Sopportiamo, dunque, copn animo generoso tutto ciò che per legge dell'Universo ci tocca patire.
Seneca, Lettere a Lucilio
1. PREMESSA
Il Rapporto SVIMEZ 2014 sull’economia del Mezzogiorno non vuole essere solo
l’occasione per un mero aggiornamento delle nostre analisi alla luce dei dati più recenti
sull’andamento dell’economia meridionale, ma vuole contribuire a una consapevole
identificazione delle condizioni e delle sfide da cogliere per affrontare, dopo sei anni di crisi, le
due grandi emergenze, quella sociale con il crollo occupazionale e quella produttiva con il
rischio di desertificazione industriale del Mezzogiorno.
Dal 2008 al 2013, la recessione del Sud non ha conosciuto tregua, a differenza di un
Centro-Nord che nel 2010-2011 aveva partecipato ad una “ripresina”. In base alle nostre
previsioni, la stessa dinamica si protrarrà nel biennio 2014-2015, con un Sud che continua la sua
spirale recessiva mentre il resto del Paese si avvia verso una lenta, e forse troppo debole, ripresa.
L’eredità che lascia la peggior crisi economica del dopoguerra, la cui durata nel
Mezzogiorno alla fine sarà paragonabile alla Grande depressione del ’29, è quella di un Paese
ancor più diviso e diseguale. Emerge un quadro non più somma di variazioni congiunturali
negative. E’ invece sempre più evidente che la crisi è strutturale e di una intensità tale da
stravolgere il profilo economico e sociale del Mezzogiorno.
Cambia la struttura produttiva, con un peso dell’apparato industriale sempre minore; la
forte riduzione degli investimenti diminuisce lo stock di capitale, che non venendo rinnovato
perde in competitività; la caduta della domanda interna, con la pesante contrazione dei consumi e
il crollo della spesa per investimenti, entra in una spirale negativa per effetto della drastica
riduzione complessiva dei redditi da lavoro conseguente al crollo occupazionale; non vengono
garantiti neppure i più elementari diritti di cittadinanza. A farne le spese sono soprattutto i
giovani e le donne meridionali; si aggrava la crisi demografica del Sud, che perderà entro il
prossimo cinquantennio più di un quinto della popolazione.
Il Mezzogiorno si colloca ormai in un equilibrio implosivo che si caratterizza per una
crescente perdita di produttività, minore occupazione, fuga dei giovani e di quanti sono più
professionalizzati, minore benessere.
La SVIMEZ propone alcune direttrici di intervento prioritarie che si ritengono utili ed
urgenti per far fronte all’emergenza giovanile e occupazionale e all’identificazione di una
politica di sviluppo e per riprendere il processo di industrializzazione del Sud.
Dopo il fallimento delle politiche di austerità che hanno contribuito all’aumento delle
disparità tra aree forti e aree deboli dell’UE, è giunto il momento di mettere in campo una
strategia di sviluppo nazionale, che ponga al centro il Mezzogiorno, e sia capace di coniugare
un’azione strutturale di medio-lungo periodo fondata su alcune ben individuati drivers di
sviluppo tra loro strettamente interconnessi, con un “piano di primo intervento” da avviare con
urgenza.
2. UN’ITALIA PIÙ DIVISA E DISEGUALE DOPO SEI ANNI DI CRISI
2.1. La recessione mette in ginocchio l’economia meridionale
L’economia italiana nel 2013 è, tra le principali economie europee, quella che più stenta
a riavviarsi su un sentiero di crescita, restando in bilico tra due emergenze, quella produttiva e
quella sociale. L’anno scorso, infatti, è stato ancora negativo, con un calo del PIL dell’1,9%, solo
lievemente inferiore al -2,4% perso l’anno precedente. L’andamento produttivo rimane
stagnante, e anche gli indicatori congiunturali del 2014 non mostrano segni di miglioramento.
Ciò è avvenuto in un contesto nel quale l’economia internazionale non è riuscita a
riprendere il passo di crescita precedente la crisi, specie nei paesi dell’Area Euro, nei quali il
riposizionamento competitivo sui mercati mondiali sta avvenendo ancora con troppa lentezza.
Nell’ambito della UE, infatti, è l’Area dell’Euro a soffrire di più: nel 2013 la ripresa ha tardato a
consolidarsi, mentre la dinamica del PIL è rimasta ancora negativa con un calo dello 0,4% dopo
il -0,7% dell’anno precedente. I divari, in particolare tra Germania e resto dei paesi dell’Area
dell’Euro, si sono allargati anche nella prima parte del 2014, creando una situazione di tensione
nelle economie dell’area che richiede processi di aggiustamento simmetrici di tutti i paesi
coinvolti. All’origine di questi divari vi è un percorso diverso di recupero della produttività, che
non può essere riequilibrato da movimenti dei tassi di cambio relativi e che solo lentamente si
riadatta attraverso variazioni del costo del lavoro. Amplificando, perciò, le differenziazioni
economiche e sociali dell’Area Euro: in termini cumulati, nella fase recessiva 2008-2013 vi è
stata un’erosione di quasi il 2% del PIL dell’Area dell’Euro, che però è stata di tre volte più
elevata in Spagna (-5,9%), di oltre quattro volte in Italia (-8,5%), addirittura del 23,7% in Grecia.
Al contrario, le economie più forti dell’Area, o hanno recuperato i livelli di prodotto precedenti
alla crisi, come in Francia (+0,7%), oppure sono in piena crescita, con un aumento di oltre
quattro punti percentuali come in Germania.
L’andamento dell’economia italiana è stato nel 2013 tra i peggiori in Europa. Solo la
Grecia e Cipro sono calati in misura maggiore. La forbice della crescita con l’economia europea,
che in termini cumulati, dall’inizio della crisi, ha superato i sette punti percentuali (-8,5% di PIL
in Italia contro il -0,9% dell’UE a 27).
L’uscita dalla crisi per il nostro Paese non sembra vicina, la ripresa rimane fragile: esiste
incertezza sulle prospettive future della domanda, e, in presenza di ampi margini di capacità
inutilizzata, le imprese sono ancora restie a produrre e a investire, il numero dei disoccupati è in
aumento, il reddito disponibile delle famiglie si è ridotto per il quinto anno consecutivo con una
flessione dell’1,1%, gli investimenti fissi lordi sono diminuiti del 4,7% con un calo complessivo
dal 2007 al 2013 del 26,7%.
Il 2013 si conferma anno di recessione per l’intero Paese. A pagare i prezzi maggiori è il
Sud: secondo le valutazioni di preconsuntivo elaborate dalla SVIMEZ, il PIL a prezzi
concatenati è calato nel Mezzogiorno del 3,5%, approfondendo la flessione del 2012 (-3,2%). Il
calo è stato superiore di oltre due punti a quello rilevato nel resto del Paese (-1,4%). Non avendo
beneficiato della ripresina del biennio 2010-2011, l’economia meridionale ha vissuto il sesto
anno consecutivo di crisi ininterrotta: dal 2007 il prodotto dell’area si è ridotto del 13,3%, quasi
il doppio della flessione registrata nel Centro-Nord (-7%). Con conseguenze, che concentrano al
Sud una tendenziale desertificazione industriale, incapacità di generare reddito e posti di lavoro,
prospettando il rischio di avvitamento in una spirale perversa di calo della domanda e aumento
della disoccupazione.
Un meccanismo di aggiustamento, non certo virtuoso, è quello demografico: i giovani
emigrano e la natalità si riduce in modo allarmante rispetto al decennio precedente. Ma in questo
modo, al depauperamento del capitale fisico in mancanza di nuovi investimenti si affianca il
depauperamento di quello umano, riducendo ulteriormente le risorse su cui il Mezzogiorno potrà
contare per uscire dalla crisi.
Il divario di sviluppo tra Nord e Sud in termini di prodotto pro capite ha ripreso ad
allargarsi pur in presenza di una riduzione della popolazione meridionale; nel 2013 è tornato ai
livelli del 2003, con un differenziale negativo di oltre 43 punti percentuali.
Purtroppo, diversamente dal Centro-Nord, non si intravedono neppure segnali di
un’inversione di tendenza per il prossimo biennio, riflettendo anche il minore impatto al Sud
della ripresa della domanda estera. Secondo nostre stime aggiornate allo scorso settembre con il
modello di previsione della SVIMEZ-IRPET, il PIL del Mezzogiorno dovrebbe risultare ancora
in calo sia nel 2014 (-1,5%), che nel 2015 (-0,7%), a fronte di una sostanziale stazionarietà
(0,0%) nel 2014 e di un crescita (1,3%) nel 2015 nel resto del Paese.
L’eredità che ci consegna la peggiore crisi economica del Dopoguerra è perciò un Paese
ancor più diviso del passato e sempre più diseguale, con effetti che non appaiono più solo
transitori ma strutturali: cambia la struttura produttiva, con un peso dell’apparato industriale
sempre minore. La forte riduzione dello stock di capitale che, non venendo rinnovato, perde in
competitività, le migrazioni e i minori flussi in entrata nel mercato del lavoro concorrono alla
riduzione delle possibilità di occupazione.
Dal 2007 al 2013 il settore manifatturiero del Mezzogiorno ha ridotto di oltre un quarto il
proprio prodotto, di poco meno gli addetti (-24,8%), e ha più che dimezzato gli investimenti
(-53,4%). La crisi non è stata così profonda nel Centro-Nord, dove la diminuzione di prodotto e
occupazione è stata di oltre 10 punti inferiore, quella degli investimenti del -24,6%.
Il Mezzogiorno ha subito tra il 2008 e il 2013 una caduta dell’occupazione del 9%,
quattro volte superiore a quella del Centro-Nord (-2,4%).
Dei circa 985 mila posti di lavoro persi in Italia nello scorso sessennio, ben 583 mila
sono nel Sud. L’impatto della caduta di occupazione è stato così forte da provocare un crollo dei
consumi delle famiglie meridionali di quasi 13 punti percentuali (-12,7%), di oltre due volte
maggiore di quello registrato nel resto del Paese (-5,7%).
Nel 2013, i consumi finali interni sono calati del 2% nel Centro-Nord e del 2,4% nel Sud.
La differenza tra le due aree è soprattutto dovuta alla diminuzione dei consumi delle famiglie, il
cui calo è risultato anche lo scorso anno maggiore nel Mezzogiorno: -3,3% a fronte del -2,3%.
Più contenuto è risultato invece al Sud il calo dei consumi delle pubbliche amministrazioni,
diminuiti dello 0,4% rispetto al -1,1% del Centro-Nord.
La contrazione dei consumi delle famiglie meridionali è stata e continua ad essere
particolarmente intensa, e maggiore che nel resto del Paese, per gli acquisti più facilmente
comprimibili, come quelli di vestiario e calzature: -6,4% nel 2013, contro il -4,7% del Centro-
Nord; -23,7% cumulato contro il -13,8% nel complesso del sessennio 2008-2013. Ma
significativo e preoccupante il ridimensionamento della spesa delle famiglie è stato anche per gli
“altri beni e servizi”, voce che comprende servizi per la cura della persona, spese per
l’istruzione, che si sono ridotti al Sud nel sessennio 2008-2013 del 16,2%, tre volte in più
rispetto al Centro-Nord (-5,4%).
Prosegue inoltre intensa la riduzione della spesa per beni alimentari, un dato che più di
tutti evidenzia il diffondersi di condizioni di povertà relativa. Nel 2013 il calo dei consumi
alimentari è stato al Sud del -3,4% e di -3% al Centro-Nord. Nel complesso del sessennio 2008-
2013 il calo cumulato di questi consumi è stato al Sud del -14,6%, risultando significativamente
maggiore rispetto a quello, pur grave, avutosi nel resto del Paese (-10,7%).
La dinamica complessiva del sessennio di crisi ha visto una drastica contrazione del
processo di accumulazione in entrambe le parti del Paese, ma di intensità decisamente maggiore
al Sud. La riduzione cumulata degli investimenti è arrivata a commisurarsi nel 33% (-24,5% al
Centro-Nord).
La caduta ha interessato tutti i settori dell’economia, assumendo, in particolare,
dimensioni “epocali” nell’industria in senso stretto, crollata al Sud nel 2008-2013 addirittura del
53,4%, più che doppia rispetto a quella, assai grave, del Centro-Nord (-24,6%).
Un così massiccio fenomeno di disinvestimento ha ulteriormente aggravato la già scarsa
competitività dell’area e ha comportato un forte ridimensionamento dell’estensione e delle
dimensioni dell’apparato produttivo, favorendo nella sostanza un processo di downsizing e al
tempo stesso di desertificazione dei territori meridionali.
Anche al Centro-Nord la perdita di competitività di sistema sta imponendo una forte
ristrutturazione dell’apparato produttivo di quell’area. L’avvio su un sentiero stabile di rilancio
dello sviluppo appare però irraggiungibile senza un recupero della domanda interna. Da questo
punto di vista tale sviluppo è legato anche a una ripresa dell’economia meridionale, data la forte
integrazione tra i mercati delle due parti del Paese.
Una domanda meridionale così depressa ha inevitabili effetti negativi sull’economia
delle regioni centrali e settentrionali.
Il rapporto funzionale tra le due aree del Paese, del resto, è ampiamente testimoniato
dagli andamenti demografici: il Centro-Nord continua ad attrarre significativi flussi di
popolazione che si spostano dalle regioni meridionali, principalmente giovani in età riproduttiva
e dotati di elevate conoscenze e competenze professionali e intellettuali. Il che pregiudica
l’evoluzione demografica dell’area meridionale e priva il Sud di competenze indispensabili per
la crescita economica.
Il processo di riduzione del valore aggiunto nel sessennio ha toccato il picco nel settore
delle costruzioni, che nella media cumulata del 2008-2013 hanno ridotto il prodotto del 35,3%
contro il 23,8% del Centro-Nord. In particolare, nel 2013, l’edilizia ha accusato un calo del 9,6%
nel Mezzogiorno, esattamente il doppio di quello del Centro-Nord (-4,8%).
Nel comparto terziario la perdita è stata l’anno scorso del 2,3% nel Sud, a fronte di una
sola leggera flessione (-0.4%) al Centro-Nord.
Ancora in calo, pur se decisamente meno intenso che nell’anno precedente, risulta nel
2013 l’agricoltura meridionale, che perde lo 0,2% rispetto a un incremento dello 0,6% nel
Centro-Nord.
Il settore industriale ha perso, nel 2013, 6 punti e mezzo percentuali, più del doppio del
Centro-Nord (-2,7%). Nella media cumulata del sessennio di crisi 2008-2013, la contrazione del
prodotto industriale ha raggiunto quasi il 25%, dieci punti in più rispetto al Centro-Nord.
La fortissima caduta registrata dal prodotto dell’industria in senso stretto nel 2008-2013
ha contribuito per quasi il 30% al negativo andamento complessivo dell’economia meridionale
nel periodo, pur commisurandosi il peso strutturale del settore sul totale dell’economia solo
nell’11,8%, a fronte del 20,7% nel Centro-Nord.
Il calo del PIL ha riguardato nel 2013 quasi tutte le regioni italiane, con le sole eccezioni
del Trentino Alto Adige (+1,3%) e della Toscana, che è rimasta stabile. Nel Centro-Nord,
tuttavia, per la maggior parte delle regioni, la flessione dell’attività economica è stata nel 2013 di
minore intensità rispetto all’anno precedente. La crisi resta, invece, intensa per tutte le regioni
del Sud. Nel 2013, infatti, la flessione dell’attività economica si è accentuata in Basilicata, in
Puglia, Calabria e Molise. Segnali di attenuazione rispetto al 2012 si sono avuti solo in Abruzzo
e in Sicilia, mentre restano stabili sui livelli negativi in Campania e Sardegna.
Se si esamina il dato cumulato dei sei anni di crisi, dal 2008 al 2013, la riduzione del PIL
risulta per quasi tutte le regioni meridionali – ad eccezione del solo Abruzzo (-7,3%) – di entità
assai forte (si va da oltre il -16% in Molise e Basilicata ad un minimo del -13% in Campania e
Sardegna) e decisamente più accentuata che nella maggior parte delle regioni del Centro-Nord.
In quest’ultima macroarea, cadute dell’attività economica di intensità paragonabile, ancorché
minore, si rilevano infatti solo in Umbria (-12,9%) e Marche (-12,3%) nel Centro Italia e per
Piemonte (-11,6%) e Veneto (-10,9%) nel Nord.
L’allargamento del divario di sviluppo, in termini di PIL pro capite, rilevabile nel
sessennio 2008-2013 tra le due macroaree del Paese, riflette dunque un aumento dei differenziali
negativi di reddito diffuso alla quasi totalità del territorio meridionale.
Nel 2013 il PIL per abitante delle due regioni più ricche, Valle d’Aosta e Trentino Alto
Adige, che supera i 34 mila euro, si conferma pari a più del doppio di quello delle due regioni
più povere del Sud del Paese, Calabria (meno di 16 mila euro) e Sicilia (16.152 euro).
La lunghezza e la profondità della crisi ha portato ad un aumento dei divari regionali in
Europa. L’esperienza passata mostrava che i divari regionali tendevano ad ampliarsi nelle fasi di
ripresa, mentre diminuivano, con una convergenza al ribasso, nei momenti di flessione ciclica.
Questa regolarità, segnalata spesso anche dalla SVIMEZ, è però ribaltata in questa fase di
flessione ciclica. Infatti, le aree deboli dell’Europa a 15, che nella fase pre-crisi, tra il 2001 e il
2007, avevano mostrato segni di convergenza, in particolare per merito di paesi come Irlanda e
Grecia, con una crescita cumulata del PIL (in PPA) del 37% circa, contro poco più del 31% delle
regioni Competitività, durante gli anni della crisi, tra il 2008 e il 2011, hanno, invece, subito con
maggiore intensità gli effetti della recessione: il prodotto è diminuito del 2,6%, rispetto al pur
modesto incremento (+1%) registrato nelle aree più sviluppate.
Il confronto tra l’Area dell’Euro (18 paesi) e quella dell’Unione (27 paesi) segnala come
negli anni di crisi (2008-2011) il tasso medio cumulato di crescita sia stato complessivamente
inferiore in quest’ultima (1,9% rispetto al 2,1%). L’aspetto più interessante riguarda però le
differenze tra aree deboli e aree forti: se nel complesso dell’Unione anche nel periodo di crisi è
continuata la convergenza delle aree deboli, cresciute cumulativamente quasi quattro volte di più
di quelle forti, il contrario è avvenuto nell’Area dell’Euro. In questo gruppo, le aree della
Competitività sono cresciute nel complesso del 2,9%, mentre quelle della Convergenza hanno
mostrato una flessione (-1,8), con un allargamento dei divari.
In questo quadro, quello che colpisce è la crescita rilevante dei paesi nuovi entranti
dell’Est europeo, che se, da un lato, non meraviglia data la modesta base economica di partenza,
dall’altro sorprende per la vivacità di crescita conservata anche durante la fase recessiva. Questo
però è vero solo per quelli non aderenti all’Area dell’Euro. Infatti, Lettonia, Estonia e Slovenia,
tutti nell’Area Euro, hanno registrato tassi di crescita negativi. Al contrario, i paesi che non
hanno aderito al sistema dell’Euro, come Polonia, Bulgaria, Lituania, Romania, potendo
avvantaggiarsi sia di politiche fiscali meno vincolanti, sia di tassi di cambio più facilmente
manovrabili, e più in generale di politiche monetarie meno restrittive rispetto a quelle alle quali
sono soggetti i Paesi membri dell’Euro, hanno registrato tutti tassi di crescita positivi.
Per quanto riguarda i due unici grandi paesi europei nei quali vi è ancora una quota
rilevante di regioni della Convergenza, ovvero Italia e Germania, le dinamiche interne sono state
molto diverse. In Italia è mancata la convergenza del Sud verso il Centro-Nord in tutto il
periodo, sia pre-crisi (minore intensità di crescita, con un tasso cumulato del +19%, contro
+21,7% delle aree Competitività), che soprattutto durante la crisi, quando, nel periodo 2008-
2011, a fronte di una sostanziale tenuta delle regioni più sviluppate (+1,1%), le regioni del
Mezzogiorno hanno registrato un forte calo (-3,1%).
Analoga tendenza è riscontrabile per l’altra grande nazione dualistica, la Germania, con
però alcune marcate differenze: una minore distanza tra i tassi di crescita delle aree Convergenza
e Competitività tedesche durante gli anni precedenti alla crisi (28,2% contro 29,1%), ma
soprattutto, nel generale rallentamento durante gli anni di recessione, un differenziale di crescita
del PIL della stessa intensità: +5,9% nel 2008-2011 contro +6,5%. A differenza del
Mezzogiorno, i Laender dell’ex Germania Est stanno progredendo e si stanno sempre più
avvicinando ai livelli di sviluppo delle regioni tedesche occidentali.
2.2. Le previsioni: il Centro-Nord, stazionario nel 2014, torna a crescere nel 2015; il Sud, altri
due anni in recessione
Nel corso del 2014 la congiuntura si è progressivamente indebolita. Nello specifico, le
tensioni emerse in diversi scenari internazionali hanno determinato, nel primo semestre
dell’anno in corso, un significativo calo nel volume degli scambi a scala mondiale. A giudizio
dei principali osservatori, ciò non potrà che riflettersi sfavorevolmente sul saggio di crescita
della domanda mondiale previsto per l’intero 2014 e, in misura meno marcata, nel 2015. Inoltre,
all’interno dell’Euro-zone, area già caratterizzata da una domanda complessivamente debole, la
mancanza di politiche espansive, sul versante fiscale e, quando espansive, ben poco tempestive,
come nel caso del versante monetario, ha determinato la comparsa di pericolosi segnali deflattivi
all’interno di diversi importanti paesi, tra cui il nostro.
In un contesto caratterizzato da una domanda modesta o stagnante, le stime SVIMEZIRPET
indicano che nell’anno in corso l’attività produttiva complessiva italiana, misurata dal
PIL, dovrebbe cedere quattro decimi di punto percentuale. A scala territoriale, questo dato si
declina in maniera molto differente: il Mezzogiorno dovrebbe flettere dell’1,5%, a fronte di una
sostanziale stazionarietà nel resto del Paese (0,0%). Tale situazione è destinata a replicarsi, con
un’intensità maggiore, anche nel 2015 quando le regioni centro-settentrionali dovrebbero
crescere nel loro insieme dell’1,3%, sulla scia degli orientamenti di politica economica
moderatamente espansivi previsti nell’ultimo Def e di una domanda mondiale più vivace, mentre
il Sud, con una flessione dello 0,7%, dovrebbe permanere in una situazione di crisi (Italia:
+0,8%). Se confermate, queste previsioni portano a otto gli anni consecutivi nei quali il PIL
meridionale ha conosciuto una variazione di segno negativo e ad oltre 15 punti la caduta
complessiva di reddito dal 2008.
I recenti dati di contabilità, pur con tutte le cautele del caso, offrono, anche se solo a
livello nazionale, alcuni segnali che meritano attenzione. Nel primo semestre del 2014, rispetto
all’analogo periodo dell’anno precedente, la domanda interna è calata di quattro decimi di punti
percentuali; in particolare è diminuita la componente – gli investimenti (-2,1%) – che attiva più
produzione dall’estero. A fronte di ciò, le importazioni di beni e servizi sono aumentate
dell’1,6%. In parte, è questo un dato che risente del trend verso una maggiore integrazione che
oramai da lungo tempo interessa le economie più sviluppate. Tuttavia, poiché nello stesso
periodo la produzione – approssimata dal valore aggiunto – di tutte le principali macro-branche
nazionali è risultata negativa, ciò può anche sottendere un qualche effetto di sostituzione di
produzione interna con quella estera proprio in seguito al forte processo di disinvestimento
osservato sia nel Sud che nel resto del Paese.
Tornando, ora, alla disanima congiunturale, la divaricazione nel profilo temporale
seguito dalle due macro-aree emerge anche in relazione alle principali componenti della
domanda. I consumi finali interni meridionali dovrebbero diminuire dello 0,6% e dello 0,2%,
rispettivamente nel 2014 e nel 2015, rispetto a una variazione positiva dello 0,1% e dello 0,4%
nel Centro-Nord. Per quanto attiene gli investimenti, variabile di cruciale importanza nell’attuale
fase ciclica, essi dovrebbero contrarsi, nel Centro-Nord, dell’1,5% nel 2014 per poi aumentare di
mezzo punto percentuale l’anno successivo. Nel Mezzogiorno, invece, nell’anno in corso il
processo di accumulazione dovrebbe conoscere un ulteriore pesante calo pari a oltre quattro
punti percentuali (-4,2%); tendenza che dovrebbe ridursi d’intensità nel 2015 (-1,6%), ma
restando sempre negativa.
Anche in riferimento all’occupazione (misurata in unità di lavoro), si rinviene
l’andamento dicotomico che caratterizza la congiuntura delle due macro-aree. Nel Sud, in
entrambi gli anni coperti dalla previsione, vi dovrebbe essere un’ulteriore contrazione nel
volume di occupazione (-1,3% nel 2014 e -0,8% nel 2015). Nel Centro-Nord, al contrario, alla
caduta di sette decimi di punto percentuale prevista nel 2014 fa seguito nel 2015 una variazione
di modesta entità, ma di segno positivo, pari a due decimi di punto percentuale, che interrompe
la contrazione avviatasi dal 2011.
7 aprile 2015
Eugenio Caruso