendere da chi per primo ha cominciato a menar le mani, sia puro come se avesse ucciso un nemico, e allo stesso modo se un cittadino uccide un cittadino, o uno straniero uno straniero. Se un cittadino uccide uno straniero, o uno straniero un cittadino per legittima difesa, allo stesso modo siano ritenuti puri. E lo stesso discorso vale per uno schiavo che uccide uno schiavo: se uno schiavo uccide un libero per legittima difesa, sia soggetto alle stesse leggi di chi uccide il padre. Quel che si è detto a proposito dell'assoluzione concessa dal padre all'assassino valga per tutte le altre assoluzioni che in simili casi possono essere concesse, e se un tale vuole di sua spontanea volontà prosciogliere dall'accusa un'altra persona, come se l'uccisione fosse avvenuta involontariamente, l'autore del fatto compia i riti di purificazione, e stia un anno in esilio, come prevede la legge. E sia sufficiente quel che si è detto sugli omicidi violenti e involontari, e su quelli commessi a causa dell'ira: per quanto riguarda invece quei delitti volontari e che avvengono secondo ogni forma di ingiustizia e premeditatamente, grazie alla vittoria dei piaceri, delle passioni e delle invidie, sono proprio questi di cui ora dobbiamo parlare dopo quegli altri. CLINIA: Quello che dici è giusto. ATENIESE: In primo luogo parliamo di nuovo di essi e diciamo quanti sono. Il più importante è la passione che domina l'anima esasperata dai desideri: il che avviene soprattutto quando nella maggior parte delle persone è più frequente e più forte il desiderio capace di generare infiniti amori che spingono all'infinito ed insaziabile possesso di ricchezze, desiderio che sorge a causa di una malvagia natura e anche per mancanza dì educazione. E la causa della mancanza di educazione consiste nel lodare in modo malvagio la ricchezza, ed essa è nota presso Greci e barbari: giudicando la ricchezza come primo bene, e non come terzo, oltraggiano i loro discendenti e se stessi. La cosa più bella e migliore di tutte sarebbe dire la verità sulla ricchezza in tutti gli stati, e cioè che essa è in funzione del corpo, e il corpo è in funzione dell'anima: se dunque la ricchezza è per natura in funzione di questi beni, essa sarà terza dopo la virtù del corpo e dell'anima. Questo discorso dovrebbe insegnarci che chi aspira ad essere felice non deve cercare di arricchirsi e basta, ma di arricchirsi secondo giustizia e moderazione: e così non dovrebbero verificarsi negli stati uccisioni da purificarsi per mezzo di uccisioni. Ora, come abbiamo detto all'inizio di questo discorso, questa è la prima ed è la causa più importante che fa in modo che si celebrino i più gravi processi per omicidio volontario. La seconda consiste in quella condizione dell'anima che desidera onori e genera invidie, molesti compagni soprattutto per lo stesso invidioso, e in secondo luogo per i cittadini migliori. La terza è rappresentata dalle paure vili ed ingiuste, responsabili di molti delitti, quando si compiono o si sono compiuti molti fatti di cui nessuno vuole che alcuno sappia che stanno avvenendo o sono avvenuti: con la morte si fanno sparire gli eventuali delatori di questi fatti, quando non sia possibile seguire nessun'altra procedura. Quanto si è detto abbia allora valore di proemio di tutta questa materia, ed inoltre si aggiunga il discorso che molti ascoltano nei riti di iniziazione da parte di chi si occupa di tali cose, e a cui prestano fede assoluta, e cioè che nell'Ade si sconta la punizione per questi delitti, e che una volta ritornati qui è necessario che si paghi la pena naturale, secondo la quale si subirà quel che si è fatto, e per un simile destino terminerà la vita per mano di un altro. Se uno obbedisce e si mostra assolutamente timoroso nei confronti di una simile pena enunciata da questo proemio, bisogna che la legge non canti nulla a costui, ma se uno non obbedisce, una legge scritta dica così: chi premeditatamente ed ingiustamente uccide d i propria mano uno dei suoi concittadini, prima di tutto stia lontano dalle consuetudini del vivere civile, e non contamini con le proprie colpe i templi, la piazza, i porti, o un'altra pubblica adunanza, sia che qualcuno glielo vieti, sia che nessuno glielo vieti, e allora sarà la legge a vietarglielo, e sempre risulta e risulterà vietarglielo in nome di tutto lo stato. E chi, pur dovendolo fare, non lo porta in tribunale o non gli vieta di rimanere lontano dai luoghi pubblici, ed è parente del morto per via paterna o materna, sino al grado di cugino, in primo luogo riceverà su di sé la macchia della colpa e l'odio degli dèi, così come la legge dichiara, in secondo luogo si presenti al processo se qualcuno vuole prendere vendetta in nome del morto. E chi vuole vendicare il morto compia tutto ciò che è relativo alle libagioni da farsi in questo caso e a tutte le norme che il dio assegna a tal riguardo, e depositato l'invito a comparire, vada a costringere l'autore del fatto a sottoporsi all'azione della giustizia come prevede la legge. È facile per il legislatore dichiarare che tutto ciò deve avvenire insieme a certe preghiere e a certi sacrifici agli dèi che si occupano di tali questioni, e cioè che negli stati non avvengano omicidi: quali siano gli dèi e quale la modalità più corretta, secondo la divinità, per avviare tali processi, saranno i custodi delle leggi insieme agli interpreti e agli indovini del dio che lo stabiliranno per legge, ed avvieranno i processi. Giudici di questi processi siano gli stessi che si sono detti competenti a giudicare i ladri sacrileghi: e il colpevole sia punito con la morte, e non sia sepolto nella regione della sua vittima per la sua empietà oltre che per la sua iniquità. Se fugge e non vuole sottostare al giudizio, sia condannato a fuggire di continuo; e se giunge per caso nella regione del del morto, il primo che lo incontra dei parenti del morto, o anche dei cittadini, lo uccida impunemente, oppure, dopo averlo legato, lo consegni ai magistrati che lo hanno giudicato nel processo perché lo uccidano. L'accusatore pretenda mallevadori dall'accusato: e questo glieli procuri, e questi devono essere giudicati degni di fede dal collegio dei giudici che sono preposti a questo incarico, tre mallevadori degni di fede che garantiranno che l'accusato si presenta al processo. E se non vuole o non può nominare i mallevadori, i magistrati lo arrestino e lo tengano in custodia e lo presentino nel giorno del processo. Se uno non uccide di sua mano, ma, essendo stata decisa la morte di un altro, è colpevole di aver ucciso in base a quella volontà e per mezzo dell'insidia, e risiede nello stato con l'anima ancora impura per l'omicidio, anche costui sia giudicato secondo la stessa procedura adottata in questi casi, fatta eccezione per la malleveria, e se risulta colpevole, gli sia consentito di essere seppellito in patria, mentre per tutto il resto sia punito così come si è detto in precedenza. Le stesse norme abbiano valore per gli stranieri verso gli stranieri, per i cittadini e gli stranieri nelle loro reciproche relazioni, per gli schiavi verso gli schiavi, sia nei delitti compiuti di propria mano, sia in quelli in cui si adopera l'insidia, e si faccia esclusione per la malleveria: e questa non soltanto è obbligata a darla, come si è detto, chi uccide di propria mano, ma chi accusa di omicidio è obbligato a richiederla anche a costoro. Se uno schiavo volontariamente uccide un uomo libero, sia di propria mano, sia mediante insidia, e viene giudicato colpevole, il boia pubblico dello stato, conducendolo verso il monumento funebre del morto, donde possa vedere la tomba, lo frusti tante volte quante ha ordinato l'accusatore, e se l'assassino in tal modo non cessa di vivere, lo si uccida direttamente. Se uno uccide uno schiavo senza che abbia commesso alcun male, e lo uccide per paura che diventi delatore dei fatti turpi e malvagi che egli ha commesso, o per un altro motivo di questo genere, sia perseguito per la morte di questo schiavo allo stesso modo e seguendo le stesse procedure che si sarebbero seguite se fosse stato accusato di aver ucciso un cittadino libero. Se avvengono dei delitti per i quali è terribile e nient'affatto piacevole stabilire leggi, ma per i quali non si può non legiferare, siano essi omicidi di parenti commessi di propria mano o con l'insidia, volontari o assolutamente ingiusti, i quali avvengono generalmente negli stati che sono male governati e male allevati, ma che possono avvenire anche in quella regione in cui uno non se l'aspetterebbe, bisogna ripetere il discorso che si è fatto poco fa, in modo che qualcuno, ascoltandoci, sia in grado di astenersi più volentieri, grazie a queste nostre parole, da queste uccisioni che sono sotto ogni aspetto le più empie. Il mito, o discorso, o come lo si debba chiamare, che viene chiaramente raccontato dagli antichi sacerdoti, sostiene che la giustizia vendicatrice del sangue dei consanguinei è vigile, e si serve della legge di cui si è appena detto e stabilisce che chi ha commesso un fatto simile dovrà necessariamente subire le stesse cose che ha compiuto: se uno ha ucciso il padre, deve subire la stessa sorte violenta da parte dei figli in un determinato periodo di tempo, e se uccide la madre, necessariamente rinasce partecipe della natura femminile, e diventato tale, abbandona la vita, in un tempo successivo, per mano dei suoi figli. Non vi è altra purificazione per quel sangue comune che è stato macchiato, né tale macchia potrà essere lavata prima che l'anima di chi ha compiuto il fatto non abbia pagato, uguale omicidio con uguale omicidio, e non abbia placato l'ira di tutti i consanguinei. Temendo così questi castighi che provengono dagli dèi, bisogna stare lontano da tali vendette. Ma se una misera sventura coglie qualcuno in modo tale da avere il coraggio di privare del corpo l'anima del padre, o della madre, o dei fratelli o dei figli, e di farlo premeditatamente e volontariamente, questa sarà la legge che stabilirà il legislatore mortale a tal proposito: l'ordine di astenersi dalle consuetudini dello stato e le malleverie siano le stesse che si sono dette prima. Se un tale viene riconosciuto colpevole di un simile omicidio, avendo ucciso una di queste persone, i servi dei giudici e i magistrati lo uccideranno e lo getteranno nudo in un determinato trivio, fuori della città; e allora tutti i magistrati, in nome dello stato, portino ciascuno un sasso, e gettandolo sul capo del cadavere, purifichino lo stato intero, e dopo di ciò lo conducano presso i confini della regione, e lo gettino al di fuori di quei confini, senza sepoltura, come prevede la legge. E che cosa dovrà subire chi uccide ciò che ha di più intimo ed è, come si dice, più caro? Alludo a chi uccide se stesso, privandosi con la violenza della sorte stabilita dal destino, senza che una qualche pena gli sia stata imposta dallo stato, né perché sia stato costretto da una dolorosa ed inevitabile disgrazia che gli sia capitata, e neppure perché abbia ricevuto in sorte una qualche insormontabile ed insopportabile vergogna, ma solo perché per ignavia e per una viltà dovuta alla mancanza di coraggio impone a se stesso questa pena ingiusta. A questo riguardo il dio conosce tutte le altre norme di legge che regolano le purificazioni e le sepolture che si devono seguire, e bisogna che i parenti più stretti interroghino gli interpreti di queste norme e le leggi relative a questi casi, e si comportino secondo quanto da esse viene ordinato: e per quanti muoiono in tal modo, le tombe siano in primo luogo isolate e non vi sia nessuno sepolto nella stessa tomba, in secondo luogo siano seppelliti senza gloria, ai confini delle dodici parti, in luoghi incolti ed anonimi, e le tombe non siano segnalate né da stele, né da nomi. Se un animale da tiro o un altro animale uccide un uomo, escludendo il caso in cui il fatto avvenga mentre quegli animali stanno gareggiando nelle pubbliche gare, i parenti del morto intentino un processo contro l'uccisore, e siano giudici gli agronomi - e il parente della vittima stabilirà quali e quanti devono essere -: se viene riconosciuto colpevole, dopo averlo ucciso, lo gettino fuori dai confini della regione. Se è un essere inanimato che priva gli uomini della vita - escludendo il caso del fulmine o di qualche altra saetta scagliata dal dio -, quando, cioè, un qualsiasi oggetto uccide, o perché uno ci cade sopra, o perché quello stesso oggetto cade addosso a qualcuno, il parente stabilisca come giudice il più prossimo dei vicini, e quindi purifichi se stesso e tutta la sua parentela, mentre l'oggetto riconosciuto colpevole sia gettato oltre i confini dello stato, come si è detto per il genere degli animali. Se viene scoperto un morto, ma l'identità dell'omicida rimane oscura, e neppure dopo accurate ricerche si riesce a scovarlo, si facciano le stesse intimazioni che si erano seguite negli altri casi, e si accusi di omicidio l'autore del fatto, e dopo aver celebrato il processo, l'araldo proclami sulla piazza all'assassino risultato colpevole di omicidio di non entrare nei templi né in tutta la regione della vittima, poiché, se verrà scoperto e riconosciuto, sarà ucciso e gettato fuori dei confini della regione della vittima senza ottenere sepoltura. Questa sia la legge da noi stabilita che ha competenza in materia di omicidi. E così, in tale materia, stiano le cose sin qui stabilite. Per quanto riguarda invece chi ha ucciso in circostanze tali per cui a buon diritto si sente puro, queste siano le norme specifiche: se un tale di notte scopre ed uccide un ladro che si è introdotto in casa sua per rubare dei soldi, sia puro; e se un tale uccide per legittima difesa un malvivente, sia puro. Se un tale arreca una violenza a sfondo sessuale ad una donna libera o ad un bambino, sia ucciso impunemente da chi ha ricevuto violenza, o dal padre, o dai fratelli, o dai figli: se un uomo per caso scopre la propria moglie mentre viene violentata, dopo aver ucciso il violentatore, sia puro, come prevede la legge. Se un tale viene in soccorso del padre condannato a morte pur senza aver commesso alcuna empietà, o della madre, o dei figli, o dei fratelli, o della madre dei suoi figli, ed uccide qualcuno, sia assolutamente puro. Queste siano dunque le norme che devono disciplinare l'allevamento e l'educazione dell'anima finché vive, per cui, se essa prende parte di quelle norme, vale la pena vivere, mentre se non vi prende parte, avviene tutto il contrario; ed esse stabiliscano le pene che devono essere seguite nel caso di morti violente. Per quanto riguarda l'allevamento e l'educazione del corpo si è già detto, mentre ora dobbiamo definire, nei limiti del possibile, una materia che ha una certa attinenza con queste cose, e cioè quali e quante sono le azioni violente, involontarie e volontarie, che uno compie nei confronti dell'altro, e quali pene spettino a ciascuna di esse: sarebbe giusto, a quanto pare, che si legiferasse su queste cose, dopo che si è legiferato su quelle altre. Anche la persona di più scarso valore che si occupa di leggi collocherebbe al secondo posto, dopo le morti per omicidio, le ferite e le mutilazioni derivanti dalle ferite. E pure per le ferite bisogna distinguere, come già si erano distinte le varie specie di omicidio, quelle involontarie, quelle causate dall'ira, dalla paura, e tutte quelle che avvengono volontariamente e con premeditazione: anche in tutti questi casi bisogna affermare, in via preliminare, che gli uomini devono necessariamente stabilire delle leggi e vivere conformandosi ad esse, oppure non differiranno in nulla dalle bestie che sono sotto ogni aspetto le più selvagge. E la ragione della necessità di queste leggi risiede nel fatto che la natura degli uomini viene generata in modo tale da non essere in grado di riconoscere ciò che è vantaggioso agli uomini in vista della costituzione dello stato, e anche se fosse in grado, non potrebbe e non vorrebbe compiere sempre il meglio. In primo luogo è difficile rendersi conto che un'arte che sia autenticamente arte politica si occupa necessariamente non dell'interesse privato ma di quello pubblico - l'interesse comune unisce gli stati, quello privato li lacera -, e capire che l'interesse comune, se è ben stabilito, è utile tanto all'interesse comune quanto a quello privato, ad ambedue in sostanza, molto più di quello privato: in secondo luogo, anche se qualcuno comprendesse ed accogliesse nella sua arte il fatto che queste cose stanno per natura in questi termini, e dopo di che governasse nello stato, senza rendere conto a nessuno ed esercitando un potere assoluto, non potrebbe mantenersi fedele a questo criterio e vivere tutta la sua vita coltivando al primo posto nello stato l'interesse comune, e dopo l'interesse comune, quello privato, ma la sua natura mortale lo spingerà sempre verso l'avidità e la cura dell'interesse privato, evitando irrazionalmente il dolore ed inseguendo il piacere, e preferirà queste due cose a ciò che è giusto e migliore, e generando questa natura le tenebre dentro se stessa alla fine riempirà di tutti i mali se stessa e tutto lo stato. Perché se mai un uomo, nato grazie ad una sorte divina, sarà per natura capace di comprendere queste cose, non avrà bisogno di alcuna legge che lo guidi: nessuna legge e nessun ordinamento è superiore alla scienza, e non è possibile che l'intelletto sia soggetto e servo di alcuno, ma tutto deve guidare, se effettivamente sia per natura autentico e libero. Ma ora non è affatto così, tranne rare eccezioni: perciò dobbiamo scegliere ciò che è al secondo posto dopo l'intelletto, l'ordinamento delle leggi e la legge vera e propria che osservano e tengono in considerazione la maggior parte di ciò che avviene, anche se non sono in grado di comprendere la totalità. Per queste ragioni ho detto queste cose: ma ora dovremo stabilire quale pena deve subire o quale multa deve pagare chi ferisce o reca danni a qualcun altro. Chiunque, però, potrebbe essere pronto ad obbiettare giustamente intorno a tutto questo problema: «Che cosa intendi dire per persona che ferisce? E chi è? E come? E quando? Sono infatti innumerevoli i singoli casi a questo riguardo, e assai differenti fra loro». è dunque impossibile affidare tutti questi casi ai tribunali perché li giudichino, ma non si può neppure non affidarne neanche uno. Una cosa almeno, in linea generale, è necessario sottoporre al giudizio del tribunale, e cioè stabilire se ciascuno di quei fatti è avvenuto o no: il non permettere affatto, invece, che essi stabiliscano quali multe deve pagare e quali punizioni deve subire chi commette questo genere di delitti, in modo che sia il legislatore stesso a fissare le leggi riguardo alla totalità dei casi, di scarsa o di grande importanza, è cosa pressoché impossibile. CLINIA: Qual è il discorso che ora segue? ATENIESE: Questo: per alcune questioni il legislatore si può affidare ai tribunali, per altre non è dato, ma deve lui stesso legiferare. CLINIA: E quali sono le questioni che devono essere regolate con le leggi, e quali quelle che devono essere affidate ai tribunali per essere giudicate? ATENIESE: Dopo queste cose, si potrebbe assai giustamente dire che in uno stato in cui i tribunali sono spregevoli e muti, e nei quali i giudici nascondono la loro opinione, e segretamente emettono i loro verdetti, e, cosa ancora più terribile, quando non sanno neppure stare in silenzio, ma facendo chiasso come fossero a teatro urlano i loro commenti di approvazione o di critica all'uno e all'altro dei due oratori che a turno prendono la parola, allora l'intero stato viene solitamente a trovarsi in una penosa condizione. Non è una circostanza felice, per il legislatore incalzato da una qualche necessità, legiferare per simili tribunali, e tuttavia è costretto dalla necessità ad affidare loro la definizione delle multe riguardanti i casi di scarsa importanza, mentre lui stesso legifererà espressamente sulle questioni più importanti, se proprio si debba legiferare per una simile costituzione: ma in uno stato in cui i tribunali siano, nei limiti del possibile, rettamente costituiti, poiché coloro che aspirano ad essere giudici sono stati ben allevati ed esaminati con grande diligenza, in quel caso, allora, è giusto, e bene, e bello che molte questioni siano affidate al giudizio di questi giudici, riguardo ai colpevoli, perché definiscano quale pena essi debbano subire o quale multa devono pagare. Ora noi non dobbiamo essere rimproverati se non legiferiamo sulle questioni più importanti e più numerose, le quali anche giudici educati in modo più spregevole potrebbero essere in grado di individuare, applicando ad ogni errore commesso la pena adeguata a quel che si è subito e a quel che si è fatto: e poiché pensiamo che coloro per cui noi stiamo legiferando diventeranno giudici assai competenti in tali questioni, bisogna che affidiamo loro la maggior parte delle decisioni. E non solo, ma come spesso abbiamo detto e fatto quando abbiamo fissato le leggi precedenti, delineando cioè lo schema e i caratteri generali delle pene e fornendo ai giudici quei modelli perché non oltre passassero mai i limiti della giustizia, rendendoci conto che quel che allora facevamo era assai giusto, così anche adesso dobbiamo fare, ritornando di nuovo alle leggi. E questa sia la legge scritta che noi stabiliamo sulle ferite: se un tale, dopo aver pensato di uccidere deliberatamente un amico, fatta eccezione per quelle persone per le quali la legge lo consente, lo ferisce, poiché non è riuscito ad ucciderlo, chi ha avuto un simile pensiero, e in questo modo ha ferito, non è degno di pietà, e non meritando compassione diversa da quella che spetta a chi ha ucciso, sia costretto a subire l'accusa di omicidio. E onorando la sua sorte che non è stata del tutto malvagia e venerando il suo demone, che ha avuto pietà di lui e del ferito, e all'uno ha evitato una ferita insanabile, e all'altro una sorte e una disgrazia maledette, si renda grazie a questo demone e non ci si opponga alla sua volontà, e quindi venga rimossa la pena di morte che aveva colpito il feritore, e lo si condanni a rimanere per tutta la vita in esilio nello stato vicino, lasciando che goda di tutta la ricchezza frutto dei suoi guadagni. Paghi il danno al danneggiato, se ha recato danno al ferito, e il danno sia stimato dal collegio di giudici che giudica la causa, e giudichino coloro che avrebbero giudicato l'omicidio se fosse morto per i colpi che hanno provocato queste ferite. Se allo stesso modo un figlio ferisce premeditatamente i genitori, o uno schiavo il suo padrone, sia punito con la morte: e se parimenti un fratello o una sorella feriscono un fratello o una sorella, e siano riconosciuti colpevoli di aver ferito premeditatamente, siano puniti con la morte. E se una donna ferisce il proprio uomo con l'intenzione di ucciderlo, o un uomo la propria donna, siano condannati all'esilio perpetuo: e se hanno figli o figlie ancora piccoli, i loro averi siano amministrati da tutori che si dovranno prendere cura dei bambini come fossero orfani; ma se i figli sono uomini, non vi sia l'obbligo da parte dei figli di mantenere l'esiliato, ed essi dispongano per sé di tutto il patrimonio. Se la persona che si viene a trovare in una sventura simile non ha figli, si riuniscano i parenti sino ai figli dei cugini dell'esiliato, dall'una e dall'altra parte, maschile e femminile, e di comune accordo con i custodi delle leggi e con i sacerdoti si stabilisca un erede per questa casa, che rappresenta la cinquemila quarantesima casa all'interno dello stato, considerando in tal modo e in base a questo ragionamento che nessuna delle cinquemilaquaranta case appartiene a chi vi abita e neppure a tutta la sua stirpe, ma è proprietà pubblica e privata dello stato, e bisogna quindi che lo stato disponga di case che siano il più possibile sante e felici. E nel caso in cui una di queste dimore sia colpita da sventura e venga profanata, sicché colui che la possiede non vi lascia figli, e, sposato o no, muore senza figli, essendo riconosciuto colpevole di un delitto volontario o di un'altra colpa contro gli dèi o contro i cittadini per cui la legge preveda esplicitamente la condanna a morte, o anche un uomo senza figli viene condannato all'esilio perpetuo, bisogna in primo luogo purificare questa casa e scongiurare da essa la sventura, secondo quel che prevede la legge, e in secondo luogo, i parenti si riuniscano, come si è detto ora, e prendano in esame insieme ai custodi delle leggi quale stirpe, fra quelle che vi sono nello stato, sia la più degna di reputazione per virtù e anche la più fortunata, e nella quale vi siano più figli: facciano adottare uno di questi figli al padre del morto ed ai suoi antenati come se fosse figlio loro e lo chiamino con un nome che sia di buon augurio, e dopo aver pregato perché abbia miglior fortuna del padre come genitore, custode della casa, ministro delle cose profane e di quelle sacre, lo nominino erede secondo la legge, e lascino il colpevole senza nome, senza figli, senza quella parte di beni avuta in sorte, quando gli accadono simili disgrazie. Non sempre è possibile, a quanto pare, congiungere fra loro i limiti delle cose, ma se le cose possiedono un elemento di confine che stia in mezzo fra i due confini e si trovi in contatto con l'uno e con l'altro, tale elemento sarà così in mezzo fra l'una e l'altra cosa: e noi dicevamo che i fatti che avvengono sotto l'impulso dell'ira sono intermedi fra quelli involontari e volontari. Questa sia dunque la legislazione circa le ferite procurate a causa della collera: se uno è colpevole, paghi innanzitutto il doppio del danno, se la ferita è guaribile, il quadruplo se non è più guaribile; e se la ferita è guaribile, ma lascia il ferito deformato in maniera turpe e vergognosa, paghi ancora il quadruplo. E se il ferito danneggia non solo la vittima, ma anche lo stato, rendendolo inabile a prestar soccorso alla patria contro i nemici, oltre alle altre multe, costui risarcisca il danno anche allo stato: oltre al suo servizio militare, presti servizio anche per quell'altro che risulta inabile, e sia collocato nelle schiere dell'esercito al suo posto, e se non fa queste cose, sia accusato da parte di chi vuole di diserzione, come prevede la legge. I giudici che hanno emesso la sentenza di condanna stabiliscano l'ammontare del danno, se il doppio, il triplo, o anche il quadruplo. Se uno allo stesso modo ferisce un consanguineo, i capifamiglia e i parenti, sino ai figli dei cugini, da parte materna e paterna, donne e uomini, sì riuniscano, giudichino ed affidino ai genitori naturali la stima del danno: e se la stima risulta controversa bisogna che abbiano l'autorità di giudicare i parenti di parte maschile, e se questi non sono in grado, alla fine si affidi il caso ai custodi delle leggi. Se i figli feriscono i propri genitori, vi sia l'obbligo di istituire giudici che abbiano oltre sessant'anni, i quali non abbiano figli adottivi, ma figli veri e propri, e se uno viene riconosciuto colpevole, decidano se dev'essere condannato a morte, o deve subire un'altra pena maggiore di questa, o anche non molto minore: e nessuno dei parenti di chi ha compiuto il fatto giudichi, neppure se ha raggiunto l'età prevista dalla legge. Se uno schiavo uccide un uomo libero spinto dall'ira, il proprietario dello schiavo lo affidi al ferito perché ne faccia quello che vuole; e se non lo consegna, risani il danno lui stesso. Se qualcuno accusa lo schiavo e il ferito di aver macchinato insieme il fatto, la controversia finisca in tribunale: se non vince la causa, risarcisca il triplo del danno, se vince, colui che ha ordito l'inganno con lo schiavo sia condannato ad essere catturato come uno schiavo. Chi involontariamente ferisce un altro, paghi il danno puro e semplice - nessun legislatore, infatti, è in grado di sovrintendere alla sorte -, e giudici di queste cause siano gli stessi che si occupano dei ferimenti dei genitori da parte dei figli, e valutino l'entità del danno. Tutto ciò che noi subiamo e di cui abbiamo appena parlato sono atti violenti, e violento è anche ogni genere di maltrattamento. Così a tal proposito bisogna che ogni uomo, o bambino, o donna tenga sempre presente che la vecchiaia è molto più venerata della giovinezza presso gli dèi e presso gli uomini che vogliono salvarsi ed essere felici. Assistere dunque al maltrattamento di un vecchio da parte di un giovane nello stato, è cosa turpe ed invisa agli dèi: è opportuno invece che qualsiasi giovane, percosso da un vecchio, sopporti serenamente l'ira, riservandosi quest'onore per la vecchiaia. Ed ecco la legge: chiunque di noi abbia rispetto per chi è più anziano di lui, nei fatti e a parole, e veneri chi ha vent'anni più di lui, maschio o femmina, considerandolo come un padre o una madre, e per rispetto degli dèi della nascita si astenga dal toccare chi ha un'età tale da poter essere suo padre o sua madre. Allo stesso modo, ci si astenga dal toccare anche lo straniero, sia nel caso in cui risieda già da lungo tempo, sia che sia appena giunto: nessuno abbia affatto il coraggio di castigarlo con delle percosse, né attaccandolo, né difendendosi. Chi ritiene che uno straniero debba essere punito poiché con insolenza e prepotenza è stato battuto, lo prenda e lo porti al cospetto della magistratura degli astinomi, ma si astenga dal batterlo, perché lo straniero sia ben lungi dall'aver il coraggio di battere uno del luogo. Gli astinomi lo prendano e lo interroghino, nel pieno rispetto del dio degli stranieri, e se lo straniero risulta aver battuto ingiustamente uno del luogo, si dovrà percuoterlo con la frusta tante volte quanti sono i colpi che lui stesso ha dato, e facciano così cessare la sua tracotanza: se non ha commesso ingiustizia, dopo aver minacciato e rimproverato chi lo ha trascinato in tribunale, li lascino andare entrambi. Se uno percuote un coetaneo, o una persona più anziana di lui ma senza figli, se un vecchio un vecchio, e se un giovane un giovane, chi viene percosso si difenda naturalmente, senza armi, con le sole mani: e chi, avendo oltrepassato i quarant'anni, ha il coraggio di battersi con qualcuno, sia attaccando, sia difendendosi, sia dichiarato uomo rozzo, servile, ed abbietto, e sostenendo quest'accusa infamante, abbia quel che gli spetti. E se un tale obbedirà benevolmente a queste esortazioni sarà facilmente guidato da un freno, ma chi non obbedisce e non si cura affatto di questo proemio, accolga prontamente questa legge: se un tale batte uno che è più vecchio di lui di vent'anni o anche di più, innanzitutto il primo che li incontra li separi, se non ha la stessa età e non è più giovane dei contendenti, oppure sia dichiarato cattivo cittadino; se è coetaneo di chi viene battuto, o anche più giovane, lo difenda come se prestasse aiuto ad un fratello, o a un padre, o ad un avo che sono vittima di ingiustizia. Inoltre, chi avrà il coraggio di percuotere, come si è detto, una persona più anziana sia accusato di maltrattamento, e se riconosciuto colpevole, sia condannato a non meno di un anno di carcere: e se i giudici decidono di aumentare la pena, abbia valore quel periodo di tempo che gli è stato assegnato. Se uno straniero o uno degli stranieri residenti batte uno più vecchio di vent'anni o anche di più, riguardo all'aiuto delle persone presenti valga la stessa legge con lo stesso potere, e se lo straniero che non risiede nello stato perde tale causa, paghi questa stessa causa con due anni di carcere, mentre lo straniero residente che non obbedisce alle leggi sia condannato a tre anni di carcere, sempre che il tribunale non decida di aumentargli il tempo della condanna. Sia anche multato chi si trova presente ad uno di questi fatti e non porta aiuto secondo la legge, e la multa sia di una mina per chi appartiene alla prima classe, di cinquanta dracme se appartiene alla seconda, di trenta se alla terza, di venti se alla quarta: il tribunale che si occupa di tali questioni sia composto di strateghi, tassiarchi, filarchi, ed ipparchi. A quanto pare, le leggi sono nate da un lato per gli uomini onesti, e cioè per insegnar loro il modo di vivere in concordia quando fra loro stringono delle relazioni, e dall'altro per coloro che si sottraggono all'educazione, i quali hanno una certa durezza di natura che per nulla si riesce ad ammorbidire, perché non scivolino del tutto verso la malvagità. Ed è per queste persone che si fanno i discorsi che si devono fare, e proprio per costoro il legislatore è costretto a fissare delle leggi, anche se vorrebbe che non ci fosse alcuna necessità di esse. Chiunque avrà il coraggio di levar la mano sul padre, sulla madre, o sui genitori di questi, e li maltratterà ricorrendo alla violenza, senza temere la collera degli dèi celesti, né le pene che si dice vi siano negli inferi, ma come conoscesse perfettamente ciò che non conosce affatto, disprezza quelle antiche tradizioni che sono sulla bocca di tutti e va contro la legge, per costui dunque è necessaria un'estrema azione preventiva. La morte non rappresenta una misura estrema, mentre le pene che nell'Ade vengono riservate a questa gente sono ancora più estreme di quella, e pur essendo assai vere le cose che in proposito si raccontano, non riescono a distogliere tali anime dai delitti, perché altrimenti non vi sarebbero matricidi, e forse non si avrebbe l'empio coraggio di percuotere gli altri genitori. Bisogna quindi che le punizioni che vengono inflitte qui, a costoro e per tali delitti, mentre essi sono in vita, non siano inferiori, nei limiti del possibile, a nessuna di quelle che subiranno nell'Ade. Dopo di che la legge sia espressa in questi termini: se uno ha il coraggio di battere il padre, la madre, o i genitori di questi, senza essere affetto da follia, prima di tutto chi si trova presente porti aiuto come si è detto in precedenza, e lo straniero, residente o no, se viene in aiuto, sia chiamato a occupare il posto d'onore nelle gare, se non viene in aiuto, sia condannato all'esilio perpetuo fuori della regione; se lo straniero non residente porta aiuto sia degno di lode, se non porta aiuto, sia biasimato; se schiavo porta aiuto, diventi libero, se non porta aiuto sia colpito con cento frustate dagli agoranomi se il fatto avviene sulla piazza, se invece avviene all'esterno della piazza, ma sempre in città, venga punito da uno degli astinomi che era presente al fatto, se infine avviene nella campagna all'interno della regione, lo puniscano i capi degli agoranomi. Se chi è presente al fatto è uno del luogo, si tratti di un bambino, di un uomo, o di una donna, lo difenda gridando all'empietà: e se non lo difende, ricada su di lui la maledizione di Zeus protettore della stirpe e dei padri, secondo la legge. Se uno viene riconosciuto colpevole di maltrattamento nei confronti dei genitori, sia innanzitutto condannato all'esilio perpetuo dalla città nel resto della regione, ed escluso da tutti i luoghi sacri: se però non sta lontano da essi, gli agronomi lo puniscano con delle vergate, e facciano assolutamente come vorranno, e se ritorna in città sia punito con la morte. Se tutti i cittadini liberi mangeranno, berranno, o avranno un qualsiasi altro simile rapporto con una persona del genere, o anche solo incontrandolo lo toccheranno volontariamente, non entrino in nessun tempio, né sulla piazza, né nello stato in genere se prima non si sono purificati, ritenendo di prendere parte di una sorte funesta: se un tale non obbedisce alla legge ed andando contro la legge contamina i templi e lo stato, per quel magistrato che, pur accortosi del fatto, non trascina in giudizio questa persona, quando dovrà rendere conto del suo operato, sia questa una delle accuse più gravi a suo carico. Se uno schiavo batte un uomo libero, straniero o cittadino, chi è presente al fatto venga in aiuto, oppure paghi la multa di cui si è detto a seconda della classe censuaria, e i presenti leghino lo schiavo insieme a chi è stato percosso, e lo consegnino a chi è rimasto vittima dell'offesa: e quello ricevendolo, dopo averlo incatenato ai piedi, lo frusti per tutte le volte che vuole, senza però danneggiare il padrone, cui deve affidarlo, essendone per legge il proprietario. E questa sia la legge: se uno schiavo batte un uomo libero senza aver ricevuto l'ordine dei magistrati, il suo proprietario lo riceva in catene da chi è stato colpito, e non lo liberi prima che lo schiavo abbia convinto colui che è stato ferito di essere degno di vivere libero. Le stesse norme valgano per le donne, in tutti i casi simili, quando si battono fra di loro, e quando le donne battono gli uomini, e gli uomini battono le donne.

Eugenio Caruso ... 25 - 01-2020

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